Rischio e post-sviluppo vesuviano

Un’antropologia della “catastrofe annunciata”

Giovanni Gugg

LAPCOS (Laboratoire d'Anthropologie et de Psychologie Cognitives et Sociales) de l'Université de Nice-Sophia Antipolis, Francia

Table of Contents

Un futuro che influenza il presente
Molteplici razionalità sociali sul Vesuvio
Applicare l’antropologia al post-sviluppo
Governare il rischio vesuviano
Bibliografia

Abstract: The risk concept, meant as hierarchical historical and cultural product, is a social elaboration acquiring different meanings according to the context. Even though it is inevitably characterized by indeterminacy, it is, in its practical purposes, a vision of the future affecting the present time: therefore, following certain principles, it could be possible to avert, control, mitigate a future disaster. In this way, the emergency planning becomes a political outlook made up of laws, territorial delimitations, emergency drills, preparedness, resilience pedagogy. In such general picture, the case of Vesuvius volcano in Naples district stands out. In 2011 the scientific journal Nature defined it as «the Europe’s ticking time-bomb». The certainty of a future eruption together with the uncertainty about the time and way in which it will take place, make the effects of the “announced catastrophe” visible in the practices and policies that are currently carried out by local governments and communities. Contrary to what is repeated by a stereotype, the ethnographic data show how the inhabitants of the Vesuvius area, anything but indifferent to the volcano threat, have a various and differentiated approach to it. It is a valuable case study for anthropology to reflect upon the “prevention society”, the “risk culture” and the effects of a “development” ideology that led to an over-urbanization considered as the main vulnerability source, not only for a potential natural disaster.

Keywords: Vesuvius, “Natural” disaster, Environment, Risks, Post-development

Un futuro che influenza il presente

Gli studi socio-antropologici, separando la nozione di “agente di impatto” da quella di “disastro” e andando al di là di un approccio al rischio meramente tecnocentrico, hanno rilevato che tutte le calamità, avvenute o annunciate, sono costruite culturalmente. I disastri sono eventi/processi sociali complessi strettamente legati ad un contesto sociale più ampio che, per le popolazioni interessate, perturbano significativamente la vita quotidiana locale (Buckle 2005). Si tratta di sconvolgimenti osservabili nel tempo e nello spazio, la cui entità è condizionata dalla forza dell’agente d’impatto e da quel che ciascuna società ritiene sia, per se stessa, il limite tra ciò che è possibile immaginare e ciò che invece è del tutto impensabile. Similmente, il rischio – il cui termine risale al medioevo e il cui concetto attuale è espressione della modernità (Piron 2004) – è, dice Mary Douglas, «un modo di pensare, e per di più un artificio bello e buono» (1996: 51); è il risultato di rapporti dialettici tra rappresentazioni mentali e pratiche sociali; è, specifica Åsa Boholm (2011), il frutto di relazioni tra oggetti di rischio e oggetti a rischio, il prodotto dell’interazione tra istituzioni e attori del rischio (i media, la legge, la scienza, la politica, il mercato). Il rischio, dunque, si riferisce ad un disastro che non c’è, ma che può accadere; è l’eventualità (la possibilità o la probabilità) che si verifichi un evento nefasto (naturalmente, l’alone semantico del termine “rischio” è ampio e può essere declinato anche come azzardo, come scelta, come sfida e così via). Il rischio, tuttavia, in quanto “anticipazione del futuro”, sottolinea Anthony Giddens, «entra a far parte del presente e influisce sul modo in cui il futuro effettivamente si sviluppa» (2006: 174). Il presente, cioè, in quanto tempo e luogo della valutazione dei rischi, è come Il giardino dei sentieri che si biforcano di Jorge Luis Borges, cioè una continua “ramificazione” di possibili futuri, una sorta di labirinto temporale in cui una trama «crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli […] s’accostano, si biforcano, si tagliano o s’ignorano per secoli» (Borges 1984: 79); una rete, dunque, che comprende tutte le possibilità. In questo senso, mentre il tempo del disastro avvenuto è relegato nel passato (o, al massimo, al presente in quanto il disastro dura nel tempo), quello della catastrofe annunciata si riferisce ad un tempo venturo, dunque incerto, impossibile da prevedersi con esattezza, i cui effetti, tuttavia, sono già esperiti oggi e influenzano le nostre scelte e la nostra vita quotidiana. Il rischio, cioè, è un vincolo del tempo, è una possibilità di costruzione del futuro solo attraverso l’estensione del presente.

Studiare antropologicamente questo concetto e questa condizione di vita svela interconnessioni e relazioni di potere complesse e problematiche tra credenze, strutture politiche e istituzioni sociali. Nel caso di un rischio naturale come quello vulcanico, la sua analisi antropologica passa per l’osservazione della relazione che gli abitanti di un certo luogo hanno con il proprio spazio perché, come osserva Amalia Signorelli, «i soggetti umani individuali o collettivi sono sempre soggetti localizzati; complementarmente i luoghi della vita umana sono luoghi soggettivati» (2008: 43-44). Esiste cioè una connessione inevitabile tra l’uomo e i luoghi: gli individui oltre a stare nei luoghi, producono luoghi e sono prodotti dai luoghi; «trasformando il nostro ambiente, noi trasformiamo necessariamente noi stessi», dice David Harvey (2010: 211). I luoghi, dunque, non sono puro spazio astratto, ma esercitano un’influenza sugli esseri umani che vi abitano o che vi transitano: la loro vita, il loro immaginario e le loro concrete condizioni esistenziali, sono sempre in rapporto ad un luogo, anche quando – come accade spesso ai soggetti sociali contemporanei – hanno un alto tasso di mobilità. Il governo dei luoghi, pertanto, è un’azione politica che permette di illuminare il meccanismo decisionale che gli individui trasferiscono alle istituzioni in merito a ciò che li minaccia. In questo senso, seguendo il suggerimento di Mary Douglas, «il modo corretto per organizzare un programma di ricerca sul rischio è iniziare con lo studio delle istituzioni» (1996: 38).

Prendendo spunto dall’etnografia che l’autore ha effettuato, senza finalità applicative, per la sua tesi di dottorato (Gugg 2013) e condotta in più riprese sul terreno dal 2010 al 2012 in uno dei comuni della “zona rossa”, le pagine che seguono mirano ad indicare quali potrebbero essere le vie per un possibile contributo di natura trasformativa, da parte della disciplina antropologica, in contesti di rischio e di disastri nel post-sviluppo. Dopo il prossimo paragrafo, volto a illustrare la pluralità di elaborazioni del rischio vesuviano, dunque di diverse razionalità sociali in un contesto spesso rappresentato come monolitico, le ultime due sezioni del testo sono dedicate all’individuazione, attraverso una epistemologia dello sviluppo, di un possibile ruolo applicativo per l’antropologo che osserva e agisce in tali situazioni.

Molteplici razionalità sociali sul Vesuvio

Il caso del Vesuvio è preso spesso a modello della fragilità dell’equilibrio tra uomo e ambiente, ma soprattutto a paradigma della “indifferenza” e della “impreparazione” degli abitanti nei confronti del pericolo. Quello vesuviano è un rischio in cui accanto a talune certezze (sappiamo dove avverrà) convivono alcune indeterminatezze (non sappiamo quando avverrà e possiamo solo ipotizzare come avverrà), ma che è comunque ritenuto alto perché così emerge da un’equazione algebrica:

Rischio = Pericolosità x Vulnerabilità x Valore Esposto[1]

Il rischio, secondo una prospettiva olistica, è dunque il prodotto della relazione tra la probabilità di accadimento dell’evento calamitoso (la pericolosità), la propensione al danneggiamento (la vulnerabilità, che dipende, ad esempio, da come sono state costruite le abitazioni) (Oliver-Smith 2004) e l’entità del danno associato alle persone e ai beni potenzialmente coinvolti (il valore esposto, che rimanda alla sfera culturale).

Quest’ultimo valore, al di là delle stime meramente demografiche ed economiche, è il più problematico, quello più esplicitamente inoggettivabile a causa delle sue implicazioni sociali, storiche, psicologiche. La pretesa matematizzazione della valutazione del rischio, pertanto, per quanto utile nel fornire un’indicazione di massima circa le minacce possibili o incombenti su un territorio e su una popolazione, si scontra con specifici limiti empirici dovuti all’impossibilità di conteggiare (rendere numerici) determinati fattori. Nonostante ciò, non mancano “previsioni” piuttosto puntuali, come quella di Willis Research Network – società di analisi di uno dei maggiori broker assicurativi mondiali – che nel 2010 ha calcolato i danni della prossima eruzione del vulcano napoletano: «8.000 vittime, 13.000 feriti gravi e danni totali per oltre 24 miliardi di dollari» (Spence et al. 2010: 2). Questo calcolo si basa su uno scenario probabile, ma non certo, fornito dai vulcanologi, quello di un’eruzione di potenza simile all’esplosione del 1631, la quale a quel tempo causò 4000 morti e danni estesi, ma che sprigionò meno energia della più celebre eruzione “pliniana” del 79 d.C., per cui è definita “subpliniana”. Secondo l’Osservatorio Vesuviano si tratta dello scenario più verosimile, per cui è su di esso che il Governo Italiano ha realizzato nel 1995, attraverso il Dipartimento della Protezione Civile, uno specifico Piano di Emergenza Nazionale. Gli ultimi aggiornamenti di questo provvedimento, nel 2013 e nel 2015, hanno riperimetrato la “zona rossa” (l’area di maggior pericolo) e la “zona gialla” (quella dove sono più probabili ricadute di ceneri e polveri che, accumulandosi sui tetti, possono provocare crolli e danni anche molto gravi). In particolare, nel primo caso il perimetro “rosso” non segue più i confini amministrativi delle municipalità coinvolte (che da diciotto sono passate a ventiquattro), ma una linea di ricaduta delle ceneri calcolata dalla scienziata Lucia Gurioli (Gurioli et al. 2010). In questo modo, sono pochi i comuni il cui territorio rientra totalmente nella “zona rossa” e che hanno l’intera popolazione “a rischio”, per cui, attualmente, non si sa quanti siano gli abitanti che risiedono all’interno della circonferenza e nessuno è in grado di dire quale sia il numero delle persone da evacuare in caso di allarme.

Secondo alcuni ricercatori (Mastrolorenzo et al. 2006), però, le probabilità che si realizzino eruzioni più violente, come quelle di Pompei (79 d.C.) o di Avellino (3780 a.C.), non sono remote. Costoro sostengono che l’attuale Piano di Emergenza (che, sulla carta, è già uno dei più imponenti mai elaborati) dovrebbe essere ripensato in base a scenari più catastrofici e dovrebbe coinvolgere fino a 2 milioni di persone. Accanto a tutto ciò vi sono rappresentazioni mediatiche d’ogni tipo: si va dall’autorevolezza di Nature che nel 2011 ha scritto che il Vesuvio è «la bomba ad orologeria d’Europa» a titoli più o meno apocalittici diffusi con grande frequenza da webjournal locali in cerca di audience, ampiamente condivisi attraverso i social media:

«Vesuvio, un milione di persone a rischio: zona rossa s’allarga».

«Vesuvio: ancora allarmi, questa volta dal Giappone».

«Allarme dagli Usa: “Il Vesuvio esploderà e farà un milione di morti in 15 minuti”».

«Il rischio Vesuvio approda in Rai, gli esperti italiani: “Non ci sarà scampo”».

«Vesuvio, pericolo eruzione: a chi credere?»[2].

Soprattutto, però, ciò che emerge con più frequenza è un’immagine apatica e fatalista degli abitanti dell’area vesuviana, veicolata spesso da persone con ruoli di responsabilità[3]. Come mostrano le scienze sociali, tuttavia, la razionalità ha una natura fortemente sociale, nel senso che i gruppi umani selezionano i rischi da temere e, soprattutto, decidono quanto sicuro è ciò che è abbastanza sicuro per loro, in base alle loro conoscenze e credenze. Politicamente, però, chi ha il potere di determinare quell’abbastanza ha anche la capacità di definire ignorante, se non illogico chiunque non vi si allinei. In ogni caso, il punto è che «la maggior parte dei residenti mostra poca preoccupazione per i disastri prima che si verifichino, anche nelle aree a rischio e dove le minacce sono riconosciute» (Quarantelli 2000: 683). Ciò accade perché «l’idea di un possibile disastro futuro in cui si può essere direttamente coinvolti appare così remota, improbabile e incerta che la minaccia non viene recepita a livello cosciente, o se lo fa, di solito è rapidamente respinta» (Quarantelli 1988: 5). Ciò vale anche in quei luoghi in cui il rischio appare fondato, come ai piedi d’un vulcano, dove gli abitanti considerano la pianificazione emergenziale un imperativo morale del governo, più che una sua responsabilità legale. Non è vero, dunque, che i vesuviani neghino il rischio o l’abbiano rimosso, piuttosto lo interpretano «in termini di etica e di politica» (Douglas 1996: 19). Infatti, in base all’etnografia su cui poggia questo testo, nessuna delle persone intervistate si è sottratta alla discussione in merito al pericolo rappresentato dal vulcano, anzi, qualora chiamate a parlarne, le persone lo hanno fatto diffusamente.

Contrariamente a qualsiasi (pre)giudizio sulla supposta “immobilità” di chi vive intorno al Vesuvio, il lavoro di campo ha permesso di osservare come il dibattito in merito al rischio non emerga solo se stimolato dall’interazione con un interlocutore esterno, ma anche in maniera spontanea e ricorrente tra gli abitanti dell’area. Localmente, il discorso pubblico sul rischio è costante e senza dubbio molto più frequente di quanto si possa immaginare dal di fuori, ma è anche ampio e variegato, partecipando, così, ad un grande ed implicito processo collettivo di selezione del rischio, essenzialmente tra preoccupazioni geologiche, ecologiche e sociali (Gugg 2015). Limitatamente al primo settore, le discussioni locali vertono soprattutto su possibili modalità di trasferimento della popolazione in altre aree della regione, ponendosi come alternativa al piano di emergenza ufficiale, poco conosciuto e quindi ritenuto difficilmente attuabile, elaborato dalla Protezione Civile nazionale. Alcuni di tali piani “dal basso” sono presentati e commentati in una sezione del webjournal Il Mediano, dove sono raccolti articoli e forum sul tema della “Città vesuviana”. L’idea più recente è quella di Girolamo Vajatica, un professore liceale in pensione, supportata da intellettuali napoletani come Gerardo Marotta e Raffaele La Capria (2007), circa la possibilità di un «lento e regolare fluire della popolazione vesuviana e del suo mondo verso un’area più sicura e relativamente vicina» (Teodonno 2010): una vera e propria nuova città da far sorgere nel casertano tra il fiume Volturno e i Regi Lagni. Antecedente a tale proposta (una prima versione risale al 1988), ma ampiamente più articolata e, soprattutto, non motivata da ragioni esclusivamente riconducibili al rischio, bensì a princìpi di sostenibilità e di «ridistribuzione dei pesi urbanistici», è il progetto “Eco-Neapolis” dell’architetto e urbanista Aldo Loris Rossi, il quale immagina l’ager campanus come «baricentro verde della “Grande Napoli”», una metropoli di nuova concezione che, perseguendo «la pacificazione tra ecosfera e tecnosfera», conquisti il ruolo di «cerniera tra la megalopoli europea e la megalopoli mediterranea». In altre parole, si tratterebbe di una eco-city e smart city post-industriale e post-moderna orientata su quattro punti cardinali: la difesa della natura, del patrimonio storico e la decompressione delle aree vulcaniche; il riequilibrio economico-territoriale secondo una prospettiva post-fordista e di green economy; l’assetto urbano non più radiocentrico, ma basato su un sistema intermodale di trasporti pubblici; l’inquadramento terziario dello spazio metropolitano e la sua riqualificazione quaternaria (Rossi 2014: 260-302).

È da osservare che altre proposte provengono da organismi meno “imparziali”, per così dire, come ad esempio quella della Confindustria di Caserta, la quale ha immaginato di evacuare il Vesuvio smistando la popolazione in più aree della Campania e, così, riequilibrare la forte sproporzione demografica che la regione ha tra Napoli e le province interne, o come il “Libro Bianco” proposto da AssoImpero, l’associazione degli imprenditori vesuviani, come «segno tangibile delle proposte, delle esigenze e dei disagi che vivono gli abitanti di queste città» (Teodonno 2011), a coronamento di un ciclo di convegni organizzati nel 2010 in quattro comuni della “zona rossa” con lo scopo di «far nascere un forte momento di confronto sulle strategie, sugli obbiettivi e sulle modalità operative da porre in essere per il rischio Vesuvio» (Tarantino 2010).

Anche l’idea – veicolata spesso dai mass media – di una possibile rimozione della memoria collettiva delle eruzioni passate è alquanto vacillante perché, nonostante fratture e selezioni nel processo mnemonico, numerosi sono i monumenti in loco e i documenti visivi disponibili online che ricordano le eruzioni già avvenute, in particolare quella del 1944, ma, soprattutto, gremiti sono i “riti di commemorazione” che tuttora, annualmente, rievocano i “miracoli” di scampato pericolo che talune divinità (san Gennaro, la Madonna della Neve, san Giorgio e altri santi patroni) concessero in occasione delle eruzioni passate. Per quanto edulcorata, dunque, la memoria è tenuta viva da tali riti, i quali legano il presente col passato che conta, come se fossero dei “registri memoriali”, degli strumenti di retrospezione e di introspezione che mettono in dialogo il campo del memorabile con quello dell’identità, in un mutuo processo di fecondazione reciproca volta a produrre uno specifico racconto della vita (Gugg 2014).

Lo scollamento tra la concezione del Piano emergenziale fornita dalla Protezione Civile e la visione che di esso hanno gli intervistati può essere fatto risalire ad una mancata considerazione della dimensione plurale del rischio. Le istituzioni, nella redazione del Piano, di fatto hanno trascurato il coinvolgimento della popolazione locale che, a sua volta, ha risposto con diffidenza e scetticismo verso il Piano stesso. Anche in occasione delle (rare) esercitazioni di evacuazione, la reazione popolare è di cautela, se non di irrisione: quello della simulazione è un vero e proprio “piccolo mondo”, come suggerisce Sandrine Revet (2013), che nel caso di MESimEx (Major Emergency Simulation Exercise)[4], nell’ottobre 2006 – l’esercitazione vesuviana più imponente, l’unica con un raggio sovra-comunale, che ha coinvolto 2000 cittadini dell’area – è recepito in maniera piuttosto contrastante, a seconda del ruolo che vi si è ricoperto. Ad esempio, è applaudito dagli organizzatori tecnico-politici e dagli osservatori internazionali (Barberi, Zuccaro 2006), ma allo stesso tempo è ritenuta poco più di una gita da numerose persone interpellate durante l’etnografia (Gugg 2013: 29-43).

Ragionare sul rischio e osservare le dinamiche politiche che esso muove ed interessa vuol dire affacciarsi sulla struttura di potere di una determinata società. In questo senso, per comprendere pienamente il confronto pubblico sulla responsabilità (di un disastro o dei pericoli che minacciano la vita e l’integrità fisica), è necessario porre attenzione alle istituzioni, perché è osservando proprio l’agire di queste ultime che diventa possibile accertarne l’influenza. Del resto, sostiene Mary Douglas, gli individui «trasferiscono sempre l’aspetto significativo del loro processo decisionale alle istituzioni in cui vivono» (1996: 63). Ciò significa che la valutazione del rischio non avviene indipendentemente dal contesto sociale, ma prende forma proprio all’interno del confronto pubblico.

Applicare l’antropologia al post-sviluppo

Quando si parla di rischio è necessario considerare il percorso storico e il contesto nel quale esso ha preso forma; un ambito in cui, almeno nel caso vesuviano, giocano un ruolo importante le dinamiche tra scienziati, politici e agenti di protezione civile, ma anche gli interessi di amministratori locali, regionali e nazionali, l’imponente e talvolta brutale edificazione delle falde vulcaniche realizzata nella seconda metà del Novecento, i profitti di imprenditori che costruirebbero ancora di più, la violenza verso l’ambiente (consumo di suolo, incendi, discariche legali, immondezzai abusivi e così via) che non di rado implica il coinvolgimento attivo della criminalità organizzata. Si tratta, cioè, del contesto costruito dal principale paradigma della modernità, quello che Franco Cassano chiama «integrismo asettico dello sviluppo» (2001: 73). Tale modello si è sostanziato in una progressiva appropriazione dell’ambiente che, nell’area vesuviana, è stata perseguita per mezzo di vuoti normativi, forzature interpretative e deroghe delle leggi esistenti (De Seta 1977; De Lucia 1992), per quanto spesso comunque insufficienti a garantire un uso ponderato degli spazi e dell’ecosistema. È questa mancanza del limite che ha permesso di costruire l’attuale entità del rischio vulcanico nella provincia partenopea. Napoli, dice Chambers (2007), è una piega che incrina la trionfalistica “narrativa” della modernità ed è su di essa, sullo iato tra possibilità e azione, sull’asimmetria tra istituzioni e cittadini, che può posarsi lo sguardo dell’antropologia culturale e sociale. Si tratta di una realtà che, nel suo complesso, mostra le contraddizioni (e il prezzo) del mito dello sviluppo, quelle prodotte, cioè, da un ipersviluppo selvaggio e dal respiro corto. Immaginare di applicare il sapere e le metodologie antropologiche ad un tale contesto e, magari, ambire a contribuire per un cambio di prospettiva può apparire una sfida vertiginosa, eppure, per quanto complessa, tale difficoltà non ha mai fermato gli antropologi, i quali, al contrario, in altri settori e su altri terreni non l’hanno temuta, specie

da quando [essi] si sono convinti che valga la pena di passare dalla esclusiva preoccupazione etica e politica nell’antropologia dei processi di cambiamento pianificato a quella dell’efficacia (cioè della capacità di produrre significativi accrescimenti conoscitivi su situazioni sociali complesse, e al tempo stesso di influenzare le decisioni politiche trasmettendo in forme adeguate un sapere originale) (Colajanni 2000: 160).

Se, come suggerisce Palmisano, l’antropologia è una vera e propria «filosofia tellurica» perché fortemente ancorata all’esser-ci e all’essere-nel-mondo, allora essa non può prescindere dall’«impegno dello studioso, del ricercatore, dell’attore sociale a prendere parte consapevolmente nei processi sociali, politici, economici della sua epoca, e a schierarsi contestualmente» (Palmisano 2014: 9). Le riflessioni e il dibattito su tale esigenza/ambizione dell’antropologia, con le contraddizioni e le difficoltà che comporta, sono numerose e accompagnano questo settore disciplinare almeno dagli anni ’50 del secolo scorso (Olivier de Sardan 1995; Colajanni 2000; Malighetti 2001; Colajanni 2014). Nel caso vesuviano, tuttavia, pur restando i classici timori dell’antropologia applicata – innanzitutto quello di scivolare in un’«arte asservita alla politica» (Harrison 2003: 223) – la possibilità di mettere in pratica la prospettiva antropologica su un contesto di rischio di un Paese dell’Unione Europea sembra declinarsi in maniera differente rispetto a quella dell’antropologia dello sviluppo da cui, tradizionalmente, prende le mosse. La particolarità del contesto, infatti, impone un mutamento di sguardo in direzione di un’antropologia del postsviluppo, come ulteriore fase di quel rinnovamento prospettato da Olivier de Sardan vent’anni fa:«la socio-antropologia del cambiamento sociale e dello sviluppo costituisce un obiettivo importante per l’antropologia e la sociologia in generale, e anche per le scienze sociali in generale» (1995: 45).

A partire dagli anni ’80, le critiche al concetto di sviluppo si sono mosse in due direzioni principali: da un lato, hanno evidenziato come il discorso sullo sviluppo emerso nel secondo dopoguerra sia «un’impresa etnocentrica, verticistica e tecnocratica, ancorata a una prospettiva evoluzionistica unilineare e alla categoria illuministica di progresso» (Malighetti 2005: 15 e sgg.) e, dall’altro lato, come esso si traduca in un processo che non solo non è universale, ma che produce in grande quantità “conseguenze non previste” ed “effetti collaterali” legati al degrado della qualità della vita in termini di sicurezza, ambiente e salute. Di conseguenza, ci troveremmo in una nuova fase denominata “post-sviluppo” o “dopo-sviluppo”, in cui è necessario elaborare un approccio che superi le dicotomie del discorso modernista (globalità-localismo, modernità-tradizione, centro-periferia ecc.) e che apra ad «una modernità ibrida intesa come un insieme di realtà negoziali prodotte essenzialmente dall’articolazione e dalla “coappartenenza” della tradizione e della modernità, del locale e del globale» (Malighetti 2002: 105).

A partire da tale approccio critico-riflessivo, è possibile immaginare nuove forme applicative dell’antropologia. In particolare sul tema del rischio e dei disastri, dal punto di vista metodologico gli antropologi applicativi possono privilegiare l’aspetto investigativo e l’analisi di situazioni concrete e di specifiche dinamiche di azione-risposta nei processi di cambiamento pianificato, oppure possono limitarsi ad avere un ruolo da “mediatore” tra fronti contrapposti, da “facilitatore” dei processi o, infine, da “diffusore” in contesti esterni al mondo degli studi (Colajanni 2000: 160). Strategicamente, però, il posizionamento dell’antropologo non può che essere o fuori o dentro dalle istituzioni di governo del territorio o di pianificazione/gestione del rischio, cioè, in altre parole, o per una antropologia applicata o per una epistemologia dello sviluppo (Rinaldi 2010). Nel primo caso, si può lavorare in modo autonomo (si veda, ad esempio: Benadusi 2011; Benadusi 2013; Revet 2013) o anche in maniera esplicitamente militante (Scheper-Hugues 1995). Nel secondo caso, invece, l’antropologo può operare all’interno dell’ente, ma a due differenti livelli di coinvolgimento: come consulente o perito che fornisce un servizio su commissione (ad esempio: Ciccozzi 2013) o come membro interno di un’equipe multidisciplinare tecnico-scientifica (ad esempio: Langumier 2013).

Nella prima opzione, il limite è che la consulenza è poi utilizzata da altri, per cui l’antropologo non vi può esercitare più alcun controllo (la perizia di Ciccozzi per il processo alla Commissione Grandi Rischi, accusata di aver “rassicurato disastrosamente” prima del sisma dell’Aquila del 2009, com’è noto, è stata accolta in maniera diversa dalle sentenze dei due gradi di giudizio finora celebrati). Nella seconda possibilità, invece, i limiti più evidenti sono rappresentati da eventuali pressioni politiche del momento, nello scarso peso decisionale che un antropologo isolato può avere tra esponenti di discipline più “dure”, oppure, ancora, nel rischio di routinizzazione dell’osservazione che, nel medio-lungo periodo, può rendere inefficace l’apporto dello sguardo antropologico.

La prospettiva di svolgere un’osservazione dell’azione pubblica dall’interno è molto stimolante, ancorché colma di dubbi e insidie. Langumier, impiegato nella politica di prevenzione delle inondazioni del Rodano, avverte: «per il ricercatore, è possibile ricoprire contemporaneamente i ruoli di attore e di investigatore?» (2013: 148). Evidentemente, sul campo è richiesta un’ambivalenza, una sorta di “ubiquità” che, tuttavia, non è meno problematica di altri momenti, come quello dell’analisi e della ricezione del lavoro. A ben vedere, sono questioni che si pongono per tutti gli antropologi, i quali dunque vanno intesi alla stregua dei “lavoratori del negativo” di Lourau (1975): analisti della società che tendono, «silenziosamente o non, le braccia verso quegli elementi devianti, verso quelle anomalie, quei traviamenti, quelle negazioni dell’ordine esistente» (1975: 80), ovvero verso gli out-sider, gli out-law, i drop-out della società o, più ampiamente, verso quei comportamenti collettivi apparentemente irrazionali quali l’ostinazione nel voler abitare un territorio a rischio e il riedificare su un luogo disastrato.

L’antropologia applicata ai rischi ha due declinazioni essenziali: è un’antropologia delle istituzioni, specie quelle preposte alla sicurezza e all’early warning, ovvero è un’antropologia dei loro strumenti normativi e tecnico-operativi, dei «dispositifs de gouvernement» (Revet, Langumier 2013), ma allo stesso tempo è anche – e qui il suo raggio di osservazione si estende molto – un’antropologia del postsviluppo (Escobar 2000; 2005), cioè di quella serie di condotte umane (innanzitutto politiche ed economiche) che – tanto nei paesi “poveri”, quanto in quelli “ricchi” – sembrano aver prodotto o potenziato la vulnerabilità sociale, non solo in termini di esposizione a disastri più o meno naturali (dovuti a svariate cause riconducibili allo sviluppo: dal cambiamento climatico all’impermealizzazione dei suoli, dall’energia nucleare alla sovra-urbanizzazione), ma anche di erosione del welfare e di allargamento degli squilibri sociali (Trivedi 2013).

Una tale antropologia è volta a studiare dall’interno un mondo sociale in cui ci si esprime in termini di “cultura del rischio”, di “sicurezza”, di “prevenzione”, di “anticipazione”. Questa mentalità dà luogo a numerosi strumenti normativi e mediatici, dei veri e propri “attori sociali non umani” (Latour 2005; Benadusi 2011), di cui oggi è necessario comprenderne la portata e l’influenza sulle pratiche quotidiane. Anche attraverso dispositivi come la partecipazione, che hanno superato vecchie modalità più autoritarie, possono realizzarsi, infatti, tensioni di nuovo tipo: dalla riproduzione di vecchie egemonie all’uso strumentale del concetto di “comunità”, dall’erosione del confronto tra autorità pubbliche e mobilitazioni locali ad uno stato di emergenza permanente (Benadusi 2013; Langumier 2013).

Governare il rischio vesuviano

Il “mito della sicurezza” ha sempre una componente di “finzione sociale” e tende a concretizzarsi in pratiche e politiche di prevenzione sempre più pervasive e sistematiche che, al tempo stesso, individualizzano e privatizzano, «configurandosi sia come ciò che si deve o dovrebbe fare per impedire le conseguenze perverse, sia come un ulteriore rischio da correre individualmente» (Pitch 2008: 31). L’idea di un rischio costante, per cui un disastro può avvenire ovunque e in qualsiasi momento, determina il bisogno di essere ininterrottamente preparati, secondo un modello che non porta a governare il rischio, ma ad essere governati da esso.

In questo senso, il contributo dell’antropologia può essere a scale diverse e in ambiti molteplici. Innanzitutto, tale disciplina rappresenta un contributo di conoscenza, ovvero svela il deficit conoscitivo delle istituzioni preposte all’early warning in ambito socio-culturale e mostra la logica meramente tecnica ed utopicamente oggettiva – di derivazione positivistica – della cosiddetta risk analysis , il che le fa erroneamente ritenere, avverte Ligi, che «il soggetto agente che percepisce il rischio sia “razionale” e soprattutto “deculturato” (o che le variabili culturali siano irrilevanti per l’analisi)» (2009: 140). In ambito vesuviano lo sguardo dell’antropologo, invece, permette di cogliere una logica locale che smentisce l’opinione diffusa di “insensibilità” o di “mancanza di consapevolezza” del rischio da parte degli abitanti, i quali, al contrario, rivelano razionalità “altre” e, soprattutto, sembrano voler esprimersi, prendere parte, contribuire alla pianificazione (non solo dell’emergenza, ma del territorio ampiamente inteso). È il caso di numerose realtà associative che vanno oltre il loro oggetto statutario specifico (ad esempio, di tutela ambientale o di archeologia) e abbracciano una visione d’insieme dei rischi locali: affrontarne uno (ad esempio quello ecologico) significa trattarne anche altri (ovvero: criminalità, crisi economica, sovrappopolamento, minaccia sismica e vulcanica), in una visione del rischio che è dunque eclettica e complessiva, non parziale e settoriale[5].

L’oggetto di un’antropologia del rischio vesuviano riguarda prima di tutto le numerose istituzioni preposte alla sicurezza della popolazione: da quelle scientifiche (OV, INGV, Università) e tecniche (DPC nazionale e regionale), a quelle governative (Ministeri e Parchi) e amministrative (Regione e Provincia), senza tralasciare che per l’attuale legislazione il sindaco di ciascun comune è il primo responsabile della incolumità dei propri concittadini. Un apporto antropologico più proficuo, tuttavia, andrebbe individuato nella messa in discussione dell’approccio emergenziale con cui fino ad ora si è proceduto nell’affrontare il rischio vesuviano. Che la fuga sia l’unica opzione in caso di allarme è palese e va certamente organizzata in modo ottimale; tuttavia, se il fine è, più ambiziosamente, quello di contribuire alla mitigazione del rischio geologico in area napoletana (dove, oltre al Vesuvio, ci sono altri due vulcani: i Campi Flegrei e l’isola d’Ischia), allora il discorso va spostato sul modello di sviluppo che ha condotto all’attuale condizione di vulnerabilità. Lo sviluppo sfrenato, trainato dal sistema capitalista, fatto di crescita quantitativa fine a se stessa, è discusso da lungo tempo, almeno a partire dalla fine degli anni ’60 del Novecento, con i contributi teorici di Ivan Illich, Andrè Gorz, Francois Partant, Cornelius Castoriadis e Nicholas Georgescu-Roegen. Più di recente, la critica dello sviluppo è sostenuta soprattutto da Serge Latouche, secondo il quale:

Una crescita infinita è incompatibile con un pianeta finito. Se la prima legge della termodinamica insegna che nulla si distrugge e nulla si crea, lo straordinario processo di rigenerazione spontanea della biosfera, anche se assistito dall’uomo, non è in grado di sostenere gli attuali ritmi forsennati e non può in nessun caso restituire nella stessa misura la totalità delle risorse degradate dall’attività industriale (Latouche 2014: 29).

Più precisamente, in merito al tema qui affrontato, nei primi anni ’80 Manlio Rossi-Doria scrive:

Lo sviluppo urbano meridionale rappresenta […] (se non per intero, in gran parte) un fenomeno patologico, forse il più grave sintomo degli effetti negativi del mancato sviluppo economico moderno della società meridionale (1982: 199).

Come precisa Antonio di Gennaro, tra il 1960 e il 2000 in Campania, a fronte di una crescita demografica intorno al 20%, le aree urbane sono quintuplicate: da 20.000 ettari di città a 100.000, quasi tutti in pianura e intorno ai vulcani, cioè nelle aree più fertili e in quelle più pericolose (2012: 37)[6]. Si tratta di una vera e propria bulimia del modello urbano centralizzato che divora spazio e che segna una rottura con l’ambiente in cui si vive. Per far fronte a questa “topofagia della cosmopoli” (Latouche 2014: 146) è necessario un processo di “riterritorializzazione” con cui, spiega Alberto Magnaghi, restituire al territorio la sua «dimensione di soggetto vivente ad alta complessità»:

È un processo complesso e lungo (cinquanta, cento anni?) che riguarda la costruzione di una nuova geografia fondata sulla rivitalizzazione dei sistemi ambientali e sulla riqualifica dei luoghi ad alta qualità dell’abitare come generatori di nuovi modelli insediativi capaci di rivitalizzare il territorio dalle ipotrofie della megalopoli. Questo processo non può avvenire in forme tecnocratiche; esso richiede nuove forme di democrazia che sviluppino l’autogoverno delle comunità insediate, poiché riabilitare e riabituare i luoghi significa nuovamente prendersene cura quotidianamente da parte di chi ci vive, con nuove sapienze ambientali, tecniche e di governo (Magnaghi cit. in Latouche 2014: 147).

La particolare forma di antropologia del rischio che va delineandosi per le aree vulcaniche napoletane è solo in parte erede dell’antropologia dello sviluppo perché – per finalità, epoca, attori, luoghi, contesti, metodologie – è più opportunamente inquadrabile come un’antropologia del post-sviluppo. Si tratta, in altre parole, di un’antropologia della decrescita e della deurbanizzazione, interessata cioè a individuare gli elementi di un progetto alternativo per una politica del dopo-sviluppo: «È dunque una proposta per riaprire lo spazio dell’inventiva e della creatività dell’immaginario, bloccato dal totalitarismo economicista, sviluppista e progressista» (Latouche 2014:10).

Il Vesuvio, prima ancora che questioni sulla sicurezza e sulla prevenzione, ci pone delle domande epocali sul nostro modello economico, sul nostro rapporto col territorio, l’ambiente e l’ecosistema, sul nostro modo di costruire e vivere le città, sulle nostre istituzioni, sulla rappresentanza e la partecipazione.

Come scrive Alessandro Coppola (2012: 76 e sgg.), le archeologie urbane statunitensi possono diventare un’opportunità (è possibile «distruggere con amore, cura e minuzia», al punto da trasformare la decostruzione in «una vera industria»), così la “città vesuviana” invece che un problema, può rappresentare un’occasione per inventare nuovi modelli di socialità e di convivenza col territorio, un laboratorio di shrinkage culture, ovvero di ipotesi per una decrescita virtuosa, serena, conviviale e sostenibile, che genererebbe «potenti controtendenze rispetto alle strategie della modernizzazione occidentale, mostrando un dinamismo fondato sulla fusione, sulla mescolanza e sull’opposizione» (Malighetti 2005: 27). Questo radicale cambiamento di prospettiva può essere realizzato attraverso progetti locali che, ispirati all’ambizioso programma delle “otto R” di Latouche (rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare), avviino un circolo virtuoso di riconversione, ridefinizione, ridimensionamento, riuso, il cui “buon fine”, osserva Guido Viale (2010), è garantito dalla manutenzione, ovvero dal l’attenzione verso lo stato di un oggetto, di un’apparecchiatura, di un edificio o di una risorsa naturalistica, la loro funzionalità, il loro aspetto esteriore, la loro igiene o la loro pulizia.

Data l’entità del tema e pur riconoscendo i pericoli di strumentalizzazione evidenziati da Said (2014), un’antropologia che contribuisca fattivamente alla decementificazione e alla decompressione può sussistere se inserita all’interno degli organi di governo e pianificazione del territorio, cioè deve entrare nelle stanze in cui gli scenari del futuro condizionano il presente, confidando nella solidità deontologica di ogni singolo antropologo e nella sua capacità di distanziamento professionale. Proponendo uno sguardo “immerso” in un preciso contesto socio-culturale, l’antropologia può contribuire ad arricchire e migliorare l’attuale concezione meramente tecnocentrica ed emergenziale della gestione del rischio. Per mezzo di un approccio attento non solo ai fattori tecnici, ma anche al contesto sociale, politico e culturale del luogo esposto al rischio, il contributo antropologico può condurre a nuove modalità di comunicazione tra scienziati, operatori umanitari, legislatori e popolazione. Soprattutto, però, con il potenziamento della circolarità e dell’efficacia dell’informazione, questa prospettiva apre al sovvertimento della logica di tipo top-down, spesso applicata nella concezione e nell’attuazione degli organismi di gestione di un allarme (e giustificata dalla stessa logica emergenziale), inducendo ad una rielaborazione inedita della pianificazione della prevenzione in chiave più partecipativa, dinamica e radicale del territorio stesso. In questo senso, l’antropologia può sollecitare l’elaborazione di modelli analitici che non siano univoci e inflessibili, ma al contrario elastici e “a razionalità multiple”, cioè che tengano conto che le variabili antropologiche orientano comportamenti concreti «di accettazione o non accettazione del rischio, di accettazione o non accettazione di interventi concreti, di progetti di sviluppo economico-sociale, di aiuto esterno nelle emergenze di massa» (Ligi 2009: 152-153). Attraverso l’analisi sistematica (Olivier de Sardan 1995: 47), ovvero la rilevazione e il monitoraggio costante delle diverse risposte culturali locali ad una minaccia, remota o imminente, nonché dei bisogni e dei dubbi dei cittadini dell’area in oggetto, l’antropologo può avere un ruolo operativo non solo nella “pianificazione partecipata” dell’urgenza, ma più estesamente e profondamente, nella pianificazione del territorio, in direzione di un recupero di quel che di Gennaro chiama “misura della terra”, «nel duplice significato di misura del capitale naturale, e di definizione della misura di comportamento più appropriata per la sua cura» (2012: 6).

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[1] Commentando tale formula, il vulcanologo Giuseppe Luongo spiega che nel caso del Vesuvio «il risultato del prodotto (rischio) raggiunge valori elevati perché due fattori (vulnerabilità e valore esposto) sono elevati, anche per un valore contenuto della pericolosità» (Ongarello 2009: 30-31).

[2] Titoli apparsi, rispettivamente, sui seguenti webjournal: Rete News 24 (28 giugno 2013), Corso Italia News (5 settembre 2013), Il Fatto Vesuviano (25 novembre 2013 e 3 dicembre 2013), Positano News (10 gennaio 2014). Volutamente, non cito le fonti più cospirazioniste e notoriamente dispensatrici di notizie contraffatte.

[3] Nel gennaio 2013, l’allora capo del Dipartimento della Protezione Civile, Franco Gabrielli, parlando della nuova “zona rossa” vesuviana, dichiarò: «c’è un’eccessiva insensibilità e una mancanza di consapevolezza del rischio fra gli abitanti di queste zone. [...] Nella zona dei Campi Flegrei la percentuale di gente che non conosce il rischio su cui è letteralmente seduta raggiunge picchi del 70-80%» (Arachi 2013).

[4] Dipartimento della Protezione Civile (2006), «Esercitazione “MESimEx”» (18-22 ottobre 2006), in Sezione approfondimenti di www.protezionecivile.gov.it (sito internet consultato in data il 12/06/2012). La simulazione MESimEx è stata proposta nel 2004 dalla Regione Campania per un finanziamento – poi ottenuto – da parte dell’Unione Europea; le altre esercitazioni effettuate, per lo più da singoli comuni, sono: Cercola (1996), Somma Vesuviana (1999), Trecase (2000), Portici (2001), Pollena Trocchia (2004 e 2011).

[5] Negli ultimi anni, anche a causa delle drammatiche vicende legate alla crisi dei rifiuti, sono emerse associazioni che hanno conquistato sempre più spazio e credibilità nelle loro proteste e proposte, come ad esempio le “Mamme Vulcaniche” (contro le discariche), la “Rete dei Comitati Vesuviani” (focalizzata soprattutto sugli aspetti sanitari) e il movimento “Cittadini per il Parco” (tra ecologia, agricoltura e beni culturali).

[6] Parallelamente, intorno al Vesuvio si registra un preoccupante esodo dalle campagne: secondo i dati del Ministero dell’Ambiente, nei venti anni dal 1990 al 2010 (il Parco Nazionale è stato istituito nel 1995) la superficie coltivata è passata da 3.000 ettari a 700 (Cfr. Gravetti 2015).