La rabbia del fiume e la violenza degli argini

Appunti su un post-alluvione per una “etnografia civica” nei disastri

Enrico Petrangeli

Ricercatore indipendente

Table of Contents

La piena del Paglia
La “natura” del fenomeno e il “naturalismo” delle scritture ufficiali
Appena la piena: appunti sul dramma sociale
L’associazione Val di Paglia bene comune
L’antropologo-presidente: riflessività e coinvolgimento
Le attività dell’associazione come campo per “l’etnografia civica”
Per una critica del tecnocentrismo
Bibliografia

Abstract: he article explores the aftermath of the flooding of the river Paglia, the biggest among the Tiber tributaries, in the area of Orvieto on November 12, 2012. It highlights the activities of the Val di Paglia bene comune association (Paglia Valley Common Resource) (VPbc). VPbc has progressively become an agent of research and action that rose out of the cultural shock caused by the flood. The association aims at identifying positive outcomes of new social functions and community development. The article begins by a critical reading of the official description of the disaster, highlighting the limits of naturalistic reductionism. It proposes arguments for a deeper study on the social drama experienced by the Orvieto community. It continues by presenting the structure of the VPbc, its aims, strategies and social structure. The author, currently president of the VPbc, provides a reflexive analysis related to his position as a member of the community and observer/participant linked to the “transformative knowledge” paradigm. The final chapters suggest that the VPbc’s activities represent an ethnographic terrain and proposes the term “civic ethnography” for defining the active mediation work aimed at matching local knowledge and technical skills. Finally, technical-bureaucratic power practices are mapped as a preparatory step towards the dialectic between communities and institutions.

Keywords: Anthropology of Disasters; Activist Ethnography; Research in Action; Community Resilience; Technical-bureaucratic Power

La piena del Paglia

Il 12 novembre 2012, il fiume Paglia, il più importante affluente del Tevere esonda ad Orvieto[1]. La piena arriva intorno alle 6 ad Orvieto Scalo e a Ciconia, gli insediamenti moderni nella valle fluviale della città, il cui centro storico sorge invece sulla rupe più orientale dell’apparato vulcanico Vulsinio. Le strade sono ancora poco transitate, sono vuote le scuole, le officine e i negozi. Solo per questo non ci sono vittime; nel quadro generale di allarme e disagio dell’intera popolazione si registra solo qualche ferito. I danni materiali a edifici, complessi artigianali e commerciali, infrastrutture urbane e strade e alle colture sono piuttosto ingenti: le fonti ufficiali, stimando per difetto, parlano di 50 milioni di euro. Non è stato monetizzato il danno indiretto dovuto al fatto che in questa zona – una porzione di territorio ormai amministrativamente umbra che, geopoliticamente, gravita anche tra Toscana e Lazio – i tracciati autostradali dell’A1 Milano-Napoli e ferroviari della linea alta velocità Milano-Roma, corrono in alveo e dunque gran parte della mobilità longitudinale d’Italia è risultata compromessa ed ha subito pesanti ritardi. Anche per questo, oltre al fatto che le piene del Paglia portano quasi sempre a livelli di guardia il Tevere a Roma e alla rilevanza giornalistica che recentemente hanno assunto i fenomeni meteorici cosiddetti estremi, l’episodio ha avuto una copertura mediatica importante sia a livello regionale che nazionale[2].

Fatti i conti con il portato di dramma sociale della piena del Paglia, quest’articolo evidenzia alcune tracce di ricerca antropologica applicata ai disastri derivanti dall’osservazione “molto partecipata” alle attività dell’associazione di promozione culturale Val di Paglia bene comune (VPbc). Queste, infatti, hanno consentito di monitorare e stimolare la cosiddetta “resilienza di comunità” nelle tre fasi logicamente distinguibili della resistenza all’impatto provocato dalla catastrofe, del recupero delle funzionalità sociali considerate normali prima dell’evento, dell’ideazione e progettazione di miglioramenti delle funzionalità sociali (Prati 2006).

La “natura” del fenomeno e il “naturalismo” delle scritture ufficiali

La ricostruzione ufficiale della piena del Paglia è il Rapporto sull’evento alluvionale (CFDU 2012), pubblicato a un mese e mezzo di distanza dall’evento e incentrato su una lettura proveniente dall’impostazione teorica delle scienze naturali. La lettura del Rapporto rivela difetti ben documentati dalla letteratura antropologica, che ha saputo individuare i limiti delle concettualizzazioni tecnocentriche dei disastri e le necessarie integrazioni ermeneutiche fornite dagli approcci socio-antropologici (Ligi 2009: 3-44). Procedendo per estrema sintesi, è possibile accostare a titolo di esempio – e matrice – dell’ermeneutica antropologica applicata ai disastri, la critica al naturalismo di derivazione filosofica con l’argomentazione basata sul confronto dei dati statistici riferibili alle catastrofi su scala mondiale raccolta dal Disaster Research Unit dell’Università di Brandford. Da una parte le teorizzazioni di Enesto de Martino su naturalismo e storicismo quali radici di conoscenza etnologica, o più generalmente storiografica, prendono la forma di ammonimento a «limitare il procedimento naturalistico all’eurisi filologica, o al pratico ordinamento dei fatti in attesa di una storiografia che sarà» (de Martino 1941: 53). Dall’altra parte risulta che mentre non è dimostrabile un qualche legame dei disastri con i cambiamenti geologici o climatici, il trend incrementale di vittime e distruzioni, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, è da riferire alle accresciute situazioni di vulnerabilità sociale. Un argomento decisivo per proclamare che è bene tenere distinte le spiegazioni naturalistiche dalla comprensione di un disastro (O’Keefe et al. 1976).

Il Rapporto, del quale si deve sottolineare immediatamente che è un post hoc istituzionale, fornisce un quadro dettagliato delle condizioni meteorologiche dei giorni immediatamente precedenti. Al contempo ammette che i modelli di previsione a scala locale avevano previsto una minore persistenza dei sistemi temporaleschi e dunque avevano portato a sottostimare la quantità di pioggia. Dal monitoraggio dei pluviometri risulta che ci si è trovati a fare i conti con circa 1.300 milioni di metri cubi di acqua, due volte il volume del lago Trasimeno (CFDU 2012: 1). Il Rapporto ammette i limiti del sistema di rilevazione, ma non resiste alla tentazione di incasellare l’evento meteo come fenomeno dotato di un “tempo di ricorrenza” centennale. È opportuno sottolineare che il tempo di ricorrenza degli eventi meteo – stimato sulla base dello scarso livello di affidabilità dei sistemi previsionali appena ammesso, con riferimento a serie storiche molto brevi e lacunose, e spesso in assenza di sopralluoghi sul campo – insieme al tempo di ricorrenza dei livelli idrometrici – che presenta livelli di astrazione ancora maggiori vista la continua evoluzione morfodinamica dei fiumi – è il parametro fondamentale per la progettazione degli interventi di difesa passiva a mitigazione del rischio idraulico.

Il Rapporto procede poi con l’analisi idrometrica e con la spiegazione del funzionamento dei modelli di previsione per alluvioni, frane e smottamenti, esposti in una serie di tabelle e grafici utilissimi come documentazione degli effetti delle precipitazioni al suolo. Viene prodotta anche una mappatura delle aree esondate che consentirà l’aggiornamento delle zone a rischio idrogeologico del Piano di Assetto Idrogeologico (PAI). Dettagliatissimo sulle metodiche di rilievo utilizzate, il Rapporto tace il fatto che gran parte delle zone alluvionate erano considerate aree sicure. Proprio in quelle aree negli ultimi anni si sono aggiunti al preesistente insediamento artigianale, commerciale e di edilizia popolare: il Centro di accoglienza della Protezione civile, la caserma dei Vigili del fuoco, il più grande centro commerciale della zona. Il PAI del 2008 sistematizzava, attraverso modellizzazioni matematiche, i dati forniti da un rilievo aerofotografico, considerando la massicciata dell’autostrada A1 un argine insormontabile dal fiume. Purtroppo la foto aerea non aveva rilevato i numerosi sottopassi al manufatto autostradale che, nel caso degli eventi del novembre 2012, si sono comportati come canali che hanno velocizzato e deviato il fluire delle acque verso gli insediamenti, rendendo particolarmente distruttivo l’impatto della piena.

Il capitolo dedicato alla “gestione” dell’evento merita qualche considerazione particolare. Anzitutto si apre con la presentazione del sistema di allerta nazionale per il rischio idrogeologico, che prevede l’obbligo di emissione del bollettino meteo e del bollettino di criticità. Poi c’è la presentazione del dibattito nazionale sulla ridefinizione dei parametri e delle titolature delle criticità. Viene da considerare che un simile incipit sia stato inserito come espediente difensivo a tutela dell’operato dell’ente rispetto ad eventuali contestazioni. Infatti, non si manca di precisare che sabato 10 novembre sono stati emessi bollettini di criticità “moderata” sia per il rischio meteo sia per quello idrogeologico, attenendosi a quanto previsto dalle vigenti normative. Viene addirittura precisato che il giorno prima, venerdì 9, seppure con previsioni meteo appena probabili, si era provveduto per le “vie brevi” a segnalare ai presidi territoriali la possibile emissione di un bando di criticità: per scongiurare il rischio che questo arrivasse in uffici chiusi per il week end (CFDU 2012: 45). Circostanza, quest'ultima, che si è purtroppo verificata: non è stato possibile avvisare né la popolazione né gli operatori della Protezione civile locale. Così, gli operatori sono stati inviati sul posto senza la precisa cognizione di ciò che stava succedendo, esposti in prima persona ai rischi connessi ad una alluvione montante e in difficoltà a disciplinare le reazioni ed i comportamenti della popolazione.

Il Rapporto presenta, dunque, una ricostruzione che si vorrebbe oggettiva dell’evento, ne comprendiamo quindi la necessità istituzionale. Ma l’esclusivo ricorso a particolari saperi tecnici e disciplinari – quello della meteorologia e dell’idraulica dei fiumi che, avendo a che fare con sistemi caotici quali il tempo meteorologico e il dinamismo idraulico dei corsi d’acqua in natura, hanno una ridotta capacità previsionale – associato ad espedienti più o meno consapevoli di autotutela corporativa dell’istituzione, limitano fortemente la comprensione delle diverse dimensioni dell’evento alluvionale.

Una comprensione adeguata – cioè l’intelligenza sociale che, ex post, metta in grado le autorità competenti di sistemare congruentemente le aree devastate, ma soprattutto, ex ante, di fare la programmazione territoriale più opportuna per non accrescere la vulnerabilità ai disastri – della piena del Paglia come di tutti i disastri, avrebbe necessitato di un approccio interdisciplinare capace di restituirle tutto lo specifico spessore storico, sociale e politico e che fa ormai parte dell’articolata competenza dell’antropologia dei disastri (Ligi 2009). Infatti, acquisito che con determinate quantità di pioggia il fiume Paglia tende a rioccupare tutto il tavolato che è l’alveo del suo basso corso, dove scorre divagando nei periodi di piovosità usuali, c’è da comprendere come e perché una parte degli abitati di Orvieto Scalo e di Ciconia vi siano stati costruiti dentro. E, metaforicamente, come si fa a tirarli fuori.

L’espansione urbana di Orvieto negli ultimi decenni è avvenuta extra moenia e tre quarti della popolazione orvietana, 15.000 abitanti circa, vive e lavora ai piedi del centro storico. Orvieto Scalo e Ciconia si sono sviluppate nella pianura del Paglia e alcune propaggini residenziali e produttive sono costruite, come detto, direttamente nell’alveo del fiume, precedentemente utilizzato per scopi colturali. Le ragioni di ciò sono molte: a livello geomorfologico è da sottolineare che la piana del Paglia nel tratto prospiciente Orvieto è stretta; a livello geopolitico è invece da considerare che il territorio di Orvieto è in posizione nevralgica per gli spostamenti Nord-Sud e viceversa. Quest’ultimo aspetto ha fatto sì che le più importanti infrastrutture dello sviluppo industriale italiano passassero di qui. L’inaugurazione della stazione ferroviaria di Orvieto Scalo risale al 1865; il casello dell'Autostrada del Sole è stato inaugurato nel 1964. Il percorso della ferrovia oggi cosiddetta “lenta” è liminare all’alveo del fiume, mentre la ferrovia “direttissima” e la massicciata dell’autostrada, invece, vi corrono dentro. A partire dagli anni Sessanta la stazione ferroviaria e il casello autostradale hanno fortemente condizionato il modello di sviluppo orvietano: sono stati fulcri di primo inurbamento per le popolazioni che lasciavano i borghi rurali circumvicini, caratterizzati da un modello agricolo in crisi, e di insediamento di piccole e medie imprese artigianali e commerciali[3]. Quanto succintamente riportato obbliga a fare riflessioni sul grado di autonomia dello sviluppo locale; sulla pervasività dei modelli di conoscenza e sul valore delle ideologie dello sviluppo tra le élite intellettuali e politiche e il corpo della società; sugli effetti di “deculturazione” indotti nei modelli socio-culturali “tradizionali” e sui cambiamenti nelle conoscenze e nelle percezioni del territorio. Conoscenze e riflessioni indispensabili per preparare una comunità, comprendente tanto i decisori quanto coloro che subiscono le decisioni, ad affrontare la sua conditio humana in un’epoca ormai di rischio globale (Beck 2007).

Dal mio punto di vista, insomma, la lettura del Rapporto mostra anche in questo caso all’opera i processi di naturalizzazione attraverso i quali le istituzioni, imponendo la loro rappresentazione della realtà, si legittimano e si autoassolvono, attribuendo i disastri alla imprevedibilità delle forze della natura. Processi che sono stati già svelati nella loro profondità e nei loro effetti in maniera esemplare nel caso ben più drammatico del terremoto dell’Aquila (Ciccozzi 2013). Viene spontaneo sottolineare che l’istituzione elabora le sue classificazioni, attraverso le quali influenza comportamenti e modelli dei cittadini (Douglas 1990), ricorrendo alle forme del “potere disciplinare” (Foucault 2005) e, nel momento in cui genera esclusioni e condiziona le libertà personali di autodeterminazione, si dà come forma di violenza strutturale (Farmer 2006).

Appena la piena: appunti sul dramma sociale

Lo shock legato alle catastrofi scuote gli assi fondamentali della cultura di una comunità mettendo in crisi i suoi orizzonti culturali. Nell’immediato post-catastrofe, considerare il valore di dramma sociale per l’alluvione induceva a prestare attenzione alle reazioni che il corpo sociale della comunità metteva in atto. In quanto indigeno di Orvieto e antropologo, conosco “dal di dentro” l’anatomia e la fisiologia della comunità e penso di saper individuare con discreta precisione sia attori sia fabulae interessantidel dramma sociale che ho visto e vissuto. Ma, per il posizionamento di ricercatore che ho assunto e per le attività ad esso connesse che ho svolto, su cui ritornerò a breve, mi limito qui ad elencare qualche ipotesi di studio plausibile in virtù di dati raccolti tramite sondaggi informali. Ne parlerò al condizionale perché, per quanto interessanti, non è al momento possibile determinare le condizioni effettive per il loro sviluppo.

Sarebbe interessante, dunque, fare un’analisi del contenuto degli articoli apparsi sulla stampa locale sia cartacea sia digitale; quest’ultima è arricchita dai commenti dei lettori. Risulterebbero chiare le forme, la qualità e la durata della retorica “ondata di solidarietà” per la quale tutti gli orvietani si sono sentiti un poco alluvionati. Il confronto tra queste interpretazioni e quelle rilevabili attraverso l’etnografia farebbe emergere la variegata complessità della reazione alla catastrofe. Emergerebbe, ad esempio, l’atteggiamento da spettatore di gran parte della popolazione residente nel centro storico, non interessata direttamente dall’alluvione ma soltanto dai disagi dell’isolamento, che si affacciava sulla piana – come per precedenti piene o come per i bombardamenti dello scalo ferroviario nel 1945 – commiserando le vittime e riproponendo in varie forme il cliché identitario per cui solo chi sta intra moenia è orvietano. L’etnografia, poi, illuminerebbe la gamma dei discorsi e delle pratiche, tese a rielaborare il dramma appena scampato prodotte, dalle diverse fasce di popolazione direttamente coinvolte e impegnate da subito, per necessità, nel recupero di quanto era stato sommerso dal fango. Emergerebbero le spiegazioni rabbiose e/o fatalistiche, le eziologie faziose e/o ideologiche, le esorcizzazioni di rischi futuri, i silenti eroismi anche a recupero di micro abusi.

L’osservazione etnografica permetterebbe di vedere al lavoro i “determinanti sociali” delle reazioni dei vari gruppi di popolazione. Per esempio: la ricerca di un “colpevole” – non di un “responsabile” – e l’affidarsi alle vie legali per il risarcimento dei danni da parte dei commercianti; le class action intraprese dai pendolari che avevano lasciato le loro auto al parcheggio della stazione ferroviaria e dagli abitanti di una zona residenziale; la raccolta di firme fatta da un gruppo di residenti di una zona popolare in maniera del tutto spontanea e senza la minima base di un documento condiviso, nell’evidente convinzione che sarebbe stata “performativa” di per sé; la rassegnata accettazione dell’evento e la composta lamentazione, senza rivendicazioni organizzate, degli abitanti della “Corea” (ad Orvieto si chiama così il quartiere di edilizia popolare sorto sulla base del programma INA-Casa negli anni Cinquanta).

Ancora nell'immediato periodo post-catastrofe sarebbe interessante oggetto di studio “l’epifania” dei politici. Sarebbe interessantissimo ricostruire sia i percorsi attraverso i quali si ottiene la mobilitazione, sia riflettere sui luoghi, sui partecipanti e sulle forme rituali che assumono le visite, sia, infine, considerare come “dono” l’impegno di spesa sulla Legge di stabilità oppure la dichiarazione di stato di emergenza.

L’associazione Val di Paglia bene comune

All’indomani della piena, capannelli, assembramenti, riunioni, assemblee informali e spontanee decantavano la disperazione e la rabbia in rivendicazioni confuse contro le istituzioni e minacce di querele. A tinteggiare rapidissimamente le disorganizzate dispute di quel periodo ricordo ciò che potremmo definire “l’assistenza tecnica” da parte di comitati costituitisi dopo catastrofi simili a quella verificatasi ad Orvieto in altre aree del territorio nazionale. Comitati prodighi di consigli quasi esclusivamente di natura giuridico-legale, ma anche comitati di lotta ambientalista, generosi invece di estremizzazioni antagonistiche. È anche interessante ricordare i titoli che si ventilavano per quei prodromi di comitati: “Mai più fango” come sintesi dell’ala più radicale; “Orvieto 2012” come eco inconscia del “London 2012”, claim dei giochi olimpici; “12/11/12”, quasi una sintesi cabalistica.

Un gruppo di residenti nelle zone interessate dalla piena ha deciso di costituire un’associazione di promozione sociale di cui ho scritto statuto e linee di intervento e di cui sono stato eletto presidente. Per la sua composizione sociale, natura giuridica e obbiettivi, VPbc[4] si differenzia radicalmente dall’unico altro comitato effettivamente costituitosi[5]. VPbc propone di considerare le collettività che abitano i territori del bacino del Paglia come una “comunità di destino” (Morin 2002) e intende essenzialmente contribuire alla elaborazione e alla diffusione di una cultura dell’abitare il territorio in grado di conciliare peculiarità ambientali ed esigenze antropiche. La “messa in sicurezza” e la “riqualificazione urbanistica”, espressioni per le quali si è dovuta sperimentare tutta la retorica e l’essenza negoziale, sono state le leve principali di azione. L’assunzione di un atteggiamento pragmatico ha portato VPbc a rappresentare istanze “popolari” e a mediarle con le istituzioni in quei riadattamenti funzionali del corpo sociale che sono da sempre campo di lavoro e studio della sociologia e dell’antropologia applicata alle catastrofi (Quarantelli 1993).

Nei programmi di VPbc c’è: divulgazione delle conoscenze sul fiume e sul suo bacino idrografico; monitoraggio delle trasformazioni, naturali ed antropiche e dei fenomeni extra-ordinari che si producono nel bacino idrografico; proposte di iniziative di sviluppo economico e sociale sostenibili. Sul versante della sicurezza, VPbc si impegna nell’accrescimento dell’efficacia del sistema della protezione civile e nella critica della progettazione delle opere di difesa passiva degli abitati e nel monitoraggio della loro esecuzione. Sul versante della riduzione del disagio, si impegna nella individuazione, segnalazione e monitoraggio degli interventi di ripristino e manutenzione delle opere di infrastrutturazione primaria a livello micro-locale. Infine sul versante della riqualificazione urbanistica e rinaturalizzazione ha costituito una rete di associazioni e avviato un laboratorio di progettazione partecipata per la fruizione pubblica del tratto urbano del fiume e la valorizzazione economico sociale della valle del Paglia.

VPbc di fatto si è collocata in uno spazio pubblico, quello della governance e della governmentality del territorio (Treccani 2012), rispetto al quale la piena del Paglia ha dimostrato l’inefficacia delle autorità predisposte: Comune, Provincia, Regione, Autorità di bacino e dei loro organismi operativi, Consorzio di bonifica, Agenzia forestale regionale, Società idrica integrata, etc. L’attività etnografica fatta attraverso VPbc ha cominciato ad individuare alcune delle cause di questa inefficacia: a livello strutturale, la forte frammentarietà delle competenze amministrative sul bacino idrografico e l’elevato livello di burocratizzazione di ogni atto, frutto di strategie corporative deresponsabilizzanti; a livello contingente, la paralisi decisionale relativa alla riforma/abolizione della Provincia, alle elezioni amministrative del Comune di Orvieto, al rinnovo delle cariche del Consorzio di bonifica, alle elezioni in Regione. In questo quadro, VPbc sta diventando ciò che dichiarava fin dall’inizio: un catalizzatore di diverse istanze di cittadinanza attiva teso ad influenzare le decisioni politiche in materia di governance del territorio.

L’antropologo-presidente: riflessività e coinvolgimento

Io sono nativo ed abito ad Orvieto Scalo. Orvieto è la comunità che vivo e di cui sono stato anche “membro influente” – tra l’altro, assessore comunale tra il 1994 e il 2004. Sono anch’io scappato terrorizzato ed annichilito all’arrivo della piena, ho anch’io spalato fango subito dopo il ritrarsi del fiume – ho spalato poco, devo aggiungere subito per rispetto di chi veramente ha avuto la casa, l’officina o il negozio devastati. Ho assunto un posizionamento di ricerca-azione e molto coinvolto. Si parva licet componere magnis, il demartiniano “essere compagni” dell’oggetto etnografico con la conseguente denuncia delle “naturalizzazioni” e delle “inerzie storiografiche” della retorica ufficiale (de Martino 1949) e l’essere agente in un “sistema ecologico” di cui contribuivo a rimodulare realtà e sue rappresentazioni (Bateson 1976), hanno costituito i riferimenti per la mia “intelligenza emotiva” dei fatti. Inoltre, il mio essere indigeno e antropologo mi ha dato quel livello di conoscenza del sistema che consente la thick description (Geertz 1987) e il riconoscimento dei circuiti della microfisica del potere (Foucault 1977).

L’epistemologia del conoscere trasformando, propria della ricerca-azione, amplifica e complica il lavoro di campo e la rielaborazione delle informazioni: soprattutto perché le dimensioni applicativa, relazionale e situazionale inseriscono continuamente variabili e opportunità. In questo quadro, le pratiche dell’osservazione partecipante sono state le più disparate e nelle diverse situazioni di intercambio comunicativo che si sono date non ho ritenuto quasi mai opportuno attrezzare il set per le interviste: sarebbe stato percepito come incongruo. Le note del lavoro di campo sono state e sono ancora per la gran parte dei semplici appunti. L’inevitabile perdita di contenuto informativo è più grave nelle situazioni quasi spontanee, come ad esempio gli incontri lungo il fiume o in piazza; infatti, nelle situazioni procurate, come le riunioni con i tecnici o con gli amministratori, rimane almeno una traccia nelle comunicazioni ufficiali. La scrittura di rielaborazione ha dovuto fare i conti con l’uso sociale di quanto si veniva acquisendo. Che fosse per l’organizzazione di un corteo, di un’assemblea o di un evento sportivo, per una diffida a mezzo stampa, per ribattere ad una polemica giornalistica, per rivolgere una petizione, per innescare un dibattito, per commentare un intervento (o più spesso un non intervento), per promuovere un evento etc., la produzione letteraria ha assunto la fisionomia della pamphlettistica[6].

Le attività dell’associazione come campo per “l’etnografia civica”

Nella situazione data e per il background accennato, antropologia e politica si sono fatte reciprocamente categorie e contenuti: kantianamente vuote o cieche le une senza le altre. L’elaborazione dei contenuti e degli obbiettivi dell’associazione VPbc, la costruzione delle sue forme di aggregazione e rappresentanza e, infine, la definizione delle strategie di discussione con le istituzioni politiche e amministrative sono state il frutto del gioco dialettico tra le competenze dell’antropologo culturale, l’esperienza amministrativa e la carica di presidente dell’associazione. Propongo di filtrare tutto ciò con le consapevolezze che si stanno acquisendo sui terreni dell’activist ethnography (Biehl, McKay 2012; Kellett 2009; Kirsch 2010; Mullins 2011; Ramalho 2013) e di sintetizzarlo nell’espressione “etnografia civica”. Nelle prossime pagine proverò ad illustrare qualcosa di ciò che l’etnografia civica può fare, anzitutto comprendere il tipo di attenzioni rivolto a VPbc da parte degli agenti più convenzionali del potere politico locale.

Nel corso della ricerca-azione è stato possibile individuare gli “informatori” inviati alle assemblee, peraltro sempre pubbliche, dell’associazione, comprendere i retroscena e ricostruire i circuiti di interessi delle denigrazioni, degli ostracismi oppure delle esaltazioni e dei tentativi di cooptazione. VPbc prevede obbiettivi di lunga durata non coincidenti con le ciclicità, le scadenze legislative e le tornate elettorali, e ciò è spiazzante e difficilmente comprensibile sia per i “capibastone” locali, sia per alcune frange di cittadini con interessi molto particolari legati all’ubicazione dei loro orti, allevamenti, abitazioni o negozi in aree esondabili. Gli uni non riescono a convincersi che la notorietà acquisita non sarà poi finalizzata a qualche impresa elettoralistica e temono per i loro serbatoi di voti; gli altri sono assuefatti alla prassi del favore personale, alle dinamiche di relazione di cliens e dominus. I primi hanno in parte placato le loro ansie di controllo del territorio, avendo visto che nessun membro dell’associazione si è presentato alle elezioni comunali del giugno 2014, né si è preparato per le regionali di maggio 2015. Gli altri, invece, si dimostrano refrattari alle modalità di concertazione pubblica degli interessi individuali e stanno alimentando una sorta di microconflittualità sociale attraverso piccole provocazioni: dichiarazioni intimidatorie, diffide legali, apposizione di catene ad ostruire percorsi, stesura di concertine di filo spinato ad impedire l’accesso ad una spiaggetta, etc. VPbc è così molto spesso impegnata in azioni di mediazione sociale, essendo però altrettanto spesso anche bersaglio polemico.

La continua interlocuzione che VPbc ha condotto con quasi tutte le componenti politiche, di partito o istituzionali, e con i quadri dirigenti delle varie istituzioni ha permesso di constatare le discrepanze tra la retorica della partecipazione e dell’amministrazione condivisa e le pratiche, mai di effettivo empowerment dei cittadini. Per esempio, ad oggi, VPbc sta animando un laboratorio di urbanistica partecipata per interventi di riqualificazione del tratto urbano del fiume; figura tra i soggetti firmatari del “Contratto di fiume Paglia” e sta nel comitato consultivo dell’“Area Internadell'Orvietano”[7]. Per questi che sono spazi pubblici in vista di benefici virtuali e futuri, il potere politico si dimostra generoso: ha interesse a far gravitare intorno a sé i movimenti che stanno nascendo o di cui si avverte la potenziale rilevanza sociale. A ciò si oppone la gestione, invece chiusa ed esclusiva, da parte del potere politico degli agoni dove si decide di interessi concreti per partite immediate: si è lasciato/voluto che alle elezioni per il rinnovo delle cariche del Consorzio di bonifica, che realizzerà gli interventi di mitigazione del rischio degli abitati attraverso opere arginali fortemente impattanti, partecipasse soltanto il 3% circa degli aventi diritto.

VPbc e le sue iniziative hanno attirato l’attenzione anche delle organizzazioni che genericamente possiamo chiamare ambientalistiche, e che dobbiamo considerare coefficienti nelle pratiche di potere volte alla programmazione e allo sviluppo del territorio. Tralasciando le polemiche rancorose, basate sulle idiosincrasie personali di chi rappresenta localmente le varie organizzazioni e che sembrano rinnovare un’antica predisposizione cittadina alla divisione in fazioni, è possibile una prima caratterizzazione sommaria[8]. I comitati di denuncia e/o di resistenza all’utilizzo dell’ambiente a fini economici dapprima sono stati prodighi di consigli, poi hanno considerato troppo “istituzionale” l’approccio di VPbc. Come effetto della loro sensibilità, delle loro ideologie ma anche del loro particolare rapporto con la comunità, questi comitati articolano pratiche politiche essenzialmente di opposizione e di lotta rispetto a singoli progetti e/o realizzazioni. Sono poco propensi a focalizzarsi sui processi negoziali che, con difficoltà e fatica, si aprono nelle logiche di funzionamento delle istituzioni e dunque a partecipare ai processi di costruzione delle politiche di programmazione territoriale. Vedere VPbc rappresentata nelle situazioni istituzionali ricordate sopra, ha scatenato accuse di “collaborazionismo” e di “collusione”. Le associazioni ambientaliste di respiro nazionale o non sono scese nell’agone oppure, rispetto all’evidenza che VPbc andava assumendo, hanno denigrato la competenza ambientalistica dei suoi componenti. Solo recentemente i diversi protagonismi ambientalistici locali hanno trovato un accordo per nominare un loro rappresentante in seno al “Contratto di fiume”, hanno così costituito un “cartello” di cui è possibile e interessante ricostruire l’iter.

Per una critica del tecnocentrismo

La reciproca comprensione tra i linguaggi e le conoscenze elaborate da una comunità per le esigenze quotidiane dei suoi membri e i linguaggi specialistici elaborati nelle specifiche agenzie di costruzione del sapere tecnico che quella realtà vorrebbero normare, è di per sé complicata e problematica. Dopo una catastrofe il rapporto tra saperi definiti locali – quelli delle vittime per intenderci – e saperi non locali, considerati tecnici – quelli di chi si occupa del soccorso o della ricostruzione – diviene esasperato. In questi casi l’elaborazione di un sapere esperto ulteriore capace della mediazione interculturale è fondamentale (Oliver-Smith 2011). VPbc ha cercato di interpretare sul campo questo ruolo. Inquadrare il rapporto con la classe dirigente – capi, direttori, responsabili di dipartimenti, di uffici e di servizi – e con i tecnici – ingegneri fluviali, geologi, dottori forestali, ingegneri edili, architetti – delle diverse istituzioni – Comune, Provincia, Regione, Autorità di bacino, Consorzio di bonifica, Agenzia forestale regionale, Società idrica integrata, etc. – è stata un’operazione delicata per la quale ha avuto una funzione guida anche la consapevolezza che «non possiamo vincere. È il potere che vince sempre; noi possiamo al massimo convincere» (Basaglia 2000: 143).

Allo stato attuale sono ancora poche le brecce nell’incommensurabilità tra i linguaggi del tecnico e del profano; segnaliamo dunque alcune delle resistenze ideologico-culturali del primo campo che l’attività etnografica ha fatto emergere. È la pars destruens necessaria alla costruzione di un metodo aperto di comprensione dei disastri. La retorica del potere burocratico e tecnico ha una struttura diffusa che si ripete in ogni incontro: “noi siamo con voi...” per creare empatia; “avevamo segnalato il problema...” per dimostrare conoscenza del territorio; “abbiamo un progetto pronto...” per significare solerzia e competenza; “non abbiamo risorse...” per attribuire ad altri eventuali responsabilità; “aiutateci a trovare i soldi...” per orientare la pressione politica di cui ritengono capace VPbc.

La pratica del potere burocratico e tecnico è invece assolutamente escludente e, in virtù di supponenza specialistica, autoreferenziale. Ogni divulgazione è fatta pesare come perdita di tempo, c’è insofferenza verso le partecipazioni formali e l’eventuale collaborazione peer to peer non è neppure contemplata: a rivendicazioni specifiche di metodo o di contenuto si ribatte sempre con l’interpretazione restrittiva di una qualche norma che impedisce la sussidiarietà tra società civile e istituzioni. In questo quadro è interessante notare l’uso strumentale della conoscenza scientifica e il valore “sacrale” attribuito a qualche studio accademico, a prescindere dall’assenza di circostanzialità o dalla sua datazione. Tra i possibili esempi di quanto affermato, si veda la modalità con la quale sono stati affidati al Consorzio di bonifica gli interventi di “mitigazione del rischio” (Regione Umbria 2013) e la scarsa considerazione da parte di questo delle continue richieste di partecipazione alla definizione delle ipotesi progettuali. Nonostante le pressanti richieste, il processo progettuale è stato tenuto rigorosamente interno al Consorzio fino alla produzione del progetto preliminare. A parziale soddisfazione, VPbc è stata invitata alla Conferenza dei servizi tenutasi il 12 gennaio 2015, a più di due anni dall’esondazione del Paglia, sugli interventi urgenti (sic!) per la mitigazione del rischio.

Il lavoro di campo di VPbc per la mediazione dei saperi e degli interessi nativi con quelli tecnici e il “convincimento” relativo induce a recuperare il concetto di “idiotismo specialistico”, cioè quell’attitudine ad occuparsi in maniera esatta di pseudo problemi (Lukács 1990). Un’attitudine che, per dirla in un altro modo, elabora risposte tecniche parziali a singoli “rompicapo”, avendo perso di vista la questione generale (Kuhn 1979). La scogliera in riva sinistra del fiume sotto il ponte dell’Adunata è un caso esemplare. È stata realizzata dalla Provincia con uno stanziamento precedente l’alluvione e non ha tenuto conto delle modificazioni ambientali sopravvenute; gli spostamenti di terra sono stati fatti in maniera incongrua e si è riempita una depressione che costituiva una piccola cassa di espansione; il cottimista alla ruspa ha interrato un canale sul quale sversava un fosso; non si è provveduto a canalizzare i flussi di acqua meteorica che nel giro di alcune settimane hanno fatto franare l’opera.

Un altro esempio è costituito dalla diga costruita negli ultimi anni per mettere in protezione una singola casa. Il “Mose”, come i nativi chiamano l’opera con riferimento all’impianto che salvaguarderà Venezia, è costosissimo, ha bisogno di continua manutenzione e poco efficace. Secondo la vulgata, al netto del “colore” locale, l’opera è stata decisa dopo l’alluvione del Sessantacinque, è sovradimensionata e mal ubicata perché non ha tenuto conto dell’esondazione di un affluente il cui corso era ostruito da un pagliaio trascinato dalla corrente contro un ponticello. In definitiva sarebbe stato molto più economico convincere la famiglia residente a traslocare.

All’idiotismo specialistico è da ricondurre anche la questione dei risarcimenti. Soffermandoci soltanto sugli effetti, di fronte al progressivo assottigliamento delle disponibilità economiche da parte della Regione, all’incongruenza tra danno subito e voci di spesa ammissibili al rimborso, alle complicazioni di richiesta e di rendicontazione, tra i nativi c’è chi ha dichiarato che “sarebbe stato meglio un terremoto” o che “a Perugia hanno copiato, male, l’Emilia-Romagna”. Affermazioni dense di connotazione che orientano approfondimenti di studio.

L’ideologia dell’apparato tecnico burocratico, fatta di riduzionismo naturalistico e di idiotismo specialistico è granitica. La categoria di rischio è agita strumentalmente, senza gli approfondimenti epistemici opportuni (Ligi 2009: 107-157). Gli ingegneri del Consorzio di bonifica chiariscono di non “mettere in sicurezza” il territorio, ma di “mitigare il rischio”. L’ingegnere del Comune nega un corridoio pedonale in un cantiere perché rischioso e costringe centinaia di studenti ad un lungo giro sulla strada provinciale esponendoli al disagio certo e al rischio, ben più grave del primo, di essere investiti. Nei due casi appare evidente che la preoccupazione principale del tecnico non è tanto quella di intervenire sulle vulnerabilità, ma quella di circoscrivere in ambiti accettabili la propria responsabilità.

Oltre a ciò, e oltre a produrre la qualità di intervento lumeggiata prima, l’ideologia dell’apparato tecnico-burocratico giustifica le pratiche di potere necessarie al suo mantenimento. Il “muro di gomma” opposto alle sollecitazioni di metodo e di contenuto fatte da alcune organizzazioni cittadine fa da pendant alle opinabili discrezionalità comunicative che generano opacità della partecipazione. Effetto di ciò è la possibilità di determinare le priorità di intervento; e in questo caso si sono osservate forme di violenza strutturale. Infatti, le prime risorse sono state spese per la messa in sicurezza di una lottizzazione residenziale medio borghese, trascurando il polo scolastico o altre aree più vulnerabili.

VPbc ha cercato di instaurare rapporti con vari professionisti privati di questioni ambientali e territoriali perché voleva organizzare pareri esperti sulle progettazioni istituzionali. Ciò ha consentito di portare alla luce anche un altro aspetto delle pratiche del potere tecnico-burocratico. Infatti, le richieste hanno registrato dinieghi o, al massimo, pareri informali a condizione di restare anonimi. In camera caritatis sono stati raccolti sfoghi e denunce, anche di imprenditori del settore, che però in genere si chiudevano con la raccomandazione omertosa che fosse VPbc a denunciare la situazione perché una eventuale loro esposizione personale avrebbe avuto ripercussioni sulle opportunità di lavoro.

Nei prossimi anni, almeno fino allo scadere dell’attuale legislazione della Commissione europea (2020), le opere pubbliche di mitigazione del rischio e di tutela e valorizzazione dei territori saranno calibrate sulla base di uno sviluppo localmente elaborato, sostenibile e partecipato dalle comunità. Nell’orvietano come in tutta Italia. La pars construens dell’etnografia civica potrebbe contribuire anche a dare correttezza di pratiche alle enunciazioni, spesso disattese nei fatti, degli apparati politici e burocratici.

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[1] Nella sua traduzione italiana, l’aforisma di Bertolt Brecht dal quale prende spunto il titolo dell’articolo recita: «Tutti a dire della rabbia del fiume in piena e nessuno della violenza degli argini che lo costringono». Nel corso della pratica etnografica e per il gruppo di persone che più da vicino ha partecipato alle attività civiche post-alluvione, questo aforisma è diventato significativo perché denuncia la retorica che si origina di fronte agli spettacoli di forza e di potenza che la natura può offrire. Retorica vuota e assolutoria della propria incapacità quando è espressa da certa classe dirigente. E denuncia con il suo vero nome, cioè come un atto di violenza strutturale nei confronti della comunità, sia i tentativi impropri di cattiva pianificazione del territorio, sia gli abusi micro e macro, sia le inerzie istituzionali. Ma anche le omertà che li circondano.

[2] Grazie agli archivi elettronici delle principali testate giornalistiche è ancora agevole fare la rassegna degli articoli sui quotidiani cartacei e web nonché dei servizi sulle varie rubriche radio-televisive realizzati a copertura dell’evento. Per la qualità documentaria e per l’articolazione descrittiva degli eventi segnalo: Santelli 2013 e Raffaelli 2014.

[3] La rappresentazione grafica di questa evoluzione urbana si ha dalla sovrapposizione e comparazione delle tavole dei diversi Piani Regolatori Generali del Comune che furono redatti da Renato Bonelli (1956), Luigi Piccinato (1966), Leonardo Benevolo (1977), Bernardo Rossi Doria (2000) e relative varianti. Tutti urbanisti di rilevante importanza nazionale.La speculazione edilizia di Italo Calvino (1957) è riferimento letterario importante a lumeggiare i cambiamenti dei modelli culturali indotti dal boom edilizio. La “bassa marea morale” è simile nella riviera ligure e nel cuore verde d’Italia.

[4] L’associazione si è dotata di un sito web cui si rimanda per ogni informazione e documentazione – statuto, linee di azione, iniziative: http://www.valdipagliabenecomune.it/ (sito web consultato in data 17/07/2015). Ad oggi sono associate circa 170 persone, per lo più residenti ad Orvieto Scalo e Ciconia. La campagna di adesioni è stata fatta sulla base delle cerchie di relazione del primo nucleo promotore. Sono rappresentate quasi tutte le fasce sociali e le diverse professioni e mestieri. Il direttivo è costituito da donne e uomini in egual misura, con anagrafi diverse e rappresentanti delle due sponde del fiume. Le sue iniziative si integrano, a rete, con quelle di organizzazioni e federazioni sportive, di associazioni culturali, di cooperative sociali di tipo a e b, di comitati cittadini.

[5] Il “Comitato di fatto 12 novembre 2012” raggruppa 25 piccole e medie imprese commerciali ed artigiane. Ha presentato un esposto, respinto perché l’evento non era “prevedibile” né “evitabile” (Gip 2015). È attualmente in smobilitazione.

[6] La rassegna quasi esaustiva di lettere aperte, mozioni, diffide, articoli giornalistici, comunicati stampa etc. è in http://www.valdipagliabenecomune.it/.

[7] VPbc è riuscita a far inserire il Parco del Paglia nel “Piano di riqualificazione urbana e Sviluppo sostenibile del territorio” (PRUSST). Ma appena disponibili le risorse, gli uffici del Comune hanno “fatta propria” la progettazione. Fatta richiesta di accesso agli atti, si sta valutando che fare. Il “Contratto di fiume” è un protocollo giuridico per la rigenerazione ambientale del bacino idrografico di un corso d’acqua. Permette «di adottare un sistema di regole in cui icriteri di utilità pubblica, rendimento economico, valore sociale, sostenibilità ambientale intervengono in modo paritario nella ricerca di soluzioni efficaci per la riqualificazione di un bacino fluviale» (2º World Water Forum, The Hague, Netherlands, 2000); http://it.wikipedia.org/wiki/Contratto di fiume (sito internet consultato in data 17/07/2015). La “Strategia delle aree interne” del Ministero dell’economia orienterà i flussi di spesa destinati allo sviluppo e alla coesione sociale provenienti dalla Commissione europea http://www.dps.tesoro.it/aree_interne/doc/Metodi_ed_obiettivi_27_dic_2012.pdf (sito internet consultato in data 17/07/2015). Allo stato attuale, le due misure mostrano l’inadeguatezza progettuale delle autorità locali costrette a riferirsi a personale interno: sono interessanti casi di osservazione etnografica.

[8] A stigmatizzare i vizi che conducono l’Italia ad essere serva, ostello di dolore, nave senza timoniere e puttana, Dante Alighieri cita la contrapposizione in fazioni e trova esemplare quella di Orvieto tra Monaldi e Filippeschi: «Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, | Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura: | color già tristi, e questi con sospetti!» (La Divina Commedia, Purgatorio, Canto V, vv. 106-108).