Il difficile equilibrio fra etica e libertà nella ricerca

Dilemmi etici, conflitti e strategie

Francesca Crivellaro

Dipartimento di Scienze dell’Educazione “Giovanni Maria Bertin”, Università di Bologna.

Table of Contents

 

Introduzione
L’origine del conflitto, tra fraintendimenti e peccati di ingenuità
Etica vs Libertà della ricerca
Cosa fare in caso d’incendio: strategie possibili e domande aperte
Bibliografia

Abstract. For anthropologists working in their own home country, the ethical dilemmas brought about by the relationship with the community they study are different – although not entirely "other" – compared to those that anthropologists working in so called “exotic” fields face (Tarabusi 2014). When the field is "at home" (Jackson 1987; Peirano 1998), the subjects who participated in the research «surround the anthropologist at her or his desk» (Mosse, 2006: 937), “they read what we write” (Brettell 1993), sometimes claiming the possibility to raise objections and challenging the ethnographer’s authority (Mosse 2006, 2015). Our stakeholders – whether the sponsors or the other informants and interlocutors – may also feel somehow "betrayed" by the ethnographic representation (Brettell 1993; Fabietti 1999; Scheper-Hughes 2001; Rossi 2003; Semi 2010); they cannot recognize themselves and their practices in the ethnographic account of their experience (Sorgoni 2011). Reactions to the anthropological writing can be extremely emotional: they, in fact, have to do with «the relationship between professionals [...] to descriptions of their organizational work» (Mosse 2015: 131). Publishing is, therefore, a particularly delicate moment in the relationship between the anthropologist and his interlocutors. Drawing on empirical experience, this paper describes the negative reactions to writing. The purpose is twofold: exploring the issue of ethical dilemmas involved in the negative reception of an ethnographic account; and outlining the possible strategies that allow limiting the risks that Applied and “at home” Anthropology entail.

Keywords: Anthropology “at home” and Applied Anthropology; Ethical Dilemmas in Ethnographic Research; Codes of Ethics; Negative Reception of Ethnographic Accounts.

And in a way villagers were right to say “We don’t believe you are

really sorry”. For in their view this would mean nothing less than a

renunciation of self and my vexed profession, a move I could not make.

Nancy Scheper-Hughes, Saints, Scholars, and Schizophrenics. Mental Illness in Rural Ireland, 2001

Introduzione

Anche se – come ricordano Gupta e Ferguson: «in un mondo interconnesso non siamo mai realmente “fuori” dal campo» (Gupta, Ferguson 1997: 35) – per chi fa antropologia “a casa” i dilemmi etici comportati dalla relazione con una comunità con cui si condivide un certo grado di prossimità culturale assumono peculiarità distinte – benché non del tutto “altre” – rispetto a quelle caratteristiche dell’antropologia “dell’altrove” (Tarabusi 2014). Quando il campo è “at home” (Jackson 1987; Peirano 1998), i soggetti che hanno partecipato alla ricerca «circondano la scrivania dell’antropologo» (Mosse 2006: 937) e leggono “ciò che noi scriviamo” (Brettell 1993), rivendicando talvolta la possibilità di obiettare e sfidando l’autorevolezza stessa dell’etnografo (Mosse 2006, 2011). Se, da un lato, la tradizionale separazione tracciata da Malinowski fra il lavoro di fieldwork e quello di scrittura è progressivamente collassata (Mosse 2006), dall’altro è andata diminuendo anche la distanza fra l’etnografo ed i suoi informatori: per quanti decidono di fare ricerca “a casa” – dove è particolarmente difficile considerare le comunità studiate come “l’altro” antropologico tradizionalmente inteso – la scrittura diventa parte del coinvolgimento con gli interlocutori al pari dell’esperienza sul campo (Mosse 2006).

Può accadere che i nostri interlocutori – siano essi i committenti o gli attori coinvolti nella ricerca – possano sentirsi in qualche modo “traditi” dalla rappresentazione etnografica (Brettell 1993; Fabietti 1999; Scheper-Hughes 2001; Rossi 2003; Semi 2010), non riconoscendosi nella riformulazione che l’antropologo fa della loro esperienza (Sorgoni 2011). Chi si occupa di antropologia delle istituzioni o di analisi delle politiche ha imparato come le reazioni alla scrittura antropologica possono risultare estremamente emotive: esse, infatti, hanno a che fare col rapporto fra i professionisti e la descrizione del loro lavoro organizzativo (Mosse 2015: 131).

Il momento della restituzione si configura, perciò, come un momento particolarmente delicato nella relazione fra l’antropologo ed i suoi interlocutori. La restituzione di una ricerca può avvenire in momenti diversi – durante, così come a conclusione dell’indagine – e può assumere forme differenti. A seconda del livello di formalità e del momento in cui viene proposta, la restituzione spazia dal back talk (Semi 2010; Cruzzolin 2014) – una restituzione in itinere in cui il ricercatore condivide con gli interlocutori privilegiati le interpretazioni che progressivamente vengono costruite durante la ricerca di campo – all’organizzazione di presentazioni (pubbliche o rivolte ad eventuali stakeholder), a pubblicazioni di diversa natura (report di ricerca, articoli o monografie scientifiche). Il presente contributo intende focalizzarsi, in particolare, sulle pubblicazioni di natura scientifica che, come ricorda anche Stephen Glazier, diventano sempre più frequentemente parte integrante del processo di ricerca stesso piuttosto che un mero prodotto rivolto ad una audience strettamente accademica (Glazier 1993). Per lungo tempo il referente dell’antropologo-scrittore è stato identificato nel lettore anziché nell’informatore (Fava 2013), ma nell’esperienza etnografica contemporanea i due tendono sempre più frequentemente – anche se non del tutto – a coincidere.

Le tensioni che a volte si creano nel momento in cui il lavoro etnografico sta per essere reso pubblico possono sfociare, nei peggiori dei casi, in minacce di diffida o in vere e proprie querele[1]. Come il caso di David Mosse ci insegna (Mosse 2004, 2006, 2011, 2015), l’antropologo – per evitare che tali tensioni si risolvano in tribunale – può trovarsi costretto ad estenuanti mediazioni e a dover rinunciare a pubblicare parte delle sue riflessioni. Chi fa ricerca etnografica non può, d’altra parte, liquidare superficialmente la questione delle politiche della rappresentazione (Bourgois 1995, 2011; Scheper-Hughes 1992; Korbin 1998; Scheper-Hughes 2001): se è vero, infatti, che l’antropologo è costretto a «tollerare un certo grado di ambiguità morale» (Appell 1978: 3) data dai suoi diversi posizionamenti “fuori e dentro” il campo , è altrettanto vero che la tutela degli interlocutori – il “proteggere le comunità studiate” – dovrebbe rimanere una priorità per tutti coloro che lavorano nel campo delle scienze sociali, anche quando i soggetti che vengono descritti non possono essere identificati come vulnerabili o privi di potere.

I dilemmi etici – da sempre intrinseci alla pratica e alla rappresentazione etnografica (Scheper-Hughes 1992) – sembrano dunque riattualizzarsi e, al tempo stesso, assumere nuove sfumature nel momento in cui si fa antropologia nel contesto in cui si vive, soprattutto, quando si lavora nel campo dell’antropologia applicata: nell’ambito di quest’ultima, in particolare, le relazioni, così come il lavoro stesso dell’antropologo sono influenzati e informati da un rapporto di committenza che può anche configurarsi in un riconoscimento economico del lavoro etnografico.

Nelle pagine che seguono, verrà ripercorsa l’esperienza di conflitto da me vissuta in prima persona durante il momento della pubblicazione di una ricerca[2] per abbozzare alcune riflessioni su questo tema e per delineare possibili strategie per limitare quei rischi che il fare etnografia comporta.

L’origine del conflitto, tra fraintendimenti e peccati di ingenuità

Durante il Dottorato, ho condotto una ricerca che ha coinvolto due istituzioni – una fondazione di origine bancaria (ente promotore) ed una cooperativa sociale (ente esecutivo) – che, in partenariato con una banca, portavano avanti un progetto di microcredito rivolto a donne migranti. Tale ricerca, realizzata fra il 2009 ed il 2011, non è nata con espliciti intenti applicativi, tuttavia – anche per facilitare il mio accesso al campo – ho ritenuto opportuno negoziare con l’ente che promuoveva e finanziava l’iniziativa alcuni degli obiettivi dell’indagine. In particolare, ho concordato con alcuni referenti della fondazione di dedicare una parte dello studio ad una valutazione dell’impatto del progetto sulla vita delle beneficiarie da una prospettiva qualitativa che andasse oltre il mero aspetto della restituzione del microcredito ricevuto. Più in generale, ho presentato la ricerca come un’opportunità per l’ente promotore per ottenere – senza alcun costo economico – un’analisi del progetto nel suo complesso. Sebbene inizialmente i primi contatti siano stati costruiti con la fondazione[3], l’accesso al campo è stato successivamente (ri)negoziato con il Presidente dell’ente esecutivo[4] ed è proprio all’interno della cooperativa sociale che la ricerca è stata realizzata; è stato, infatti, grazie alla mediazione degli operatori e operatrici che mi è stato possibile entrare in contatto con i diversi protagonisti dell’iniziativa, beneficiarie del progetto in primis.

La negoziazione dell’accesso al campo è durata alcuni mesi e si è articolata in diversi passaggi che, tuttavia, non hanno portato ad una formalizzazione del mio rapporto con le distinte organizzazioni coinvolte nel progetto che intendevo analizzare: pur avendo condiviso anche per e-mail la bozza del mio progetto d’indagine con gli interlocutori più strategici, le mediazioni per portare avanti concretamente la ricerca sono avvenute essenzialmente per telefono e non ho dovuto firmare alcun accordo o contratto, né tantomeno – come accennato – ho ricevuto alcun tipo di compenso o rimborso economico per lo studio da me effettuato[5].

Forse in ragione della “non istituzionalizzazione” di questa relazione con gli attori coinvolti nella ricerca, io stessa ho seguito durante l’esperienza di campo un approccio eccessivamente informale: nel preparare e condurre le interviste, per esempio, mi sono più che altro preoccupata di garantire l’anonimato a tutti gli intervistati ed intervistate – in particolare alle beneficiarie del microcredito – esplicitando la possibilità di non rispondere alle domande che giudicavano più inopportune. Non mi sono mai premurata, tuttavia, di chiedere di firmare una liberatoria per l’uso dei dati raccolti attraverso le interviste e questo per due ragioni principali. In primo luogo, ero ingenuamente convinta che il semplice assenso verbale all’uso del registratore rappresentasse di per sé un consenso. Come ricorda Barbara Sorgoni «i nostri interlocutori sul campo decidono consapevolmente e in autonomia cosa dire, e di conseguenza anche cosa non dire» (Sorgoni 2011: 31); nell’ambito dell’indagine sul terreno possono, tuttavia, crearsi con alcuni interlocutori relazioni che finiscono per rientrare nella sfera dell’amicizia piuttosto che in quella di legami professionali e ciò fa sì che nel corso dei colloqui più informali possa diventare difficile per il ricercatore distinguere fra una confidenza e il tentativo da parte degli informatori di rendere pubblici, riportandoli a chi fa ricerca, alcuni aspetti del fenomeno studiato (Sorgoni 2011); in questo senso, l’uso del registratore, può rappresentare una strategia che permette al ricercatore di (ri)definire il setting, incoraggiando gli interlocutori a prestare una maggiore cautela rispetto alle proprie affermazioni. La seconda ragione per cui non ho ritenuto opportuno chiedere la liberatoria è legata alla convinzione che il chiedere una sorta di consenso informato avrebbe influenzato negativamente i colloqui, ingabbiando le conversazioni in un’eccesiva formalità e favorendo un clima di reciproca sfiducia.

Anche rispetto alla restituzione degli esiti, nessuna delle istituzioni con cui ho lavorato ha mai definito e formalizzato le modalità o regole secondo cui questa sarebbe dovuta avvenire. Ciononostante, nel corso dell’esperienza di campo ho costruito con alcuni interlocutori una relazione privilegiata che ha contribuito a creare non solo curiosità e interesse rispetto al lavoro che stavo svolgendo, ma anche l’aspettativa di prenderne visione prima che diventasse pubblico. Prima di discutere la tesi di Dottorato ho condiviso in diverse circostanze parte dell’elaborato con gli interlocutori con cui avevo intessuto relazioni più solide e, cioè, gli operatori e il Presidente della cooperativa sociale, ottenendo un riscontro molto positivo. Non sono riuscita a fare altrettanto con gli interlocutori dell’ente promotore anche in ragione dei loro lunghi tempi di risposta; subito dopo aver discusso la tesi, ho comunque fatto in modo che il Presidente della fondazione ricevesse una copia dell’elaborato, ma non ho ricevuto dall’istituzione alcun tipo di riscontro fino a quando non ho dichiarato – due anni più tardi – la mia intenzione di pubblicare. È stato proprio quando ho ricontatto le organizzazioni coinvolte nella ricerca dichiarando la mia intenzione di pubblicare in una monografia scientifica i risultati dell’indagine condotta durante il dottorato[6] che ho vissuto sulla mia pelle – in qualche modo “a scoppio ritardato” – quella tensione che può insorgere fra ricercatore e comunità studiata nel momento della restituzione. La referente dell’ente promotore con cui ero in contatto ha dichiarato che l’istituzione non si riconosceva né nella rappresentazione del progetto che emergeva dal mio lavoro, né nell’analisi critica di alcuni aspetti dell’iniziativa. Sono stata accusata di non essere stata sufficientemente chiara rispetto a ciò che effettivamente “fa” un’antropologa e di aver fatto un uso discutibile delle interviste. Mi è stato perciò negato – in prima battuta – non solo il consenso a mantenere visibili i nomi delle organizzazioni coinvolte nello studio, ma alla pubblicazione tout court. Fortunatamente, grazie ad un lungo processo di negoziazione facilitato anche dalla docente che aveva supervisionato il mio lavoro durante il dottorato, è stato possibile giungere ad un accordo sull’uso dei dati.

Studiare una cultura prossima «intensifica l’esperienza riflessiva dell’etnografo» (Jaffe 1993: 52) e per quanto spiacevole e doloroso, ciò che è accaduto ha rappresentato per me un’occasione per interrogarmi sulle modalità attraverso cui avevo gestito la relazione con i diversi interlocutori coinvolti nell’indagine; in particolare, sono stata portata a mettere in discussione l’approccio “selettivo” da me adottato nell’affrontare la questione delle politiche della rappresentazione. Sia durante l’esperienza di campo che durante il momento della scrittura, infatti, la mia preoccupazione si è rivolta principalmente alla tutela di quelle che avevo identificato come i soggetti più fragili: le beneficiarie del progetto. Sebbene abbia cercato di tutelare anche le persone con meno potere all’interno delle singole istituzioni[7], mi sono preoccupata meno dei potenziali effetti che la rappresentazione etnografica avrebbe potuto avere nei confronti di quelle organizzazioni che, come la fondazione, avevano maggiore potere all’interno del partenariato. Ciò evoca, almeno in parte, anche il tema di quelli che Giovanni Semi ha definito come “fenomeni inaccessibili e mancate tradizioni” (Semi 2010): per la sociologia e l’antropologia è forse più semplice analizzare le comunità più fragili di quanto non lo sia avvicinarsi alle élite; e se, in questo senso, esiste una consolidata letteratura teorico-metodologica sullo studio degli “ultimi” o dei “devianti”, chi studia soggetti di potere si ritrova un corpus assai meno nutrito a cui fare riferimento (Nader 1996).

Etica vs Libertà della ricerca

Più in generale, il conflitto vissuto con alcuni interlocutori nel momento della restituzione mi ha portata a riflettere sui rischi e sui limiti del fare etnografia “a casa” a partire dalla relazione fra etica e libertà nella ricerca.

I Codici Deontologici[8] rappresentano un riferimento importante (Semi 2010) in quanto offrono a chi fa ricerca alcune indicazioni relative alla condotta da tenere nei confronti delle comunità oggetto di studio (soggetti e istituzioni), dell’eventuale committenza e della stessa comunità scientifica. Le regole di condotta, tuttavia, sono così generiche da essere difficilmente spendibili nel momento in cui il ricercatore si trova a dover concretamente dirimere un dilemma etico (Appell 1978) e sembrano, d’altra parte, presupporre una buona dose di “pragmatismo informale” (Semi 2010) da parte di chi è chiamato a seguirle: non potendo prevedere una soluzione per tutte le possibili situazioni che chi fa ricerca si troverà ad affrontare, nelle pratiche quotidiane tali regole si articolano con decisioni contestuali e informate dal buon senso. Regole e principi sono, inoltre, formulati in un linguaggio sufficientemente astratto da prestarsi a molteplici interpretazioni, alcune delle quali potrebbero andare a discapito degli antropologi stessi. Come gestire, ad esempio, il difficile equilibrio fra la responsabilità che l’antropologo ha – nei confronti della disciplina, della comunità scientifica e di eventuali stakeholder – nel non «dare rappresentazioni falsificate della realtà» (ANUAC 2010: 3) e quella di «prevedere in anticipo gli effetti sulla popolazione oggetto di studio» dei risultati del proprio lavoro (AISEA 2000, art. 11)? Come può evitare che questi danneggino – anche in termini di giudizi negativi da parte di terzi – i soggetti coinvolti nell’etnografia (ANUAC 2010)? Se – ad esempio – per non danneggiare i nostri interlocutori omettiamo dal resoconto etnografico alcune delle loro pratiche, stiamo distorcendo la realtà e contribuendo ad una sua mistificazione? Qual è, in sostanza, il confine fra libertà ed etica nella ricerca? In Italia, la libertà di ricerca è tutelata dall’articolo 33 della nostra Costituzione, ma la legge giustamente impedisce che tale libertà venga esercitata a danno di altri. Se alcuni campi della scienza risultano maggiormente regolamentati in questo senso (si pensi, ad esempio, agli studi nel campo della genetica e delle biotecnologie), la ricerca sociale sembra, al contrario, lasciare maggiormente spazio ad ambivalenze e “coni d’ombra”. Lo stesso concetto di “danno” si presenta, in effetti, come ambiguo e passibile di interpretazioni contraddittorie a seconda del vertice di osservazione: quando una descrizione critica può essere letta come dannosa – ad esempio in termini di immagine – da parte degli attori o istituzioni che ne costituiscono l’oggetto? La linea che separa l’analisi critica dalla diffamazione può diventare davvero sfumata e, ad un certo punto, potrebbe essere opportuno trovarsi un buon avvocato[9].

Nel mio caso non è stato fortunatamente necessario arrivare a tanto: la negoziazione che è seguita all’iniziale rifiuto da parte dell’ente ad un utilizzo dei dati ai fini della pubblicazione ha avuto un esito positivo. Abbiamo concordato l’anonimizzazione delle istituzioni coinvolte nel progetto descritto nel mio lavoro e la condivisione della versione rielaborata della monografia prima dell’invio all’editore. Fatta eccezione per un dato, durante questa fase la controparte non ha mai esplicitato – almeno non formalmente e mai per iscritto – richieste relative ad un cambiamento di particolari parti dell’elaborato o all’eliminazione di specifici contenuti. Eppure, durante la fase di rielaborazione del manoscritto, ho sentito il dovere di rivedere e ammorbidire alcune interpretazioni per tutelare maggiormente un’istituzione di potere verso la quale non avevo avuto le attenzioni che avevo riservato ad altri soggetti coinvolti nella ricerca sia durante l’esperienza di campo, sia durante la più delicata fase di scrittura. Nel fare ciò, mi sono chiesta, senza trovare risposte esaustive, se questa operazione fosse eticamente corretta da diversi punti di vista: la revisione costituiva un atto doveroso verso una controparte che potevo danneggiare col mio lavoro o era meramente dettata dalla necessità di evitare eventuali ripercussioni sul piano legale? Riformulare alcune riflessioni ed eliminarne altre era il frutto di una negoziazione ineludibile e scontata quanto doverosa, o una forma di (auto)censura? Come detto, non sono riuscita a rispondere a queste domande ma la mediazione si è comunque configurata come l’opzione più ragionevole e come strategia assolutamente preferibile alle alternative.

Quando mi sono trovata a riflettere “a freddo” sulla mia esperienza per dare un senso alle reazioni che la lettura del mio lavoro ha suscitato è stato utile – seguendo il suggerimento di David Mosse – partire proprio dalla peculiarità della descrizione etnografica riconoscendone l’irriducibilità alle narrative che caratterizzano il discorso dei professionisti (operatori, funzionari, etc.):

L’etnografia richiama l’attenzione sull’irrilevante, sulla routine, sull’ordinario; esamina l’instabilità del significato anziché definire il successo prodotto da una progettazione esperta; e quando rivolge la sua attenzione agli effetti inosservati […], la distoglie dalla sostanza delle narrative ufficiali. […] L’etnografia richiama l’attenzione sui diversi punti di vista e non implica, o richiede, di creare consenso (Mosse, 2011: 55, trad. mia).

Fare antropologia “a casa” facendo della propria società un oggetto di studio è una pratica che negli ultimi anni sta trovando legittimazione nel nostro paese, ma la ri-traduzione in una cornice etnografica del “lessico nativo” è un processo che non necessariamente è ri-conosciuto, né tantomeno condiviso dai nostri informatori (Strathern 1987; Sorgoni 2011). L’analisi del progetto da me condotta ha avuto come oggetto le rappresentazioni diversamente posizionate dei protagonisti dell’iniziativa con l’obiettivo di ricostruire “dal basso” la storia di quella specifica esperienza e per leggerla a partire da vertici d’osservazione differenti; il prodotto di questa indagine, oltre a non corrispondere, probabilmente, a ciò che gli interlocutori dell’ente promotore si aspettavano dalla ricerca, non rientra nel tipo di conoscenza “tecnica” riconosciuta come pertinente e valida da un’istituzione che valuta il proprio operato sulla base di azioni e risultati misurabili e “oggettivi”. Non casualmente, forse, uno dei pochi elementi del mio lavoro che era risultato interessante agli occhi dell’istituzione era proprio un dato quantitativo che avevo costruito calcolando approssimativamente l’impatto in percentuale del progetto sul potenziale bacino di beneficiarie. La distanza fra l’aspettativa dell’ente promotore e il tipo di conoscenza sul progetto che io ho restituito ha probabilmente fatto percepire come irrilevante il mio lavoro. L’irritazione degli interlocutori può essere, dunque, riconducibile non tanto al timore di un potenziale danno che la pubblicazione del testo etnografico avrebbe potuto arrecare, ma al fatto che nell’analisi sono stati presi in considerazione aspetti relativi alle relazioni e alle dinamiche di potere all’interno del partenariato che sono stati giudicati come “non pertinenti” (Mosse 2015) e – in quanto frutto di interpretazioni ritenute arbitrarie – non degni dello statuto di “conoscenza”. Ciò permette più facilmente a chi legge ciò che noi scriviamo (Brettell 1993) di scartare come “inutili” e come “mistificatorie” più che come “dannose” le rappresentazioni alternative della loro realtà che con la scrittura l’antropologo restituisce[10].

Cosa fare in caso d’incendio: strategie possibili e domande aperte

L’esperienza di conflitto da me vissuta in prima persona ha avuto una valenza altamente formativa ed ha avuto delle conseguenze sul modo in cui mi sono approcciata alle ricerche realizzate successivamente. Oltre alla mera – e pur sempre relativa[11] – possibilità di tutelarsi attraverso la richiesta di liberatorie firmate che certifichino il consenso informato, ho imparato che la negoziazione con gli interlocutori più “esposti” alla rappresentazione etnografica – anche quelli non apparentemente tali – deve essere portata avanti costantemente durante la ricerca di campo. Anticipare la fase di restituzione organizzando momenti di back talk e – quando possibile, anche se non esplicitamente richiesto – condividendo rapporti e presentazioni del lavoro svolto in itinere può rappresentare uno strumento che l’antropologo può mettere in campo per avere il polso delle potenziali reazioni alla rappresentazione etnografica e per prevenire – o quanto meno arginare – eventuali tensioni future. Certamente, tutto ciò – come sottolinea Mosse – non esaurisce le eventualità di fraintendimenti o conflitti:

Per quanto accurata possa essere la negoziazione della ricerca, il resoconto etnografico rivela divergenze negli obiettivi e nelle epistemologie, aspettative inespresse e interpretazioni del progetto di ricerca differenti. […] Nella negoziazione dell’accesso, gli antropologi che fanno ricerca potrebbero implicitamente tirarsi indietro rispetto a prospettive conflittuali che riappariranno in un secondo momento (Mosse 2015: 131, trad. mia).

La questione dei dilemmi etici, così strettamente connessa all’epistemologia stessa della disciplina antropologica (Fava 2013), dovrebbe trovare maggior spazio nella formazione delle future generazioni di antropologi ed antropologhe. Pur essendo impossibile stilare una lista esaustiva dei dos and don’ts, accade ancora troppo spesso a chi fa ricerca per la prima volta di arrivare impreparato alla sfide etiche e deontologiche che la pratica etnografica pone in tutte le sue fasi, dall’indagine sul campo alla scrittura e alla restituzione. Una formazione critica su questi temi è fondamentale a prescindere dalla specializzazione della disciplina o dal contesto specifico in cui vengono realizzate le ricerche, ma è evidente come sia diventata imperativa soprattutto per chi decide di dedicarsi all’antropologia “a casa” o, secondo un’espressione attualmente meno utilizzata, “del noi”.

Nell’antropologia applicata, i dilemmi etici descritti nelle pagine precedenti sono, forse, ancor più cogenti: le istituzioni coinvolte nella ricerca – che possono rappresentare, in alcuni casi, organizzazioni che detengono un certo grado di potere – hanno l’opportunità, infatti, di esercitare un maggiore controllo sulla scrittura, soprattutto se fra ricercatore e committente sussistono rapporti di natura economica o professionale. Lungi dal risolversi in una mera – per quanto legittima – possibilità di rivendicazione di natura sindacale, i possibili conflitti fra antropologi e comunità studiate interrogano a fondo la disciplina a diversi livelli, fra cui quello etico rappresenta quello principale e quello più immediatamente identificabile. Esistono tuttavia delle possibilità, certamente specifiche a seconda delle circostanze, per uscire dalla impasse e dei margini di manovra che l’istituzionalizzazione dell’antropologia applicata può contribuire – attraverso il confronto e la sedimentazione delle strategie – a rendere meno opachi. La ricerca applicativa offre, ad esempio, la possibilità di negoziare a priori con la committenza le questioni relative all’uso e alla proprietà intellettuale dei dati, così come le forme, i tempi ed i termini della restituzione. In questo senso, per non gestire in solitudine questo processo, l’antropologo dovrebbe poter contare sul supporto e la mediazione delle associazioni antropologiche di riferimento[12]. Queste si configurano come vere e proprie strutture il cui ruolo di accountability si gioca su più fronti: da un lato, sono chiamate a tutelare il lavoro dei propri associati non perdendo di vista la necessità di farsi garanti dell’incolumità delle comunità studiate; dall’altro lato, dovrebbero delineare – nella negoziazione fra antropologi e committenza – quei limiti invalicabili oltre i quali la libertà di ricerca e il rigore della disciplina – sia sul piano etico, sia sul piano scientifico ed epistemologico – risulterebbero irrimediabilmente compromessi. Detto in altri termini, le associazioni antropologiche dovrebbero realmente diventare una sorta d’interfaccia fra antropologi e committenza – ma, forse, anche fra antropologi e società più in generale – rendendo più esplicito cosa è davvero lecito chiedere a chi fa ricerca etnografica. E se è vero che questo rappresenta un compito non facile che comporta, peraltro, il rischio di un ulteriore irrigidimento nelle procedure di indagine, è altrettanto vero che la solitudine di chi si trova a gestire tensioni e conflitti coi propri interlocutori in fase di restituzione sta diventando sempre più “rumorosa”.

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Tarabusi, F. 2014. Costruzione sociale della migrazione tra servizi e utenti migranti: fare etnografia “dentro” le politiche. Mondi migranti, 3: 93-108.

Valentine, B., 1978. Hustling and Other Hard Work. Life Styles in the Ghetto. New York. The Free Press.



[1] La morte di Giulio Regeni ha tristemente riportato all’attenzione un rischio spesso non contemplato da chi fa ricerca: quello di diventare, durante e dopo l’esperienza di campo, oggetto di ritorsioni estremamente violente. Questi casi, ovviamente ben più gravi di quelli rappresentati dalle querelle legali, non verranno, tuttavia, discussi in questa sede.

[2] Il presente contributo riprende e approfondisce alcune riflessioni precedentemente pubblicate in Crivellaro F. 2015. Etnografia del microcredito in Italia. Dare per ricevere nelle politiche di inclusione sociale. Firenze. Edit Press.

[3] Dal momento che la fondazione – in qualità di ente promotore e finanziatore – rappresentava l’organizzazione con più potere all’interno del partenariato, negoziare con i suoi referenti l’accesso al campo mi è sembrata una scelta doverosa, oltre che strategica.

[4] Inizialmente la referente della fondazione mi aveva proposto di realizzare la ricerca attraverso uno stage – attivato dalla fondazione stessa mediante convenzione – all’interno della cooperativa sociale. Questa possibilità, tuttavia, è successivamente sfumata e mi è stato chiesto di prendere accordi direttamente con l’ente esecutivo.

[5] Chi scrive non ha fatto parte né prima, né tantomeno in seguito, di alcuna delle organizzazioni coinvolte nel progetto analizzato durante la ricerca.

[6] In quell’occasione ho ritrasmesso alla referente della fondazione la tesi specificando che l’avrei rielaborata ai fini di una pubblicazione accademica e chiedendo esplicitamente un feedback dell’istituzione.

[7] A costo di suonare banali, è opportuno sottolineare quanto sarebbe quantomeno ideologico – oltre che scientificamente infondato – considerare le organizzazioni come un tutto coerente senza prendere opportunamente in esame le asimmetrie di potere e gli interessi diversamente posizionati e, talvolta, contraddittori di chi occupa ruoli differenti all’interno della una medesima istituzione (Markowitz 2001; Rankin 2001).

[8] Verranno di seguito presi in considerazione, in particolare, i Codici Deontologici dell’AISEA (Associazione Italiana per le Scienze Etno-Antropologiche) e dell’ANUAC (Associazione Nazionale Universitaria degli Antropologi Culturali). Il Codice Deontologico della SIAA è, nel momento in cui si scrive, ancora in fase di elaborazione. È stato, invece, recentemente approvato dall’Assemblea dei soci il Codice della neonata Associazione Nazionale Professionisti Italiani di Antropologia (ANPIA). Chi scrive ha seguito “a distanza” la discussione che ha accompagnato la sua stesura e alcune delle criticità generali dei Codici Deontologici presentate in questo contributo richiamano, almeno in parte, alcuni dei nodi intorno ai quali si è articolato il dibattito fra i soci durante l’elaborazione del documento.

[9] Come il caso di Pietro Saitta e Charlie Barnao ha messo in evidenza nel 2012 (http://www.linkiesta.it/it/article/2013/01/01/la-folgore-fabbrica-fascisti-ma-luniversita-caccia-chi-lo-dice/11067/. Sito internet consultato in data 12/04/2016), i rappresentanti delle istituzioni accademiche possono non solo non supportare i colleghi difendendone la libertà di ricerca, ma possono addirittura prenderne le distanze. Un approfondimento sul tema “chi difende gli antropologi?” esula dagli obiettivi di questo contributo. Ritengo, tuttavia, che – anche in ragione del progressivo sedimentarsi dell’antropologia “a casa” e di esperienze di ricerca nell’ambito dell’antropologia applicata fuori e dentro l’Università – tanto la comunità accademica, quanto le associazioni scientifiche e professionali che rappresentano gli antropologi dovrebbero interrogarsi su questa questione che, peraltro, trascende le differenti specializzazioni della disciplina ed abbraccia l’intera ricerca in ambito sociale.

[10] Sui processi attraverso cui interlocutori ed informatori rileggono e ri-significano le proprie pratiche per scartare le letture e le rappresentazioni alternative sulle stesse offerte dagli antropologi, si veda fra gli altri Valentine B. 1978. Hustling and Other Hard Work. Life Styles in the Ghetto. New York. The Free Press.

[11] Ottenere la liberatoria non dirime del tutto la questione relativa all’uso dei dati raccolti mediante interviste e focus group. Risulta, inoltre, difficile capire come utilizzare in modo “sicuro” quei dati raccolti attraverso l’osservazione partecipante condotta in momenti meno formali e contingenti o in spazi non immediatamente riconducibili alla ricerca.

[12] Chi scrive condivide a pieno – facendola propria – la riflessione in proposito presentata da Antonino Colajanni in occasione della sua relazione dal titolo L’etica e l’antropologia. Con particolare riferimento ai codici etici delle antropologie applicative al III Convegno Nazionale SIAA, “Antropologia applicata e approccio interdisciplinare” (Prato, 17-19/12/2015).