Darsi codici etici in antropologia

Riflessioni a margine del processo di adozione del codice deontologico della Società Italiana di Antropologia Applicata

Marco Bassi

Università degli Studi di Trento.

Table of Contents

 

Darsi codici etici
Il principio di responsabilità nel codice etico dell’AISEA
L’applicabilità del codice etico dell’AISEA nell’antropologia applicata contemporanea
La questione dei diritti intellettuali collettivi e il codice ISE
Note conclusive
Bibliografia

Abstract. Through review of selected anthropological ethical codes an attempt is made to outline the fundamental ethical principles of anthropological research and their applicability to current practices of applied anthropology. The Statement on Problems of Anthropological Research and Ethics was adopted by the American Anthropological Association in response to the need to take distance from military research after the Camelot scandal. Anthropology reacted stronger than other disciplines due to its methodology implying a relation of trust with the community. The Codice etico of AISEA defines the anthropologist’s obligations with different type of actors. In applied anthropology more attention should be paid to the relation with the financers of the research, due to possible conflict of interest between the latter and the concerned community. During consultancies anthropologists are today often forced into conditions that do not allow them to fulfil the obligations as stated in most deontological codes. Yet, giving up would cut the anthropologist out of the ongoing processes that have often a potential critical impact on the communities. The Codes of Ethics of ISE has allowed overcoming serious controversies by referring to procedural rights according to international law. It is suggested that reference to procedural and collective rights, appropriate international standards and best practices can provide an appropriate device to evaluate case by case the opportunity to engage, considering the overall field of relations rather that strictly focusing on the anthologist’s obligations which each actor independently.

Keywords: Applied anthropology; Deontological code; Research ethics; Procedural rights; Indigenous Knowledge.

L’esigenza dell’Associazione Italiana di Antropologia Applicata (SIAA) di dotarsi di un codice etico ha stimolato la riflessione su alcune importanti questioni etiche collegate alla ricerca antropologica.[1] La difficoltà maggiore sta nel rapido mutamento dei campi di interesse della disciplina, nella maggiore interattività dell’antropologo con diversi tipi di attori e nel conseguente mutamento degli approcci metodologici. La stesura di un codice che possa applicarsi alla molteplicità dei settori in cui operano gli antropologi applicati contemporanei appare dunque molto complicata. Nell’articolo si tenterà di contribuire al processo delineando i principi di base che sottendono ad alcuni codici etici selezionati per la loro valenza paradigmatica, e considerando alcuni dei nuovi contesti applicativi.

L’articolo prende le mosse dall’assunto che le questioni etiche in antropologia applicata non sono fondamentalmente diverse da quelle legate alla riflessione antropologica più generale, non essendo possibile tracciare una netta linea di separazione tra ambito pratico e teorico, specialmente in una disciplina in cui l’elemento primario di ricerca è costituito dalle persone e dalle comunità reali, con il loro modo particolare di essere e di interagire. Occorre tuttavia tenere conto che nell’antropologia applicata bisogna considerare più attentamente la relazione tra ricercatore e committenti della ricerca, considerando che in molte situazioni esiste un potenziale conflitto di interessi tra quest’ultimi e le comunità umane che dovrebbero restare la controparte privilegiata delle ricerche antropologiche correttamente impostate (Fluehr-Lobban 1998: 177-178). Le possibilità di rimanere imbrigliati tra interessi contrapposti aumentano nell’eventualità che gli antropologi vengano ingaggiati dal settore privato, spesso in team di ricercatori e in posizione subalterna, come nel caso frequente delle valutazioni di impatto sociale ed ambientale nel campo dell’industria energetica e mineraria. Nell’attuale situazione internazionale, caratterizzata da una larghissima estensione delle aree del mondo interessate da conflitto a bassa, media ed alta intensità, aumentano anche i casi di coinvolgimento di antropologi con apparati militari, in vari ruoli, e in situazione di conflict transformation. In questi casi le problematiche di ordine etico divengono ancora più complesse, in quanto le normali questioni dell’accountability verso i diversi attori coinvolti nell’azione di ricerca si intrecciano con il senso di appartenenza e la posizione ideologica del ricercatore, e i con le aspettative nei suoi confronti da parte della comunità identitaria di afferenza. I conflitti, infatti, portano a una radicale polarizzazione delle posizioni, che non può restare senza effetto là dove l’antropologo sia associato a una delle parti coinvolte.

Darsi codici etici

La riflessione etica caratterizza lo sviluppo di ogni disciplina ed è intrecciata alle questioni di ordine ontologico, metodologico ed epistemologico. C’è quindi da chiedersi perché, ad un certo punto, si senta il bisogno di trasferire una riflessione caratterizzata dalle forme sofisticate del discorso accademico nel linguaggio giuridico, per sua natura dogmatico e rigido. La necessità di adottare delle forme discorsive prescrittive evidentemente si presenta là dove si manifestano dei gravi problemi (Fluehr-Lobban, Rhode Island 2002). Un codice richiede il riferimento a un’autorità in grado di elaborare principi condivisi. Siamo, quindi, nel campo delle istituzioni, che, nel caso dell’antropologia, coincidono con le associazioni di studiosi, che evidentemente da semplici organizzazioni vengono ad assumere un ruolo istituzionale in virtù della funzione di rete e dell’autorevolezza dei loro membri, simultaneamente appartamenti alle particolari istituzioni accademiche di afferenza. Per questa valenza diffusa la portata dei codici antropologici trascende la loro mera applicabilità all’interno dell’associazione che li produce. A prescindere dall’effettiva capacità delle associazioni antropologiche di mettere in campo procedure di infrazione, i codici etici assumono l’importante funzione di fornire dei principi di auto-regolamentazione in un linguaggio che, pur essendo non-flessibile, ha il vantaggio di essere chiaro e non-ambiguo. È in quest’ottica normativa di ordine generale che devono essere letti, ed è in quest’ottica che devono essere elaborati. Pertanto, come accade nel campo del diritto internazionale, lo sviluppo dei nuovi codici non può prescindere dal riferimento ai codici già esistenti.

Il coinvolgimento di antropologi in attività militare e di spionaggio già dalla Seconda Guerra Mondiale ha costituito il fattore principale per l’adozione di codici etici in antropologia. Lo Statement on Problems of Anthropological Research and Ethics (AAA 1969) costituisce il riferimento più significativo di queste prime fasi, date le modalità di produzione del testo, la sua specificità normativa e il prestigio dell’American Antropological Association (AAA), l’organizzazione che lo ha adottato a grandissima maggioranza durante il Council of Fellows del 1967. La condizione di conflitto diffuso che caratterizzava l’epocapresenta alcuni elementi di analogia con la situazione odierna, pur nella differenza del quadro internazionale. Nel 1965 era scoppiata la controversia sul coinvolgimento di studiosi di varie discipline in progetti finalizzati a sviluppare conoscenze ‘di base’ nelle scienze umane per l’esercito USA. Il più famoso fra questi fu il progetto Camelot, nome in codice del progetto Methods for Predicting and Influencing Social Change and Internal War Potential, sviluppato nel 1964 in chiave interdisciplinare dal Special Operations Research Office (SORO), un’unità di ricerca militare da tempo impegnata in studi psicologici in situazione di guerra. Le finalità, strumentali prima ancora che applicative, sono di per sé evidenti. Al progetto hanno aderito studiosi delle più prestigiose università americane, ma fu duramente criticato da Johan Galtung ed altri studiosi basati in America Latina quando la natura militare del progetto è stata dischiusa. Dando seguito a una protesta formale inoltrata dal governo cileno, il Congresso Americano sospese nel 1965 il progetto, almeno a livello formale. Il dibattito sulla relazione tra accademia e militari continuò però a interessare la comunità accademica. Tra le diverse discipline la più critica fu proprio l’antropologia, che nell’ambito dell’AAA procedette con la formazione della Committee on Research Problems and Ethics guidata da Ralph Beals. Il Beals Report fu presentato nel 1966, e pubblicato nel Fellow Newsletter (Beals 1967). Tale rapporto venne a costituire la base per l’adozione dello Statement sopra menzionato. Alcuni anni dopo si svilupparono nuove controversie, anche per la scoperta da parte del movimento studentesco di documenti che provavano il coinvolgimento di alcuni docenti nella guerra del Vietnam (Hills 1987). La ‘controversia tailandese’ venne gestita dal 1970 dalla Committee on Ethics dell’AAA, sotto la direzione di Margaret Mead, ma non venne aperta nessuna indagine. La questione era talmente sentita che l’assemblea dell’AAA del 1971 finì per respingere ‘The Mead Report’, considerato troppo indulgente nei confronti degli antropologi coinvolti (Hills 1987). La vicenda nel complesso ha evidenziato l’inefficacia dello strumento della commissione etica come istituzione punitiva, cosa che ha portato l’AAA a sviluppare delle procedure specifiche nel 1973. La capacità effettiva delle associazioni di mettere efficacemente in campo delle procedure di infrazione resta tuttora molto dubbia.

Il coinvolgimento con istanze militari è stato dunque l’elemento che ha portato alla formulazione del primo importante codice etico in antropologia, anche se, naturalmente, l’AAA ha poi continuato a revisionarlo e ed aggiornarlo su varie questioni. Come noto, la Guerra Fredda era caratterizzata da una contrapposizione ideologica che si esprimeva nel confronto militare tra USA e Unione Sovietica, giocato sul piano simbolico sulla forza militare e l’armamento nucleare, ma con una componente di conflitto armato nei paesi in via di sviluppo per la definizione delle aree di influenza. Il sostegno o la repressione delle insurrezioni armate era uno dei principali strumenti strategici di un confronto militare che per forza di cose doveva restare indiretto. E’ ovvio che, in tale contesto, le comunità rurali con identità identitarie collettive costituivano un elemento di primaria importanza, sia in termini di allineamento che di eventuale repressione, condizione che rendeva la conoscenza antropologica particolarmente appetibile, e allo stesso tempo, eticamente molto discutibile. È proprio la potenzialità della repressione a essere delicata per gli antropologi più che per studiosi di altre discipline, in quanto la metodologia antropologica richiede coinvolgimento ed interazione diretta con la comunità, e la realizzazione di una relazione di fiducia e stima. Da tali caratteristiche emergono già nei primi codici due delle prescrizioni generiche che continueranno a caratterizzare le versioni successive, anche con riferimento ad ambiti diversi dal conflitto armato:

— responsabilità degli antropologi rispetto ai gruppi umani che studiano

— esigenza di consapevolezza dell’eventuale ruolo degli antropologi nei rapporti di dominazione e sfruttamento

Nelle versioni più recenti tali elementi vengono ulteriormente elaborati in relazione alle dinamiche globali, alla tematica dei diritti umani, alla proprietà intellettuale dei prodotti della ricerca, e alla gestione dei media e delle potenzialità di internet.

Il principio di responsabilità nel codice etico dell’AISEA

Per illustrare come la questione della responsabilità rispetto ai gruppi investigati sia affrontata nei codici etici contemporanei è utile prendere in esame il primo codice etico italiano, adottato nel 2000 dall’Associazione Italiana per le Scienze Etno-Antropologiche (AISEA). Il tema viene qui affrontato unitamente al principio dell’oggettività della ricerca, che, come vedremo nei prossimi paragrafi, nel tempo ha rivelato varie linee di possibile incongruenza rispetto al primo.

Sebbene adottato da un’associazione puramente accademica, il Codice deontologico dell’AISEA è già pensato anche in chiave applicativa, come emerge dal Preambolo:

In tal senso [le discipline antropologiche] ritengono opportuno che i rapporti con i soggetti studiati e l’eventuale utilizzazione delle ricerche nell’ambito di azioni pratiche, nonché le attività di produzione della conoscenza e la sua trasmissione e comunicazione all’esterno, vengano portati a compimento nell’ambito di un insieme di regole comportamentali (AISEA 2000).

Relazioni con i soggetti studiati, utilizzazione delle ricerche, produzione di conoscenza e comunicazione all’esterno – comprendendo tanto i media che la divulgazione scientifica – sono dunque i principali ambiti dell’attività antropologica che richiedono una regolazione normativa.

Nella sezione Principi Generali la responsabilità nei confronti della comunità studiata emerge chiaramente come una tra una molteplicità di relazioni centrate sull’antropologo:

Le norme specifiche di questo Codice riguardano i compiti e le responsabilità scientifiche, i rapporti con i gruppi sociali studiati e con gli informatori, con i committenti e i finanziatori, con i colleghi, con gli studenti, con il grande pubblico e i mezzi di comunicazione di massa (AISEA 2000).

Nel codice si specificano poi, in titoli separati, i compiti e responsabilità scientifiche del ricercatore, e i rapporti e le obbligazioni con i diversi tipi di attori che entrano in relazione con l’antropologo, per cui è possibile astrarre il seguente modello, a struttura concentrica sull’antropologo:

Tabella 1 - Schema delle obbligazioni con i diversi tipi di attori che entrano in relazione con l’antropologo

La presenza di attori multipli, tra cui anche le responsabilità astratte nei confronti della comunità scientifica, porta a considerare la questione in termini di accountability nei confronti di diverse tipologie di attori. In questo senso viene a costituirsi una gerarchia di responsabilità, in quanto l’antropologo può venire a trovarsi in una situazione di conflitto tra diversi ambiti di obbligazioni. Va da sé che il primo giudice della gerarchia dei valori in gioco è l’antropologo stesso, ma non ci sarebbe bisogno di un codice etico se non ci fosse anche la necessità di fornire una guida, se non oggettiva, quantomeno condivisa, al ricercatore-arbitro di se stesso. Il codice dell’AISEA, infatti, fornisce indicazioni al riguardo.

L’articolo 1 dei Principi Generali, è riferito all’atteggiamento culturale relativista:

Il rispetto per le culture diverse dalla propria deve essere principio fondamentale di orientamento della ricerca antropologica, soprattutto come principio di orientamento conoscitivo, secondo il quale la considerazione per una cultura che non si condivide deve prevalere sulle proprie posizioni e convinzioni personali. [….] (AISEA 2000).

Tale principio di rispetto per la cultura deve essere messo in diretta correlazione con le persone portatrici di tale cultura, come asserito nell’articolo 2:

Il rispetto per i patrimoni collettivi di idee e valori deve però accompagnarsi al rispetto per le persone (e anche per la natura, per gli animali e per i beni) [...] (AISEA 2000).

L’articolo 3 considera anche le maniere indirette con cui attraverso la ricerca si potrebbe recare danno alla comunità di studio:

Il lavoro di ricerca e le attività pratiche ad esso connesse devono essere condotti in modo da non procurare danni morali o materiali ad alcun soggetto sociale coinvolto, in particolare se si tratta delle popolazioni o dei gruppi umani oggetto di studio (AISEA 2000).

Nell’insieme, gli articoli 1, 2 e 3 stabiliscono i riferimenti normativi di più alto livello, riguardanti l’accountability nei riguardi della comunità.

Sempre nei principi generali seguono considerazioni sul rigore della ricerca e sul diritto alla riservatezza dei soggetti coinvolti.

Gli stessi temi sono affrontati nei titoli specifici. Con riferimento ai compiti e responsabilità scientifiche è sottolineato l’obbligo di impiegare un metodo rigoroso, unitamente alla consapevolezza della soggettività della ricerca antropologica, aspetto che si riflette sulle modalità discorsive attraverso cui si formulano delle conclusioni in ambito accademico, e sull’attenzione che deve essere posta nella comunicazione mediatica. Sempre sul piano dell’oggettività, questa è affrontata nell’articolo 8 nei termini di verificabilità, stabilendo il principio dell’accessibilità al dato, sempre subordinato all’esigenza di protezione degli informatori:

Egli assicurerà la possibilità di accesso ai dati e ai risultati del proprio lavoro a chi ne faccia motivata richiesta e ne garantirà la conservazione per eventuali usi conoscitivi futuri, tenendo nel debito conto i diritti di persone ed enti riconosciuti come degni di protezione dal nostro ordinamento giuridico e da questo Codice professionale in particolare (AISEA 2000).

L’articolo 10, il primo del Titolo sui Rapporti con i gruppi studiati e con gli informatori, ribadisce in modo esplicito i concetti dei Principi generali nello stabilire, con riferimento a ciò che viene in questo articolo qui definito ‘gerarchia nell’accountability’, la priorità sulla comunità studiata:

L’obbligazione primaria dell’antropologo è assunta nei confronti dei gruppi umani studiati, sia come insiemi di individui singoli sia come entità collettive. Il rispetto per gli interessi, le convinzioni, le suscettibilità e le aspettative dei gruppi studiati deve costituire un obbligo centrale durante tutto il periodo della ricerca, nel processo di pubblicazione dei risultati e anche dopo che questo si sia concluso [...] (AISEA 2000).

Possiamo osservare che il rispetto nei confronti dei gruppi studiati, posto in questi termini, costituisce un condizionamento sulla libertà di espressione e di giudizio dell’antropologo. Questo tema emerge in modo ancora più evidente nell’articolo successivo, in cui si richiede all’antropologo la capacità di prevedere in anticipo eventuali affetti avversi sulla comunità di studio derivati dalla sua ricerca:

Il ricercatore deve essere in grado di prevedere in anticipo gli effetti – sulla popolazione oggetto di studio […] – che i risultati del suo lavoro potranno determinare in termini di giudizi, commenti e azioni di terzi. Per tale ragione egli curerà con molta attenzione, nei suoi scritti scientifici derivati dalla ricerca, l’attribuzione esplicita a se stesso, […] di ogni interpretazione, spiegazione e commento che farà scaturire dai fatti sociali osservati e raccolti (opinioni di attori sociali, descrizione di eventi, etc.). Questa assunzione esplicita di responsabilità esterna, che salvi da responsabilità la società studiata e i suoi attori principali venuti a contatto con il ricercatore, costituisce un obbligo da osservare costantemente (AISEA 2000).

Prevedere in anticipo gli effetti della ricerca può comportare un’operazione aggiuntiva rispetto a quanto descritto nella seconda parte dell’articolo. Oltre all’auto-attribuzione delle interpretazioni per proteggere gli informatori, può infatti rendersi necessario non palesare alcuni importanti aspetti sociali, organizzativi o produttivi emersi nel corso della ricerca. Per esempio, in condizione di conflitto armato – come nei casi che hanno generato i primi codici etici – o ribellione potenziale – situazione comune negli etno-nazionalismi africani – non è opportuno rivelare i dati raccolti sull’organizzazione militare o su elementi chiave della sfera economica. Nei casi di resistenza civile a grandi opere infrastrutturali o di sfruttamento minerario – molto frequenti per i popoli indigeni – occorre evitare di smascherare le dinamiche decisionali interne. Prevedere effetti avversi implica condizionare le scrittura, quindi venire a una forma di compromesso con l’oggettività o la trasparenza scientifica.

Gli articoli successivi stabiliscono la necessità di ottenere l’autorizzazione preliminare dai gruppi e dagli informatori e il riconoscimento dei diritti intellettuali dei collaboratori, accennando anche alla questione dello sfruttamento economico collegato alle informazioni raccolte, una questione che, come vedremo nel prossimo paragrafo, si collega alla questione del sapere indigeno e locale e al patrimonio genetico.

Nel titolo dedicato ai rapporti con i committenti e i finanziatori il codice distingue tra enti preposti specificamente al finanziamento della ricerca accademica, per i quali stabilisce obblighi di riconoscimento da parte del ricercatore, e altri, per i quali invece stabilisce l’esigenza del vaglio attento della natura e finalità dei finanziatori o committenti:

Per quanto riguarda i finanziamenti ottenuti da Enti diversi da quelli di cui all'articolo precedente (Regioni, Province, Enti locali, Istituzioni private, Ministeri o Entità pubbliche di intervento pratico sulla realtà sociale, Organizzazioni Internazionali), i ricercatori dovranno mostrare di conoscere chiaramente - e tenerle nel debito conto - le finalità istituzionali (generali e specifiche) di ciascun ente finanziatore, la natura e i caratteri delle richieste esplicite e delle aspettative delle suddette istituzioni, gli spazi di libertà e di autonomia previsti dalle medesime per il ricercatore [....] (AISEA 2000).

La possibilità dell’esistenza di un conflitto di interessi tra la comunità di studio e i committenti o finanziatori è quindi pienamente considerata nel codice AISEA, che in questo caso implica, in virtù della gerarchia dei valori che stabilisce, la rinuncia alla ricerca, eventualità esplicitamente prevista nei Principi Generali del più recente codice etico dell’Associazione Nazionale Universitaria degli Antropologi Culturali (ANUAC 2010: Art. 2).

Il Titolo VI, dedicato ai Rapporti con il pubblico e con i mezzi di comunicazione di massa, ammonisce sulla necessità di adottare forme comunicative adeguate, e in linea con i principi di più alto livello, stabilendo anche la responsabilità del vigilare sul modo in cui gli apporti del ricercatore sono diffusi dai media.

L’applicabilità del codice etico dell’AISEA nell’antropologia applicata contemporanea

Sebbene le situazioni di applicazione dell’antropologia siano in qualche modo considerate nel codice dell’AISEA, ci sono alcuni elementi che ne limitano fortemente l’applicabilità nei più comuni ambiti applicativi contemporanei. Per illustrare tali punti farò riferimento a situazioni paradigmatiche, caratterizzate da opposti posizionamenti dell’antropologo. La prima riguarda quei casi in cui il ricercatore, in vario modo finanziato, si trovi al servizio di un’istanza importante per la comunità. In questo tipo di configurazione rientrano casi come quelli di antropologi che assistono comunità indigene in cause legali contro i governi, antropologi che partecipino a campagne di advocacy per comunità locali o indigene, o antropologi impegnati in processi di certificazione di prodotti locale o di implementazione di politiche pensate per favorire le comunità. E’ noto che in questi casi il ricercatore si può trovare di fronte a dissonanze tra l’intento pratico della comunità e le sue cognizioni sui processi culturali, in situazioni che vanno dal trovarsi di fronte a falsi storici a forme di forte reificazione culturale, essenzialismo o primordialismo (Piermattei 2007: 254-255). In questo caso l’accountability nei confronti della comunità di studio va a scontrarsi con il principio della correttezza scientifica. La definizione rigida di una gerarchia di principi non è quindi funzionale alle situazioni reali, in cui è necessario valutare la gravità delle diverse opzioni, articolare un giudizio basato su sfumature e che per questo non può che essere, in ultima analisi, soggettivo. Al riguardo è nota la posizione di Peter Brosius nell’invitare gli antropologi a guardare con più flessibilità all’essenzialismo dei movimenti ambientalisti e indigeni, misurandolo caso per caso sullo sfondo del gioco delle rappresentazioni e della produzione del discorso tra attori di diversa forza (Brosius 1999: 280-281).

Al polo opposto troviamo gli antropologi ingaggiati da società private, per esempio nelle valutazioni di impatto sociale e ambientale realizzate da agenzie di consulenza su commissione di compagnie minerarie o petrolifere. Sappiamo che questo è uno dei principali campi di attrito tra comunità indigene e pratica dello sviluppo. Sono, quindi, situazioni caratterizzate da un forte conflitto di interessi tra committenti e comunità locali, in quanto la compagnia ha una chiara finalità di profitto da realizzarsi attraverso l’ottenimento della fattibilità dell’opera. In questi casi di ingaggio da parte di compagnie private la relazione tra antropologo e committenti è generalmente fortemente squilibrata a svantaggio del ricercatore, ponendolo nell’impossibilità di rispettare le sue responsabilità etiche nei confronti del gruppo di studio. Le agenzie di consulenza richiedono inoltre per prassi consolidata di firmare un accordo di confidenzialità, per cui l’antropologo ingaggiato non ha possibilità di divulgare i dati che produce. Poiché il lavoro è spesso condotto in teams in cui raramente l’antropologo è in posizione di coordinamento, quest’ultimo viene a trovarsi in posizione del tutto marginale dal punto di vista del controllo sull’output di ricerca. Anche dal punto di vista mediatico l’antropologo è privo di mezzi, in quanto tale aspetto viene gestito direttamente dalla compagnia, dall’agenzia di consulenza o da consulenti ad hoc. La correttezza nei confronti del committente comunque impedisce prese di posizioni dissociate, quando queste non siano legalmente impedite dall’accordo di confidenzialità. Le stesse considerazioni sulla confidenzialità, sulla proprietà intellettuale del prodotto della ricerca, sul lavoro in team, sul controllo del prodotto della ricerca, e sulla gestione dei media vale per molte altre situazioni anche nel settore pubblico. È il caso di antropologi che partecipano a consulenze commissionate ad agenzie di consulenza dalle organizzazioni finanziarie internazionali, compresi gli approfondimenti che vengono spesso disposti in seguito a procedure formali di complaint inoltrati dalla società civile contro grandi progetti infrastrutturali, minerari ed energetici. Sono comunque sempre più frequenti i casi in cui le organizzazioni internazionali pongono condizioni di riservatezza sulla ricerca svolta e sui documenti che vengono consultati anche ai consulenti direttamente ingaggiati, particolarmente in situazioni di conflitto o di conflict transformation. La stessa pratica è oramai impiegata anche da molte agenzie di cooperazione bilaterale per i programmi di sviluppo ordinari. In pratica, nella maggior parte delle situazioni, le modalità di ingaggio determinano di per sé delle condizioni che non permettono all’antropologo di soddisfare i requisiti di correttezza nei confronti della comunità previsti dai codici deontologici. Se si applicassero pedissequamente le prescrizioni dei codici delle due principali associazioni accademiche italiane, AISEA e ANUAC, occorrerebbe, nella maggior parte dei casi, semplicemente optare per la rinuncia alla consulenza. Tuttavia, così facendo, gli antropologici sarebbero fondamentalmente destinati a rimanere fuori dai processi decisionali che più di tutti hanno impatti sulle vite delle comunità studiate, e che comunque andranno avanti con o senza il coinvolgimento dell’antropologo. Così il bagaglio di conoscenza delle comunità coinvolte e di esperienza di contesto dell’antropologo (Colajanni 2015: 130) resterebbe inutilizzato, o sarebbe al massimo spendibile nell’arena dell’antagonismo con esiti spesso incerti, sempre ammesso che il ricercatore disponga delle risorse e delle condizioni necessarie per l’impegno civile, comunque con il rischio citato di forzare la sua correttezza scientifica per fini strumentali.

Il dilemma illustrato è per certi versi irrisolvibile, se partiamo dal modello a raggera centrata sull’antropologo illustrato in tavola 1. Tale rappresentazione implica che l’antropologo abbia il controllo della relazione con ogni singolo attore, e che non esistano linee di connessione diretta tra i diversi attori che in qualche modo possono fortemente limitare la capacità di influenza del ricercatore. Nelle situazioni reali l’antropologo si inserisce invece in processi già esistenti, ed è in quest’ottica relativa che la sua azione, il fare o il non fare, deve essere valutato. Il problema è che la valutazione degli impatti di un possibile coinvolgimento in un processo in corso è un’operazione molto difficile. Se questa dimensione fosse considerata nel testo del codice, verrebbero introdotti elementi di complessità ed aleatorietà che aumenterebbero lo spazio del giudizio soggettivo e ne ridurrebbero di conseguenza la funzione regolatrice e normativa.

La questione dei diritti intellettuali collettivi e il codice ISE

La controversia sui diritti intellettuali collettivi è alla base dell’adozione di un codice etico molto avanzato da parte della Società Internazionale di Etnobiologia (ISE) (ISE 2006). L’ISE è l’associazione che raccoglie gli antropologi che più direttamente hanno a che fare con lo studio — e la diffusione — del sapere indigeno e locale, un ambito che, in modo crescente, presenta forti implicazioni commerciali. Fino agli anni ‘70 prevaleva il principio del patrimonio comune, sovranazionale, della diversità biologica, asserito in vari importanti trattati internazionali, tra cui la Convention for the Protection of the World Cultural and Natural Heritage dell’Unesco, e la United Nations Convention on the Law of the Sea. Tale impostazione ha permesso lo sviluppo delle banche genetiche (Brush 2003). L’avvento della bio-tecnologia e degli organismi geneticamente modificati ha prodotto un profondo mutamento di paradigma. I forti investimenti necessari per la ricerca nelle bio-tecnologie e la potenzialità di sfruttamento commerciale hanno portato molti paesi industrializzati a consentire la prassi della registrazione della proprietà intellettuale sul patrimonio genetico di piante e animali, principalmente per scopo medicinale, cosmetico e per l’agricoltura. Normalmente sono particolari sequenze genetiche a essere registrate, ma c’è anche il caso di interi organismi vegetali ed animali. Si è così passati progressivamente da una concezione pubblica del patrimonio genetico a una concezione privatistica. La Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD) del 1992 ha introdotto ancora un’altra dimensione, quella della sovranità nazionale, sulle risorse genetiche. La stessa convenzione riconosce però anche l’importanza del sapere indigeno e locale (art. 8j), e stabilisce che la raccolta delle risorse genetiche deve essere soggetta al prior and informed consent (art. 15).

Come noto, il sapere indigeno e locale ha caratteristiche di attribuzione collettiva, mentre il sistema internazionale per la registrazione dei diritti intellettuali è costruito funzionalmente a una concezione individualista o aziendale, in quanto richiede un ente dotato di personalità giuridica per intestare brevetti o copyrights. In aggiunta, nelle dinamiche di trasmissione intergenerazionali del sapere indigeno o locale è impossibile identificare il momento esatto in cui una particolare ‘scoperta’ sia stata fatta, che è esattamente l’elemento protetto nei termini della proprietà intellettuale. Come sottolineato da Posey, avviene che i ricercatori, inclusi gli antropologi, finiscono per divenire il tramite – spesso inconsapevole – attraverso cui il sapere indigeno viene dischiuso per essere poi ‘bio-piratato” dalle multinazionali con le capacità tecniche per sottomettere una richiesta di brevetto. Sono oramai molti i casi conosciuti per cui comunità indigene o locali che hanno selezionato particolari varietà vegetali o animali attraverso l’esperienza e la conoscenza accumulate e trasmesse nei secoli ne hanno oramai perso il controllo, o le comunità e esperti tradizionali che hanno perso le potenzialità commerciali di particolari erbe terepeutiche da loro usate da generazioni o addirittura coltivate in forme di semi-domesticazione (Posey 2002). Le disposizioni contenute nella CBD forniscono la premessa per introdurre forme di protezione, questione sulla quale dal 1998 lavora il Working Group on Article 8j istituito nell’ambito della CBD. Al momento non sono state identificate misure efficaci, tranne che per i pochi Stati che, sulla base della CBD, hanno adottato delle normative specifiche, che in alcuni casi hanno condotto all’arresto di ricercatori. Le organizzazioni dei popoli indigeni lavorano per identificare forme efficaci di protezione, e nel frattempo tentano di ostacolare la ricerca nei modi disponibili. È in questo clima conflittuale che l’ISE, attraverso un processo di partecipazione e dialogo condotto in vari forum nel corso di 10 anni, ha sviluppato il suo codice di auto-regolamentazione. L’ISE ha identificato delle soluzioni appropriate al problema anche in assenza di regolamentazioni specifiche, applicando i principi espressi nel diritto internazionale sui popoli indigeni, in particolare quell’insieme di disposizioni che vengono oggi qualificati in termini di ‘diritti procedurali’. Il codice etico dell’ISE elabora tali principi con riferimento alle pratiche della ricerca, identificando due momenti chiave, quello della pianificazione della stessa e quello della produzione dei risultati e della loro diffusione. Stabilisce, infatti, la necessità di negoziare con il gruppo locale o indigeno le modalità di implementazione della ricerca, da formalizzare con un accordo scritto. Questo comporta la necessità di ottenere il free, prior ed informed consent, secondo le modalità procedurali stabilite dalla comunità. Con riferimento alla produzione degli output, si assegna pieno potere alle comunità di vagliare le informazioni da diffondere, oltre naturalmente ai riconoscimenti di co-authorship. Nel codice si riconosce che la fase di negoziazione può essere lunga, che comporta costi aggiuntivi, e che può concludersi con un mancato accordo. Tale aspetto è particolarmente problematico date le modalità standardizzate di finanziamento della ricerca, aspetto richiamato nello stesso codice, invitando gli enti finanziatori a considerare tali esigenze e a prevedere la possibilità che il ricercatore possa non ottenere il permesso a procedere. Non è invece esplicitato un altro aspetto problematico del codice, ovvero la rinuncia da parte del ricercatore alla sua autonomia in termini di giudizio scientifico, con evidenti implicazioni per quanto riguarda la questione dell’oggettività. Accettando preventivamente di sottoporre il prodotto della ricerca alla comunità si ottiene la deresponsabilizzazione del ricercatore per eventuali conseguenze, ma il lavoro viene anche esposto a scelte e soluzioni intermedie, censure e intervento sui testi che sfuggono interamente alle regole della comunità scientifica.

Note conclusive

La difficoltà di elaborare un codice etico per l’antropologia applicata sta nella varietà delle situazioni nei quali un antropologo applicato può trovarsi. Non ci possono essere dubbi sul fatto che, data la natura del lavoro antropologico, la priorità vada data, come da tradizione consolidata, alla comunità di riferimento della ricerca. Abbiamo visto come nel codice etico dell’ISE questo aspetto sia decisamente preponderante e fortemente normato, ma anche come tale elemento possa creare dei compromessi con riferimento all’autonomia di giudizio del ricercatore. Il codice ISE risponde alle esigenze di un settore particolare, caratterizzato da una propria storia, ma non potrebbe funzionare con riferimento alla maggior parte delle situazioni che vedono antropologi impegnati nel settore privato, con organizzazioni internazionali o nel settore pubblico. Indica comunque una direzione ben precisa, che è quella del rigido rispetto del diritto internazionale di terza generazione, riassumibile nei termini dei diritti collettivi e procedurali. Ed è probabilmente seguendo questa via, quella del riferimento al diritto internazionale e agli standards internazionali a esso collegati, che è forse possibile elaborare un codice etico adatto all’ambito applicativo che tenga conto, se non di tutte le possibili condizioni, quantomeno della maggior parte di esse. Ogni contesto, ogni processo in cui l’antropologo opera è caratterizzato da una riflessione nei termini del diritto internazionale, ovvero da disposizioni che si applicano all’insieme degli attori coinvolti. L’antropologo può non essere nella posizione di controllare tutti gli elementi in gioco, di gestire la relazione con ognuno degli attori con cui entra in contatto, ma può valutare se il suo coinvolgimento può spostare il processo nella direzione dell’adozione di principi e di procedure favorevoli alla comunità, e se vengono implementati in maniera corretta. Per esempio, le organizzazioni finanziarie internazionali dispongono di varie direttive procedurali applicabili ai diversi contesti, come la World Bank’s Indigenous Peoples Policy (OP/BP 4.10), o varie disposizione sul forced displacement. Essendo i principali finanziatori delle grandi opere infrastrutturali ed energetiche, l’adozione di standards di consultazione favorevoli alla comunità, l’individuazione di forme appropriate di implementazione e la vigilanza sulla loro applicazione sono ambiti nei quali un antropologo può performare meglio di altri esperti. Nel settore privato esistono numerosi codici di autoregolamentazione. Molti di questi contengono disposizioni relative alla fase di pianificazione di un progetto, spesso integrate alla valutazione di impatto sociale ed ambientale. Molti di tali codici di autoregolamentazione sono in linea con il diritto internazionale. Per esempio, per evitare critiche da parte della società civile, nel campo dell’estrazione mineraria e petrolifera le compagnie possono adottare i Performance Standards on Social & Environmental Sustainability dell’International Finance Corporation (Gruppo World Bank), anche quando i progetti non sono direttamente finanziati da tale ente. Tali standards prevedono, tra gli altri elementi considerati, procedure particolari nel caso di comunità indigene o per il patrimonio culturale. In altri settori collegati alla cooperazione e alla conservazione della bio-diversità sono stati elaborati vari tipi di best practices, condivisi, oltre che dagli antropologi, anche dagli altri attori del campo di interazione.

Dare peso ai diritti umani nell’ambito del codice etico richiede di riconoscere che l’antropologo applicato è solo un attore tra tanti, e che occorrono riferimenti condivisi al di fuori della cerchia antropologica. Occorre anche superare la tradizionale riluttanza dell’antropologia per l’universalismo dei diritti umani. Il recente sviluppo dei diritti di terza generazione, quelli riferiti ai diritti collettivi e procedurali, ha introdotto una forte dose di relativismo anche in questo campo, come ben illustrato dal codice ISE.

La questione degli antropologi impegnati in aree di conflitto appare, invece, forse più problematica oggi di quanto non lo fosse nel secondo dopoguerra. La dissociazione operata dall’antropologia durante la guerra fredda può essere attribuita, oltre che alle caratteristiche metodologiche, anche alle simpatie ideologiche di almeno una parte del pubblico, quindi all’esistenza di una sostanziale libertà di posizionamento da parte dei ricercatori. Con la caduta del muro di Berlino il conflitto si è manifestato lungo linee etniche, e si è poi polarizzato globalmente su categorie di carattere prevalentemente religiose. Il discorso sui diritti umani si è intrecciato in modo complesso a processi di legittimazione del conflitto e alle scelte di politica internazionale. In tale situazione la collocazione identitaria dell’antropologo, la sua relazione con i diversi attori e il richiamo ai diritti umani non appaiono per niente scontati e possono richiedere una profonda ridefinizione epistemologica della pratica antropologica.

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[1] Questo articolo si basa su una presentazione effettuata durante la sessione “Etiche della ricerca in antropologia applicata” del III Convegno SIAA, 2015.