Privato o pubblico in antropologia: that is the question

Marta Villa

Unità di Ricerca VADem, Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, Università di Trento.

Table of Contents

 

La relazione dialettica tra antropologo e comunità
Il codice etico
Malinowski e Griaule: dagli informatori privilegiati alla pubblicazione del diario quotidiano
Bibliografia

Abstract. The academic society has been questioned at length and has issued Codes Ethics to determine the behavior to be held in respect of indigenous peoples and traditional societies examined: data may have different levels of diffusion and they must be shared by communities. Anthropologists need to ask the permission to get inside of the societies investigated. Some cases highlight how these relations of the report are hardly maintained by both sides. The delicate relationship between scholars and privileged informants may be damaged if the disclosure of information occurs without sharing and respect. In conclusion we analyze the case of the publication post mortem of Malinowski's diaries: is it a case of privacy's violation? What is the usefulness?

Keywords: Ethical Code; Public Anthropology; Sensitive Data; Scholar-community Relationship; Privileged Informants.

La relazione dialettica tra antropologo e comunità

In antropologia la dimensione del privato e del pubblico è una delle questioni fondamentali della pratica della disciplina. La ricerca infatti si è posta da qualche decennio a questa parte la problematica riguardo cosa sia la dimensione privata di una cultura e dei suoi esponenti e cosa possa diventare di dominio pubblico. Da diverso tempo, come ricorda l'antropologo Ugo Fabietti, le scienze antropologiche

abbandonate le pretese di scientismo che le hanno connotate per gran parte della loro storia, sono oggi più attente alle dimensioni del senso e del significato da un lato, e alla considerazione dei resoconti etnografici come costruzioni polifoniche dall'altro, come frutto cioè dell'incontro tra i molteplici punti di vista dei soggetti che, in un modo o nell'altro, hanno contribuito a plasmare tali resoconti (Malighetti 2004: IX).

Non è più possibile fare indagine antropologica senza prima negoziare con i propri informatori la restituzione delle notizie che verranno raccolte. La negoziazione, che permette poi la pubblicazione nella comunità scientifica delle nozioni culturali, è di primaria importanza: nella storia della disciplina molte volte sono avvenuti anche fatti spiacevoli dove le comunità sono state messe in pericolo per i dati divulgati oppure dove si è aperto un conflitto tra queste e lo studioso perché ingannate. Anche Claude Lévi-Strauss in una sua riflessione scritta si è occupato di questa importante tematica e ha messo in evidenza le luci e le ombre della disciplina, legate in particolare alla dimensione della relazione tra comunità e antropologi.

Da qualche decina d'anni i rapporti tra gli etnologi e i popoli da essi studiati si sono modificati profondamente. Paesi colonizzati a suo tempo e oggi indipendenti accusano gli etnologi di frenare il loro sviluppo economico mantenendo in vita vecchie usanze e credenze ormai sorpassate. Popoli impazienti di modernizzarsi vedono nell'etnologia l'ultima incarnazione del colonialismo e si mostrano diffidenti, se non apertamente ostili, nei suoi confronti (Lévi-Strauss 2015: 29).

Queste parole fanno riflettere e pongono il mondo antropologico di fronte ad uno scacco: quanto si è fatto da soli e quanto invece avrebbe dovuto essere compartecipato dalle comunità. L'etnologia frenerebbe il progresso e lascerebbe i popoli indigeni in uno stadio infantile, primitivo sembra accusare l'altro da noi! Gli etnografi sono dei parassiti in alcune situazioni e non vengono più visti di buon grado. Ancora Lévi-Strauss ribadisce che le minoranze indigene in diverse parti del mondo non accettano più di essere trattate solo come oggetto di studio e considerano gli etnologi dei parassiti se non peggio degli sfruttatori (Cfr. Lévi-Strauss 2015: 29)

I popoli tradizionali sembrano essere sempre più in diminuzione e i ricercatori in espansione; pertanto, come risolvere questa problematica di densità e di sensazione di soffocamento? Ricorda l'antropologo francese una battuta che circolava già negli anni Settanta nel mondo accademico: la famiglia indiana è composta almeno di tre persone il marito, la moglie e l'etnologo! La situazione è poi sempre più degenerata e alcuni

gruppi indigeni, stanchi di essere vittime degli studiosi si sono ribellati. Oggi alcuni di essi, prima di lasciare entrare qualcuno nelle riserve esigono che compili un gran numero di moduli. Altri oppongono alla ricerca etnologica un divieto puro e semplice: un estraneo può avvicinarli in qualità di maestro o di igienista; l'importante è che si impegni per iscritto a non porre nessuna domanda sull'organizzazione sociale o sulle credenze religiose. Al limite un informatore potrà accettare di raccontare un mito, ma solo dopo aver stipulato un regolare contratto che gliene riconosca la proprietà letteraria (Lévi-Strauss 2015: 30).

Ecco presentato in modo molto lineare, e molto brutale del resto, come lo sono tutte le idee esposte con franchezza, una negoziazione mancata, o meglio una difesa dei propri diritti senza un dialogo possibile. I popoli indigeni citati da Lévi-Strauss non sono più dei bambini a cui si può raccontare quello che si vuole, ma hanno raggiunto una maturità comunitaria che tenta di preservarli da possibili operazioni di sciacallaggio e, se sono arrivati a questo punto, diciamo noi, significa che hanno conosciuti davvero gli sciacalli. Non è rassicurante leggere quello che Lévi-Strauss ha scritto a questo proposito: vuol dire che da qualche parte la comunità scientifica antropologica ha fallito e nel suo più intimo cuore, quello della relazione umana.

La vignetta divertente, che da anni circola sui social network e che è di stampo francofono, rispecchia umoristicamente ancora una volta questa questione: in lontananza arrivano gli studiosi e nella capanna gli indigeni fanno sparire ogni tipo di tecnologia contemporanea che possiedono al grido allarmato “Les anthropologues!”.

La medaglia come sempre ha due facce e Lévi-Strauss le riporta entrambe: la relazione in alcuni casi si è invertita e sono i popoli indigeni o le comunità, spesso di minoranza, che hanno bisogno degli antropologi e non viceversa.

Certe tribù si rivolgono agli etnologi, e talvolta li assumono con un regolare onorario, per essere assistite in tribunale, per essere aiutate a far valere i loro diritti ancestrali su certe terre o per ottenere l'annullamento dei trattati che si sono viste imporre a suo tempo. È accaduto in Australia, dove gli aborigeni e gli etnologi al loro servizio hanno tentato ripetutamente di impedire che il governo installasse delle basi missilistiche o rilasciasse delle concessioni minerarie sui terreni sacri. In Brasile gli indios cominciano ad organizzarsi su scala nazionale ed è prevedibile che prendano iniziative analoghe. In casi come questi il lavoro dell'etnologo cambia completamente natura. Prima lo studioso si serviva degli indigeni ora sono gli indigeni che si servono di lui. L'avventura con il suo alone di poesia e lirismo, lascia il posto alle austere ricerche in biblioteca, al laborioso spoglio degli archivi per costruire il dossier di un processo e integrarlo con argomentazioni giuridiche (Lévi-Strauss 2015: 30).

Il caso descritto dall'antropologo Malighetti presso il Quilombo di Frechal è una parte di questo processo che ha tentato di ribaltarsi: Roberto Malighetti stava studiano le comunità di schiavi affrancati e si è trovato a gestire una situazione fortemente dialettica con la comunità e in particolare con alcuni membri di essa che cercavano un aiuto per dichiarare le terre che abitavano di loro proprietà cercando di utilizzare il lavoro dell'antropologo. Fabietti nella prefazione al testo ricorda:

Il Quilombo è anche un libro che pone, e si pone, problemi metodologici cruciali per lo statuto scientifico delle discipline antropologiche. Ciò che lo caratterizza in maniera originale è, come dicevamo, lo sforzo del suo autore per presentare la lotta della comunità dei discendenti degli schiavi attraverso la problematizzazione del rapporto dell'antropologo con i suoi interlocutori (Malighetti 2004: X).

Malighetti infatti spiega all'interno della sua etnografia con parole molto chiare la sua relazione con gli informatori e con la comunità; a tal proposito scrive:

L'intrinseca asimmetria del rapporto antropologo-informatore si fonda su una inevitabile violenza inerente al lavoro di campo. Non solo per il semplice fatto che la presenza del ricercatore è sempre una intrusione, ma soprattutto perché il progetto antropologico sistematicamente viola il progetto nativo. Il lavoro etnografico, di cui fa spesso parte l'ansiosa lotta contro il tempo, implica necessariamente il superamento del rispetto delle reticenze e del diritto degli informatori a starsene in silenzio (Malighetti 2004: 9-10).

La criticità fatta emergere da Malighetti è proprio il fulcro della relazione tra studioso e comunità e crea, se gestita in modo sbagliato, delle ripercussioni molto difficili da gestire. Anche Malighetti testimonia quello che Lévi-Strauss ha scritto nel suo breve saggio: l'antropologo per entrare nella comunità di Frechal ha dovuto chiedere ed ottenere un permesso dalla stessa comunità. Uno dei principali informatori dell'antropologo gli spiegò chiaramente come mai la comunità fosse diffidente nei confronti degli studiosi stranieri perché temevano fortemente che potessero esporre la comunità a criticità nei confronti dell'esterno. Il suo informatore infatti gli ha raccontato che diversi si sono rivolti a loro in malafede: alcuni studiosi hanno consultato i documenti della comunità pubblicandoli poi solo a suo nome evitando di creare così un ritorno per il villaggio. Tali situazioni sono state vissute in modo negativo dal gruppo locale che si è autotutelato decidendo di non permettere l’accesso alle informazioni a nessuno.Malighetti in una nota (2004:63) scrive che era venuto a conoscenza del divieto imposto da alcuni militanti della SMDDH all’ingresso nella comunità di una antropologa tedesca per la prosecuzione della sue ricerca, medesima sorte era accaduta anche ad antropologi statunitensi e spagnoli di avvicinarsi al campo di Frechal.

Mentre ero assorto nel lavoro a Guimaraes e stavo per definire la data e le modalità del primo contatto con il villaggio, fui anticipato da Inacio, un leader della comunità che, avvertito da Moises dei miei piani era avvenuto con Aurino e Francisco a Guimaraes per conoscermi e chiedere in prestito il trattore del progetto. Colsi subito l'occasione per offrirmi di portare personalmente il giorno seguente l'automezzo in modo da introdurmi ufficialmente alla comunità che aveva, comunque, già discusso e accordato il permesso al mio soggiorno (Malighetti 2004: 15).

Fin da subito Malighetti rileva alcuni comportamenti ambigui di alcuni responsabili del luogo, ad esempio Moises presenta l'antropologo alla comunità a nome del vescovo, contravvenendo alle richieste insistenti dello studioso di non nominare le sue attività in relazione alla cooperazione internazionale: Moises sceglie di giocare questa mossa per finalità sostanzialmente politiche, dice Malighetti, al fine di raccogliere consenso e prestigio perché associato ad una figura di rilevanza economica notevole per il villaggio.Poco dopo Malighetti spiega quanto la comunità fosse orgogliosa di avere il proprio antropologo infatti sembra che apprezzassero

il prestigio derivante dall'essere studiati da un antropologo italiano, da spendere soprattutto con gli estranei, come quando mi presentarono con un certo orgoglio a una delegazione di un altro villaggio venuta a chiedermi di diventare anche il loro antropologo (Malighetti 2004: 42).

Una situazione di manipolazione è accaduta anche all'antropologo africanista Marco Bassi che si è occupato per decenni della popolazioni pastorali dell'Etiopia. In questo caso lo studioso ha rilasciato delle interviste rispetto alla vicenda controversa della costruzione della diga Gibe 3 e i suoi impatti potenziali sulle popolazioni indigene. Le informazioni sono state tagliate e montate in un documentario giornalistico della BBC con modalità atte a creare un effetto contradditorio rispetto alle posizioni del Primo Ministro dell’Etiopia, con ripercussioni negative di vario tipo nei confronti sia della comunità sia dell’antropologo stesso[1].

Altro caso interessante, che mette in evidenza questa relazione dialettica tra studioso e comunità, qualsiasi essa sia, è riportato da Antonino Colajanni nel suo testo Etnografia e analisi istituzionale dei processi di sviluppo nelle ricerche – in India – di David Mosse. Un commento critico. Colajanni riflette riguardo la produzione etnografica dell'antropologo inglese David Mosse e mette in risalto come anche nel suo caso ci sia stata una reazione dura nei confronti degli scritti di questo studioso. Mosse nel suo volume ha documentato

un ulteriore livello di produzione e raccolta di informazioni che assume importanza cruciale, quello delle risposte, reazioni, valutazioni e giudizi, che progressivamente nascevano e si stratificavano nella complessa e articolata geografia sociale di soggetti, persone, individui e gruppi, istituzioni coinvolte nell'iniziativa esaminata. Lo studio cominciò infatti a raccogliere fin da subito le obiezioni dei diversi attori sociali coinvolti, alle osservazioni, commenti giudizi e valutazioni, infine al materiale informativo che mano a mano produceva l'antropologo (Colajanni 2015: 133).

Ma l'antropologo britannico decide una linea di relazione più intensa e in particolare adotta

il costume di esprimere il suo punto di vista e suscitare – facendo tutto ciò parte integrante della ricerca, che comprendeva come suo cuore teorico lo studio delle relazioni che si costituiscono nel campo di azione sociale di un progetto di sviluppo – la capacità di reazione ed obiezione da parte degli attori sociali alla presenza delle opinioni dell'antropologo. Le reazioni, fortemente risentite e critiche, costituiscono il tema di riflessione più intenso di Mosse, al quale egli ha dedicato forti energie conoscitive ed interpretative (Colajanni 2015: 133).

Le problematiche infatti giungono quando Mosse fa circolare in via preliminare il manoscritto in bozza della sua etnografia per ricevere i commenti dai diversi collaboratori dello staff del progetto seguito e dai diversi enti coinvolti: la reazione è stata molto dura. Ancora Colajanni ricorda: il testo

ha suscitato una serie imprevista e straordinaria di resistenze, accuse, critiche radicali, insofferenze, ostilità, da parte dell'apparato burocratico dello sviluppo, soprattutto indiano. È stato sostenuto che il libro in corso di pubblicazione era un unfair, biased, conteneva affermazioni definite defamatory, avrebbe seriamente danneggiato la reputazione professionale di individui e istituzioni, e infine avrebbe creato ingenti difficoltà nel futuro lavoro con i poveri gruppi tribali dell'India. Alle osservazioni critiche lo studioso ha replicato rivendicando il diritto dell'antropologo a osservare, valutare, criticare, scovare aspetti non espliciti del comportamento istituzionale (Colajanni 2015: 140).

I soggetti in causa tuttavia non si sono fermati alla pura critica, ma hanno indirizzato tutte le loro accuse all'Università dove Mosse lavorava, al Comitato Etico della Ricerca inglese e all'Associazione degli Antropologi Sociali Britannici nel tentativo di bloccare la stampa del lavoro: questo evidenza in modo molto chiaro quanto sia insidiosa l'etnografia e quanto la scrittura provochi reazioni anche pericolose nei soggetti di studio soprattutto quando non condividono le valutazioni fatte dallo studioso poiché portano a galla tutta una serie di dati che i soggetti vorrebbero mantenere nascosti o meglio patrimonio del non detto.

La negoziazione e la difesa della dimensione privata delle informazioni risulta davvero una delle principali preoccupazioni dell'antropologia contemporanea. Alcuni studiosi senza scrupoli, hanno letteralmente violentato le comunità che hanno studiato non ponendosi alcun problema nel pubblicare notizie riservate oppure stravolgendo le parole stesse degli informatori; dal canto loro gli informatori spesso hanno raccontato agli antropologi solo quello che volevano sentirsi dire o quello che ritenevano potesse loro interessare, non permettendo un approfondimento più intimo della dimensione culturale. La dialettica insita in questa continua battaglia figurata tra studiosi e portatori del sapere locale viene giocata ogni giorno di campo: è necessario che sia l’antropologo ad essere capace di rivelare questo gioco prima di tutto a se stesso e poi, se necessario, ai suoi interlocutori. Se entrambi si comportano senza alcuno scrupolo, la situazione di tensione diviene sempre più palese e il campo è irrimediabilmente rovinato, conviene interrompere la ricerca: tuttavia se ciò accade a causa di comportamenti scorretti dell’antropologo tutta la disciplina ne subirà un danno e nessun altro antropologo otterrà la fiducia della comunità con facilità e in tempi ragionevoli, gli errori di un primo (padre) ricadranno inevitabilmente (sic!) su tutti i successivi (figli).

Il codice etico

La comunità scientifica antropologica internazionale ha deciso di adottare un codice etico al quale ogni studioso dovrebbe attenersi per non incorrere nelle criticità descritte nel paragrafo precedente: il codice etico delle più importanti società antropologiche regola la negoziazione, il comportamento dell’antropologo sul campo e soprattutto la diffusione dei dati al pubblico.

Se uno studioso sta conducendo una ricerca su di un popolo o riguardo una minoranza, magari in relazione conflittuale con chi governa il territorio dove risiede, se si tratta di stanziali, o dove transita, se si tratta di nomadi, deve comunicare tutto quello che viene a conoscere o vede? Se queste notizie che sono state tenute riservate fino all’arrivo dell’antropologo sono essenziali per il gruppo umano e possono esporlo ad esiti catastrofici (un genocidio?) oppure mettere in pericolo la sicurezza, come si deve comportare lo studioso? Questi sono dilemmi esiziali insiti nella disciplina: cosa possiamo dichiarare, quanto possiamo esporre il nostro oggetto di studio?

A differenza di altre discipline che analizzano dati empirici, archivi, scritti e documenti, oggetti inanimati, l’antropologia ha come campo di indagine l’uomo vivente o gruppi di uomini socialmente attivi nel contesto mondiale anche se apparentemente facenti parte di un microcosmo culturale. Questa particolare accezione degli oggetti di studio, che poi sono veri e propri soggetti, pone le più significative criticità, anche metodologiche, alla disciplina.

Quanto è possibile svelare di una cultura? Quanto è meglio tenere celato? Conta di più la carriera scientifica oppure il rispetto che si deve ad altri esseri umani e alla loro intima dimensione privata? Anche se la tribù che lo studioso contatta sembra non comprendere la molteplicità dei livelli di privacy che vi sono nella cultura di appartenenza dell’antropologo (se viene ad esempio da un paese occidentale), è fondamentale per il rispetto dovuto a qualsiasi gruppo umano che vengano attivati i più profondi meccanismi di tutela della riservatezza.

A carattere internazionale possiamo documentare il codice etico della International Society of Ethnobiology (ISE), discusso e approvato all’Assemblea Generale di Etnobiologia tenutasi durante il decimo Congresso Internazionale di Etnobiologia, a Chiang Rai, Thailandia, l’8 novembre 2006. Questo Codice è stato originato dalla Dichiarazione di Belèm del 1988 concordata in occasione della fondazione della Society in Brasile. Nei decenni successivi è stato formulato attraverso forum e momenti di dibattito e confronto, workshop e lavori di gruppo a cui hanno partecipato i membri della Society. Attualmente tutti i membri dell’ISE sono obbligati ad attenersi a questo Codice. Ammettendo gli errori del passato, soprattutto riguardo la richiesta di permessi e la condivisione pubblica dei dati, il Preambolo del Codice (reperibile in traduzione italiana sul sito ufficiale della International Society of Ethnobiology) così recita:

Riconosciamo che in passato la ricerca si è svolta senza preoccuparsi di ottenere in precedenza il permesso e il consenso da parte delle comunità indigene, società tradizionali e comunità locali, causando un impatto spesso negativo sui loro diritti e responsabilità legate a loro patrimonio culturale. L’ISE si impegna ad operare in collaborazione equa e sincera con le comunità indigene, le società tradizionali e le comunità locali per evitare la perpetuazione di queste ingiustizie avvenute in passato, per costruire insieme una relazione positiva, benefica e armoniosa nel campo dell’Etnobiologia (ISE 2006:1).

Il Codice Etico si pone degli importanti obiettivi per garantire che gli effetti delle diverse ricerche siano meno impattanti possibile nei confronti della comunità o società studiate preservando da un lato il diritto alla proprietà dei dati da parte dei popoli indigeni e dall'altro chiedendo agli studiosi cautela ed onestà intellettuale al fine di non destabilizzare le società tradizionali allontanandole dalle loro consuetudini e dai loro stili di vita scelti. Il Codice inoltre vuole porsi come un vademecum per indirizzare la condotta dei membri della Society soprattutto nel momento della raccolta dei dati e quindi del lavoro sul campo (per quanto concerne l'aspetto della metodologia antropologica ed etnologica). L'Associazione infatti vuole che i popoli o le comunità siano proprietarie in prima persona della documentazione raccolta (dati, interviste, immagini, pubblicazioni, patrimoni materiali e immateriali) e che possano farne anche un uso proprio.

L’ISE riconosce che, perché tali forme di parternariato possano avere successo, tutte le importanti attività di ricerca (es. progettazione, attuazione, analisi, diffusione e applicazione dei risultati) devono essere basate sulla collaborazione. Si deve prestare attenzione ai bisogni di tutta l’umanità, e mantenere solidi standard scientifici, riconoscendo e rispettando allo stesso tempo l’integrità culturale di popoli Indigeni, società tradizionali e comunità locali. Occorre un impegno ad una collaborazione proficua ed al rispetto reciproco di tutte le parti per raggiungere lo scopo di questo Codice Etico e gli obiettivi dell’ISE. Questo Codice Etico riconosce ed onora leggi tradizionali e consuetudinarie, protocolli e metodologie ancora in essere all’interno della comunità dove si propone ricerca collaborativa. Esso dovrebbe favorire ma non prevaricare tali processi e strutture decisionali comunitari. Dovrebbe facilitare lo sviluppo di accordi di ricerca centrati sulla comunità e con essa concordati, che servano a rafforzare finalità della comunità stessa (ISE 2006:2).

Tra i diversi principi di cui il Codice si fa custode, interessante ricordare quello di partecipazione attiva che riconosce l'importanza fondamentale per i popoli indigeni a partecipare a tutte le fasi della ricerca, anche quella della condivisione dei dati e della fase di applicazione dei risultati, collaborando dalla fase progettuale alla fase finale di revisione dei risultati prima della disseminazione alla comunità scientifica e alla pubblicazione divulgativa in generale.

Altro principio importante regolato dal Codice è quello della informazione: i popoli indigeni e le comunità locali e tradizionali devono capire cosa il ricercatore e quindi la ricerca vanno ad indagare: le intenzioni e gli obiettivi finali devono essere esplicitati, la metodologia deve essere chiara e condivisa e le informazioni devono essere date in modo che le comunità comprendano il significato e l'utilità del progetto.

Il principio del consenso prioritario e della consapevolezza è sicuramente centrale: s’intende un processo in corso che si bada su un rapporto tra le parti stabilito prima che inizi la ricerca e che debba essere mantenuto fino alla conclusione. Il consenso deve essere compreso da tutte le parti in causa, quindi deve avere al proprio interno una procedura educativa di informazione, deve essere redatto nelle lingue parlate dalle parti e infine deve essere data una spiegazione chiara riguardo gli scopi e la natura della ricerca mettendo in luce sia i benefici sia i lati negativi che la divulgazione di tale studio potrà far accadere. Le comunità studiate hanno diritto di veto sia all’inizio della ricerca sia durante il suo sviluppo per tutelare la propria privatezza e informazioni che ritengano di essere non pubblicabili.

Il principio della equa condivisione invece permette alle comunità di trarre beneficio dai progetti di ricerca e dagli esiti diretti ed indiretti sia a breve sia a lungo termine. Infine il principio della riservatezza permette ai popoli indigeni di esercitare un divieto o una censura sulla pubblicazione di dati che potrebbero essere pericolosi per la comunità oppure conoscenze religiose, magiche e segrete che devono essere mantenute secretate al vasto pubblico; infine hanno diritto a chiedere l'anonimato per tutta la comunità o per alcuni membri al fine di mantenere alto il livello di protezione. Nelle Linee Guida associate al Codice troviamo informazioni importanti per rendere applicativi i principi fondanti del documento. Citiamo fra tutti il punto 5 che ben descrive il contesto e le azioni relative alla ricerca:

Tutte le persone e organizzazioni che intraprendano attività di ricerca si comporteranno così, in buona fede, dall’inizio alla fine delle loro attività, e agiranno in conformità con, e nel rispetto delle norme culturali e della dignità di tutte le comunità potenzialmente interessate, e con l’impegno che raccogliere campioni ed informazioni, siano esse di natura zoologica, botanica, minerale o culturale, e compilare dati o pubblicare informazioni su di essi, significhi farlo solo nel contesto olistico, nel rispetto dei sistemi di regole e credenze delle comunità interessate (ISE 2006:7).

Le informazioni devono sottostare a meccanismi di raccolta tracciabili così da permettere a chiunque di controllarne la provenienza e così da autenticarne la paternità.

Guardando all’interno della comunità scientifica accademica italiana, troviamo il codice etico dell’Associazione Nazionale Universitaria degli Antropologi Culturali che così recita nella sua parte introduttiva:

Il Codice propone un insieme di linee, utili per la ricerca, per l’insegnamento e per la professione, e individua nella dimensione deontologica ed etica, non solo la dimensione del rispetto per l’Altro, ma anche la base indispensabile per una corretta discussione e valutazione delle modalità conoscitive poste in atto (ANUAC 2010:1).

Nei principi generali riguardo la responsabilità scientifica il Codice è molto chiaro e spiega, riferendosi sia a persone sia ad animali se inseriti in una indagine antropologica:

Nelle ricerche con persone o animali in cui sia possibile ipotizzare un potenziale danno fisico e/o psicologico, devono essere incluse, o consultate, nel gruppo di ricerca, persone esperte dello specifico settore di indagine, per evitare rischi attuali o prevedibili per il benessere fisico e psicologico dei partecipanti alla ricerca, siano essi persone o animali. I ricercatori devono essere consapevoli di poter incontrare dilemmi etici a ogni fase del lavoro, e fare tutti gli sforzi necessari per identificare in anticipo le potenziali richieste e i conflitti, tanto nella preparazione quanto nello sviluppo del progetto (ANUAC 2010:2).

E ancora più specificatamente, anche in relazione alla preservazione della privatezza degli informatori il Codice della disciplina ribadisce che gli antropologi hanno obblighi etici nei confronti degli oggetti del loro studio: non è possibile danneggiare le comunità e i loro patrimoni, ma si è coinvolti nella loro tutela e nella trasmissione della loro cultura materiale e immateriale informando sempre le collettività studiate riguardo gli scopi della ricerca e le conseguenze. Ma soprattutto gli antropologi sono responsabili della reputazione della disciplina, del loro ruolo e non possono dare rappresentazioni falsificate della realtà oggetto di ricerca.

La dimensione della privacy risulta dunque molto importante e pone un ulteriore problema alla divulgazione dei dati e alla scrittura etnografica, tuttavia è necessario che qualsiasi progetto di ricerca formuli una riflessione specifica su questo argomento anche per tutelare la ricerca stessa. L’antropologia poi deve fare i conti con la definizione di pubblico e privato che ogni cultura ha nel proprio background e che può essere molto differente da quella di origine dello studioso che sta praticando l’indagine di campo. La stessa concezione di dimensione privata e dimensione pubblica non è simile in tutte le culture del mondo: molte infatti hanno un alto grado di riservatezza, altre invece non possiedono parametri rigidi per determinare i due spazi sociali.

Se si osservano ad esempio le abitazioni, si possono già intuire i diversi gradi di concezione di privacy famigliare o allargata che un gruppo umano ha stabilito. Nella cultura cabila, ad esempio, come spiega del dettaglio Pierre Bourdieu la casa vede delimitati chiaramente gli spazi maschili e femminili: l’inviolabilità del corpo della donna dagli sguardi altrui viene estesa anche agli spazi domestici di sua frequentazione. Le stanze femminili sono le più interne e difficili da penetrare e vi è una rigida regolamentazione anche per la frequentazione stessa dei membri della famiglia allargata.

L'interno della casa cabila ha la forma di un rettangolo che un piccolo muro a vista si eleva a mezza altezza divide a un terzo della lunghezza in due parti. […] La parte basa e oscura della casa si contrappone alla parte alta come il femminile al maschile: oltre al fatto che la divisione che organizza i sessi affida alla donna la maggior parte degli oggetti appartenenti alla parte oscura della casa […] la contrapposizione tra la parte alta e la parte bassa riproduce all'interno dello spazio della casa quella stabilita tra l'interno e l'esterno, tra lo spazio femminile, la casa e il suo giardino, luogo per eccellenza dello harem, cioè del sacro e del proibito, e lo spazio maschile (Bourdieu 2003: 51-57).

In altri contesti invece troviamo spazi condivisi dove non vigono particolari divieti per la riservatezza della propria privacy: in alcuni contesti culturali la famiglia allargata vive insieme e non vi sono spazi così separati tra le diverse generazioni o i diversi generi. Interessante è anche il discorso a proposito della riservatezza nei confronti dell’ospite o dello straniero. Anche in questo caso le culture rispondono con modalità differenti: se l’ospite è un individuo prossimale (per parentela clanica) vi è un comportamento, se invece si tratta di un individuo estraneo al gruppo familiare la disciplina può essere difforme.

Malinowski e Griaule: dagli informatori privilegiati alla pubblicazione del diario quotidiano

L’antropologo, ad esempio, che chiede di osservare in modo partecipativo la vita quotidiana della comunità deve comprendere prima come vengono trattati i membri estranei e in questo modo negoziare la sua presenza. Malinowski la barattava con beni voluttuari quali tabacco o alcool. Griaule invece non ha descritto come ricambiava la gentilezza di Ogotemmeli, il suo informatore principale, ma ci ha raccontato di essere stato scelto dall’anziano dogon per riceve in segreto tutte le informazioni relative alla cosmogonia del suo popolo. Quando Ogotemmeli sta per rivelare le parti più importanti chiede a Griaule di avvicinarsi, abbassa la voce o addirittura rimanda al giorno successivo perché le donne o altre persone non degne che stanno nel cortile non possano sentire… Anche in questo caso si può parlare di gradi di privacy delle informazioni, non si tratta di persone, ma di sapere segreto e per questo pericoloso.

Molte culture studiate dagli antropologi presentano dei gradi di conoscenza privati: diverse sono le società segrete, le società per iniziati, i gruppi d’età che devono superare un percorso di apprendimento la cui dimensione non è assolutamente pubblica. Vi sono gruppi umani che tengono un grado di riservatezza molto elevato per queste informazioni o per i luoghi di svolgimento dei rituali di iniziazione maschili e femminili, ma che poi ad esempio non hanno le medesime accortezze per la privacy degli individui. In diverse culture l’antropologia ha testimoniato che la conoscenza di rituali, di strutture sociali, di medicine sono appannaggio di un gruppo o classe specifica e non possono essere divulgate pena la perdita, come nel caso dei medicamenti, della loro efficacia simbolica. La relazione con l’informatore privilegiato risulta quindi importante anche all’interno del discorso della dimensione pubblico/privato che coinvolge le due parti della relazione. Anche la scrivente ha dovuto affrontare questa delicatissima situazione: durante il lavoro di ricerca sul campo per il dottorato in Antropologia della Contemporaneità, l’informatore privilegiato, ad un certo punto e quasi inconsapevolmente, ha chiesto alla ricercatrice di raccogliere la sua storia di vita. Tale testimonianza chiave, che ha permesso di aprire una nuova indagine all’interno della comunità e che ha inoltre ridefinito in modo significativo alcune situazione osservate e documentate, contiene al suo interno dei passaggi privati e molto intensi. Nella scrittura dell’etnografia sono stati inseriti degli aspetti di questa documentazione, concordati con l’informatore che ha letto le diverse parti che lo riguardavano, ma la tesi è stata posta sotto embargo (della durata massima possibile) per tutelare ancora di più le informazioni contenute e fino ad oggi non è stata mai divulgata alcuna parte riguardante questo aspetto.

La consegna di una storia segreta e speciale, che raccoglie tutti le conoscenze segrete di una cultura è avvenuta già nei primi passi mossi dall’antropologia nel XX secolo: abbiamo infatti la produzione etnografica di Marcel Griaule e la sua relazione intensa con l’informatore privilegiato, anziano saggio della comunità dogon.

Griaule, nato nel 1898 a Ainsy sur Armencon, ha lavorato come antropologo in Africa dal 1926 al 1956: nel 1931 si reca nell’allora Sudan francese, che oggi è lo stato del Mali, entrando in relazione con la popolazione e cultura Dogon. Presso di loro, Griaule entra in contatto con Ogotemmeli che diventa il protagonista della sua narrazione etnografica. L’incontro con questo uomo avviene in modo singolare: c’è una specie di investitura da parte dell’informatore, Griaule è il suo prescelto. Ogotemmeli è un anziano cacciatore, che ha perso la vista durante una battuta di caccia, è divenuto anche un guaritore e per questo motivo è un iniziato: il suo percorso sapienziale parte da molto lontano, da bambino viene scelto da suo nonno e da suo padre per essere edotto riguardo tutti i segreti della cosmogonia e mitologia dogon e da allora diviene un olubaru, un impuro a cui è permesso praticare i riti ed entrare in contatto con lo spazio olu, ossia il luogo geografico e mentale della foresta, la brousse, che inizia dove terminano il villaggio e i campi. Il 27 ottobre 1946 Griaule annota in una scheda scritta a matita che porta in cima a lettere maiuscole l'argomento a cui è dedicata (l'iniziazione) e il luogo (Sanga) questa breve considerazione su un fatto appena avvenuto: “il vecchio Ogotemmeli, facendomi proporre da Gana una camicia garantita contro le pallottole, voleva entrare in contatto con me”. La storia imbrogliata che Gana ha raccontato non aveva senso In questo modo ha inizio l'avventura tra questi due uomini, Griaule e Ogotemmeli che porterà alla stesura di Dio d'acqua una delle opere etnografiche più controverse e che suscitò enorme scalpore quando nel 1948 venne pubblicata (Villa 2015: 37-38).

Al termine della sua vita Griaule ottiene un omaggio delicato e commovente dai dogon: in una caverna dopo la sua morte la comunità ha celebrato i suoi funerali e la fine del lutto secondo i dettami tradizionali della società e ha realizzato l’effige che avrebbe ricordato il lavoro e il legame di questo studioso con il popolo. Al posto della zappa utilizzato per ricordare gli altri membri del gruppo, è stata spezzata una matita, simbolo della presenza immortale di Marcel nella memoria dogon.

In ultimo vorrei citare forse una delle più discusse iniziative editoriali in antropologia: la pubblicazione dei diari di campo personali di Malinowski dopo la sua morte. Non si è mai riusciti a capire le intenzioni di questa divulgazione che ha messo in crisi la figura del padre dell’antropologia mondiale e del suo metodo innovativo. I diari sono stati redatti come note personali di campo, utilizzate nell’intento dell’autore come strumenti di ricerca. Non si comprende quindi completamente la decisione che abbia spinto alla sua divulgazione pubblica: i diari infatti contengono una serie di riflessioni privatissime dello studioso, i suoi pensieri più intimi sulla comunità che stava studiando, rivelano anche certe sue espressioni poco lusinghiere sui propri informatori, mettono a nudo un uomo con le sue debolezze e i suoi difetti, un uomo, prima di tutto, stufo in alcuni momenti di essere relegato alle Trobriand senza la possibilità di vedere altri “bianchi”, stanco delle zanzare e delle richieste di sigarette degli indigeni. In alcune parti le riflessioni si fanno ancora più intime: vi sono dettagli della vita sentimentale dello studioso che non sono così strettamente utili alla scientificità della disciplina antropologica. Alcuni passaggi del testo risultano sono avulsi dal contesto, infatti non sono stati preparati per una pubblicazione organica e, soprattutto non c’è stata una revisione dell’autore prima della edizione definitiva. Per queste caratteristiche si potrebbe parlare in questo caso di violazione dell’intimità dell’autore; i diari infatti se accostati al testo ufficiale di Malinowski, Gli Argonauti, permettono una lettura diversa, dialettica, nuova e possono mettere in discussione le idee che hanno fondato una nuova stagione della antropologia, del rapporto con i nativi, della modalità di approccio e di osservazione delle culture. Il diario personale di questo antropologo, preso singolarmente, non contiene particolari novità che possano modificare radicalmente la metodologia della disciplina, ha solo disvelato pensieri e situazioni che forse non dovevano essere svelate con queste modalità.

Bibliografia

ANUAC 2010, Codice deontologico, versione sul sito http://www.anuac.it/wordpress/wp-content/uploads/2015/07/Codice_Deontologico-anuac.pdf (verificato il 17/02/2017)

Bourdieu, P. 2003 [1972]. Per una teoria della pratica. Tre studi di etnologia cabila. Milano. Raffaello Cortina Editore.

Colajanni, A. 2015. «Etnografia e analisi istituzionale dei processi di sviluppo nelle ricerche in India, di David Mosse. Un commento critico». L’Uomo, 1: 129-145.

ISE 2006, Codice Etico, versione tradotta in italiano sul sito http://www.ethnobiology.net/wp-content/uploads/ISECodeofEthics_Italian.pdf (verificato il 17/02/2017)

Malighetti, R. 2004. Il Quilombo di Frechal. Milano, Raffaello Cortina Editore.

Lévi-Strauss, C. 2015 [2014]. Siamo tutti cannibali. Bologna. Il Mulino.

Malinowski, B. 1992 [1967] Giornale di un antropologo. Roma. Armando Editore.

Villa, M. 2015. «Bronislaw Malinowski e Marcel Griaule, ovvero la rivoluzione copernicana nella narrazione etnografica» in Frammenti di filosofia contemporanea VII, Pozzoni, I. (a cura di). Milano. Limina Mentis: 33-40.



[1] Dialogo privato con l’autrice, 2015.