L’etica e l’antropologia

Con particolare riferimento ai codici etici delle antropologie applicative

Antonino Colajanni

Università di Roma “La Sapienza”

Table of Contents

 

L’antropologia e l’etica: problemi generali e una rapida scorsa alla storia della disciplina
I Codici Etici di alcune delle più importanti Associazioni di Studi e Ricerche Antropologiche
Osservazioni sui punti centrali di un codice etico per la Società Italiana di Antropologia Applicata (S.I.A.A.), a partire da un’analisi critica dei principali codici esistenti.

Abstract. The article provides a critical analysis of the complex relationship between ethics and anthropological research by focusing on the international literature and the ethical codes of the most important anthropological associations. Theoretical issues concerning ethics as a general problem of human conduct are often connected to those of anthropology' "responsibility" as a discipline applied in different contexts of violence, war, conflicts, interplaying with powers, institutions and the various "subjects" anthropologists study or work with. Through constant exchanges between the epistemological level of ethics and the comparison between different systems of social morality, anthropological associations produced specific ethical standards and codes by taking into account aspects such as privacy, consent to confidentiality, plagiarism and lack of transparency and the effects of the researcher or his/her scientific production on the broader society. Through a critical analysis of the main existing codes, the article will discuss the central points potentially conducive to an ethic code for the Italian Society of Applied Anthropology.

Keywords: Anthropology; Ethics; Deontological code; Research ethics; Applied Anthropology.

L’antropologia e l’etica: problemi generali e una rapida scorsa alla storia della disciplina

L’antropologia[1] ha affrontato, in modi diversi e fin dalle sue lontane origini, il problema dell’etica e dei sistemi sociali normativi non strettamente giuridici, riflettendo su basi comparative intorno al fondamento della obbligatorietà di certi costumi nelle diverse società; questa obbligatorietà è intesa come dipendente dalla convinzione della coscienza dei soggetti, anche in assenza di sanzioni formali amministrate da poteri specifici. La stessa socialità umana è stata spesso vista come non altro che un sistema complesso, costituito da una base di costumi, comportamenti, non sempre esplicita e formalizzata, dotata di obbligatorietà interna per gli individui, e basata sulla “conformità”, sulla “imitazione”, ma anche sulla adeguazione dei comportamenti dei soggetti ad alcuni “valori” fondamentali, concezioni del desiderabile, nei confronti delle quali essi mostrano conformità perché li considerano punti di orientamento ineliminabili per la socialità. Quindi, si può identificare al primo livello il Costume, la consuetudine, l’abitudine (i quali comportano alternative possibili e forti variazioni da un soggetto all’altro); al secondo livello la Morale (che comporta scelta, giudizio e possibili riprovazioni, anche informali); al terzo livello il Diritto (che prevede imposizioni formali, previsioni astratte di comportamenti, chiarezza esplicita, sanzioni amministrate pubblicamente e maggiore stabilità). Sono questi i livelli progressivi della normatività sociale. È stato proprio quando i valori hanno cominciato ad essere considerati punti di riferimento per i comportamenti concreti, aspetti fondamentali degli orientamenti, delle aspirazioni, dei soggetti, e nel complesso dell’insieme dei loro sistemi culturali, che l’antropologia ha cominciato a produrre studi e ricerche sui temi etici, che finivano per essere considerati aspetti ineliminabili di ogni società, e caratterizzati da una “scelta” che i soggetti potevano fare tra le azioni possibili, “buone” da realizzare, in quanto “giuste”; ma non tanto in quanto azioni “permesse” o “proibite”, né politicamente “adeguate” o “opportune”. “Scelta” e “Responsabilità” sono dunque diventati gli aspetti fondamentali del comportamento dei soggetti. Mentre nella riflessione filosofica contemporanea si sviluppavano concezioni normative e prescrittive dell’etica come risposta a questioni pubbliche legate alla giustizia e all’accettabilità delle istituzioni politiche da un punto di vista morale (J. Rawls, A theory of justice, Harvard University Press 1971), l’antropologia si diffondeva in ricerche sistematiche sulle diverse etiche dei popoli, giungendo presto a proporre comparazioni tra “diversi codici etici” in diverse società e a discutere molto seriamente la possibile “universalità di certi valori”. Il relativismo culturale (a partire da Melville Herskovits), con le sue osservazioni sulla esistenza di criteri, valori e codici etici molto diversi, e spesso incompatibili tra le differenti società, ma senza che si potesse decidere quali fossero “migliori” degli altri, ha approfondito con impegno questo tema, discusso criticamente a lungo nella tradizione degli studi antropologici. Ma una spinta forte verso la considerazione dell’etica come sistema di “orientamento operativo sulla base di princìpi” è stata anche data da alcuni contributi provenienti dal mondo scandinavo, che hanno proposto la nozione di “etica applicata” (H. Hofstad, The function of moral philosophy, Oslo 1958; P. Singer, Applied ethics, Oxford 1986).

Per questa via ci si è anche chiesti se la conoscenza scientifica dovesse essere sottoposta a dei limiti di ordine etico, limiti fissati però dalle scienze stesse e non da poteri esterni. È stato solo in epoca recente, praticamente a partire dalla fine degli anni ’60 del secolo passato, che l’antropologia ha cominciato a riflettere in maniera molto accurata sulla possibile esistenza di norme etiche interne alla stessa disciplina, come pratica professionale che avesse bisogno di un suo proprio codice deontologico. E ciò per il suo carattere precipuo di disciplina che aveva a che fare con la diversità culturale, e in buona parte con società che avevano subìto – e spesso continuavano a subire – pregiudizi, forme di controllo e di dominazione dall’esterno. Di fatto, tutta la prima fase di istituzionalizzazione ufficiale dell’antropologia fra le scienze sociali fu caratterizzata dallo studio sul campo delle diverse “società coloniali”. Si cominciò, così, a pensare che l’antropologia doveva dotarsi di comportamenti, soprattutto sul campo, nella ricerca etnografica, che si conformassero a criteri di “buone azioni”, in grado di “rispettare la diversità culturale senza cadere in forme di etnocentrismo”, di “non procurare danni” ai soggetti sociali che studiava, di divulgare solo le informazioni che non tradissero la fiducia degli attori sociali, e così via. Il dibattito obbligò tutte le Associazioni di Studi Antropologici ad adeguarsi alla nuova tendenza a produrre codici etici che fossero in grado di “limitare” e “controllare” il comportamento dei ricercatori, che dovevano uniformarsi a codici di comportamento i quali rivelavano anche una tendenza a considerare sempre con maggiore importanza, e a conferire sempre maggiori poteri di interdizione, agli attori sociali dei gruppi sui quali (e “con i quali”) si svolgevano le ricerche. In effetti, il processo indicato cominciò a eliminare progressivamente atteggiamenti, punti di vista e modi di comportamento dei ricercatori che risalivano a concezioni rigidamente “positivistiche”, secondo le quali gli attori sociali studiati erano considerati semplici “oggetti” della ricerca, che si svolgeva nella assoluta “libertà senza limiti” da parte del ricercatore; invece, progressivamente gli attori sociali cominciarono a divenire “soggetti”, da trattare con straordinarie cautele; soggetti coinvolti direttamente nella costruzione del processo conoscitivo (ciò avveniva soprattutto nelle tradizioni della “ricerca-azione”, che trasferivano decisioni e capacità di indagine direttamente ai nativi). Nel contempo, la diffusione di prospettive teorico-metodologiche che privilegiavano l’analisi (anzi spesso la “auto-analisi”) del ricercatore come soggetto carico di sentimenti, scelte, interessi, intenzioni, pre-cognizioni, arricchiva le cautele, la fissazione di limiti e di sistemi di controllo, sulla ricerca. La “antropologia riflessiva” contribuiva quindi anche, in parte, alla messa in discussione etica del lavoro dell’antropologo.

Nell’antropologia italiana non si è discusso molto su questo tema dell’etica. Abbiamo tre saggi interessanti di P. Clemente, F. Dei e A. Simonicca nel volume a cura di Roberto De Vita, Società in trasformazione ed etica. Un approccio pluridisciplinare (Università degli Studi, Siena 1992). Soprattutto i saggi di Dei (“Giudizio etico e diversità culturale nella riflessione antropologica”) e Simonicca (“Relativismo antropologico e problema etico”) sono ricchi punti di riferimento per l’intero problema: più storico e critico il primo, più teorico ed epistemologico il secondo. C’è da ricordare anche un volume di A. Catemario dedicato – tra l’altro – al tema (Amore, norme, vita: antropologia ed etica, Meltemi, Roma 1996) e un breve capitolo, ma ben costruito, nel libro di L. Lombardi Satriani, La stanza degli specchi (Meltemi, Roma 1994). Riferimenti ai problemi etici ci sono anche nel piccolo libretto di Clara Gallini dedicato alla stagione assai discussa dell’impegno americano in imprese militari e di “intelligence” all’estero (Le buone intenzioni. Politica e metodologia nell’antropologia culturale statunitense, Guaraldi, Rimini 1974) e nel saggio di Vittorio Lanternari dello stesso anno Antropologia e imperialismo, ovvero la crisi dell’antropologia (Einaudi, Torino); mentre invece, curiosamente, sono rari e occasionali i cenni ai problemi etici nel bel fascicolo della rivista “La Ricerca Folklorica” del 1991 dedicato al tema Professione Antropologo. Ma ogni tanto è riemerso l’interesse filosofico e antropologico a un tempo per l’argomento, come nel saggio di Maria Livia Di Cugno, “Morale e cultura: l’insostenibilità etica del relativismo” (Dialegesthai. Rivista Telematica di Filosofia, 15 [2013]).

Forse non è inutile passare in una rapida rassegna l’intensa attività di ricerca e di dibattito che si è svolta in altri paesi nella lunga storia dell’antropologia, per vedere come – lentamente – dalle questioni generali (l’etica come problema intrinseco alla variabile socialità umana) e dalle ricerche sulle forme specifiche di “etica” registrate presso le diverse società umane attraverso la investigazione etnografica, si è passati alle questioni più interne alla disciplina e al suo “dover essere” nei confronti dei problemi della contemporaneità e dei soggetti studiati. Ricordiamo tutti che il primo, lontano, studio comparativo sulle forme morali delle società umane lo dobbiamo ad Edward Westermarck, il quale nel 1906 pubblicò il primo dei suoi due corposi volumi sul tema: Origin and development of the moral ideas, presentando un panorama variatissimo delle forme dell’etica nelle società, distinguibili per la loro progressiva “complessità”. Poi, anni più tardi, apparve il denso, e fitto di informazioni e di commenti, capitolo nell’opera introduttiva all’antropologia sociale di Raymond Firth Elements of social organization (del 1951), dedicato al tema: “Moral standards and social organization”. Successivamente, apparivano due importanti saggi di etnografia della morale di popolazioni extra-occidentali: Kenneth Read dava alle stampe i risultati di una ricerca intensiva sul tema, tra i Gahuku-Gama della Nuova Guinea (K. Read, “Morality and the concept of person among the Gahuku-Gama”, Oceania, 25, 4, 1955, 233-282) e John Ladd pubblicava quella che è rimasta nei decenni una delle più approfondite monografie etnografiche sul sistema etico di una società umana: The structure of a moral code. Navajo ethics (Wipf & Stock Publ., Eugene, OR, 1957). Ma già nel 1949 e poi nel 1963 la Society for Applied Anthropology aveva affrontato prima con un Comitato di Etica, poi con uno Statement on ethics i problemi regolativi dei rapporti con le istituzioni, il governo e i patrocinatori delle ricerche antropologiche, anche se aveva quasi completamente trascurato il fondamentale problema dei rapporti tra l’antropologo ed i soggetti studiati. Il primo studio moderno, denso di riferimenti teorici e di dati empirici, frutto di una stretta collaborazione paritaria tra un antropologo e un filosofo, è senza dubbio il “classico” dell’argomento, pubblicato in una prima edizione nel 1959 e poi riedito più volte fino al 2000: May Edel e Abraham Edel, Anthropology and ethics. The quest for moral understanding (Ch. C. Thomas, Springfield, 1959). Il libro di Elvin Hatch, del 1983, Culture and morality: the relativity of values in anthropology (Columbia University Press, New York), è invece tutto interno alla polemica sulla relatività dei valori nel quadro del “relativismo culturale” e concede poco ai problemi teorico-pratici della moralità come dimensione ineliminabile del comportamento umano.

La prima raccolta di saggi che affronta con spirito critico i diversi problemi del comportamento degli antropologi (sul campo e nei loro scritti successivi) nei confronti dei temi di etica interni alla loro professione, è quella curata da Pat Caplan e pubblicata nel 2003 (The ethics of anthropology: debates and dilemmas, Routledge, London-New York); in questo volume numerosi autori discutono dei problemi, dubbi e difficoltà, che nascono da ricerche su argomenti sensibili come il genocidio in Rwanda, il ben noto “caso Yanomami” (con le accuse di responsabilità all’antropologo Napoleon Chagnon), le rivolte in Irlanda, le tensioni sociali in SudAfrica, in Grecia, in Australia e in Inghilterra. Più impegnata auto-criticamente e ormai completamente rivolta alla “moralità degli antropologi e dell’antropologia”, l’altra antologia dello stesso anno 2003 (ma la cui prima edizione, molto più povera, era del 1991), curata da Carolyne Fluehr-Lobban, Ethics and the profession of anthropology. Dialogue for ethically conscious practice (Altamira Press, Walmut Creek, CA) che contiene saggi sugli “Antropologi e la C.I.A.”, ancora sul caso “Yanomami”, sulla “repatriation of indigenous cultural property”, sul famoso “informed consent in anthropological research”, infine sui problemi della rilevanza delle questioni etiche nell’insegnamento dell’antropologia. Nel 2013 la stessa Fluehr-Lobban ha pubblicato un volume tutto suo che affronta i problemi generali e pratici dell’etica professionale che ormai si erano già cristallizzati in alcune norme specifiche dei codici etici delle Società di Antropologia. Il titolo del volume è: Ethics and anthropology: ideas and practice (Alta Mira, Lanham). Alla luce di una enfatica affermazione proclamata all’inizio del libro (“Ethics is Anthropology”), l’autrice affronta nei diversi capitoli i temi che sono ormai divenuti costanti nelle discussioni sui codici etici: “Cosa significa ‘non produrre danni alla società studiata’?”; cosa vuol dire: “ottenere un ‘consenso informato’ dagli attori sociali?”; che vuol dire “trasparenza” o “inganno” nella diffusione delle informazioni antropologiche? Alla fine, un capitolo denso è dedicato al modello della “collaborative anthropology”. Intanto, nel 2008 era stato pubblicato un libro che aggiungeva e raffinava alcuni dei temi ormai “classici” delle discussioni sull’argomento: Ethics for anthropological research and practice, di Linda Whiteford e Robert Trotter (Waveland Press, Long Grove, IL); viene qui trattato il tema del “diritto alla privacy”, quello del “rispetto per le persone”, l’attenzione alle “popolazioni vulnerabili”, e infine viene così modificata l’espressione corrente del “non procurare danno” alle popolazioni locali: “minimizing harm and maximizing justice”.Tra gli altri libri recenti, si segnala quello di James D. Faubion, che è quasi completamente dedicato a una silloge riccamente commentata dei contributi di Michel Foucault al tema (An anthropology of ethics, Cambridge University Press, Cambridge 2011). Un carattere molto generale ed onnicomprensivo ha anche la corposa antologia curata da Didier Fassin, A companion to moral anthropology (John Wiley & Sons, Chichester 2012), che ha una parte storica, una dedicata ai diversi settori scientifici nei quali è suddiviso lo studio “olistico” dell’antropologia, con un buon capitolo che affronta i temi dei Diritti Umani, dell’aiuto umanitario, della guerra, della violenza e delle punizioni. Infine, va segnalato il recentissimo volume di Margaret LeCompte e Jean Schensul, Ethics in ethnography. A mixed methods approach (Alta Mira Press, Lanham 2015), che è tutto concentrato sui suggerimenti pratici, concreti, riguardanti la “cucina quotidiana” del “field-work” e si sofferma sulle “responsabilità informali”, sull’“etica informale” nelle relazioni di lunga durata con il campo sociale della ricerca, sull’etica dei team-work e della community-based research. Se si vuole fare riferimento a un libro recente pubblicato al di fuori del mondo antropologico euro-americano, merita un cenno speciale il bel volume brasiliano a cura di Cynthia Sarti e Luiz Fernando Dias Duarte, Antropologia e ética: desafios para a regulamentação (Publicações ABA, Brasilia 2013). Il libro contiene saggi molto sobri e informati sul dibattito internazionale, sui non facili rapporti tra etica e legalità, sull’etica specifica necessaria nelle ricerche con popolazioni indigene, infine sull’etica e l’antropologia della violenza. Ma il migliore, più intenso e completo contributo dedicato all’antropologia della morale e dell’etica, ben equilibrato tra ispirazione filosofica e lettura attenta dei contributi di teoria antropologica sull’argomento, anche nel quadro di una buona ricostruzione sistematica dell’importanza del tema nella storia della disciplina, è forse il recentissimo volume di Raymond Massé, Anthropologie de la morale et de l’éthique (Presses de l’Université Laval, Québec 2015). Ma non va nemmeno dimenticato il libro di James Laidlaw, un autore che ha dedicato negli ultimi anni diversi saggi alle questioni etiche in antropologia, dal titolo: The subject of virtue: An anthropology of ethics and freedom (Cambridge University Press, Cambridge 2014). In questo importante volume si studia con attenzione come gli antropologi moderni categorizzano i temi dell’etica, oscillando tra i termini della kantiana “etica del dovere” e quelli aristotelici della “etica della virtù”. Ma il dibattito internazionale è, ovviamente, molto più ampio e si è intensificato negli anni recenti. Ricordo, per esempio, un ricco saggio sugli aspetti più importanti dell’etica antropologica nei corsi di formazione (J. Aiken, V. Schlieder, C. Wasson, “‘No more cakes and ale?’ Discovering ethical grey areas in a design anthropology class”, Journal of Business Anthropology, 1, 2014, 38-61); un altro saggio, più generale, insiste – proprio sulla base dei criteri etici nella ricerca e nei rapporti con gli attori sociali esterni – sulla opportunità e necessità della stretta collaborazione tra antropologia accademica e consulenti antropologi pratici (E. K. Brody, T. M. Pester, “The coming of age and anthropological practice and ethics”, Journal of Business Anthropology, 1, 2014, 11-37). Come esempi di buoni saggi sull’argomento dal mondo di lingua spagnola, segnalo il contributo messicano di W. Jacorzynski e J. S. Jiménez: “Ética y antropología: un nuevo reto para el siglo XXI”, Desacatos, 41 (2013), 7-25, e quello spagnolo di E. Ordiano Hernández, “‘Ética para antropólogos’: entre recetas morales y simetría moral”, Desacatos, 41 (2013), 85-98.

Come si vede da questa rapida scorsa sugli studi specifici, nella letteratura recente sul tema si è mantenuto costante il collegamento tra gli argomenti di carattere teorico e riguardanti l’etica come problema generale della condotta umana, quelli relativi alle “responsabilità” contemporanee dell’antropologia come disciplina in alcuni contesti di guerre, conflitti, rapporti con poteri costituiti, e soprattutto nei rapporti quotidiani e di lunga durata con i “soggetti” ai quali gli studi sono dedicati: le popolazioni indigene, marginali ed immigrate. Il dibattito si è quindi nutrito di continui scambi tra il livello teorico-epistemologico dell’etica, la comparazione tra diversi sistemi di moralità sociale, e la opportunità – o necessità – della formulazione di norme etiche specifiche per le associazioni di studi e ricerche antropologiche. Ma la fiducia sulla efficacia delle norme etiche dei codici di deontologia professionale non è che sia stata sempre salda e ferma. Per esempio, già nel 1978 George Appell, nel suo libro Ethical dilemmas in anthropological inquiry: a case book (Crossroads Press, Waltham), manifestava un chiaro scetticismo nei confronti della validità ed efficacia della normativa formale.

Naturalmente, non si può negare che esista, parallelamente, una lunga e accidentata tradizione di studi ipercritici, direttamente “politici”, che con tono il più delle volte accusatorio e non sempre ben documentato hanno “messo sulla graticola” la ricerca antropologica di tipo applicativo in generale, ma soprattutto quella a vario titolo coinvolta in rapporti più o meno diretti con i poteri costituiti, civili e/o militari. Negli Stati Uniti, al tempo della guerra del Vietnam e degli interventi in America Latina, si scatenò una polemica molto dura, con accenti accusatori e non raramente moralistici, nei confronti di alcuni antropologi che avevano “collaborato” con istituzioni militari e di “intelligence” impegnate in forme di controllo diretto delle popolazioni marginali, oggetto di studio. In tal senso, uno dei primi, e tra i più efficaci, saggi scritti al tempo dei dibattiti sulla guerra del Vietnam, è quello di Joseph Jorgensen, “On ethics and anthropology”, pubblicato in Current Anthropology, 12, n.3, nel 1971. Ma nonostante tragga lo spunto critico dai discutibili e discussi impegni militari di una parte ridotta dell’antropologia americana, lo studio di Jorgensen affronta con serietà e prudenza quelle che da allora sono rimaste le grandi questioni degli impegni etici, e lo fa con misura, con orientamento problematico e possibilista: il diritto alla privacy, il consenso degli attori sociali e la confidenzialità, le falsificazioni e la mancanza di trasparenza, l’effetto della presenza del ricercatore sulla società studiata; e infine si pone la difficilissima domanda se “la ‘verità’ possa generare danni”.

In anni successivi i temi politici hanno avuto una sempre maggiore incidenza e l’aspro dibattito generato da interventi di questo tipo ha esercitato una forte influenza sulle Associazioni di Studi Antropologici, le quali hanno cominciato, a partire da questo periodo, a dotarsi – dopo dibattiti interni non sempre facili e distesi – di Codici Etici. Tali strumenti di tipo deontologico, che dovrebbero obbligare inequivocabilmente tutti i soci, sono diventati ormai patrimonio di tutte le associazioni scientifiche, e conviene dedicare ad essi una certa attenzione, sia per le costanti e spesso ripetute caratteristiche, sia per le rilevanti differenze di tono, di lunghezza, di rigidezza normativa.

I Codici Etici di alcune delle più importanti Associazioni di Studi e Ricerche Antropologiche

La maggior parte dei codici etici delle associazioni antropologiche, alcune delle quali sono molto antiche ed avevano in passato un po’ trascurato questo aspetto della riflessione sulla deontologia professionale, è stata approvata a partire dall’anno 2000. Ma ci sono due antecedenti che credo di un certo interesse. Il primo e più antico codice formalizzato è del 1987, e sono le Ethical Guidelines della N.A.P.A. (National Association for the Practice of Anthropology), una associazione del sistema americano della “triple A”, ma esplicitamente “non-accademica”, e volta alle azioni “pratiche “ dell’antropologia nei contesti operativi, con un orientamento chiaro verso il problem solving. Alcuni punti di questo codice sono di particolare interesse: come quello che ammette chiaramente che la ricerca e l’attività pratica degli antropologi ha a che fare con “policy-oriented activities”, le quali possono comportare differenti interessi in conflitto tra soggetti e gruppi diversi. Tocca all’antropologo pratico scegliere, decidere, comunicando apertamente le ragioni delle sue scelte, assumendosi dunque una “responsabilità”. Il principio più generale e orientativo è quello del “rispetto e considerazione per il benessere e i diritti umani di tutte le categorie di persone sottoposte a decisione nei programmi ai quali si prende parte”, e il conseguente obbligo di produrre per gli attori sociali le informazioni pertinenti riguardo agli impatti, in corso o potenziali, che le attività programmate potranno avere per i destinatari. Altro principio è quello della aperta discussione con le agenzie contrattanti sull’uso dei dati e dei materiali raccolti nel lavoro antropologico. Infine, nel caso insorgessero conflitti e divergenze di punti di vista con l’agenzia contrattante intorno a temi che coinvolgono gli standard di attività e i principi stabiliti, se questi conflitti non possono essere facilmente risolti, è necessario dare termine al rapporto con l’istituzione. Come si vede, già nel 1987 alcuni dei temi della deontologia professionale poi sviluppati nelle associazioni di categoria erano già presenti.

Un’altra originale associazione è la Association of Social Anthropologists of Antearoa New Zealand, formata in massima parte da Maori e da antropologi neozelandesi molto legati alla cultura Maori. Nel 1992 questa Associazione approvò, dopo lungo dibattito, i suoi Principles of Professional Responsibility and Ethical Conduct, che nella sostanza non è molto dissimile dagli altri codici successivi; ma è rilevante notare che il documento inizia con il riconoscimento della Nuova Zelanda come “Terra Indigena” dotata di sua autonomia storica e culturale, e che si ispira al famoso “Trattato di Waitangi” che riconosceva questo statuto privilegiato.

Ma il più importante dei codici etici di associazioni antropologiche è senza dubbio quello della American Anthropological Association, che nel 2009 è stato approvato nella sua forma definitiva, dopo molti e diversi testi progressivamente corretti. Questo testo è importante non solo perché fa riferimento alla più numerosa delle associazioni nazionali, ma anche perché ha avuto una straordinaria diffusione in tutto il mondo Nel 2012 la stessa Associazione ha aggiunto un importante documento integrativo: Statement on Ethics: Principles of Professional Responsibility. I capitoli principali di questo Statement sono quelli poi divenuti classici nei documenti del genere: a. “Do no harm people”; b. “Be open and honest regarding your work”; c. “Obtain informed consent and necessary permission”; d. “Maintain obligations with collegues, students and collaborators”; e. “Make your results accessible”; f. “Protect and preserve your records”. Il tema dell’etica ha continuato ad essere discusso e trattato con continuità all’interno dell’American Anthropological Association. L’ultimo importante documento in proposito è lo Handbook on ethical issues in Anthropology, a cura di Joan Cassel e Sue-Ellen Jacobs, pubblicato nel 2014. Il volume contiene un capitolo di ricostruzione storica del tema, una presentazione dettagliata delle attività del Committee on Ethics, una presentazione dei casi esaminati di controversie etiche e delle loro soluzioni, infine l’analisi di alcune esperienze di insegnamento universitario riguardanti la ricerca sul campo.

Nel mondo britannico è stato approvato, nel 1999, dalla Association of Social Anthropologists of the United Kingdom and the Commonwealth (A.S.A.), un documento specifico: Ethical Guidelines for Good Research Practice, poi integrato e corretto nel 2011. Il testo è dedicato alla riflessione professionale e ai controlli delle proprie azioni degli antropologi nei confronti degli individui e gruppi partecipanti alla ricerca, nei confronti dei colleghi e della disciplina nel suo complesso, nei confronti degli sponsor, dei governi propri e ospitanti la ricerca, e dei gruppi di interesse più in generale. La capacità di prevedere e anticipare i possibili problemi, conflitti di interesse ed eventuali pregiudizi per gli attori sociali, è sottolineata più volte, come anche l’impegno a “lasciare il campo di ricerca in uno stato tale che sia agevolmente permesso il futuro accesso ad altri ricercatori”. Ma è lasciato un ampio margine alla “ridiscussione” e riesame continuo della natura e intensità dei rapporti con gli attori sociali, in modo da non concepire un codice di comportamento rigido e immodificabile, che dovrebbe mutare in base a quelle che possono essere le mutevoli circostanze. Sulla capacità di prevedere possibili conseguenze negative dal loro lavoro per gli interlocutori locali, il testo si sofferma bene: suggerendo l’anonimità quando è opportuna, evitando intrusioni indebite in circostanze sociali delicate, negoziando lungamente e continuamente il famoso “informed consent” (che sarebbe meglio non affidare esclusivamente ad autorizzazioni scritte). Al giusto compenso per gli informatori, alla tutela della loro proprietà intellettuale e al coinvolgimento diretto dei partecipanti nella ricerca, sono dedicati passi importanti del documento. Alcune considerazioni finali sono dedicate alle “obbligazioni nei confronti della società più ampia”, che riguardano la diffusione della conoscenza e la sua funzione critica, il controllo sistematico della sua circolazione e delle sue interpretazioni.

Rilevante anche il documento corrispondente della Society for Applied Anthropology americana (S.F.A.A.) del 2014: Statement of Ethics and Professional Responsibilities, che però sorprende per la sua brevità e per una scarsa specificità attribuita al carattere applicativo delle ricerche della Associazione.

Tra i codici etici prodotti da associazioni e gruppi esterni all’Europa e agli Stati Uniti, ricordo la Propuesta para un Código de ética del Colegio de Antropólogos de Chile, del 2007, il Código de Ética del Laboratorio de Antropología Aplicada y Políticas Públicas della FLACSO (Facultad Latino Americana de Ciencias Sociales), del 2010, e infine il Código de ética do antropólogo e da antropóloga della Associação Brasileira de Antropologia (A.B.A.), del 2012.

Le associazioni italiane di antropologia hanno prodotto dei Codici Deontologici ricchi e molto dettagliati, stesi sulla base di una diretta ispirazione ai codici delle più note società antropologiche. Quello dell’AISEA è del 2000 e quello dell’ANUAC è del 2010. Ma credo che debba essere fatto un cenno a una iniziativa recentissima che è di grande qualità. Si tratta della Bozza di Codice Deontologico della nuova Associazione Nazionale Professionale Italiana di Antropologia, in corso di definizione formale, appena fatto circolare. Il testo ha beneficiato di un lungo, ricco e molto interessante dibattito che ha registrato numerose proposte di correzioni e la cui lettura risulta grandemente stimolante. Non ho visto, per altre associazioni, dibattiti così ricchi e dettagliati, che mostrano come si possa lentamente costruire un testo che sia veramente condiviso da un gran numero di associati.

Osservazioni sui punti centrali di un codice etico per la Società Italiana di Antropologia Applicata (S.I.A.A.), a partire da un’analisi critica dei principali codici esistenti.

Sulla base delle considerazioni sopra fatte, e dei riferimenti ai temi ricorrenti nella maggior parte dei Codici Etici e dei documenti riguardanti le responsabilità professionali degli antropologi, possiamo proporre alcune considerazioni sui più importanti princìpi consuetamente adottati, in vista della adozione da parte della S.I.A.A. di un suo Codice Etico. Come si vedrà, le considerazioni e le proposte nascono da molte perplessità e critiche che ci sentiamo di fare soprattutto ai modi semplicistici, e spesso “moralistici”, con i quali i più diffusi codici sono stati elaborati. Naturalmente, bisogna aggiungere che la “forma prescrittiva”, semplice, contratta ed abbreviata, concentrata in brevi “articoli”, tipica di un codice giuridico, mal si adatta alle delicate questioni riguardanti la deontologia professionale degli antropologi. Converrà quindi far precedere le eventuali norme specifiche (intese come prescrizioni di comportamento che dovrebbero essere inequivoche e facilmente interpretabili) da considerazioni e commenti dettagliati sulla “problematicità” delle questioni pertinenti.

1.Il principio diffusissimo nella maggior parte dei codici etici delle società di Antropologia, quello di “non produrre danni alla società indigena studiata” (“do no harm people”), è in parte assolutamente ovvio, ma soprattutto è di una vaghezza notevole. Infatti, bisognerebbe diffondersi in una casistica attenta e meticolosa per identificare tutti i diversi casi nei quali si potrebbero “procurare danni” alla società studiata, e si finirebbe per fare allusioni vaghe a una enorme quantità di comportamenti che potrebbero risultare lesivi, in qualche modo, della società che ci ospita. Anche perché le concezioni e le percezioni del possibile “danno” in diverse società possono essere molto diverse. Bisognerebbe allora elencare con cautela i casi di “danni materiali” (specificando bene i settori), i “danni morali”, quelli “spirituali” (riguardanti i possibili effetti dell’inevitabile moderato scetticismo del ricercatore nei riguardi di certe credenze e rituali), e così via.

Invece di questo criterio vago e allusivo (che lascia lo spazio a moralismi di ogni tipo), sarebbe forse meglio stabilire un criterio diverso, inverso, e volto in “positivo”. Cioè quello di contribuire al benessere generale della società oggetto di studio, negoziando con essa una possibile “azione restituiva” che compensi il tempo e la dedicazione degli informatori al ricercatore estraneo.

2.L’altro criterio molto diffuso è quello del “consenso previo e informato” da parte della società locale alla diffusione delle informazioni raccolte nel corso della ricerca. Anche questo criterio risulta discutibile e a tratti incongruo. Infatti, è certo giusto che il ricercatore discuta liberamente e ampiamente con la società locale i dati raccolti e le sue personali interpretazioni, raccogliendo, e tenendone conto, le obiezioni, osservazioni, commenti e critiche. Ma bisogna ammettere che le interpretazioni antropologiche portano di solito in superficie aspetti, motivazioni e punti di vista che la coscienza collettiva della società locale può rifiutare, non condividere, nascondere, censurare. Allora, converrebbe stabilire solo che il ricercatore deve obbligarsi a non rendere pubbliche esclusivamente quelle informazioni per le quali la società locale ha esplicitamente richiesto la non divulgazione. C’è un esempio, in proposito, che vale la pena di ricordare. Negli anni ’50-’60 l’antropologo americano Adamson Hoebel, il fondatore dell’antropologia giuridica moderna, realizzò una lunga e intensa ricerca di campo – assieme al grande giurista del “realismo giuridico americano” Karl Llewellyn - tra i Pueblo Zuñi del Nuovo Messico. La ricerca era dedicata agli aspetti socio-giuridici dei conflitti sociali e alla importanza, in essi, delle credenze e delle pratiche della stregoneria. Data la delicatezza e la “pericolosità sociale” dei dati sulle accuse di stregoneria e dei numerosi “casi” raccolti dai due ricercatori, i Pueblo chiesero insistentemente a Hoebel di non “rivelare” nei suoi saggi le informazioni riservate che aveva ricevute, i nomi delle persone e dei clan, e così via. Alla fine, dopo molti tentennamenti, l’antropologo decise di non pubblicare nulla, e affidò alla rivista “American Anthropologist” solo un saggio generale, e generico, di 17 pagine sull’argomento. Null’altro. Lasciò insomma negli archivi dell’Università, perché fossero rese pubbliche e analizzate dopo cinquant’anni, tutte le migliaia di pagine che contenevano i suoi dati raccolti sul campo.

Una ulteriore complicazione può derivare dal fatto che in società stratificate, o nelle quali esistono consistenti conflitti e divisioni tra i diversi sottogruppi tra i quali il ricercatore avrà raccolto le sue informazioni, il consenso da tutti gli attori sociali (e da tutti i gruppi) sarà, di fatto difficile se non impossibile. C’è da aggiungere che una quantità di esempi recenti dimostra come sia, di per sé, assai facile “convincere” una società marginale e tradizionale, normalmente povera di mezzi, a “dare il consenso” (contro denaro o benefici tangibili) a qualunque cosa il ricercatore – o un diverso attore politico ed economico proveniente dall’esterno – chieda. Naturalmente, i casi più imbarazzanti, nei quali conviene mantenere uno stretto riserbo e una grande prudenza, sono quelli nei quali il ricercatore ottiene – anche per caso – informazioni su violazioni di norme, su fatti e azioni che – se pubblicamente divulgate – possono generare conflitti o attivare la giustizia formale ufficiale nei confronti di certi attori della società locale. È assolutamente ovvio, e non ci sarebbe nemmeno bisogno di dirlo, che il ricercatore in questi casi dovrà osservare un rigoroso silenzio.

Il criterio del “consenso”, con tutte le sue sfumature e flessibilità, tipiche di una situazione “negoziale”, richiama ovviamente la posizione “attiva” e non “passiva” dei soggetti sociali con i quali l’antropologo svolge il suo lavoro di campo. Questa “partecipazione attiva” può dunque essere anche fortemente “propositiva”. Cioè, il progetto di ricerca, il tema che il ricercatore ha intenzione di studiare, possono – anzi dovrebbero – ricevere non solo l’approvazione diretta degli interlocutori locali, ma potrebbero essere di fatto “proposti” dalla comunità che si ha intenzione di studiare. In anni recenti questo “capovolgimento” della scelta del tema è entrato abbastanza frequentemente nelle concrete situazioni di ricerca sul campo, con il crescere della consapevolezza critica da parte degli interlocutori locali e delle loro “pretese” nei confronti degli estranei che vengono con l’intenzione di studiarli. Ci sono casi molto interessanti in proposito, che vale la pena di ricordare. Per esempio, è noto il caso dell’etnologo austriaco Georg Grünberg, che aveva disegnato un progetto di ricerca tra i Guaraní del Mato Grosso brasiliano il quale aveva originariamente come oggetto lo studio della mitologia e dei rituali della “Terra senza Male” nei suoi aspetti sociali e culturali. I Guaraní dichiararono apertamente che non erano assolutamente interessati a questo tema di ricerca, e che avrebbero volentieri collaborato intensamente con il ricercatore, se lui avesse accettato di dedicarsi a una ricerca su un tema diverso: quello delle terre dei Guaraní e dei rapporti con la colonizzazione dall’esterno, che aveva lentamente – nei decenni passati - sottratto le terre agli indigeni; un secondo tema che interessava loro era quello della educazione scolare bilingue e biculturale, con programmi curriculari modificati di molto rispetto a quelli generali delle scuole brasiliane. Dopo lunghe riflessioni, Grünberg alla fine accettò la proposta dei Guaraní e fece la ricerca sui temi da loro indicati, partecipando anche a un importante movimento critico di antropologi che si pronunciò contro buona parte dei comportamenti tradizionali degli studiosi (il “Gruppo di Barbados”). In anni recenti il dibattito sul “consenso libero, previo e informato” si è fatto molto intenso; e ciò dimostra la centrale importanza che il tema ha assunto, sia nelle rivendicazioni critiche delle comunità indigene e contadine marginali, sia nelle preoccupazioni deontologiche delle società scientifiche ed anche delle istituzioni internazionali. Molte istituzioni (nonché importanti ONG) internazionali sono intervenute in proposito con importanti pubblicazioni, tra le quali vanno ricordate il Training manual on free, prior and informed consent (FPIC) in REDD+ for indigenous peoples (AIPP/IWGIA, Chiang Mai 2012) e le Guidelines on free, prior and informed consent, UN-REDD Programme (FAO/UNDP/UNEP, 2013). Nell’ambito delle analisi accurate del tema e delle discussioni critiche non si può non fare riferimento al ricco saggio di T. Ward, “The right to free, prior and informed consent: indigenous peoples’ participation rights within international law”, Northwestern Journal of International Human Rights, 10, 2 (2011), 54-84. Il dibattito in America Latina è stato ricchissimo. Basterà ricordare il volume di W. Aguinda Salazar, El consentimento previo libre e informado. Un derecho de los pueblos y nacionalidades indígenas (Ed. Cevallos, Quito 2011).

3.Un altro criterio correntemente stabilito nei codici etici delle società antropologiche è quello della cautela nel fornire informazionisulla società locale a gruppi, istituzioni e individui esterni ad essa, che potrebbero utilizzare male (con la conseguenza di “far danni” alla società locale) queste informazioni. Un tale criterio è inutilmente sospettoso ed esageratamente denso di cautele, oltre che di fatto, in genere, assai povero di documentazione intensa pertinente nei casi nei quali viene invocato; queste cautele finiscono per limitare la effettiva circolazione del sapere antropologico che invece – nella sua ampia maggioranza, come sapere critico e potenzialmente correttivo – sarebbe utile si diffondesse intensamente proprio presso quelle istituzioni esterne dalle quali la società locale di fatto dipende. Non bisogna infatti dimenticare che l’antropologo ha tra l’altro il compito di “dar voce ai punti di vista, agli interessi e agli obiettivi, della società locale”. Invece, adottando rigidamente il criterio menzionato, da una parte si “sopravvaluta” indebitamente la “possibile efficacia negativa” delle informazioni etnografiche, e la eventuale perversità strumentale delle istituzioni esterne alla società locale (va ricordato che le perversità perpetrate nel passato e nel presente a danno delle società indigene si basano su informazioni e interessi che non attendono certo l’arrivo dei dati etnografici!). E del resto, dall’altra parte, al tempo stesso, con questo criterio si “sottovaluta” la capacità della conoscenza antropologica di esercitare pressioni sulla base della intensità e serietà delle informazioni critiche e delle interpretazioni prodotte, che possano modificare anche gli atteggiamenti e le azioni delle istituzioni statali o private che premono sulle società indigene; è questa in fondo, o dovrebbe essere, la più grande aspirazione di ogni “antropologia applicativa”.

4.Risulterebbe invece di grande importanza una norma etica che stabilisca la obbligatorietà, per ogni antropologia di tipo applicativo, di svolgere una attenta analisi antropologica dell’istituzione presso la quale si sta conducendo una consulenza, o con la quale si collabora, poiché essa è responsabile del “cambiamento pianificato” del quale è destinataria la società indigena o la minoranza sociale. Tale analisi dovrebbe porre in evidenza i fini istituzionali, gli interessi che la muovono, la formazione del personale e i comportamenti dello stesso, una storia attenta delle iniziative del remoto e recente passato, i legami con il mondo politico locale e nazionale, e anche la produzione di “ideologie secondarie auto-giustificatorie”, che sono comuni in tutte le istituzioni. Ma dovrebbe far parte, anche, di questo importante punto chiave delle norme interne alla disciplina, in particolare all’antropologia applicata, l’obbligo specifico – già in parte poco fa accennato - di esercizio di influenza sulle decisioni e le azioni delle agenzie sociali, politiche ed economiche che progettano ed eseguono iniziative di cambiamento che hanno per destinatari i gruppi sociali marginali e minoritari. Non è, questo, un obbligo da poco. L’antropologia applicativa, in fondo, si giustifica come orientamento specifico dell’antropologia generale proprio perché intende impegnarsi in questo esercizio di influenza, con le armi della sua conoscenza specifica, prodotta previamente e anche ad hoc nelle situazioni di consulenza, utilizzando le virtù dell’argomentazione e le capacità di comunicazione con gli attori esterni e le istituzioni. Il suo è dunque un orientamento critico costruttivo che ha ovviamente implicazioni politiche, ma che non si limita ad utilizzare il consueto linguaggio della politica (che è spesso un “linguaggio abbreviato” ed esplicitamente orientato da impostazioni ideologiche il più delle volte frettolose). La misura della importanza dell’antropologia applicata, in altri termini, sta tutta nella sua efficacia, nella capacità di modificare i piani di azione delle istituzioni; e non principalmente nella sua attitudine a giudicare, stigmatizzare, gli errori o le perversità della politica.

5.Un criterio che non appare quasi mai nei codici etici correnti è quello secondo il quale ogni azione di antropologia applicativa dovrebbe contenere al suo interno una ricerca approfondita che possa essere senza difficoltà riconosciuta per intensità e qualità di “accrescimenti conoscitivi” come contributo valido di ricerca, e rubricata all’interno della “antropologia generale”, da parte dei colleghi accademici che svolgono ricerche “non applicative”. Ciò potrebbe significare che deve essere evidente il “problema” scientifico e anche pratico del quale l’intervento in oggetto è parte, l’analisi critica accurata della letteratura specifica esistente sull’argomento, e anche il fatto che la possibile ”soluzione” o miglioramento della situazione-problema dipende direttamente dalla intensa ricerca antropologica effettuata dall’antropologo-consulente. Tutto ciò è necessario ribadirlo perché, di fatto, una buona parte delle ricerche a carattere “applicativo” mostra una investigazione “leggera”, a volte approssimativa, di debole intensità. E gli antropologi coinvolti in attività consultive si limitano spesso a “diffondere” presso gli specialisti coinvolti nelle iniziative e presso i burocrati nozioni, idee, concetti generali dell’antropologia, senza coniugare l’azione consultiva con una ricerca effettiva, intensa e approfondita, la quale – di fatto – dovrebbe essere concentrata su problemi del cambiamento sociale e culturale pianificato. Ciò è dovuto in buona parte al fatto che spesso gli antropologi coinvolti in azioni applicative sono studiosi alle prime armi, non sono specialisti delle regioni e dei problemi di cui si tratta, e sottostanno più o meno passivamente alle esigenze temporali delle agenzie di cambiamento pianificato, che vogliono tempi stretti e “soluzioni semplicistiche chiavi in mano”. Tocca allora agli antropologi professionali esperti, e alle loro associazioni di categoria, di negoziare con quelle agenzie tempi e modi della ricerca che non facciano perdere il necessario carattere di “accrescimento conoscitivo” che deve avere ogni antropologia, applicata o non.

6.Per quanto riguarda invece la trasparenza e la comunicazione esplicita ai soggetti studiati (ma non solo ad essi) degli obiettivi, della impostazione teorica e dei risultati della ricerca, va ribadito che questa è una obbligazione fondamentale, anche se non sempre è facile comunicare dettagliatamente e approfonditamente ai propri interlocutori locali il senso, le finalità e il metodo del lavoro del ricercatore. Tuttavia, va sottolineato che l’impegno costante per “spiegare” e comunicare cos’è l’antropologia, e quali sono i caratteri della ricerca in corso, alla popolazione studiata può, e deve, essere un difficile ma continuo esercizio di “pedagogia sociale”. Nel caso delle antropologie applicative ci sono naturalmente degli impegni aggiuntivi, che riguardano la chiara illustrazione alla popolazione locale dei fini, caratteri, interessi e lavori precedenti, della agenzia di cambiamento con la quale l’antropologo sta collaborando, chiarendo anche quali sono gli obiettivi di “influenza sulle decisioni”, sulla base della propria conoscenza del contesto sociale accumulatasi, che l’antropologo intende esercitare.

Ma la “trasparenza” con gli attori sociali, e quindi l’obbligazione ad usare con essi una “sincerità” totale sui fini, gli obiettivi e gli effetti possibili che la ricerca potrà generare, deve accompagnarsi alla seria posizione del problema non facile della “trasparenza verso l’esterno”, ovvero della comunicazione, attraverso la scrittura etnografica e l’interpretazione antropologica, dei nomi, dei luoghi, delle persone e dei processi sociali che vedono come protagonisti persone in carne ed ossa che potrebbero non gradire, o subire pregiudizio, dalla chiara e dettagliata rivelazione delle loro figure di informatori diretti. Il problema si lega anche a quello – prima affrontato - della comunicazione dei dati a soggetti esterni che “potrebbero arrecare danni” alla popolazione studiata. La soluzione più diffusa, che progressivamente si è adottata in numerosissime ricerche recenti e non recenti, è quella dell’occultamento della riconoscibilità dei dati. È una soluzione salomonica, che però lascia perplesso più di un ricercatore. Oggi i libri di antropologia nascondono i nomi dei villaggi, dei paesi e delle città ove si sono svolte le ricerche, cambiano i nomi dei protagonisti e riportano genealogie e reti matrimoniali con nomi incontrollabili da un esterno. Non è difficile ammettere che c’è dell’utilità sociale in tutto questo. Si evitano rischi; ma non c’è dubbio che si perda la “controllabilità” delle informazioni e la “correggibilità” delle stesse. Mi sono trovato personalmente all’interno di questo non facile dilemma molti anni or sono, in una ricerca sugli omicidi e le catene di vendette tra i Jívaro Shuar e Achuar della Amazzonia dell’Ecuador e del Perù. Avevo raccolto una quarantina di testimonianze estese, indipendenti e multi-situate, su una rete di omicidi e vendette, e avevo costruito una ventina di estesi alberi genealogici e di scambi matrimoniali tra i diversi gruppi locali, che mi chiarivano le relazioni del passato e del presente tra i diversi soggetti coinvolti; questa descrizione delle reti sociali era accompagnata da mappe che registravano tutti gli spostamenti territoriali, avvenuti per diverse ragioni, degli ultimi decenni. Dopo dubbi pesanti, discussioni tese e accidentate con colleghi, consultazioni accurate e faticose dei protagonisti e dei loro parenti stretti, decisi alla fine per una soluzione “ardita”, e francamente “controcorrente”. Pubblicai un saggio nel quale davo le genealogie autentiche, gli spostamenti territoriali effettivi, i nomi degli uccisori e dei vendicatori, le testimonianze, giustificazioni e “legittimazioni dei principali attori sociali dei conflitti”. Ciò per alcune ragioni che mi sembrarono decisive: a. Gli indigeni mi avevano autorizzato a fare i nomi reali perché le uccisioni erano “fatti pubblici” a tutti noti, e gli uccisori dichiaravano enfaticamente le ragioni per le quali avevano ucciso; b. Essi concepivano queste “soluzioni” ai conflitti come attività giuridiche o “para-giuridiche”; infatti gli uccisori prima di entrare in azione svolgevano un giro largo di raccolta di opinioni e di approvazioni presso tutte le “autorità” tradizionali della regione, e si basavano sulla attività di divinazione specifica effettuata da uno sciamano professionalmente riconosciuto; c. Gli informatori-attori principali erano “orgogliosi” delle loro coraggiose azioni, e le commentavano sulla base comparativa di altrettante e simili azioni svolte da altri nel passato, alle quali si ispiravano, commentandole; d. Una tale forma di “trasparenza” stimolava fortemente, per i commenti che gli stessi indigeni facevano al mio testo, la “auto-consapevolezza indigena” e produceva commenti molto interessanti sulle possibili forme di cambiamento e sui possibili ed eventuali “errori” dello sciamano divinatore; e. Questa “trasparenza” dei miei dati avrebbe potuto permettere una loro “correzione” sul piano informativo (genealogie, matrimoni, interventi diretti di soggetti), sia da parte di altri informatori indigeni non avvicinati nella fase della ricerca, sia da parte di altri ricercatori successivi; f. Infine, c’era una forte valenza polemica in questa decisione; pensavo infatti che ogni possibile intervento dell’esercito ecuadoriano o della polizia per una eventuale “punizione” dei responsabili degli omicidi (che di fatto era quasi del tutto impossibile, per la distanza e la logistica accidentata nell’accesso a quelle zone della foresta), avrebbe manifestato un palese e clamoroso contrasto “giuridico” tra due diversi sistemi: quello dello stato (lontano e assente, oltre che completamente inadatto alla “comprensione” della giuridicità indigena) e quello di una società che rivendicava una forte “autonomia” (nella accezione letterale di “dipendenza da norme proprie e non da norme altrui”).

7.Non va trascurato, naturalmente, il fatto che per un’antropologia applicativa, e quindi per un suo codice etico specifico, è assolutamente necessario stabilire con certezza e buona precisione ciò che si intende per uso della conoscenza antropologica. Non va dimenticato infatti che nella letteratura antropologica generale, e anche in quella specifica di antropologia applicata, si fa il più delle volte allusione superficiale, approssimativa, quando non genericamente e rapidamente accusatoria, al “colpevole” fatto che l’antropologia sia “usata”; come se si trattasse di un mero strumento, di un “attrezzo” in grado di produrre effetti materiali. E la nozione di “uso”, così concepita, rivela immediatamente la sottovalutazione di questa pratica rispetto a quella della produzione del sapere “in sé e per sé”, alla quale si attribuisce una diversa e superiore qualità. In realtà, la nozione di “uso” dovrebbe essere esaminata e analizzata bene, e non sarebbe male approfondirne il senso e i significati che le sono stati attribuiti nella storia dell’antropologia. Si potrebbe iniziare, per esempio, da una seria presa in considerazione dalla pubblicazione a cura di Walter Goldschmidt, The uses of Anthropology (Special Publication of the American Anthropological Association, n. 11, 1979), nella quale è presentato un ampio panorama delle circostanze, delle istituzioni e dei gruppi di decisione, all’interno dei quali la conoscenza antropologica è stata un importante elemento di riferimento per la presa delle decisioni. In questi casi si trattava dunque di un inserimento della conoscenza antropologica (identificabile come tale per il suo carattere riconoscibile di apporto scientifico) nel processo argomentativo che ha condotto a una decisione riguardante aspetti della vita sociale di gruppi umani. Come si vede, presentata in questo modo la situazione perde parte rilevante del carattere “peggiorativo”, e di “sospetto di danno per gli attori sociali”, che la semplice nozione di “uso” può portare con sé. Nella pubblicazione citata, tra l’altro, c’è un importante saggio del curatore del volume, W. Goldschmidt, dedicato alla necessaria interdipendenza tra “utilità” e “teoria” antropologica (“On the interdependence between utility and theory”, pp. 1-13). Nella stessa linea, ma con argomenti diversi, è una pubblicazione molto più recente promossa dalla National Association for the Practice of Anthropology, che insiste bene sulla necessità della “unità tra teoria e pratica” in antropologia, a beneficio reciproco (C. E, Hill, M. KL. Baba, Editors, The unity of theory and practice in anthropology: rebuilding a fractured synthesis, “NAPA Bulletin”, n. 18, 2000).

In termini più generali, si dovrebbe collocare tutto ciò che riguarda l’ “uso” dell’antropologia nel quadro più ampio della “circolazione del sapere antropologico al di fuori delle sue fonti di produzione”. Non c’è dubbio che l’ambizione dell’antropologia, come quella di ogni scienza che si rispetti, sia quella di dare un suo contributo alla società nel suo complesso, e a quelle azioni che potrebbe ricevere un apporto critico e costruttivo dalla conoscenza prodotta dagli antropologi. In questo senso, il primo e fondamentale “uso” dell’antropologia, intesa come produzione di un sapere specifico per mezzo della ricerca di campo e della riflessione conseguente, è quella dell’insegnamento universitario. In questo caso l’antropologo riesamina e risistema il suo sapere (quello prodotto direttamente da lui e quello risultante dagli studi e ricerche dei colleghi) in modo che possa essere comunicato agli studenti, e naturalmente con la convinzione che questo sapere possa produrre degli “effetti” (modificare delle idee preesistenti e influire sulla formazione generale e sulle future azioni pertinenti degli ascoltatori). Quindi, c’è già qui, nell’insegnamento, il primo elementare esempio di “uso” del proprio sapere.



[1] Questo articolo è una rassegna della letteratura esistente sull’etica della ricerca. L’autore ritiene che, in questo caso, siano più utili i riferimenti bibliografici inseriti nel testo piuttosto che in coda, in modo che il lettore possa avere a disposizione immediatamente le informazioni dettagliate sui lavori citati.