Etnografia di un reparto psichiatrico

Per un ripensamento dell’antropologia come scienza responsabile

Chiara Dolce

Università degli studi di Cagliari.

Table of Contents

 

Un’antropologa in un reparto di psichiatria
Storia di vita di A.
Osservazione sul campo della "presenza malata"
Dilemmi etici intorno all’antropoanalisi di matrice heideggeriana
Storia di vita di E.
Dilemmi etici intorno alla natura personale dell’uomo
Carenza di strumenti etici nell’antropologia culturale
Bibliografia

Abstract. Anthropology is overall a scientific and unethical system. However its scientific nature can not ignore the ethical tension proper to man, in whose nature is already inscribed the judgment on himself and on the world, where every judgment, as the etymology suggests, is "pronunciation of judgment" towards what is judged, therefore implying an act of responsibility. Just with this assumption of responsibility I had to deal in the summer 2013, when I observed some patients at the psychiatric ward of the Civil Hospital of Sassari, determined to grasp concretely the nature of the human person from the theory of Ernesto de Martino. The clash between theory and practice that has occurred as a result of this observation, generated from my dissent to recognize the mental patient as a non-person and at the same time, paradoxically, from my full recognition of madness as non-value, after some time has become an opportunity for a critical rethinking of anthropological science and its methods, in order to prevent any damage against the subject of research and to stimulate a more responsible participation in the integral knowledge of the human being.

Keywords: Ernesto de Martino; Person; Schizophrenia; Bipolar Disorder; Interdisciplinary Approach.

“Ho deciso allora di conoscere la sapienza e la scienza,

come anche la stoltezza e la follia”

Qoèlet 1, 17

Un’antropologa in un reparto di psichiatria

Nell’estate 2013, già impegnata in un dottorato di ricerca dedicato allo studio dell’“ultimo” de Martino e allo sviluppo della sua “filosofia della presentificazione” (proposta di riforma dell’antropologia incardinata sul processo umano di trascendimento della vita nel valore), decidevo di osservare sul campo alcuni malati gravi ricoverati presso il reparto Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura (SPDC) dell’ospedale di Sassari “SS Annunziata”. Intendevo cogliere e studiare dal vivo un problema che nella mia ricerca si poneva come irrimandabile per la comprensione del meccanismo di fondazione della storia, del mondo-della-cultura: l’annientarsi e il riformarsi della “presenza” umana (della umana capacità di presentificazione morale), secondo la ben nota speculazione a riguardo dello studioso napoletano. Dall’analisi teorica degli scritti di de Martino, infatti, mi riusciva difficoltoso comprendere secondo quale principio l’emergenza dell’uomo dalla natura all’orizzonte storico, quell’esser-ci come presenza mondana in fieri riplasmante il piano vitale nel piano del valore, potesse disfarsi e ritornare alla cultura in modo autonomo; men che mai comprendevo cosa restasse nell’uomo al dileguarsi della presenza, in cosa insomma consistesse questo sub-uomo quando “smetteva” di farsi presenza per divenire un’assenza incapace di valore culturale. Mai avrei immaginato, ad osservazione avvenuta, di scontrarmi con problemi etici e deontologici tanto più grandi della mia capacità di comprensione e risoluzione, destinati a stravolgere (ad ampliare, tutto sommato) in un certo senso la struttura del mio lavoro di ricerca. Ebbene, per conoscere il dilemma cui accenno, è doveroso esporre in sintesi i punti salienti delle mie rilevazioni etnografiche. Trarremo poi le necessarie impressioni teoriche.

Il 9 luglio 2013 ebbe inizio l’osservazione. Su richiesta del primario del reparto, condussi l’indagine con un camice bianco uguale a quello dei medici strutturati e specializzandi per non destabilizzare i malati, per i quali io apparivo una ordinaria “collega” degli psichiatri. Il reparto, rigorosamente chiuso a chiave rispetto al resto dell’ospedale, era diviso in due sezioni, la maschile e la femminile, comunicanti con una porta di separazione, spesso aperta. Ogni giorno fra i ricoverati potevo osservare, a cominciare dal giro visite a cui anch’io partecipavo, le manifestazioni psichiatriche più distanti tra loro, dalla grave depressione con intensa lucidità della propria situazione (coi casi di tentato suicidio), passando per la schizofrenia lieve di chi conduceva un’esistenza apparentemente normale ma cronicamente segnata da un delirio specifico (es. essere spiati dalle finestre di casa propria) alla crisi maniacale del bipolare grave – la follia vera e propria, secondo alcuni medici del reparto – di chi drammaticamente perdeva la capacità di parola e statura eretta, primordiali trascendimenti per eccellenza dell’animale umano, in una sorta di retrocessione dalla cultura alla natura (avrebbe detto de Martino) che si esprimeva in grida scomposte e movimenti incontrollati. I malati di questo tipo erano contenuti in due camere a parte da un posto letto ciascuna, l’una maschile e l’altra femminile, alla cui porta era incastonato un oblò da cui monitorarli. Tra tutti i casi osservati, particolarmente utili nell’economia del discorso che qui presento furono quelli di due donne, A. ed E., la prima in senso lato schizofrenica (con “diagnosi mista”), l’altra bipolare in acuta crisi maniacale, dove ai miei occhi l’una (A.) andava a illuminare e l’altra (E.) a problematizzare la portata euristica della nozione di presenza rispetto alla complessità della natura umana. Ripensando alle loro “patografie”,[1] ripercorrendo queste dolorose vicende con le audioregistrazioni lì raccolte ormai quasi tre anni fa (custodivo un registratore nella tasca del camice), la rilettura dei miei appunti, lo studio delle cartelle cliniche gentilmente concessemi dal reparto, rivedo in E. e A. due manifestazioni di un medesimo male umano, disperate richieste di salvezza da uno stesso rischio morale: la perdita della libertà, dove E. ne esprimeva lo stato estremo, che in de Martino ultimamente coincide col vissuto di crollo storico-mondano, ed A. quello cronico della “presenza malata”, col patologizzarsi dello slancio presentificante, monitorato oltre il suo ricovero mediante un lungo rapporto epistolare.

Storia di vita di A.

La vicenda di A. pareva incarnare pienamente e senza particolari problemi etici o epistemologici da parte mia la concezione demartiniana sulla follia, con i suoi vari gradi di discesa e risalita al piano morale dell’esistenza. Era una giovane violista di 35 anni, nata e cresciuta a Porto Torres. Paziente con storia di disturbo bipolare, delirante e di personalità e una lunghissima serie di ricoveri alle spalle, quel mese fu ricoverata con diagnosi di scompenso psicotico, dopo aver sospeso volontariamente a casa sua terapia e alimentazione. Sia a livello fisico che mentale, A. nei primi giorni di ricovero portava avanti la sua esistenza con rigidi ritualismi, come il camminare avanti e indietro contando l’esatto numero di passi e mattonelle per l’andata e per il ritorno del corridoio percorso; oppure il rispondere ad ogni mia domanda con ciò che definiva “il gioco del sì e del no”: prima di rispondere andava a verificare, contando ritmicamente le nocche delle mani – dove ogni nocca alternativamente era il sì e l’altra il no – se la sua risposta potesse corrispondere o meno a verità. Il dialogo con lei era scarsamente instaurabile e la sua iniziativa ridotta al minimo, comunque appoggiantesi a protezioni ritualistiche. Nei giorni appresso, col supporto della terapia farmacologica, A. smetteva di proteggersi nel ritualismo stretto, che pur manteneva per buona parte della giornata (specie quello fisico perché, diceva, aveva “bisogno di spazi”). La giovane soffriva essenzialmente d’amore: non accettava il fatto, accaduto anni prima, di essere stata costretta dalla famiglia a lasciare, dopo un lungo fidanzamento, il suo amato M. (oggi sposato con un’altra donna), da cui diceva di aspettare un figlio, ritenendosi gravida da anni. A questa decisione non superata, se ne aggiunse presto un’altra: l’abbandono del conservatorio durante il settimo anno di frequenza, voluto dalla famiglia nella convinzione che fosse stata la musica – e non la rinuncia d’amore – ad averla danneggiata nell’equilibrio psichico. A. si appigliò miseramente alle “difese improprie” della malattia psichiatrica, che da allora divenne il suo unico modo inautentico di stare nella storia; una storia, la sua, già scarsamente integrata negli affetti familiari (parlava e scriveva spesso di una madre “di ghiaccio”) ed ormai priva di quegli amori più grandi che sorreggevano la sua patria domestica: il suo M., lo studio della viola. Nell’occasione in cui la conobbi, A. aveva smesso di mangiare dopo aver visto in televisione scene di bombardamenti, e per via del dilagare ovunque delle bombe scelse il rifugio dell’ospedale, in attesa di essere salvata dai musicisti. Particolarmente interessante era, in proposito, il suo modo di concepire l’orchestra, come un immenso, universale sistema di salvezza: l’orchestra, che diceva essere la sua famiglia, era una trionfante e potente gerarchia, dove ognuno all’interno aveva un posto preciso da cui proteggere qualcuno e, a sua volta, venire protetto da qualcun’altro. A. ne occupava il posto di II viola. Tutti i musicisti del mondo avevano la caratteristica inalienabile di esser “buoni”; questi pagavano le medicine per A. malata, perché “quando un solo musicista soffre, tutti i musicisti soffrono”, così quando un musicista si ammala –lei diceva- è l’orchestra che provvede alle cure. La giovane non evocava direttamente la “fine del mondo”, tema caro a de Martino specie in riferimento all’apocalisse psicopatologica; parlava invece esplicitamente di “salvezza mondana”: nel suo delirio, l’orchestra era ciò che avrebbe salvato il mondo, così i musicisti, lei diceva, “ci” avrebbero salvati tutti. Inoltre, si attribuiva azioni eroiche: era chiamata a circumnavigare il mondo, era una scienziata che avrebbe scoperto il farmaco per salvare tutti (mi suggeriva spesso bizzarre indicazioni mediche), era una politica che avrebbe riscattato il mondo dalla povertà e dalla fame; soprattutto, ripeteva di avere sangue blu, dichiarandosi “nobile non riconosciuta”. Stare con A., parlare e vivere qualche ora del giorno in reparto con lei, mi dava sempre l’impressione di imbattermi in un presente fermo, arenato, bloccato; come se un continuo passato risucchiante lo scorrere del tempo storico la contenesse, e me con lei, in un reiterante tempo fittizio, fatto delle solite cose che morbosamente ritornavano: M., i musicisti salvatori, il bombardamento, il sangue blu, la gravidanza, eccetera. Specialmente al principio della mia osservazione, sentivo sempre forte il bisogno di evadere da quel reparto e consentire alla mia vita di scorrere, finalmente e liberamente, nel tempo storico che lì avvertivo come congelato, compresso. Nonostante, poi, fosse la paziente con cui passavo la maggior parte del tempo e tentavo con più riguardo di instaurare una quanto più profonda confidenza, perfino quando A., nei momenti più lucidi, denunciava a me la sua angoscia, pur manifestandola minuziosamente e con intense metafore, notavo come non condividesse alcuna cosa con me, restando la sua logorrea costantemente autoreferenziale e il suo discorrere senza reciprocità: di me nulla sapeva e nulla domandava; il suo passato esauriva ogni esperienza, ogni novità del presente o promessa di futuro.

Osservazione sul campo della "presenza malata"

Ora, la storia di A. appariva ai miei occhi un interessante caso di “presenza malata”. Per comprendere ciò, devo contestualizzare le mie riflessioni in un discorso più ampio legato alla nozione demartiniana di trascendimento (o intenzionamento) della vita nel valore intersoggettivo, processo peculiarmente umano. Ebbene, la condizione umana per de Martino è universalmente un “distaccarsi da”, un superare la ripetizione animale nella distinzione morale, un inesauribile e intrascendibile oltrepassare la natura nella norma culturale, distacco dotato di valore che mai si riduce ad una cospirazione “contro natura” includendo tale sforzo la natura stessa «onde nella valorizzazione e per essa la persona “esiste”» (de Martino 2005:17). Mettiamo da parte la radice ontologica del principio personale e diciamo che la persona si manifesta nella storia come ex-sistenza (“trarsi da”), dove l’esistenza è la presenza, il processo doveroso di presentificazione storico-mondana oltre l’immediata vitalità animale: il singolo uomo di per sé non è già presenza ma deve farsi processualmente e mediatamente “presente nel mondo” (l’eticità del dover essere “valore mondano” in de Martino esaurisce il problema dell’ontologia dell’essere), in uno sforzo di apertura intersoggettiva alla storia; trascendimento sempre scongiurante, situazione dopo situazione, il rischio di perdere il mondo della storia, la capacità di distacco dalla vita col valore, l’altro-da-me, in regressione verso il naturale indistinto. Nell’uomo la vitalità non è mai meramente animale ma già presenta questa “educazione ulteriore” ed il valore già implica l’apertura agli altri, in quanto intrinsecamente intersoggettivo. Il presentificarsi, così, implica per de Martino che ogni persona è universalmente chiamata: ad assolvere un imperativo etico, dato dal suo “doversi distaccare da” (che in quanto dovere, e non meccanica necessità, implica la libertà); e ad arginare un rischio estremo, in caso di fallimento di questo “dovere”, col pericolo del ritorno – comunque conseguenza della libertà – a quel piano di solitudine e silenzio (la vita animale e vegetale incapace di rottura col piano biologico, quindi non intersoggettiva) da cui ogni distacco personale doverosamente si trae. “Io non debbo mai essere solo”, questo «l’imperativo etico fondamentale che fonda la mia persona, e che al tempo stesso fonda la intersoggettività delle mie distinte valorizzazioni della vita, del mio continuo trascendermi nel valore» (de Martino 2002: 601). L’umanità tende all’“oltre” della universalizzazione. Ed infatti «linguaggio, comunicazione intersoggettiva, esprimibilità e pubblicizzazione del privato, continua auscultazione e interiorizzazione del pubblico» (de Martino 2002: 668): tutto ciò non si aggiunge alla presenza ma la fonda «e la mantiene e la svolge, costituendo la sua stessa “norma” che la rende “normale”» (de Martino 2002: 668). Quanto al rischio estremo a cui la persona universalmente resta soggetta, quello di farsi “assenza” se lo sforzo al trascendimento è vinto dalla vis inertiae della “pigrizia” vitale, c’è da dire che per de Martino nessuna presenza è data una volta per tutte, dove «il rischio di perdere il mondo (e l’esserci-nel-mondo) è la crisi della crisi, la catastrofe della persona come della vita culturale» (de Martino 2005: 171). Proprio e soltanto in virtù di questo doveroso, molteplice e continuo distaccarsi dal piano vitale, la persona emerge come presenza nel mondo storico secondo «una strutturazione gerarchica del decidere, un concentrarsi in una forma di valorizzazione piuttosto che in un’altra, e il far recedere le altre decisioni meno impegnate, ma non mai del tutto senza “impegno”» (de Martino 2005: 4): devo anzitutto presentificarmi secondo un distacco ovvio e familiare che una volta appreso poi darò per scontato (si pensi ai trascendimenti quasi automatici come il camminare), quindi emergere con iniziative decisionali più impegnative (il ragionare su qualcosa, ad esempio un calcolo matematico), le quali appunto “emergono” nel loro impegno cosciente ed egemone proprio e solo in virtù di un ovvio e “scontato” orizzonte patrio (posso ragionare mentre cammino, ad esempio). Tuttavia, a proposito di questa pluralità e inesauribilità mondana, la persona resta la medesima pur nel suo compiere miriadi di “opere che valgono” in quanto la sua «unità “data” è tale in quanto “risulta” dal decidere» (de Martino 1995: 101). Ne consegue che il mio “non decidere” –si pensi alle mancate decisioni di A. – comporti a vari gradi il rischio di disgregazione della mia unità. Notavo come l’incapacità, da parte di A., di emergere come “presenza sana” nel mondo, secondo un continuo sforzo di riunire nella sua attualità «le memorie e le esperienze necessarie per rispondere in modo adeguato a una determinata situazione storica, inserendosi attivamente in essa mediante la iniziativa personale» (de Martino 1995: 116), si radicava nell’esperienza dolorosa di situazioni “ovvie” che mancavano di essere oltrepassate nel valore. La gerarchia del mondano decidere era per lei un problema gravoso e non più fisiologia dell’esistere e si riversava in tutta la sua problematicità nella metafora dell’orchestra, nuova psicotica patria che in lei era appunto “famigliare” e gerarchica, ma che la salvava solo inautenticamente in quanto soffocava lo scorrere storico e la reciprocità relazionale. La storia di A. mi ricordava in modo impressionante la nota vicenda del contadino bernese schizofrenico colpito dal delirio di “fine del mondo”[2] con cui de Martino implicitamente rivela come l’anelito alla salvezza morale sia esigenza intrinseca alla condizione umana che come tale aborre il nulla vitale. Anche in questo malato si instaura l’esperienza di una “sovrapotenza” del nulla, della morte, di un abisso risucchiante, del male, al pari dei bombardamenti sofferti dalla giovane A.:

Come esistenza ascendente siamo partecipi alla libertà, respiriamo nelle possibilità del futuro. Se però l’uomo non può più vivere questa emergente esistenza per il futuro “la vie ascentionelle et surgissante” – com’è appunto il caso del nostro malato –, allora il suo Dasein perde il saldo fondamento. L’elemento terrestre materno si mostra nel suo temibile aspetto di morte come abisso risucchiante. L’uomo cade preda dello Spirito di Pesantezza e delle Tenebre, deve precipitare, e si abbandona all’abisso del nulla. “Tout ce qui s’abaisse partecipe au néant”. Il restar esposto ai richiami dell’abisso riesce in una perdita del “poter essere”, e in un cadere in un isolamento sciolto da tutti i rapporti col mondo (Stork, Kulenkampff in de Martino 2002: 203).

Come la giovane violista che si autoproclamava scienziata, politica, nobile, il giovane contadino tentava miseramente di rispondere a questo “nulla” incombente con l’assumere su di sé i vani caratteri e comportamenti di un “redentore del mondo”, di un “salvatore degli uomini”. «Ma poiché il salvatore non era a sua volta “su suolo saldo”, l’operazione salvifera aveva conseguito risultati limitati e precari ed era sostanzialmente fallito il proposito di porre fine al malefizio di questo risucchiante sepolcro spalancato, ricomponendo l’appaesato scenario della vita» (de Martino 2002: 208). In tale prospettiva la follia, dramma esclusivamente umano in quanto abdicazione di ciò che fa uomo l’uomo (il trascendimento della vita nel valore), per de Martino è l’invertirsi di segno dell’imperativo etico, che viene soddisfatto solo e soltanto se “funziona” l’orizzonte patrio a cui poggiarsi per potersi sollevare con la propria iniziativa morale. Ed infatti, «coloro che, nella loro vita, hanno memorie anguste di comportamenti efficaci e una pesante eredità di scacchi subiti, di momenti critici non oltrepassati, sono presenze fragili, esposte alla crisi radicale» (de Martino 2002: 662). A. appunto, mancando di decidere entro il valore gli scacchi subiti, restava “impigliata” ad un passato non oltrepassato, quindi passava con esso, senza più capacità di divenire storico, ma rimanendo intrappolata in un presente sempre uguale, dove lei appunto era “gravida da anni”, attendeva la salvezza dai musicisti, era una nobile non riconosciuta, etc. Quella sorta di “retrocessione” alla ripetizione naturale non intersoggettiva, propria del suo ritualismo irrelato, era appunto atta a “bloccare” la storia con le sue sempre faticose decisioni divenienti, laddove «il ritornare dell’identico è il modo più economico di divenire» (de Martino 2002: 223), quell’imitatio naturae che nel malato mentale può giungere al caso limite della “scarica meramente meccanica” di energia psichica. È, questo, il diabolico trionfo della natura sulla cultura, la totale egemonia nell’uomo della vita sul valore, la perdita degli altri, della libertà. Ma tra questo “modo estremo” e la “presenza sana” vi è – come il caso di A. – tutta una serie di inautenticità “di mezzo” (di perdite graduali dell’orizzonte domestico intersoggettivo) che si colloca tra valore e natura, drammaticamente vissute dalla “presenza malata”:

Presenza malata significa -in generale- presenza che una volta, in qualche determinato momento critico dell’esistenza, ha rinunziato a farlo passare, risolvendolo nel valore, ed è invece passata con esso. Ogni contenuto critico sta per la presenza in quanto trasceso nella oggettivazione formale, e ogni presenza si mantiene rispetto a un contenuto critico nella misura in cui dispiega il suo margine formale di trascendimento: ciò significa che una presenza caduta in crisi di oggettivazione o di trascendimento passa essa stessa in luogo di far passare, perdendo se stessa nel contenuto e il contenuto in se stessa, ed entrando pertanto in una contraddizione esistenziale che manifesta vari modi di profonda inautenticità (de Martino 1958: 25).

Dilemmi etici intorno all’antropoanalisi di matrice heideggeriana

La presenza malata di A., col suo egotismo problematico e chiuso alla pubblicità del presente, mi diede l’occasione di “giocare” con la crisi, di studiare il rapporto follia/cultura. Sulla base del presupposto teorico avanzato da de Martino per cui senza l’ovvietà di una “patria domestica” non è possibile risalire alla libertà della scelta morale, decisi di “restituire” alla giovane quell’unico orizzonte domestico, “suolo saldo”, che insieme potevamo condividere: quello musicale, con la speranza di cogliere anche minime iniziative morali, che di fatto constatai. Provavo a comprendere sul campo il ruolo dell’antropologo, individuato da de Martino, come “clinico della cultura”, col primario compito di dover contribuire a distinguere nei fatti culturali umani la normalità dalla follia, quindi, «individuare la “fisiologia” e la “patologia” del finire: distinguere cioè i due momenti» (de Martino 2002: 335), quali il rischio della fine senza orizzonte e la risplasmazione della fine in un nuovo inizio mondano. Così, il valore euristico dei vissuti psicopatologici ai miei occhi acquistava fondamentale peso scientifico circa lo studio della persona poiché, questa, non “astrattamente sana” ma processualmente impegnata a farsi sana, un evento dinamico che coinvolge immediatamente la volontà culturale di ogni uomo. A. con il ritorno al solfeggio parlato e cantato, sempre supportata dalla terapia farmacologica che inibiva il suo barricarsi in deliri psicotici, riusciva ad impedire che in lei la natura trionfasse definitivamente sulla cultura, conducendo una sofferta e intermittente battaglia tra vita e valore, che ho avuto modo di osservare dagli stati più acuti di angoscia rituale alle sue più raffinate “impressioni morali”: così da rivelarmi che quando suonava “si apriva l’anima”, o del suo timore per la dimissione poiché fuori dall’ospedale era “la notte dei cristalli”. Spesso interrompeva il solfeggio cantato per il troppo “dolore al cuore”. Una volta dimessa, la incoraggiai a ricominciare lo studio della viola. Fu durante un breve “concerto” di viola eseguito per me invitandomi a casa sua (unica volta che vi andai) che, protetta dall’esecuzione sonora, bisbigliò senza guardarmi e chinando la testa dietro l’archetto: “A. amava M., M. amava A.”, per poi proseguire il brano e, conclusolo, ribarricarsi dietro un parlare anaffettivo e un muoversi stereotipato. Il mio lavoro con lei non ebbe seguito da quel giorno, in quanto la famiglia di A. non approvò il ritorno allo studio musicale della giovane.

Osservare l’impotenza morale di A. rafforzava in me la condivisione, con de Martino, del rifiuto della posizione antropoanalitica per la quale la follia è un valore ed il folle ha un mondo. In A. la capacità di intenzionamento appariva ripetutamente deformata da quel passato d’amore mancato che tornava e ritornava come sintomo. Tratta dal Dasein di Heidegger (al medesimo tempo, “poter-essere” ed “essere gettato”), secondo la Daseinanalyse l’alienato mentale ha comunque un mondo, è a suo modo libero per entro il patologico; posizione, questa, respinta da de Martino in quanto la libertà umana, che è «scelta di una fedeltà particolare al già deciso da altri […] come continuazione del loro decidere nella nuova irripetibile situazione singola» (de Martino, 2005: 154), non è esercitabile senza apertura intersoggettiva, specie laddove la rottura con la natura sia ancora problematica. Ragionevolezza che io stessa confermai sul campo, dove A. ai miei occhi non appariva una Weltbildend: né autentico dialogo né iniziativa personale né responsabilità sul presente o sul futuro erano, in quello stato patologico, realmente osservabili. Pure se ogni mattina, al mio arrivo in reparto, la giovane mi salutava sorridente chiamandomi per nome (entusiasmo che perfino si tradusse nella richiesta ai medici strutturati di proseguire con me la terapia psichiatrica, ignara della mia identità di studiosa) e cominciava le sue lettere col solito “Dottoressa, come sta?” quasi a voler conoscere qualcosa di me, mai riuscii, in tutte le nostre conversazioni scritte e orali ad entrare anche solo di poco con la mia vita nella sua vita. La reciprocità era azzerata. Ed infatti, alla mia improvvisa interruzione epistolare con lei – atta a verificare se la malata reclamasse un qualche rapporto – non ci fu alcuna reazione. Se per mondo qui intendiamo l’orizzonte patrio intersoggettivo, per de Martino non può esistere il mondo dello psicotico, un qualche valore della follia, poiché la follia è per eccellenza «insidia fondamentale alla libertà» (de Martino 2002: 223), depresentificazione e demondanizzazione: è essenzialmente malattia del trascendimento e non epifania culturale. Questa posizione allontana criticamente lo studioso da psichiatri e filosofi come Binswanger, Minkowski, Storck secondo i quali l’esserci-nel-mondo si manifesta anche nel modo psicopatologico, tale che «l’esser malato diventa, in questa prospettiva, l’esser diversamente. Ma è poi legittima questa contemplazione della struttura prescindendo, sia pure temporaneamente, dai giudizi relativi alla sanità e alla malattia?» (de Martino 2002: 169). de Martino, è cosa nota, allontanandosi dalla posizione heideggeriana trovò “conforto” nell’esistenzialismo positivo italiano (Paci, Abbagnano, Pareyson) e nello storicismo di Benedetto Croce, così da poter assumere l’esistenza (il mondo, la storia) già come impegno relazionale, un doverci essere presentificante primordiale (non un essere-gettato ma un progettante e doveroso “gettare il mondo dinanzi a sé”) e quindi come testimonianza di un mondosempre e solo culturale, a cominciare dalla coerenza economica del “vitale abbisognare” che nell’uomo è già promessa di pubblicazione. Il mondo in tal senso appartiene solo e soltanto alla vita della cultura; e non può mai dirsi delirante se non per un “errore di interpretazione”. «Ma appunto perché il Dasein è fondamentalmente costituito da questo in-der-Welt-sein-sollen, lo vulnera la minaccia radicale di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile» (de Martino 2005: 95), pericolo che equivale alla perdita della presenza dove, pertanto, «i pretesi “mondi” degli psicotici sono coglibili solo come sistematica negazione di qualsiasi mondo possibile» (de Martino 2002: 169); non-mondi comunque “antropologicamente importanti”, confida de Martino, in quanto, come nella vicenda di A., «denunziano una tentazione immanente allo stesso ordine culturale, la tentazione di annientarsi» (de Martino 2002: 169), testimoniando al tempo stesso in negativo come peculiarità della condizione umana sia il trascendimento della vita nel valore, quella vis morale della scelta nel mondo e sul mondo che distingue l’uomo dall’animale, pena la follia. «Le culture umane sono appunto la testimonianza di questa lotta contro la tentazione del nulla che vulnera il dover essere per il valore, la testimonianza cioè delle armi impiegate, degli scacchi subiti, delle epoche di salute, di sanità insidiata e di malattia» (de Martino 2002: 674-675).

Storia di vita di E.

Ora, se con A. stavo prendendo atto della testimonianza di scacchi subiti e di reazioni di salvezza, seppure inautentiche, di fronte a questi scacchi e in nome della libertà che è in ogni uomo, con E. invece venivo a confrontarmi con il caso di lotta mancata di fronte alla “tentazione del nulla”, dove stavolta il nulla aveva avuto – seppure provvisoriamente – il trionfante sopravvento. Venivo dunque chiamata a comprendere, per entro la mia coscienza di studiosa dell’uomo ed in ordine all’ottica demartiniana, se la malata nello stato acuto maniacale, perduto perfino lo stato di ritualismo irrelato e quindi ogni tentativo anche maldestro di presentificazione, fosse da considerarsi comunque su di un piano personale, divenuta assenza la sua presenza, o assimilabile per analogia a quello vitale. «Il mondo “delirante” è delirante proprio perché manca della comunicabilità culturale, perché isola il rischio, o disarticola la dialettica rischio-reintegrazione. Esso resta definito dal senso della sua dinamica, che è recessiva: dal pubblico al privato, e via via sempre più al privato, sino al silenzio totale e all’inconscio radicale» (de Martino 2002: 172). Era questo “inconscio radicale” che si imponeva ai miei occhi nelle spoglie di una “catastrofe della persona”.

Anche E., come A., soffriva d’amore. Ma in questo caso, la sofferenza era di tutt’altro genere: E. subì intorno ai 15 anni un abuso in famiglia, che corrispose al suo primo rapporto sessuale, evento non superato nel valore e destinato, in qualche forma, alla riemersione patologica. Originaria di Mestre, negli anni di quell’episodio traumatico viveva a Porto Torres con la famiglia per via del lavoro paterno, ed era fidanzata con un suo coetaneo, oggi biologo affermato, sposato e con figli. La violenza avvenne poco prima del suo ritorno in Veneto, quando suo padre decise bruscamente di ritrasferire “in patria” il nucleo familiare. E. cresceva con il peso di questa violenza, di cui dimenticò l’autore, strategicamente obliato; ma che di tanto in tanto riaffiorava nella figura del padre o di uno zio, senza poi concretizzarsi in un riconoscimento reale. La donna condusse quindi la sua esistenza a Mestre svolgendo la professione di commessa, costantemente sotto controllo psichiatrico perché spesso in preda a stati d’animo oscillanti tra la depressione e la mania (con l’episodio di un tentato suicidio mal riuscito, di cui portava i segni); fino a che, all’età di 41 anni, appunto nell’estate 2013, decise di tornare in Sardegna per ritrovare il suo “vecchio amore d’infanzia” e potersi convincere che quella deflorazione che ancora stava come “non decisa” fosse invece stata consapevolmente decisa con lui. Ella intendeva, in termini demartiniani, decidere il non deciso. Registrata in reparto come “turista” veneziana di 41 anni, conobbi E. quando fu ricoverata in regime di TSO dopo essere stata trovata una notte, effettivamente in compagnia del biologo (che in tutto ciò approfittava di una esperienza fedifraga, all’insegna del consumo di stupefacenti di cui la coppia quella notte fece uso), in preda ad una “sindrome affettiva bipolare con episodio maniacale grave” presso la spiaggia dell’Argentiera (SS). Lì soccorsa dal 118, entrò in reparto con diagnosi in accettazione di “agitazione psicomotoria” e venne quasi da subito contenuta a letto per via di gravissimi danni fisici che causò al personale e a se stessa (si ruppe, ricordo, gli incisivi centrali inferiori). E. nella prima fase di delirio maniacale, ancora in grado di parlare e camminare, dava tutti per morti: il suo primo amore, sua madre e, diceva, ci avrebbero ucciso tutti. Come A., anche lei viveva la fine del mondo non esprimendola direttamente, ma nel fatto che, come disse il medico che la soccorse quella notte, per lei “era morte ovunque”. Crollato, infine, anche questo tentativo di sfogo scomposto, nello stato acuto maniacale E. pareva essersi abbandonata al mero piano vitale della esistenza, quando divenne incapace della parola e del movimento umanizzato, che lasciarono il posto a grida quasi animalesche, sguardo inespressivo, movimenti scomposti e scattosi, di estrema forza fisica difficilmente gestibile dagli infermieri. Gran parte del tempo la osservavo dall’oblò della stanza di contenzione, fino a che, entrata lì, ammisi l’impossibilità concreta di poter interagire, a qualsiasi livello, con la paziente: lei mi guardava ma pareva non vedermi; sputava, gemeva, mordeva i polsi forzando la cinghia che bloccava i suoi movimenti e provocandosi continue ferite; si dimenava e gridava qualcosa di incomprensibile, dove nessun suono corrispondeva a umana parola. Avrebbe detto de Martino: qui E. si riduceva alla scarica meccanica di energia psichica, a pura “crisi della crisi”, a radicale silenzio. Non trasceso nel valore, il suo male era tutto compiutamente espresso nel suo corpo-animale, lacerato da una disastrosa, totale “assenza”. Avvertivo come sconcertanti quei gemiti vivi e quel dolore feroce; con molta fatica monitoravo quelle scene dall’oblò della sua camera. Dopo circa tre giorni di somministrazione psicofarmacologica in endovena, E. ricominciò a parlare: mi trovavo, in quel momento, presso la sua stanza; speravo di cogliere, come di fatto riuscii, quel momento di “risalita al valore” dalla assenza alla presenza teorizzato da de Martino. E. mi cercò con lo sguardo e, pian piano e a stenti (ad ogni suo gemito privo di senso la incoraggiavo in modo fermo ad usare “parole umane” ricordandole di essere una persona), si traeva «dal maligno isolamento che lascia senza parola e [sceglieva] un comportamento comunicante, relazionato, contesto di fedeltà e di iniziativa» (de Martino 2005: 74). Alle sue prime parole, immediatamente seguì un pianto liberatore. Ed io, coinvolta in questo dramma, cominciai a domandarmi, tenendo ferma la nozione demartiniana di presenza: dato il fatto osservato di una presenza divenuta culturalmente “assenza”, quale principio aveva fatto sì che E. potesse tornare ad un certo punto alla storia in modo autonomo? Esauriva totalmente il suo esserci storico, E., quando si dimenava e gemeva, senza statura eretta e linguaggio umano, al pari dell’animale che manca di presentificarsi? Poteva E. aver mai coinciso in quella crisi radicale col piano vitale, anche solo per qualche ora? «Resta il dubbio, infatti, che lo psicopatico, con la sua “crisi senza riscatto”, sia escluso dalla “comune umanità”, il che rischierebbe di portare De Martino su posizioni pericolose come quelle di Max Scheler che aveva escluso dal concetto di “persona” gli psicopatici» (Donise, in Decoro, Marraffa 2013: 89-90). Di certo condividevo pienamente con de Martino il fatto che la malattia psichiatrica si pone all’esatto opposto della civiltà, dove la civiltà “ha inizio” solo non appena si concretizza quel tutto umano anelito di riplasmazione della vita nel valore. E. come presenza si era effettivamente “smarrita” in modo radicale, se appunto consideriamo che «il “trovarsi” nella vita è possibile per entro un porsi secondo valore nella vita stessa» (de Martino 2002: 638). Ma non potevo sostenere che una presenza non più solo “passata” (inautentica, apparente) come quella di A. bensì “annientata, smarrita, dileguata” come quella di E. potesse significare il mero “ritorno” della persona al regno animale. Se il presentificarsi certamente richiede uno sforzo morale (un doverci essere mondano, in termini demartiniani), il passaggio dall’animalità all’umanità è indipendente – mi dicevo – dalla umana decisione. Affermare –cosa che mi consentiva di fare l’osservazione sul campo di A.- come l’uomo non sia persona “astrattamente” sana ma processualmente “impegnata” a farsi sana, non coincideva affatto col sostenere che l’uomo sia processualmente impegnato a darsi da sé la natura personale. Nessun animale può decidere di essere uomo, o viceversa; mai ebbi impressione di una tale opzione, osservando E. Perfino «la storiografia della vita culturale non può mai narrare come partendo da un naturale senza l’umano, si passa all’umano e il culturale, ma soltanto come l’umano si solleva dalla naturalità» (de Martino 2002: 657).

Dilemmi etici intorno alla natura personale dell’uomo

Il problema etico reale sorgeva in me per due ordini di motivi. Laddove rifiutavo l’idea che E. in fase maniacale acuta smettesse di essere presenza, andavo implicitamente a giustificare la posizione etico-scientifica della Daseinanalyse, soluzione a cui non volevo giungere in quanto, sempre dalla stessa osservazione, la crisi maniacale di E. non era apparsa, ai miei occhi, un modo diverso di “fare cultura”. Sostenere, al contrario, l’assenza totale di E. nel momento di crisi – come de Martino avrebbe fatto – mi imponeva di comprendere e definire chi fosse in quella crisi radicale E., dal momento che non era più “presenza storica”, laddove se «l’esserci è sempre in un “far differenza” che fa essere l’esserci, […] il non poterla fare equivale allo scomparire della presenza» (de Martino 2005: 100). Se con A. mi limitavo a prendere atto del patologizzarsi della presentificazione, qui testimoniavo della sua scomparsa; e si imponeva come dovere scientifico, stavolta, descrivere e comprendere la non-presenza di E. nella crisi, senza che questo però significasse che “l’annientarsi dell’esistere” (per riprendere un’espressione di de Martino) potesse escludere E. dall’umanità. Entravo in una drammatica impasse, da cui sarei uscita solo ammettendo nel lavoro del ricercatore un intrinseco principio di responsabilità, dove era stato lo stesso de Martino ad “educarmi” a ciò, asserendo come ciascuno deve «assumere le proprie responsabilità. Potrà essere lecito sbagliare nel giudizio: non giudicare, non è lecito» (de Martino, 1941: 12). E dunque: la persona, di fatto, coincideva con l’attualità del trascendimento? Mi chiesi. E. è una persona pure come “assenza”, mi dicevo fermamente. E lo doveva essere pure per de Martino anche solo per rigore logico, senza chiamare in causa l’etica: secondo lo studioso la follia non consente il costituirsi dei valori, tanto meno il costituirsi di una nuova specie diversa dall’umanità. Ai miei occhi le nozioni di presenza e persona cominciavano a doversi eticamente ed ontologicamente distinguere e distanziare, dove certamente la presenza non poteva darsi senza persona (era sempre “presenza personale”) ma in qualche modo la persona precedeva, fondava la cultura tanto che, nel caso di E., la presenza tornava in modo autonomo senza atto catartico di tipo culturale (ma unicamente farmacologico). Cos’era, dunque, la persona in assenza della presenza? La persona era qualcosa di effettivamente distinto dall’esserci? de Martino era in grado di riempire questa lacuna o la mia ricerca si arrestava a questo punto? Il Mondo Magico, sappiamo, pur affrontando la nozione di persona resta ambiguo su questo punto; la presenza, divenuta assenza, quindi “nulla” morale, può “risalire la china” e ripresentificarsi: l’assistito affatturato si reca dallo sciamano per reintegrarsi nella storia. E lo sciamano, da chi si reca? Quis custodiet ipsos custodes? E come può, il mago redentore riscattarsi “nello stesso piano del suo redento”, ovvero se “si dibatte nella stessa vitalità inferma e cieca”? (Croce in de Martino 2003: 250). E., divenuta “nulla morale” nella crisi, ritorna a un certo punto valore, “risale” quindi “la china”. O a operare il riscatto al valore della storia è la stessa presenza “disintegrata” e “non essente”: ma così resta impossibile che il riscatto abbia luogo. Se è la presenza autrice del riscatto «allora non è vero che a quest[a] era accaduto di perdersi e disperdersi “senza compenso”, […] e, come che ciò fosse possibile, non essendoci in effetti più» (Sasso 2001: 227). Si potrebbe ancora ipotizzare che il riscatto sia operato da un tertium quid, che, «intervenendo ab extra sul processo disintegrativo, lo interrompa e ne impedisca l’esito fatale» (Sasso 2001: 224), logica però estranea alla posizione di de Martino per cui il valore è promosso dalla libera decisione morale del singolo, che in quanto doverosa è libera. Insomma, «chi, o che cosa, determina l’inversione della tendenza che, perseguita nella sua logica ha per méta il “niente” dell’esserci?» (Sasso 2001: 224) Come è possibile che ciò che non è più presente (o che entra nel processo che conduce a questo esito) possa di nuovo essere presente? «È necessario chiedersi come, nel soggetto che sta naufragando, operi una tale volontà di riscatto, e di reintegrazione» (Sasso 2001: 229). de Martino di fatto manca di approfondire “per chi” o “per che cosa” si rigeneri da sé la presentificazione. Si pensi banalmente ad un uomo dormiente laddove sempre nell’uomo il dormire «è un potenziale svegliarsi» alla storia (de Martino 2002: 645). Il dormiente non è certamente impegnato, nel sonno, a farsi presente nel mondo; tuttavia pure in quello stato destorificante è una persona e non un animale, in quanto in esso, a differenza dell’animale, la presenza mondana sta già in potenza, ovvero il vitale solo nell’animale umano «ha già in sé, per potersi esplicare, il principio della sintesi autonoma utilitaria» (de Martino 2002: 655).

Al peso di queste riflessioni, si aggiungeva la preoccupazione di aver promesso al personale medico di lasciare in reparto, a ricerca conclusa, una relazione sui risultati scientifico-filosofici di quanto osservato, scritto certamente esposto al giudizio altrui; scritto, altresì, in un certo senso “pericoloso” se non pienamente responsabile, per eventuali conseguenze scientifiche lesive del soggetto di ricerca (E.), ma pure dell’opera dello studioso a cui mi rifacevo (de Martino), che rischiavo di dover respingere in toto qualora appoggiante una tesi eticamente “pericolosa”. Ed il dilemma etico di ledere il soggetto di ricerca, si badi, non fu il solo problema deontologico di cui la mia ricerca portava il peso. Ed infatti, non vincolata al segreto professionale così come lo è un medico, chi avrebbe garantito a tutti quei pazienti incontrati nell’estate 2013 – mi domandavo ancora – che io mai avrei diffuso verbalmente (anche solo per sbadataggine) informazioni privatissime di un dramma umano, come ad esempio quello di E., tutto documentato, con nomi e dati personali, nelle cartelle cliniche in mio possesso? Ed ancora, qualora avessi rincontrato anche solo per caso uno di quei pazienti che mi credevano medico psichiatra, in che termini avrei potuto spiegare loro che in realtà non sono un medico ma un’antropologa, quell’estate presente in reparto per uno studio scientifico al quale la persona non diede mai il consenso al trattamento dei dati personali? Tutto questo mi domandavo. Ma la comprensione antropologica del problema di E. stava certo come dilemma più urgente. Non si trattava affatto di un mio pudore etico rispetto ad una posizione scomoda da sostenere, ma di una mancanza di comprensione del fenomeno osservato che, se non risolta, rischiava di danneggiare nella più intima dignità il soggetto di ricerca. Ricordavo come Clifford Geertz, in proposito, segnalava due specifiche dimensioni etiche del lavoro sul campo, con cui egli stesso ebbe a che fare, ovvero «lo squilibrio tra la capacità di scoprire problemi e il potere di risolverli, e l’intrinseca tensione morale tra ricercatore e soggetto» (Geertz 2001: 52); dimensioni che, naturalmente, non esauriscono i casi di dilemmi etici – come egli stesso precisa- che un ricercatore può ritrovarsi a dover affrontare. Facevo dunque miei questi dilemmi geertziani, insieme a quello di poter ledere l’opera stessa di de Martino esaurendo, con la segnalazione dei suoi limiti, le sue virtù. Vissi questi dilemmi come una caduta. Quando si cade – si dice – ci si rialza poggiando la mano nel punto in cui si è caduti. Da de Martino, di fatto, mi rialzai.

Dalla messa in discussione radicale della mia conoscenza sull’uomo fino ad allora maturata, e inaspettatamente “confortata” dagli scritti dell’ultimo de Martino che mi imposi di approfondire sviscerandone soprattutto gli aspetti etico-filosofici della sua proposta, nacque quella che poi fu, doverosamente riordinata e priva di questa indagine sul terreno, il nuovo assetto tematico della mia indagine scientifica, che a partire da questo “incidente di percorso” prese “la piega” di una antropologia della persona che abbracciasse non solo le implicazioni inerenti il processo di presentificazione umana, ma che altresì considerasse degno di attenzione scientifica il fatto che «l’esistere non sfugge al trascendentale» (de Martino, 2005: 67). La storia, l’esistenza mondana, quindi la presenza, procede da un principio etico: l’ethos del trascendimento, «struttura normativa» (de Martino, 2005: 8) che in quanto trascendentale è «volontà primordiale di cultura e di storia, cioè volontà etica di mondo, di significato, di valorizzazione» (de Martino, 2005: 166) Nel suo “muoversi” teleologicamente verso la consapevolezza di sé (che avviene per entro l’esercizio filosofico) l’ethos coi vari trascendimenti dalla natura al valore genera la varietà storico-culturale (presenza) realizzando valori distinti ed aspirando ultimamente all’unificazione dell’umano nella ragione quale “ultima Thule” che non è dato di superare: «La persona è questo movimento, in cui il singolo è esposto a un continuo “muori e diventa”» (de Martino, 2005: 13) a partire dalla biologia del suo corpo. E., pure non più presente, è comunque persona, resta potenziale presenza. E lo è in quanto l’ethos in ogni uomo resta «la condizione permanente, la forma di accessibilità all’essere e la inesauribilità della valorizzazione categoriale» (de Martino, 2005: 3). Pertanto, il nulla della follia in realtà non è il “nulla” della persona ma “l’eticamente negativo” della sua dignità: «Per questo fondamento trascendentale, il rischio del nulla è qualche cosa: il dover essere dell’essere postula infatti che questo dovere possa essere tradito (altrimenti non riterrebbe alcuna dignità di dovere)» (de Martino, 2005: 170).

Carenza di strumenti etici nell’antropologia culturale

Ora, non è questo il luogo per illustrare i risultati ultimi della mia ricerca di dottorato. Ed infatti ciò che qui resta essenziale sottolineare a dovere è che nel mio dilemma etico ciò che emerse in modo immediato fu l’assenza di strumenti per conoscere e giudicare la natura umana. L’antropologia culturale del ramo medico si limitava a suggerirmi, in proposito, come (ne esprimo una sintesi) «la categoria di persona assume un carattere proteiforme: essa è rilavorata, giocata e negoziata», al punto che perfino «le pratiche connesse alla persona comatosa si configurano come esperimenti culturali di conoscenze e produzione della categoria di persona» (Pizza 2005: 241). Il problema allora divenne, per me studiosa e responsabile di tale problema, la messa in discussione radicale della scienza a cui fino ad allora avevo appartenuto. Ebbene l’antropologia, questo restava il paradosso “etico” che ne individuavo, è la scienza che si occupa fenomenologicamente del processo culturale della persona umana ma manca di studiare proprio il principio per cui tale fenomeno avviene: la persona, un problema tradizionalmente filosofico in quanto di natura anzitutto universale, pur con insopprimibili implicazioni storico-culturali. Un’antropologia a cui sfugga la realtà universale della condizione umana non può farsi pienamente responsabile dei fatti culturali dell’uomo e del giudizio su di essi, in quanto questi necessariamente si rapportano con l’oggettiva condizione di umanità. E dunque – mi domandavo – deve l’antropologia, per cogliere responsabilmente l’uomo nella sua natura particolare ed universale, quindi storica e trascendentale, in certo senso completarsi anche in una tensione filosofica, come de Martino specialmente con gli inediti postumi andava mostrando? Se «è senza dubbio possibile fare la storia di una parola senza impacciarsi di problemi metafisici e teologici: ma non è possibile far questa storia senza conoscere la natura del linguaggio, il che implica una filosofia dello Spirito» (de Martino 1941: 135), allo stesso modo non è possibile fare la storia di un uomo senza conoscere la natura umana, il che implica una antropologia anche filosofica. Questo mi insegnò la vicenda di E., e non senza cadute e ripensamenti. Mi sono domandata a lungo, in tal senso, se costituisse un mio problema o meno la comprensione oggettiva della natura personale dell’uomo, considerato che i confini della scienza antropologica sono, come l’oggetto che studia, complessi e sfuggenti; se stessi io invadendo il campo di altri specialisti deputati a comprendere oggettivamente questo (un bioeticista, un filosofo morale “puro”, un medico ad esempio). Ma il problema comunque c’era, ero stata io, anzitutto con la mia formazione di antropologa, ad averlo posto. Quando uno studioso si imbatte in un problema, che alla fine lo possa risolvere o meno, come in altro contesto scrive Paolo Apolito «esiste ormai un evento oggetto dell’accertamento di verità» (Apolito 1990: 57). Sarebbe stato morale, lecito, responsabile da parte mia, dunque, il rifiuto di un tale “accertamento di verità”? In fondo l’umanità, mi dicevo, non si può ridurre alla sola “riuscita” presentificante. Ne conseguiva in modo diretto come l’unica azione responsabile da parte mia andava necessariamente ad implicare un dialogo interdisciplinare con gli strumenti e le conoscenze della filosofia, accogliente il problema della natura umana. Per tornare a Geertz, filosofo ed etnologo sensibile al problema di una sovrapposizione scientifica delle due vocazioni, spesso egli si ritrovò, da un lato, a «scovare le singolarità dei modi di vita di altre popolazioni» (Geertz 2001: 9), mansione degli etnologi, e dall’altro, a «esaminare la portata e la struttura dell’esperienza umana e il loro significato» (Geertz 2001: 9), mansione dei filosofi, interessi spesso tra loro confluenti, benché «come si addice a due discipline che non sono chiaramente definite e che si occupano entrambe del pensiero e della vita dell’uomo nel loro complesso, l’antropologia e la filosofia diffidano un poco l’una sull’altra» (Geertz 2001: 7). Certo, a tutt’oggi la situazione accademica «non pare particolarmente propizia per un’interazione generosa e l’unione delle rispettive forze. Tuttavia il tentativo di farle interagire e cooperare rimane assolutamente degno di essere fatto» (Geertz 2001: 8), specialmente laddove «i mari postmoderni agitati e privi di rotte che entrambe stanno oggi attraversando le rendono sempre più bisognose l’una dell’altra» (Geertz 2001: 8). La stessa antropologia medica del resto ha denunciato come, intorno al problema della nozione di persona «si apre una frattura culturale che dovrebbe spingere all’elaborazione di nuovi metodi di analisi e nuovi spazi di riflessione più vicini a tali esperienze di quanto lo siano i discorsi ideologici e teorici prodotti dai saperi istituzionali che animano i dibattiti pubblici e la riflessione teorica» (Pizza 2005: 241-242). Mi domando tutt’ora se e in che misura l’antropologia possa occuparsi dell’uomo universale, accanto alle sue preoccupazioni fenomenologiche per la diversità umana particolare sparsa nel mondo tra i vari etne. Tale fu pure l’esigenza dell’ultimo de Martino, che «si impegnò in una profonda riflessione teoretica, lungo un itinerario travagliato in cui, in un serrato confronto filosofico, ridefiniva l’assetto concettuale del suo pensiero e, con la formulazione di originalissime categorie interpretative, andava profilando i fondamenti di quella “riforma dell’antropologia” di cui avvertiva sempre più la necessità» (Pàstina in de Martino 2005: VII-VIII). Questa rinnovata “filosofia della presentificazione” (così egli l’avrebbe chiamata) contro ogni dogmatismo o relativismo scientifico sarebbe stata in grado «di ristabilire l’universalmente umano che opera nella varietà delle situazioni esistenziali» (de Martino 2002: 265). È questo universalmente umano che forse occorre ritrovare e coniugare alla “varietà” che già l’antropologia contempla. Non si può certamente prescindere dall’etnia quanto alla spiegazione dei problemi umani (come de Martino ha mostrato con la sua Trilogia meridionalista), ma certamente l’etnia particolare non esaurisce né soddisfa la comprensione di un problema attorno all’uomo, come E., con la sua dolorosa crisi di oggettivazione formale, ha testimoniato davanti ai miei occhi. Considerato nella complessità della natura personale, allora, l’uomo è certo “questo uomo particolare” che ognuno di noi irripetibilmente è ma anche l’Uomo, come genere Homo, che da oltre due milioni di anni popola la terra e che chissà per quanti altri ci sarà, sempre con quell’anelito a trasfigurare la natura in cultura e con quell’angoscia di diventare pazzo, anelito e angoscia che lo contraddistinguono tra gli altri viventi. «Qui, a modo di conclusione» (de Martino 2002: 695-696) «vorremmo limitarci a impetrare ai più severamente disposti almeno una certa indulgenza per un progetto che, malgrado tutti i pericoli e le difficoltà cui va incontro, riflette pur sempre la esigenza di promuovere sul terreno scientifico quell’ethos […] dell’unificazione che mai forse come oggi l’umanità sta così drammaticamente esperendo».

Bibliografia

Apolito, P. 1990. “Dice che hanno visto la Madonna”. Un caso di apparizione mariana in Campania. Bologna. Il Mulino.

de Martino, E.1941. Naturalismo e storicismo nell'etnologia. Roma-Bari. Laterza.

de Martino, E.1995. Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro. Lecce. Argo.

de Martino, E. 2002 [1977]. La fine del mondo. Contributo all'analisi delle apocalissi culturali. Torino. Einaudi.

de Martino, E. 2003 [1948]. Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo. Torino. Bollati Boringhieri.

de Martino, E. 2005. Scritti Filosofici. Bologna. Il Mulino.

Donise A., 2013. “Ragione ed etica in Ernesto de Martino”, in La filosofia di Ernesto de Martino, M. Decoro e M. Marraffa a cura di, Paradigmi: rivista critica di filosofia. 31 (2), Franco Angeli, Maggio-Agosto 2013; pp. 79-91.

Geertz, C. 2001. Antropologia e filosofia. Bologna. Il Mulino.

Jaspers, K. 2012 [1959]. Psicopatologia generale. Roma. Il pensiero scientifico.

Pizza, G. 2005. Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo. Roma. Carocci.

Priori, R. 1964. Psicopatologia generale. Roma. Il pensiero scientifico.

Sasso, G. 2001. Ernesto De Martino fra religione e filosofia. Napoli. Bibliopolis.



[1] Termine caro al filosofo Karl Jaspers, ai tempi della sua attività di medico psichiatra, (Priori 1964), è citato da de Martino nella sua Fine del mondo (2002: 185), per indicare «biografie che ricercano tratti patologici».

[2] La vicenda biografica del contadino bernese fu raccolta dai medici Storch e Kulenkampff e commentata in un articolo pubblicato in Nervenartz (1950). E’ citata e commentata da de Martino in La fine del mondo (2002: 194 e sgg.), de Martino si interessò a questa vicenda psichiatrica a tal punto da scrivere una lettera (citata tra queste pagine) all’unico dei due medici rimasto in vita, Stork, ma dell’effettiva spedizione di questo scritto non si ha certezza, né è mai stata ritrovata la corrispettiva risposta.