Etiche in campo e responsabilità

La costruzione di un’etnografia sull’omogenitorialità tra Italia e California

Corinna Sabrina Guerzoni

Università degli Studi di Milano-Bicocca.

Table of Contents

 

Introduzione
Responsabilità, codici etici, processi storici
Etiche in gioco: costruzione del campo, co-costruzione con i soggetti coinvolti nella ricerca, restituzione dei “dati” della ricerca
Conclusioni
Bibliografia

Abstract. In this paper, I will reflect about the collection, the treatment and the restitution of data collected during my fieldwork between Italy and California. I briefly analyze the relation between ethics and anthropology, tracing some specific periods of the last decades that have played a peculiar role for the discipline. Then, I will focus around the concept of responsibility for the anthropologists on the fieldwork and beyond the fieldwork, showing how I have constructed my work with the informants involved in my ethnographic study.

Keywords: Ethic; Gay Parenting; Surrogacy; Reproductive Technologies.

Introduzione

The competent fieldworker is he or she who learns to

live with an uneasy conscience but continues to be worried by it

Anne Akeroyd, Ethics in relation to informants, the profession and governments, 1984

Il mio progetto di dottorato ha indagato il fenomeno dell’omogenitorialità, ovvero la genitorialità di persone omossessuali (risiedenti in Italia), tra Italia e California[1]. Parte del mio lavoro di ricerca si è occupato di come sia stato ricostruito il percorso riproduttivo all’interno di rapporti di coppia omosessuali, in un contesto in cui le tecniche di procreazione medicalmente assistita erano e sono legalmente accessibili esclusivamente a coppie eterosessuali infertili (Zanini 2013). In Italia, contesto dove ho prevalentemente svolto ricerca, al momento dello studio, era in vigore la legge 40/2004 (norme in materia di riproduzione medicalmente assistita). Quest’ultima, nonostante sia stata dichiarata incostituzionale e parzialmente smantellata nel 2014, ha continuato a mantenere in vigore il divieto di fecondazione eterologa per single ed omosessuali. Gay e single rientravano così in quella categoria di outsiders a cui era legalmente negato il diritto di procreazione tramite il supporto delle nuove tecnologie riproduttive. Tale norma ha prodotto un significativo effetto sulle vite dei soggetti con i quali ho svolto ricerca, spingendo coloro che desideravano accedere alle tecniche di fecondazione medicalmente assistita, ma che non possedevano le caratteristiche descritte dalla legge, ad una migrazione verso stati esteri. Per studiare il fenomeno dell’omogenitorialità italiana, così come avevo deciso di indagarlo, fare ricerca unicamente sul suolo nazionale non è stato sufficiente. In relazione alla cornice legislativa che vieta una serie di passaggi necessari per acquisire lo status di genitori omosessuali (leggi 40/2004 sulla fecondazione medicalmente assistita e 184/1983 sull’adozione), il campo ha dovuto subire necessariamente un ampliamento, sia per seguire le storie e i percorsi di vita di alcuni dei soggetti di ricerca (i padri d’intenzione), che per includere nell’etnografia coloro che sono state attivamente coinvolte nel progetto genitoriale: donatrici e surrogates [2].

La maggior parte dei soggetti con cui ho svolto ricerca faceva parte di un’associazione nazionale che includeva al suo interno aspiranti genitori, madri e padri omosessuali, single omosessuali, coppie eterosessuali che hanno fatto ricorso a surrogacy ecc. Lo studio ha coinvolto complessivamente 43 famiglie: 25 di madri, 18 di padri ed una serie di interviste con donatrici di ovuli e surrogates californiane. I percorsi per divenire genitori hanno seguito traiettorie riproduttive differenti; principalmente stati europei per aspiranti madri (Spagna, Belgio, Danimarca etc.) e stati extra-europei per aspiranti padri (Stati Uniti e Canada). Ho diretto così i primi mesi di ricerca in Italia, costruendo momenti di interazione e di scambio di idee all’interno delle mura domestiche, per osservare ed analizzare la “parentela in azione” (Carsten 2004) e, indirizzato le fasi conclusive del mio lavoro di ricerca all’interno di una clinica della fertilità californiana, dove la maggior parte dei miei interlocutori ha fatto ricorso alla pratica di surrogazione di gravidanza. In altre parole, ho avuto accesso e costruito due campi, potenzialmente molto differenti tra loro: lo spazio intimo della realtà quotidiana delle famiglie omogenitoriali italiane (prevalentemente tra Milano e Roma) ed uno spazio pubblico di una clinica della fertilità a nord di Los Angeles.

L’ingresso delle nuove tecnologie riproduttive, con la conseguente manipolazione diretta dei fatti riproduttivi (Gribaldo 2005), ha indubbiamente portato con sé una serie di quesiti che vanno dallo statuto dell’embrione, alla minaccia di incesto tra consanguinei, ad una frammentazione delle figure genitoriali sino allo spettro di sfruttamento delle capacità riproduttive delle donne che offrono i propri corpi per gestazioni altrui. In Italia, la fecondazione eterologa per coppie omosessuali desta, dal punto di vista culturale, forti disconferme sociali. Come alcuni studiosi hanno messo in evidenza tuttavia, l’inseminazione eterologa entro una coppia di lesbiche non è soggetta allo stesso grado di ostilità che la pratica di surrogacy entro una coppia di uomini sviluppa attorno a sé. La gestazione per altri (d’ora in poi GPA) è difatti ammantata da molteplici ed articolate disconferme sociali che ci sottolineano quanto essa porti con sé una serie di problemi etici di differenti gradi e livelli (Gross 2012). Le avversioni che ruotano attorno alla GPA derivano in prima istanza dalla ideologia dominante di genitorialità che pervade il contesto di parentela euro-americano (Cadoret 2008), dove la complementarità è letta come sinonimo di normalità e ipotizzata come unica forme socialmente accettabile; ma, le disconferme più aspre si scagliano sulla pratica di surrogacy in sé valutata come nuova forma di schiavitù, dove sfruttamento e compra-vendita si innervano in un terreno che per consuetudine è sempre stato rappresentato come atto gratuito e distante dalla sfera economica. In questo articolo non focalizzerò l’attenzione su come, riguardo alla GPA, il concetto di etica possa assumere significati differenti nei due contesti in cui ho svolto ricerca, in Italia come pratica che ecceda le norme etiche e di contro, in California, come tecnica perfettamente inquadrabile all’interno delle soluzioni procreative eticamente possibili, ma cercherò di mettere in luce alcune spinose questioni di carattere etico-metodologico incontrate sul terreno di ricerca in relazione agli spazi attraversati e alle interazioni costruite con i soggetti coinvolti nel mio studio[3]. Nello specifico farò riferimento a come abbia avuto accesso e costruito il campo in Italia, assieme alle famiglie coinvolte nello studio, ed in California, presso una delle cliniche della fertilità maggiormente utilizzata dai padri gay del mio studio etnografico[4].

Questo articolo non ha la pretesa di dare una panoramica esaustiva di tutta la letteratura che ha avuto come oggetto di interesse l’etica in ambito antropologico, ma cercherà di porre l’attenzione e provare a ragionare su alcune questioni sulle quali mi sono scontrata numerose volte nei due campi costruiti ed attraversati. Nell’impossibilità di riprendere tutta la produzione intellettuale che ha avuto come nodo tematico questo aspetto, e in relazione alle questioni che ho deciso di trattare in questo saggio, rifletterò attorno al concetto di responsabilità dell’antropologo, espressione spesso utilizzata per evidenziare ciò “che un antropologo” dovrebbe fare per la tutela dei soggetti con i quali egli entra in relazione. Nella prima parte, cercherò di far dialogare tale concetto inserendolo in un quadro storico degli ultimi quattro decenni, utilizzando prevalentemente la ricostruzione operata da Pat Caplan (2003); nella seconda parte focalizzerò l’attenzione sui due campi attraversati, mostrando strategie e frizioni incontrate durante gli anni della ricerca.

Responsabilità, codici etici, processi storici

Come altri scienziati, gli antropologi sono oggi più che in passato chiamati a comportarsi in modo etico con tutte le possibili parti coinvolte nelle proprie etnografie: con i soggetti della ricerca, con la comunità scientifica, con i finanziatori, con i comitati etici e, più in generale, con il pubblico che sempre più spesso attinge ai saperi che fino a qualche tempo fa erano accessibili ad un gruppo di nicchia. Ma che cosa significa etica in antropologia? Al servizio di chi l’antropologia funziona davvero? In che cosa si caratterizza il suo scopo, ma soprattutto qual è la sua utilità per le persone indagate? Quali sono e quali dovrebbero essere gli attrezzi dell’antropologo? Quali strategie attuare per tutelare la privacy delle persone con le quali si svolge ricerca? Cercherò, come sopra accennato, di rispondere a tali quesiti costruendo un discorso che ruoti attorno al concetto di responsabilità dell’antropologo.

Per molti antropologi le problematiche relative a questioni di etica della ricerca si risolverebbero costruendo, ma soprattutto aderendo ad un codice deontologico. Negli Stati Uniti, le tensioni etiche in ambito antropologico sono state maggiormente espresse nei e dai numerosi dibattiti sorti attorno al tema della stesura di tali codici. Questi ultimi sono apparsi specialmente come risposta a specifici momenti di sviluppo della disciplina, come ad esempio, a seguito di crisi causate da scandali come il noto Project Camelot [5] negli Stati Uniti o come diretta conseguenza dell’ingresso nel mondo del lavoro di antropologi che hanno applicato le conoscenze acquisite durante i percorsi di formazione universitaria in contesti non specificamente accademici. Risulta pertanto utile analizzare brevemente i contesti storici e culturali che hanno prodotto i primi codici deontologici in ambito antropologico, per comprendere ed individuare alcune dinamiche che possiamo rintracciare anche nel contesto italiano. Per far ciò, farò riferimento prevalentemente al testo di Caplan (2003) che ha esplorato i dibattiti sull’etica nei contesti britannici e statunitensi durante il corso degli ultimi quattro decenni.

Pat Caplan inizia ad analizzare gli anni che vanno dagli anni Sessanta del Novecento in poi, descrivendoli come anni turbolenti politicamente, sia poiché le potenze colonizzatrici stavano vivendo il processo di decolonizzazione, sia perché alcune nazioni erano impegnate in sanguinose guerre nel sud-est asiatico. Questi processi hanno avuto profonde ripercussioni in ambito antropologico, da un lato perché veniva sottolineata una delle caratteristiche primarie dell’antropologia, ovvero come disciplina figlia del colonialismo, dall’altro perché sono stati coinvolti e stipendiati negli scontri armati sul campo studenti, antropologi e specialisti del settore. Nel 1963 l’antropologo John Barnes ha pubblicato sul British Journal of Sociology un articolo che mirava ad una comparazione tra scienze sociali e scienze naturali, sottolineando quanto i parametri dell’antropologia stessero mutando in relazione agli eventi storici che si stavano susseguendo; egli, focalizzando l’attenzione sulle questioni dell’anonimato, del consenso informato, dell’etica delle pubblicazioni, ha evidenziato quanto la ricerca sociale abbia un profondo potere distruttivo nei riguardi di privacy ed autonomia degli individui coinvolti nella ricerche. A pochi anni di distanza, nel 1968, la rivista statunitense Current Anthropology, sotto il titolo Responsibility Symposium ha pubblicato una serie di articoli di G. Berreman, G. Gjessing e K. Gough che criticava come fosse stata praticata l’antropologia sino ad allora, andando a sottolineare come, a causa della crisi vissuta non solo dalla disciplina ma dal mondo intero, vi fosse stata un’oscillazione tra differenti e contrastanti esigenze. Si stavano sollevando in quegli anni una molteplicità di problematiche (rintracciabili ancora ai giorni nostri) rispetto alle responsabilità che gli antropologi, in quanto scienziati sociali, dovrebbero possedere nei riguardi dei soggetti coinvolti nelle etnografie.

A pochi anni di distanza, nel 1971, problematiche e cambiamenti epistemologici della disciplina sono stati discussi da altri autori; sul Current Anthropology è apparso un articolo di Johannes Fabian che enucleava prevalentemente le specificità degli antropologi sul campo come “estranei e non amici” e della necessita di formulare nuove prassi e nuovi livelli di consapevolezza dei ricercatori, così come nuovi tipi di lavoro sul campo. Si stava sottolineando ancora una volta il carattere liminale della disciplina, che se da un lato si immergeva profondamente nelle vite degli altri, chiedeva con forza di mantenere uno specifico distacco dai soggetti che si stavano studiando. Nel corso degli anni Settanta del Novecento, Orientalismo di Said (1978) da un lato e la svolta femminista dall’altro (Strathern 1972; Rosaldo, Lamphere 1975)[6], stavano profondamente influenzando il panorama antropologico, suggerendo nuovi paradigmi e portando con sé nuovi etiche della ricerca.

Sarà Writing Culture (1986) di Clifford e Marcus a segnare un passaggio decisivo in antropologia e a marchiare ufficialmente l’ascesa del postmodernismo, decretando sostanzialmente il passaggio ad una epistemologia dialogica, minando profondamente l’autorità antropologica. I principi illuministi che avevano prevalentemente influenzato il sapere antropologico fino ad allora, stavano subendo un progressivo sgretolamento andando a rendere più sfumati i confini tra antropologia accademica e antropologia applicata. Dai dibattiti teorici del postmodernismo in avanti, si sono accesi numerosi dibattiti attorno a tali questioni e, come poco sopra analizzato, le riflessioni attorno a concetti quali coinvolgimento, partecipazione ed azione degli antropologi all’interno dei propri contesti di ricerca e non esclusivamente legati ai soli contesti accademici, hanno invaso il panorama antropologico.

Caplan passa successivamente ad analizzare gli anni Novanta del Novecento volgendo lo sguardo rispetto ai processi di globalizzazione, alle politiche di identità e a quella che è stata definita “cultura del controllo”. Autori quali Scheper-Hughes (1995), Crapanzano (1995) e Nader (1995) hanno dibattuto rispetto a coinvolgimento, posizionamento e militanza degli antropologi[7]. Attorno a quegli anni sono proliferati anche dibattiti sull’etica ed hanno iniziato a sorgere i primi comitati etici all’interno delle università, soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna[8]. Mills (2003), attraverso una disamina dei dibattiti che hanno accompagnato le fasi di creazione e scrittura dei codici, tra Stati Uniti e Gran Bretagna, inseriva la loro creazione all’interno di una tradizione che si stava delineando come politica di controllo. Egli ha così suggerito, così come altri autori tra i quali Marylin Strathern (2000), che l'etica facesse parte di una più ampia storia di professionalizzazione della figura dell’antropologo, che abbracciasse tematiche quali la responsabilità degli antropologi dentro e fuori i contesti accademici.

Caplan conclude l’introduzione al testo che ho preso in esame attraverso alcune riflessioni in merito alla relazione tra etica ed antropologia. Secondo l’autrice quando si dibatte di questi due aspetti in realtà non si sta discutendo della semplice produzione di codici etici o deontologici, ma si stanno andando a toccare una pluralità di aspetti che sono il cuore della disciplina antropologica: epistemologia, costruzione del campo e contesti sociali ed istituzionali dove la disciplina lavora.

Abbiamo visto così come, negli ultimi decenni e nei contesti anglo-americani, la creazione ed i dibattiti sorti attorno all’etica della ricerca e alla costituzione di codici deontologici siano il frutto e lo specchio di specifici momenti storici che hanno comportato ad una messa in discussione e ad una problematizzazione di alcuni tratti specifici del sapere antropologico e delle responsabilità della ricerca.

Etiche in gioco: costruzione del campo, co-costruzione con i soggetti coinvolti nella ricerca, restituzione dei “dati” della ricerca

Se altre discipline, dalle scienze sociali alle scienze naturali, possiedono un codice etico e deontologico condiviso, in ambito antropologico non esiste un manuale di comportamento degli antropologi sul campo[9]. Le riflessioni maturate dalla nascita della disciplina antropologica ad oggi, hanno toccato numerosi e più svariati temi del fare ricerca (solo per citarne alcuni: osservazione partecipante, osservazione della partecipazione, engagement con i nostri interlocutori). Ci si è poco soffermati su alcuni aspetti che negli ultimi decenni hanno destato ed acceso dibattiti all’interno della più ampia comunità scientifica: può esistere un codice etico, applicabile ai più svariati contesi socio-culturali per chi conduca ricerche etnografiche? Se la co-costruzione dei significati con i soggetti coinvolti nelle etnografie, si fonda come elemento centrale del sapere antropologico, va da sé che la messa in forma del materiale raccolto sul campo (le note) e la successiva stesura delle informazioni (diari, etnografia, articoli, paper) rappresentino l’ossatura del lavoro di ricerca e quindi un importante nodo tematico che necessiti di una discussione più sistematica e che non si arresti a speculazioni di carattere squisitamente epistemologico o metodologico. Come alcuni antropologi hanno messo in luce (Fabietti et. al 2000; Malighetti 2008) la raccolta dei dati, le riflessioni circa la loro messa in forma mediante note, diari di campo e la composizione finale delle etnografie fanno parte del ben più ampio ed articolato processo di costruzione dell’autorità dell’antropologo. Per parafrasare questo concetto, ciò significa che la scientificità ma soprattutto la condotta etica di un ricercatore si fondi in prima istanza anche attraverso la presentazione del proprio progetto di ricerca ai soggetti con cui si desidera instaurare un dialogo futuro. In altre parole, significa che ciò che noi etichettiamo come “ingresso al campo” sia una delle fasi critiche che vanno a comporre la responsabilità di un antropologo sul e fuori dal campo. Vecchie domande, nuove sfide etiche: come si accede e come si costruisce il campo, in modo eticamente responsabile? Chi stabilisce l’eticità di un progetto e ne valuta l’ammissibilità? E che influenze può provocare nella costruzione del campo?

Le parti che riporterò di seguito nel corpo del testo (A. informazione e consenso; B. anonimato e riservatezza dei dati personali; C. conservazione e sicurezza dei dati raccolti e dei risultati della ricerca), fanno parte del modulo “richiesta di parere” del Comitato Etico dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca[10]. Utilizzerò questo documento a mo’ di esempio per provare a ragionare sugli elementi che se seguiti identificherebbero i ricercatori e i loro studi come “eticamente a norma”.

A. Informazione e consenso.

  • Sintesi del percorso informativo previsto (colloquio, firma del consenso, restituzione dei risultati).

  • Modulo informativo e Dichiarazione di consenso.

  • Nel caso si coinvolgano soggetti non in grado di esprimere il consenso, indicare a chi si si chiederà di acconsentire alla partecipazione precisandone il ruolo e i motivi.

  • Quali modalità saranno adottate per ricevere espressioni di dubbi e rispondere a richieste di precisazioni da parte dei soggetti nel corso dello studio?

  • In che modo i partecipanti saranno informati della possibilità di ricevere, direttamente o indirettamente, ogni altro dato relativo alle loro condizioni psico-fisiche che diventasse disponibile durante la ricerca?

B. Anonimato e riservatezza dei dati personali.

  • Informativa relativa al trattamento dei dati personali ai sensi del D. Lgs del 30 giugno 2003, n.196 (Codice in materia di protezione dei dati personali).

  • Come verrà garantito l’anonimato ai partecipanti (es. utilizzo di codici di identificazione).

  • Nel caso fosse necessario conservare i dati identificativi dei partecipanti, specificarne i motivi e le modalità con cui i soggetti ne sono informati.

Seguendo parzialmente tali linee guida, il progetto di dottorato si è basato sulle conoscenze acquisite e sui significati emersi dal lavoro di terreno effettuato per la tesi di laurea magistrale (2012) che ha avuto come oggetto la maternità lesbica in Lombardia; l’avvio di una prima riflessione circa le implicazioni etiche che pervadono il lavoro dell’antropologo e che sono costantemente giocate sul campo, l’ebbi proprio in quegli anni, a seguito di un primo colloquio conoscitivo con il referente scientifico dell’associazione che raggruppava genitori omosessuali. Egli, chiamandomi a colloquio, mi chiese quali accortezze metodologiche possedessi per tutelare la già vulnerabile posizione delle famiglie omogenitoriali italiane[11]. Mi ricordo che, dopo quell’incontro che valutai per certi versi come “ingresso al campo”, tornai a casa con un bagaglio infinito di interrogativi e, come spesso accade, rimodellai significato, misi in discussione le primordiali idee e iniziai a stendere una presentazione scritta del mio progetto, cercando di dare un breve descrizione delle linee guida, delle motivazioni e delle modalità rispetto a quello che, senza aver ufficialmente iniziato a fare ricerca, immaginavo di poter svolgere con le famiglie omogenitoriali italiane. La spazializzazione a macchia di leopardo dei nuclei omogenitoriali da un lato e la difficoltà di reperimento attraverso altri canali dall’altro, mi aveva nuovamente spinto a contattare una delle associazioni nazionali che raggruppa sul suolo italiano genitori omosessuali ed aspiranti tali, la stessa che avevo contattato qualche anno prima per il conseguimento della laurea magistrale in antropologia. Rispetto alla precedente etnografia, avevo previsto un numero più cospicuo di famiglie da contattare, non residenti esclusivamente nel contesto lombardo. L’incontro con il referente dell’associazione si è configurato come una sorta di rito di passaggio anche per la ricerca di dottorato, come ingresso ufficiale al campo e, in generale, come tappa necessaria per poter immergermi al meglio nella realtà che intendevo studiare. Sapevo che l’accesso alla mailing list avrebbe permesso un’interazione diretta, e non mediata da terzi, con le persone con le quali desideravo entrare in relazione, ma ero a conoscenza del fatto che la piattaforma on line fosse riservata esclusivamente agli associati. Per la strutturazione che l’associazione si era data, il contatto con il referente si era configurato come momento chiave. La medesima situazione si è così ripresentata per la presentazione del progetto di ricerca di dottorato che avevo intenzione di mostrare a quella comunità. L’organizzazione interna dell’associazione ha comportato nelle prassi ad una specifica modalità di accesso al campo (la stesura di una presentazione scritta del progetto di ricerca da inoltrare alla mailing list nazionale, accessibile a tutti i potenziali soggetti della ricerca), richiedendo uno sforzo di esplicitazione puntuale ed accurato rispetto a strumenti teorico-metodologici, tempistiche, modalità, obiettivi, scopi e finalità da condividere con tutti i possibili attori coinvolgibili nel lavoro. La proposta di ricerca di dottorato, una vola esaminata e accolta positivamente dal referente scientifico dell’associazione, è stata inoltrata ai soci di tutto il contesto nazionale. Le prime risposte ricevute mi hanno fatto nuovamente modificare parte della presentazione scritta poiché, da ciò che emergeva, il metodo che avevo presentato era stato ritenuto poco chiaro (cosa significa nel concreto fare ricerca etnografica?) e “troppo impegnativo” (poiché basato su uno scambio di relazioni continuate e compartecipate), ma soprattutto mi sono accorta che la problematica sottesa a tutti gli interrogativi riguardasse prevalentemente privacy ed uso delle informazioni personali raccolte.

Questa peculiare modalità di accesso al campo e le successive relazioni che ho intrecciato negli anni, mi hanno fatto profondamente riflettere sullo stato di vulnerabilità di alcuni soggetti coinvolti in ricerche che vengono definite at home, suggerendomi successive modifiche e aggiustamenti, e soprattutto mi hanno pensare alle numerose difficoltà di svolgere ricerca anche in contesti non esotici, rappresentati generalmente come più semplici da penetrare. Rispetto agli anni della ricerca per il conseguimento della laurea magistrale (2012) numerose questioni erano mutate: la mia conoscenza della realtà che stavo studiando, il bagaglio teorico-metodologico che stavo acquisendo durante gli anni del dottorato; la discussione mediatica del fenomeno che stava fiorendo a seguito del progressivo riconoscimento giuridico di simili gruppi domestici in tutta Europa (fatta eccezione dell’Italia) e la visibilità delle famiglie omogenitoriali italiane[12]. Una visibilità che paradossalmente rendeva sempre più complicato organizzare il campo che mi ero prefigurata di costruire. Visibilità significava che numerosi studiosi, giornalisti o semplici curiosi chiedevano di poter intervistare i nuclei di questa realtà, provocando inevitabilmente diffidenza da parte dei soggetti con i quali intendevo tessere delle relazioni.

A seguito della presentazione ufficiale del mio progetto di dottorato, circolato nella mailing list nazionale, ho strutturato il mio lavoro attraverso una estenuante ricerca di famiglie disponibili ad entrare in relazione con me. Seguendo la linea teorica dell’antropologa Janet Carsten, ambivo nel vivere la quotidianità delle relazioni di parentela, all’interno delle mura domestiche[13]. Il lavoro ha richiesto un dispendio di energie molto alto e ho cercato di penetrare la realtà, che osservavo ormai da anni, in modo graduale. Le prime interviste hanno avuto un sapore decisamente molto più formale: presentavo nuovamente il progetto, chiarendo dubbi e precisazioni, raccoglievo le informazioni, richiedendo il consenso informato, quando effettuavo registrazioni di interviste non strutturate. È stato poi il campo a risucchiarmi nel vortice di conoscenze, offrendomi la possibilità di vivere all’interno delle mura domestiche di alcune famiglie coinvolte nella ricerca. La metodologia che avevo impostato, sarebbe stata attuabile o sarebbe stata valutata dai soggetti stessi come troppo invasiva? Come impostare, in queste situazioni, le accortezze metodologiche richieste dai comitati etici? L’ingresso nelle abitazioni ha trascinato con sé un’immersione sempre più profonda nella realtà toccata: vivere con famiglie mi ha permesso non solo di osservare le relazioni parentali nella loro quotidianità, ma di ampliare la rete di conoscenze delle famiglie omogenitoriali. Come spesso accade quando si è inseriti profondamente all’interno di alcune realtà, è sempre buon esercizio chiedersi quale sia il grado di coinvolgimento dell’antropologo all’interno delle vite degli altri. In alcune occasioni, mi sono domandata come avrei dovuto comportarmi per esplicitare costantemente il mio ruolo, in modo che i soggetti fossero sempre coscienti che la mia presenza nelle case significasse costante osservazione. Ma poi ho riflettuto sul fatto che gli antropologi in fondo nascondono sempre il desiderio di sentirsi parte integrante di una comunità, di non venire più avvertiti come estranei e di essere interpretati come non alterità, quando, al contrario, un estraneo in appartamento è sicuramente un fatto straordinario. Pensare quindi che la presenza di un’antropologa tra le mura domestiche fosse percepita come routine quotidiana, era più un mio fantasticare che l’effettiva realtà. Gli equilibri familiari sono stati sicuramente alterati dalla mia presenza e i soggetti, in diverse occasioni, attraverso battute o scambi scherzosi, hanno dichiarato di aver ben presente che quello che stavo svolgendo a casa loro fosse “fare etnografia”.

A seguito di queste esperienze, ho sempre cercato di esplicitare ai soggetti coinvolti nel mio lavoro di ricerca le modalità per rimanere in contatto in caso di dubbi o di esplicitazioni future, così come molti codici deontologici richiedono. Questa possibilità, seppur non espressamente annoverata tra gli obblighi che un antropologo dovrebbe attuare, ha sempre fatto parte, con tutte le sfumature del caso, degli attrezzi che un etnografo possiede sul campo. In altre parole, sia la costruzione dell’autorità dell’antropologo che tutto l’impianto sul campo si giocano anche nella capacità di tessere e mantenere legami con i propri interlocutori durante tutte le fasi di ricerca, ma soprattutto anche ad enografia conclusa. L’eventualità di rimanere collegati con un filo rosso con molti dei soggetti della propria ricerca, mi ha permesso difatti un’analisi approfondita dell’oggetto di studio che avevo deciso di analizzare. Mi è capitato più volte di essere stata contattata da alcuni interlocutori che hanno sentito il bisogno di precisare alcuni punti che erano emersi durante le interviste o durante i momenti passati assieme. Le loro perplessità e domande si sono inserite in un orizzonte che mi ha permesso di avviare approfondimenti rispetto a specifici temi d’interesse.

Esistono ambiti e contesti in cui è complesso mettere in pratica quello che ho sopra definito accortezze metodologiche, altri in cui è più semplice ed altri ancora dove invece tali prassi si configurano come elementi imprescindibili per avere un accesso ufficiale: cliniche, ospedali, aziende e in generale tutti quei contesti a strutturazione più formale. Se con le famiglie con le quali ho svolto ricerca ero riuscita a costruire un percorso lento e processuale (incontro con il referente scientifico, presentazione del progetto e delle metodologie, firma del consenso informato in alcune situazioni e non in altre, continuo e costante posizionamento della ricercatrice, ma soprattutto continua esplicitazione delle accortezze metodologiche), nel contesto americano ho incontrato più frizioni e rallentamenti. Ovvero, l’iter corretto di accesso al campo, nel concreto l’ingresso all’interno della clinica della fertilità come “ricercatrice esterna” avrebbe previsto che il mio progetto di dottorato fosse vagliato, analizzato/rivisto/respinto/approvato dal comitato etico della clinica stessa; date le tempistiche che avevo per svolgere ricerca in California (periodo relativamente breve se comparato allo spettro burocratico che si delineava all’orizzonte), ho deciso di evitare un ingresso ufficiale, individuando e trovando altre modalità per entrare in relazione con donatrici e surrogate coinvolte nell’esperienza di surrogacy con padri gay italiani (pur attuando le specifiche sopra elencate in merito a privacy, informazione e consenso informato etc.). Ovvero, ho contattato il responsabile della clinica esplicitando il lavoro che mi ero prefissata di svolgere (entrare in contatto con donatrici e surrogate, osservare il lavoro della clinica etc.), comunicando tuttavia che avrei attraversato il contesto medico in maniera informale. In altre parole, la mia autorità sul campo si è costruita in una processualità del tutto dinamica grazie al precedente lavoro di fabbricazione di una rete di conoscenze di aspiranti padri italiani coi quali avevo tessuto relazioni: il mio accesso in clinica si è costituito così come accompagnamento dei miei informatori presso la struttura sanitaria, seppur tutto il personale medico conoscesse i miei obiettivi e le mie intenzioni.

La costruzione dei due terreni di ricerca, ha comportato la messa in discussione di alcuni passaggi che avevo previsto prima dell’effettivo ingresso in essi. In altre parole, la strutturazione dei due campi, che potremmo definire “rigida” per i passaggi obbligati che ne hanno permesso l’accesso in maniera graduale, hanno profondamente influenzato la metodologia stessa del fare etnografia.

Durante il corso degli anni, numerose associazioni di antropologi di tutto il mondo hanno prodotto codici etici, e come poco sopra mostrato, essi si sono configurati come figli di specifici processi storici e culturali che ne hanno permesso e favorito la loro costituzione. Uno degli obiettivi originali dell’American Anthropological Association (AAA) del 1971 verteva sulla responsabilità professionale di chi conduce ricerche, andando ad esortare gli antropologi ad agire come veri e propri intellettuali pubblici:

As people who devote their professional lives to understanding man, anthropologists bear a positive responsibility to speak out publicly, both individually and collectively, on what they know and what they believe as a result of their professional expertise gained in the study of human beings. That is, they bear a professional responsibility to contribute to an ‘adequate definition of reality’ upon which public opinion and public policy may be based (AAA 1971, clausola 2D).

La responsabilità professionale degli antropologi stava nella capacità di analizzare, trattare e comunicare all’opinione pubblica e alla più ampia comunità scientifica, i risultati delle proprie ricerche, contribuendo ad “un’adeguata definizione della realtà”. Una volta raccolto il materiale etnografico, esistono prassi per restituire i frutti del proprio lavoro? Com’è giocata la responsabilità degli antropologi? Tale concetto attraversa in modo trasversale anche il codice deontologico dell’Associazione Nazionale Universitaria degli Antropologi Culturali (ANUAC) del 2010, seppur con una vasta pluralità di sfumature al suo interno. Il testo è suddiviso in una serie di sezioni e, responsabilità assume un valore centrale in numerosi paragrafi che compongono il documento: II “principi” (impegno di coerenza, responsabilità sociale), III “norme etiche” (responsabilità soprattutto verso i soggetti con i quali si sta svolgendo ricerca), IV “insegnamento” (responsabilità verso i formandi) e “ricerca applicata” (necessità di seguire tali principi anche fuori dall’accademia). Leggiamo al paragrafo II: «Gli antropologi devono prendere in seria considerazione ogni richiesta ragionevole rivolta a ottenere, al fine di ulteriori ricerche, l’accesso ai propri dati e ad altri materiali di ricerca. Rimane comunque prioritario fare ogni sforzo per assicurare la preservazione dei dati dei loro fieldworks ad uso delle generazioni future» (ANUAC 2010).

Ed ancora al paragrafo III, si può leggere:

È opportuno che gli antropologi ottengano in anticipo il consenso informato delle persone che essi studiano, fornendo informazioni, possedendo o controllando l’accesso al materiale di studio prodotto, futuro o altrimenti identificato. Poiché, poi, il consenso informato è un processo dinamico e continuo, ne discende che l’intera articolazione di ogni piano di lavoro sottostia al dialogo e alla negoziazione con i soggetti interessati.

Gli antropologi sono responsabili per l’identificazione e l’osservanza dei vari codici di consenso informato, leggi e regolamenti che riguardano i loro progetti. Il consenso informato, ai fini del presente codice, non implica necessariamente né richiede una particolare forma scritta o firmata. È la qualità del consenso, non il formato, ad essere rilevante (ANUAC 2010, pp. 4-5).

Se il sapere antropologico è caratterizzato da una co-costruzione con i soggetti coinvolti nella ricerca, l’esplicitazione di obiettivi, scopi e finalità, quello che rientra sotto la definizione più ampia di “consenso informato”, si configura come una delle prime tappe rituali che dovrebbero andare a comporre la costruzione stessa dell’accesso al campo. Com’è possibile e che cosa significa consenso informato in antropologia? Esso deve seguire logiche universaliste o può, al contrario, adattarsi ai differenti e casi e campi attraversati dagli antropologi? Quello che emerge dal documento ANUAC è una descrizione interessante di consenso informato che, lontano all’essere un processo che si arresti una volta ottenuta la firma degli informatori, si fonda come aspetto dinamico e fluido. Il consenso informato, così come la ricerca antropologica, è un processo in continuo movimento: muta, si arresta, muore, subisce inversioni di rotta e non si conclude una volta ricevuto, sia esso in forma orale o scritta. Difatti quello che risulta essere rilevante non è tanto il consenso informato in sé, quanto la qualità del consenso stesso. Cosa significa questo? Non è necessaria la forma del consenso, orale o scritto, bensì che obiettivi, scopi e finalità siano sempre trasparenti ed accessibili ai soggetti coinvolti nella ricerca e che la catalogazione delle informazioni raccolte segua un percorso volto alla protezione dei dati sensibili (questione che era emersa numerose volte durante la ricerca sul campo con le famiglie omogenitoriali italiane). Come garantire tutto questo? Come poter far dialogare un consenso informato “fluido” ad uno strumento più apparentemente rigido che cerca di porre netti confini indicando dettami e prassi valutate come eticamente corrette? Proseguiamo così la lettura dei paragrafi B e C, riguardo ad anonimato e riservatezza dei dati personali, del modulo di “richiesta di parere” del Comitato Etico dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.

C. Conservazione e sicurezza dei dati raccolti e dei risultati della ricerca.

  • Chi avrà accesso ai dati raccolti e ai risultati (ancorché intermedi) della ricerca.

  • Per quanti anni i dati raccolti verranno conservati dalla conclusione della ricerca.

  • Indicare le modalità di conservazione dei dati sensibili (responsabile della corretta conservazione e luogo dove verranno conservati).

Il lavoro di responsabilità di un antropologo si giocherebbe nel bilanciamento tra fluidità del consenso informato e rigidità di documenti che indirizzerebbero ad azioni più stereotipate e meno ibride. Chi non si uniforma a questo registro sta compiendo azioni meno etiche di altri? Facendo dialogare le parti, significa che la responsabilità del fare ricerca è sottesa alla co-costruzione del sapere con i soggetti del proprio lavoro. In altre parole, fluidità e qualità del consenso sono le chiavi per costruire un sapere che sia anche eticamente accettabile.

Un’ulteriore riflessione che mi preme qui portare alla luce prende corpo da una domanda apparentemente banale, che non riguarda direttamente la parte intersoggettiva tra antropologo e informatori, ma che tocca direttamente i momenti più intimi di ogni ricercatore; dal momento in cui l’antropologo, a seguito delle prassi sopra citate, inizia a svolgere ricerca stilando note di campo, diari, appunti, fotografie, registrazioni audio e video, quali strumenti possiede o dovrebbe possedere un ricercatore “responsabile” sul campo? Se, ad esempio una registrazione audio o video è generalmente accompagnata da un consenso informato e quindi potenzialmente sicura (se accuratamente catalogata e riposta in un luogo accessibile al solo ricercatore o ad un eventuale gruppo di ricerca), come si può garantire la riservatezza dei dati sensibili all’interno del diario di campo che è uno degli strumenti principe del fare etnografia? Come ci insegna la storia dell’antropologia, dalla pubblicazione postuma dei diari di campo di Malinowski (1967), essi più che come elementi privati, intimi e personali del ricercatore si configurano come veri e propri strumenti di pubblici. Pertanto, quello che Geertz (1988) ha definito il “problema del discorso”, ovvero che cosa un autore autor-izza nella propria etnografia, può essere trasposto anche ai diari di campo? In altre parole, quale spirito metodologico di partenza adottare per la tutela i dati sensibili dei soggetti coinvolti nel lavoro di ricerca? Penso che anche all’interno dei diari di campo, possano essere utilizzate le stesse modalità di trattamento dei dati sensibili che vengono generalmente applicate ai documenti ufficiali prodotti, ad esempio, per le università, pur tuttavia continuando ad utilizzare in modo creativo l’espressione di dinamicità del consenso informato che emerge dal documento ANUAC.

Quando l’oggetto della propria ricerca etnografica è fortemente intrecciato a dilemmi etici (Markens 2007), le questioni morali da affrontare sul campo, ma soprattutto durante il trattamento dei dati personali e sensibili, risultano essere molteplici. Come tutelare queste famiglie? Come riuscire a restituire la complessità incontrata sul campo senza “tradire” la privacy dei propri interlocutori? Se, come sopra mostrato, una restituzione puntuale si fonda come uno dei principali principi morali che caratterizzano il lavoro dell’antropologo, è sempre più complesso comporre etnografie che restituiscano la realtà incontrata senza ledere i soggetti coinvolti nelle ricerche di campo. Gli etnografi corrono il rischio di rendere pubbliche informazioni per le quali gli informatori avevano preferito non fossero divulgate, magari attraverso pubblicazioni di fatti valutati illegali o riprovevoli (Barnes 1967). «Social research entails the possibility of destroying the privacy and autonomy of the individual, of producing more ammunition to those already in power, of laying the groundwork for an invincibly oppressive state» (Barnes 1979: 22).

Gli antropologi nelle loro mani hanno il potere di manipolare e possedere alcune informazioni che possono arrecare danni ai soggetti delle proprie ricerche etnografiche. Per questo motivo vi è il bisogno di essere consapevoli di questo e di valutare come produrre una restituzione testuale che riesca a bilanciare al meglio informazioni raccolte e rielaborazione etnografica. In altre parole, sul piatto della bilancia c’è il fatto di non voler “tradire” i propri soggetti della ricerca da un lato, né riportare fatti in modo talmente modificato da apparire come fantasie degli antropologi. I rischi che si corrono sono sempre maggiori, dal momento in cui stanno nascendo sempre più questioni relative alla privacy che esortano i ricercatori a modificare i nomi dei soggetti delle proprie etnografie, ad inventarsi nomi di fantasia dei luoghi nei quali si è svolta ricerca ecc. Ma seguire i dettami di un documento simile a quello elaborato dal comitato etico dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, può realmente tutelare tutte le persone coinvolte nella ricerca? Per evitare che la restituzione dei risultati della ricerca possa arrecare un giudizio o danni alle persone coinvolte, le storie che riporterò durante la stesura dell’etnografia che sarò chiamata a produrre per il conseguimento del titolo di dottore, saranno restituite in forma modificata per garantire l’anonimato e soprattutto, come richiesto dagli interlocutori, per tutelare la privacy dei minori. Non esistendo un manuale da seguire, né suggerimenti condivisi su come sia possibile rendere sfocati i profili, l’antropologo sperimenta di volta in volta strategie differenti.

In numerose occasioni ho riflettuto sull’aspetto della restituzione del materiale raccolto. Quello che avevo difatti osservato per anni è un fenomeno che scuote le coscienze collettive, dove la riproduzione di persone omosessuali viene spesso etichettata come un atto abominevole, contro natura, non conforme al modello tradizionale familiare. Come ha sostenuto Barnes (1979), possediamo nelle nostre mani un’ipotetica potenza distruttiva nei confronti dei soggetti delle nostre ricerche. Più ci addentriamo nelle problematiche, più distruttiva sarà la portata del nostro lavoro. La costruzione del mio campo mi ha permesso di toccare in profondità le intimità familiari e di raccogliere storie di vita di persone che hanno valicato i confini nazionali per ricevere assistenza procreativa, utilizzando tecniche spesso ammantate da disapprovazione e (dis)conferme sociali. Durante le fasi di restituzione della ricerca di campo, cercherò di mantenere alta l’attenzione sulla questione delle responsabilità che gli antropologi possiedono, non solo nei riguardi dei propri interlocutori, che hanno aperto le porte delle loro intimità, ma anche nei riguardi della comunità scientifica e, in generale, del più vasto pubblico.

Conclusioni

Come ho cercato di mostrare in questo saggio, per essere compresi, i discorsi su etica e codici deontologici necessitano di essere inseriti all’interno di una specifica cornice storica che li ha prodotti. Soprattutto negli ultimi decenni, si sta assistendo in Italia a ciò che era accaduto nel contesto anglo-statunitense qualche decennio prima. In altre parole, grazie all’ingresso nel mondo del lavoro di giovani laureati in antropologia, ad un crescente numero di antropologi che lavorano in contesti at home e all’inserimento della disciplina antropologica in un contesto di dialogo con altre discipline accademiche, si sta assistendo ad un proliferare di discorsi sull’etica, così come ad un numero sempre maggiore di comitati etici pronti ad analizzare e giudicare l’eticità dei progetti di ricerca.

Come mostrato, in ambito antropologico seguire un’etica non significa esclusivamente seguire una serie di linee guida o attenersi ai differenti codici prodotti, ma significa soprattutto andare a volgere lo sguardo al cuore della disciplina stessa (premesse teoriche, questioni epistemologiche, prassi metodologiche ecc.). In altre parole, se come molti autori hanno sostenuto è importante possedere un codice deontologico che possa fungere da linea guida, è altresì importante costruire un codice che possa abbracciare la pluralità dei differenti contesti che gli antropologi attraversano. Non sto sostenendo che non debbano essere seguiti ipotetici dettami etici o che nessuna etica in ambito antropologico sia possibile. Sto al contrario provando a ragionare su come sia necessario spostare l’attenzione e riflettere sia sulle specificità storiche, sociali e culturali che hanno prodotto e continuano a produrre determinati codici deontologici, sia sull’applicabilità di tali codici nei più svariati contesti in cui gli antropologi sono impegnati a fare ricerca nella contemporaneità. Ogni disciplina presenta le proprie specificità e penso ci sia oggi più che mai l’urgenza di aprire un dialogo con le diverse discipline ed in generale con i comitati etici che esortano sempre più spesso ad adattarsi ad un modello standard, valutato come eticamente sostenibile ed estendibile a tutte le discipline accademiche. Se, come sta accadendo in molti contesti internazionali, i comitati etici stanno acquisendo sempre più un peso significativo per garantire l’avvio dei progetti di ricerca, ciò significa che l’autorità antropologica e la sua responsabilità siano potenzialmente minate e messe in discussione non più da una commissione scientifica che ne vagli le capacità del fare ricerca, ma da comitati che trasversalmente approvano progetti di ricerca molto differenti tra loro. In ragione di queste problematicità che ognuno di noi è chiamato ad affrontare quotidianamente prima e dopo il campo, il dibattito rispetto a questioni etiche e codici deontologici in ambito antropologico risulta essere più che mai urgente, sia per proteggere i soggetti delle etnografie che per tutelare l’operato del ricercatore stesso. Ritengo opportuno aprire un dibattito che non si arresti esclusivamente a speculazioni di carattere teorico, ma che vada a colpire il cuore del fare etnografia.

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[1] I genitori omosessuali coinvolti nello studio risiedevano tutti sul territorio italiano. La ricerca si è snodata prevalentemente in due differenti terreni di ricerca per poter studiare in modo più complesso le dinamiche e i processi di concepimento delle pratiche di surrogacy.

[2] In relazione alle scelte compiute dai soggetti dell’etnografia, ho deciso di coinvolgere nello studio esclusivamente le donatrici di ovuli e non i donatori di sperma. Questa scelta è dovuta al modo in cui gli attori sociali hanno agito e si sono relazionati rispetto alle terze parti riproduttive. Le madri hanno utilizzato il seme di donatori anonimi, attribuendo poca rilevanza ma soprattutto rilevando superfluo l’importanza di conoscere o entrare in contatto con le terze parti riproduttive; di contro, i padri hanno scelto di entrare in relazione sia con donatrici che con surrogates. Per il valore attribuito al donatore e per le rappresentazioni raccolte, ho valutato poco utile coinvolgere nello studio i donatori di seme e trovato estremamente significativo coinvolgere le donatrici di ovuli.

[3] I due contesti in cui ho svolto ricerca, possiedono due regolamentazioni profondamente differenti in materia di fecondazione medicalmente assistita. In Italia la legge 40/2004 vieta espressamente all’articolo 12 comma 6 quella che è definita surrogazione di maternità. In California, la GPA è regolamentata e legalmente praticata grazie a AB-1217 surrogacy agreements.

[4] Parte del mio progetto di dottorato ha analizzato il processo di surrogacy e, nello specifico, il modo in cui si siano costruiti processi riproduttivi e relatedness tra padri e madri surrogate/donatrici. California (Stati Uniti) e Canada sono inseriti in un documento dell’associazione che sviluppa argomentazioni rispetto a sensibilità etiche. Queste due nazioni sono descritte come stati in cui vige una regolamentazione puntuale della surrogacy volta a tutelare tutte le parti coinvolte all’interno del processo riproduttivo (donatrici, surrogate, personale medico-sanitario e genitori d’intenzione).

[5] Il Project Camelot è stato un progetto promosso ed organizzato da un istituto di ricerca dell'esercito degli Stati Uniti. Lo scopo principale del progetto era quello di studiare le motivazioni del conflitto ed il sostanziale problema di insurrezione in America Latina. Le informazioni sono trapelate, scatenando un caso diplomatico in entrambi gli stati.

[6] Nonostante il femminismo abbia preso corpo maggiormente negli anni Settanta del Novecento, è con gli anni Ottanta del Novecento che assumerà una maturazione dal punto di vista teorico. Per un’analisi approfondita, rimando ai testi di Moore (1988) e Lewin (2006).

[7] Per un approfondimento rispetto ai temi trattati, rimando al testo di Caplan (2003).

[8] Rimando ai testi Pels (1999); Strathern (2000); Amit (2000).

[9] Codici deontologici ANUAC (2010) e AISEA (2000).

[10] Il modulo segue le linee guida della convenzione di Oviedo (1997) per la protezione dei diritti dell'uomo e la dignità dell'essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina.

[11] Definisco accortezze metodologiche tutti i passaggi che dovrebbero essere eseguiti affinché la privacy e la riservatezza dei dati sensibili delle persone siano garantiti (firma consenso informato, liberatoria utilizzo immagini, etc.).

[12] Questo aspetto si configura come strategia politica volta all’uscita dal processo di invisibilizzazione che per lungo tempo aveva caratterizzato le forme familiari che eccedono la norma, ma soprattutto, come Simonetta Grilli ha ben messo in luce come prassi per configurarsi come “famiglie tra le altre” (Grilli 2014).

[13] Casa come chiave di lettura per leggere la parentela nelle pratiche quotidiane. Janet Carsten in After Kinship attraverso la descrizione della sua esperienza etnografica nell’isola di Langkawi (Malesia), suggerisce la modalità per comprendere la densità della parentela: «[…] to assert that kinship is made in houses through the intimate sharing of space, food and nurturance that goes on within the domestic space. And because being “made” is usually opposed to being ‘given’, houses are good places to start examining that theme» (Carsten, 2004: 35).