Fare ricerca di campo tra i Maxakali

Riflessioni sulla pratica etnografica nella complessità di un mondo indigeno amerindio

Claudia Magnani

Universidade Federal de Minas Gerais/UFMG.

Table of Contents

 

Introduzione: un momento etnografico
Un’antropologa tra i Maxakali
L’etnografia come pratica sociale critica
Le responsabilità dell’etnografo: il patto etnografico
(In)conclusione
Bibliografia

Abstract.  Nowadays, the worlds of lowlands’ indigenous people are dynamic and complex. Traditional and modern practices, cosmological and pragmatic elements, cross each other in an original way, redefining their particular realities in a historical contingency characterized by wider political and social implications. Doing ethnography among the Maxakali, an indigenous people from the North East of Minas Gerais State in Brazil, involves confronting a lot of roles, positions, boundaries and epistemological and ethical problems, that show us the dilemmas of the ethnographic practice and of the anthropological discourse. Still engaged in a fieldwork experience with a Maxakali community, I´ll try to shed light on some of the complex dimensions – human, epistemological, political – that are involved in doing ethnography and producing knowledge about the other. Through a critical and reflexive analyses of the self presence in the fieldwork, the ethnography is investigated as an inter-subjective and sensible social practice – as well as the practices observed by the ethnographer – that occurs in a field of historical and epistemological asymmetries. A reflexion about the personal, social and political conjectures of the research finally claims for a more explicit commitment of the anthropologist, as an intellectual and political ally of the co-participant of his fieldwork.

Keywords: Critical Ethnography; Reflexive Anthropology; Amerindian Ethnology; Amerindian Studies.

Introduzione: un momento etnografico

Le mani dell’anziana Maxakali, leggere e profondamente segnate dal tempo, dispiegano le foglie di banano in gesti lenti e delicati, in una coreografia precisa e, ai miei occhi, estremamente poetica. È mattino al villaggio di Aldeia Verde e la donna, con pazienza e dedizione, sta preparando dei beiju [1] di carne in foglie di banano, una ricetta antica che oggigiorno non si fa quasi più, un “cibo forte” degli antenati. Dentro quei movimenti di preparazione di un piatto così ancestrale si custodisce e riproduce un sapere antico, un’alleanza costantemente rinsaldata tra l’universo dei vivi e quello degli spiriti-yãmiyxop [2]; una combinazione indissolubile tra il mondo femminile e quello maschile; una relazione con l’alterità che si attiva attraverso atti combinati di domesticazione e predazione.

Questo pane di manioca – ingrediente centrale nelle culture amerindie, addomesticato attraverso una millenaria selezione genetica – è preparato dalle donne e riempito di carne, anticamente cacciata dagli uomini nelle incursioni in foresta insieme agli spiriti cacciatori. Il canto dell’anziana Maxakali si sovrappone ai suoi gesti e si fa tutt’uno con la cottura del beiju, rievocando i tempi degli antenati, quando essi vivevano in un mondo di estrema diversità e bellezza. Nei loro versi, i canti sciamanici Maxakali descrivono paesaggi d’immensa foresta abitata da molteplici umanità, spiriti, animali, specie vegetali[3], dipingendo un quadro di grande abbondanza alimentare, demografica e socioculturale. Mentre il cibo e il canto ricostruiscono il territorio Maxakali, e riattivano le sue innumerevoli soggettività, tuttavia, io mi trovo immersa in una scena apparentemente molto lontana da quella evocata. Le mani della donna anziana impastano dell’amido di manioca comprato da un produttore dei dintorni – perché non c´è più terra buona per piantare manioca – e tagliano pezzetti di carne di manzo proveniente da un allevamento di chissà dove – perché non c´è più foresta per praticare la caccia.

La terra sconfinata, una volta ricoperta dalla rigogliosa Mata Atlântica – una foresta tropicale che si estendeva per tutta la costa orientale e sud-orientale del paese – è ora una piccola riserva indigena dal paesaggio arido, rimodellato dagli allevamenti estensivi e dall’avanzata delle imprese minerarie, ubicata nel cuore di una regione fortemente urbanizzata e trasfigurata dallo sviluppo agro-alimentare. Tuttavia non ci s’inganni, non si tratta di un “pessimismo sentimentale” (Shalins 1997), né dell’evocazione di un mondo perduto. Al contrario. Seppur “biologicamente estinto”, il mondo degli antenati è presente e agente nella quotidianità del villaggio, prendendo forma in un contesto – quello attuale – decisamente più stratificato, in cui spiriti ed altre forme di umanità attraversano nuovi confini, convivendo e trasformandosi quotidianamente insieme ai Maxakali e agli attori, enti e prodotti della società nazionale. Istituzioni, cibi industrializzati, strumenti tecnologici, ma anche agenti del governo, professori, medici, commercianti, politici locali, entrano, in molteplici maniere, a far parte del contesto nativo. E tra questi anch’io, che metto piede nel villaggio indigeno col mio doppio ruolo di ricercatrice universitaria e formatrice; con il mio corpo, le mie qualità sensibili, il mio bagaglio concettuale, la mia ingombrante macchina fotografica, e il mio multiplo progetto personale, pedagogico e accademico.

E’ dunque perfettamente plausibile che mi ritrovi in una scena in cui, mentre seguo la danza dei gesti del beiju, alle nostre spalle, percorrendo la strada di accesso al villaggio, si avvicinino le auto istituzionali del Governo e, dall’altra parte, dal kuxex (la casa rituale) escano alcuni spiriti-y ã miyxop in visita al villaggio, con i loro corpi coperti di terra, pitture vivaci e adorni cerimoniali, per danzare e cantare insieme alle donne presenti. E mentre alcuni Maxakali ricevono gli agenti della Funai[4] – risolvendo questioni di ordinaria amministrazione della comunità – un gruppo di donne va incontro agli spiriti, offrendo loro un banchetto alquanto originale, composto tanto da cosiddetti “cibi tradizionali”, come manioca, carne, banana, pesce, quanto da cibi importati, che segnano le più recenti trasformazioni alimentari, come bibite gassate, biscotti, pane, caffè.

Questo “momento etnografico” (Strathern 1999) avviene nel pieno flusso della vita quotidiana Maxakali, caratterizzando una socialità multi-dimensionale e in continuo divenire, nella quale elementi di diversa natura – endogeni ed esogeni, femminili e maschili, rituali e quotidiani, tradizionali e moderni, umani ed extra-umani – convivono e si relazionano costantemente. Tali combinazioni fanno parte di una dimensione sociale sempre più globalizzata, nella quale le società locali risignificano i propri mondi mettendo in atto processi di resistenza, incorporazione e trasformazione. Se da un lato l’usurpazione e la devastazione delle terre ancestrali (risultato di una violenta storia coloniale) ha reso i Maxakali dipendenti da un’economia e una politica globali che protraggono relazioni di violenza e colonialismo; dall’altro, essi riproducono il loro mondo a partire da reti di spiriti alleati, pratiche e concezioni proprie, che complessificano i significati, gli agenti e le dinamiche in gioco nelle contingenze attuali. Si fa esplicita, dunque, la dimensione “cosmopolitica” (Stengers 2005) di un campo che è storicamente marcato da asimmetrie di potere, ma che si ricostruisce a partire dall’interazione di prospettive e agenti locali di molteplice natura.

Queste maglie, nelle quali il ricercatore (che lo voglia o no) si trova impigliato costituiscono anche lo scenario del campo di ricerca, facendo emergere un groviglio di questioni etiche ed epistemologiche di un’esperienza – quella etnografica – che è al tempo stesso particolare e intersoggettiva, storica e sociopolitica, locale e globale. Le più ampie politiche del campo si riproducono, infatti, nelle relazioni particolari tra il ricercatore e i suoi interlocutori, a partire proprio dalle dimensioni più intime e personali dell’esperienza di ricerca; dagli aspetti sensibili e intellettuali con i quali il ricercatore si confronta sul campo (e che vive sul proprio corpo). Le relazioni di potere, i legami affettivi, le aspettative in gioco, i propositi scientifici, le diverse sensibilità a confronto, s’intrecciano facendo emergere la complessità delle implicazioni interconnesse all’esperienza di ricerca.

Come fare i conti con i propri limiti intellettuali, fisici, sensibili, morali? Come includere il sé e quegli aspetti ampi dell’esperienza umana che fanno parte del processo epistemologico della ricerca? Come accogliere nella ricerca le dimensioni “soprannaturali” e l’interazione con soggettività non umane? Fino a che punto la parola e l’esperienza nativa sono inquadrate, tradotte, tradite (anche inconsapevolmente) dalle nostre griglie teoriche? E, dunque, come allargare i preconcetti per far davvero spazio al discorso (e al mondo) dell’altro? In quale grado l’interazione con i soggetti della ricerca è mediata da relazioni ed interessi personali, storici o sociopolitici più ampi? Quali sono le posizioni, proiezioni e aspettative reciproche in gioco? E, infine, come ricambiare quello scambio ontologicamente asimmetrico che soggiace alla ricerca?

A partire da un’esperienza etnografica – tuttora in corso – tra i Maxakali[5], intendo sollevare alcune problematiche messe in luce da tali domande. Una volta delineato il contesto nel quale si svolge la mia ricerca – il campo etnografico – presenterò delle riflessioni sulla pratica etnografica intesa come pratica sociale, storica e relazionale critica, discutendo il carattere trasformativo dell’incontro e le problematiche epistemologiche inerenti all'uso di categorie pensate dalla tradizione culturale occidentale nello sforzo di comprendere e tradurre un’altra visione (e produzione) di mondo. Infine, cercherò di ripensare le responsabilità dell'antropologo rispetto ai soggetti della ricerca, le implicazioni etiche e politiche della sua presenza in campo e il debito della ricerca.

Un’antropologa tra i Maxakali

Anticamente nomadi e guerrieri, dediti alla caccia, pesca e raccolta, ma anche abili ceramisti, navigatori e costruttori di canoe, oggi i Tikmü’ün, conosciuti popolarmente come Maxakali[6], sono un popolo indigeno di lingua Maxakali[7] che vive nel Nordest dello Stato di Minas Gerais, in Brasile. Distintisi nel passato recente per la loro capacità di attuare efficaci strategie di resistenza alle forze di occupazione e assimilazione dei loro territori, i Maxakali sono oggi reduci di una lunga storia di violenze – genocidi, guerre, malattie, fughe, confinamenti, sfruttamento, usurpazioni – che li ha portati, nella prima metà del novecento, a contare meno di 100 individui (Rubinger et al. 1980) e ad occupare un territorio estremamente ridotto e completamente trasfigurato(quelloche l’avanzata del cosiddetto “sviluppo” ha trasformato da maestosa foresta a sconfinato deserto verde, adattato alla monocultura e all’allevamento estensivo). Tuttavia i popoli indigeni non sono mai stati vittime passive di una storia univoca all’insegna della civilizzazione[8]. A seguito della demarcazione dei loro territori e di una progressiva ripresa demografica, attualmente i Maxakali compongono una popolazione di circa 2.000 persone, avendo scongiurato, ancora una volta, quei destini che fino al secolo scorso sembravano (dal punto di vista dominante) ineludibili: l'estinzione o l'assimilazione alla popolazione nazionale[9].

Privati delle loro esuberanti risorse ambientali e faunistiche, che costituivano da tempi immemori il loro mondo, i Maxakali hanno invece dimostrato di riuscire a gestire, a modo loro, l’“inarrestabile marcia del progresso” (Tugny 2015) grazie anche ad un incredibile e vivacissimo apparato cosmologico e rituale attraverso il quale hanno trasmesso e reinventato il proprio mondo sociale, biologico e culturale, nel susseguirsi delle difficili contingenze storiche. Di fronte alla diffusione di una mono-cultura[10] nazionale che ha voracemente desertificato la regione, i Maxakali hanno saputo opporsi rinnovando costantemente le relazioni con il territorio originale e le diverse soggettività (umane, extra-umane, animali, vegetali) in esso presenti, mettendo in atto raffinati dispositivi rituali e di memoria, e processi di adattamento, resistenza e riqualificazione simbolica delle proprie strutture socio-cosmologiche (Rubinger et al. 1980; Nascimento 1984; Popovich 1980; Vieira 2006).

D’altra parte, però, le relazioni con i cosiddettibianchi”[11] rimangono ancora profondamente asimmetriche, autoritarie e violente, di modo che i Maxakali, come altri popoli indigeni, si trovano oggigiorno privati di un’effettiva autonomia politica e socioeconomica, dipendendo quasi esclusivamente da programmi e sussidi statali[12] spesso insufficienti e inadeguati alle loro esigenze e caratteristiche socioculturali. Alla mancanza di una sovranità politica, economica, territoriale e alimentare, si aggiunge, inoltre, un quadro di ostilità che caratterizza storicamente i rapporti con gli enti locali e gli abitanti delle regioni in cui sono ubicate le loro terre, marcati da discriminazioni, violenze ed altri crimini perpetuati nei loro confronti, mantenendo un clima di tensione e provocando, tra gli indios, atteggiamenti diffusi di rabbia, scetticismo e indignazione. Tale contesto critico fa da sfondo alle relazioni che i Maxakali intessono quotidianamente con i bianchi e con gli organi governativi che regolano gli aspetti giuridici, politici, economici e socioeducativi nei loro contesti[13]. In compenso, negli ultimi tempi si è allargata anche un’ulteriore rete di attori non indigeni composta da istituzioni (Università, Musei, ONG…) e individui (ricercatori, professionisti, artisti, politici locali, professori, commercianti, medici e infermieri, missionari…) che, con modalità e obiettivi diversi, transitano per il loro mondo, creando una varietà significativa di relazioni di alleanza, complicità, commercio, scambio. I Maxakali sono impegnati, quindi, in continui processi di mediazione, rivendicazioni e negoziazioni, ma anche di reciprocità, dialogo e collaborazioni, che coinvolge un campo di attori politici, istituzionali e sociali sempre più ampio e diversificato. La crescente partecipazione dei maestri Maxakali ai progetti culturali e socioeducativi ha consolidato, inoltre, la collaborazione con numerosi ricercatori universitari e specialisti di diverse aree, intensificando un movimento bilaterale tra i villaggi e le vicine capitali del Brasile[14].

Si tratta di un campo di partecipazione in espansione che porta i Maxakali ad attraversare sempre di più i confini cosmologici e geografici del villaggio per occupare altri territori – fisici, concettuali e simbolici – e appropriarsi di altre logiche (pensiamo all’uso della lingua portoghese e dei linguaggi informatici, alle prassi burocratiche, ai contesti urbani, ai sistemi istituzionali)[15].

Anche nella relazione etnografica, l'esperienza del viaggio tra differenti mondi sociali non è più prerogativa dell’antropologo, ma un percorso fisico e simbolico “a doppio senso” che configura un terreno di frontiere e traiettorie ampie e reciproche. In altre parole, esplode definitivamente la tradizionale nozione antropologica di “campo”. Quell’idea finita di un campo chiuso e lontano decisamente non si confà più a molte delle realtà amerindie di oggi. Se l’etnografia nei villaggi indigeni rappresentava una parentesi d’immersione spazio-temporale, ora ci si trova piuttosto in un campo aperto e “multisituato” (Marcus 1995), i cui confini oltrepassano la terra indigena, annullano le distanze tra il ricercatore e i nativi, e diluiscono i tempi, gli spazi e le dimensioni personali e sociali dell’incontro.

In questo incrocio di prospettive simboliche è stato fin da subito sorprendente scoprire quanto i miei interlocutori Maxakali conoscessero bene chi fosse un “antropologo”, associandovi precise rappresentazioni e significati. A tal proposito ricordo la prima volta che, un po’ timida e impacciata, mi presentavo ad un’anziana (un’autorità) del villaggio. Le dissi che ero antropologa e che volevo spiegarle il mio progetto di ricerca, e da lì ricordo che cominciai a girare intorno all’argomento senza trovare le parole adatte per farle capire bene chi fossi e cosa ci facessi lì; una difficoltà dovuta alla mia inesperienza ed al mio ingenuo pregiudizio rispetto alla mia interlocutrice nativa. Ed è stata proprio lei, in quell’occasione, a darmi la prima lezione di campo, mostrandomi fin da subito la sua familiarità riguardo al mio ruolo. Cogliendo il mio imbarazzo, a un certo punto m’interruppe e mi chiese: «Ma, quindi, cosa sei venuta a imparare della nostra cultura?» (N.M.)[16]. Ed in effetti non c’era domanda più giusta da fare.

In altre occasioni la mia presenza come antropologa veniva in un certo senso “usata” nella gestione delle relazioni familiari, come ad esempio per ammonire scherzosamente alcuni membri della famiglia. La padrona di casa più di una volta mi chiese di fotografare il figlio adolescente mentre giocava ai videogames «per farlo vergognare» (S.M.)[17]. Lo aveva già avvertito che se continuava a starsene tanto tempo davanti al computer io avrei scritto sul diario di campo che i giovani Maxakali non s’interessano più di cacciare e svolgere altre mansioni più tradizionali. Inoltre, in un popolo caratterizzato dalla forte attitudine all’allegria, non manca di certo la dimensione giocosa che prende di mira (benevolmente) i poveri ricercatori di turno, e di cui anch’io, inevitabilmente, sono stata facile bersaglio (e che ho certamente contribuito a fomentare). Il repertorio di battute sugli antropologi ironizza sulla loro goffaggine, l’inesperienza manuale, la delicatezza fisica e su certa ventata di romanticismo che si portano dietro. Chi s’è rovinato i piedi ad andar scalzo; chi s’è bruciato al sole; chi s’è dimenticato materiali di ricerca preziosi per strada; chi (in questo caso io) ha mostrato un romantico entusiasmo per la pesca femminile per poi pentirsene amaramente dopo aver partecipato alla prima faticosa e frustrante spedizione («pensava che era come andare in spiaggia!» S.M.)[18].

A parte tali aspetti scherzosi, è bene dire che l’antropologo, in generale, è molto apprezzato nel modo in cui dimostra di valorizzare i saperi e le pratiche native – condividendo il loro cibo, dividendo spazi ed azioni quotidiane, apprendendo la loro lingua – potendo farsi importante alleato, interlocutore con attori sociali non indigeni e promotore di una versione più ricca e positivata (o quanto meno, meno discriminante) della loro “cultura” fuori dal villaggio. Ma senza ingenuità. L’antropologo è anche qualcuno da tenere sotto controllo, un potenziale ladro e divulgatore di segreti (con il rischio poi, oltretutto, che scompaia col bottino della sua ricerca, senza ritornare al campo e restituire, in qualche modo, i frutti dell’incontro). Per questo egli è spesso messo alla prova e vigilato (anche a sua insaputa) dalle autorità politiche e spirituali della comunità con cui compie la sua ricerca[19].

Di fatto, anche la mia presenza in campo, apparentemente libera, era invece indirettamente controllata e guidata. Più di una volta presi accordi con una donna anziana per farmi raccontare alcuni miti. Ad ogni incontro apparivano, come dal nulla, alcune autorità maschili che, in un modo o nell’altro, presenziavano (e vigilavano) a ciò che mi veniva raccontato. In altre circostanze non mi venivano date certe risposte, o mi veniva chiesto esplicitamente di non fare certe domande, di non scrivere tali “segreti” sul diario di campo, o ancora, di non registrare un determinato evento a cui partecipavo.

In altre situazioni ancora, mi sono invece resa conto di come la mia presenza venisse riappropriata – “indigenizzata” – in forma politica. Al fine di registrare offese subite o denunciare particolari situazioni di disagio che la comunità stava vivendo, il mio ruolo di antropologa veniva in tali casi “richiamato all’ordine” dai miei interlocutori Maxakali, in nome di una tacita complicità ed un mio implicito posizionamento: «che pagliacciata! E l’ha fatta proprio davanti a un’antropologa!» (S.M.)[20]; «Mi raccomando! scrivi quello che ha detto l’avvocatessa sul tuo diario!» (S.M.)[21]; «Vieni nel villaggio, così puoi registrare quello che stiamo vivendo, la sofferenza dei Maxakali!» (S.M.)[22]. Se in questi casi – in circostanze di mediazione tra il mondo indigeno e quello dei bianchi – sono stata investita di certo potere, in altre occasioni, ove non assolvevo tale funzione mediatrice, il mio ruolo (e la mia presenza) veniva invece messo alla prova. In un momento d’incomprensione con i familiari indigeni che mi ospitavano nella loro casa, mi sono sentita rimproverare che «ancora non avevo imparato abbastanza la loro cultura, perché non stavo capendo il problema» (S.M.)[23]. In generale, quasi a riprova del mio interesse “da antropologa” nei loro confronti (e dell’apprezzamento delle loro pratiche rituali e quotidiane), veniva incentivato un mio coinvolgimento pieno e costante nelle attività collettive, facendomi notare la mia mancata partecipazione ogni qualvolta che, per stanchezza, equivoci o disattenzione, me ne perdevo qualcuna.

Ci sarebbero innumerevoli episodi da citare. Tuttavia, quello che voglio mettere in luce è come il mio ruolo da antropologa (nelle molteplici situazioni del campo) non sia mai stato neutro o privo di valore ma, al contrario, fortemente ri-significato e negoziato dalla prospettiva nativa, in un processo creativo che si produce mediante le stesse operazioni simboliche con cui anche l’antropologo re-inventa l’altro. Come ha ben mostrato Wagner (1992) si tratta di una “reverse anthropology” in cui l’antropologo e il nativo (essendo posizioni invertibili) compiono operazioni concettuali analoghe nel relazionarsi e costruirsi reciprocamente, a seconda dei contesti, delle intenzionalità e delle identità in gioco. E nel mio caso le identità in gioco sono tante. Occupando posizioni via via diverse, negoziare la mia presenza – ambigua, delicata, complessa – ha voluto dire prender atto dei significati e dei ruoli sovrapposti che anche involontariamente incorporo e veicolo in qualità di amica, confidente, donna, bianca, antropologa, straniera, formatrice e dunque sempre vincolata all'università e al Ministero dell'Educazione (essendo rappresentante ed interlocutrice con tali organi che mi conferiscono certa autorità)[24]. Il tessuto prodotto da relazioni tanto familiari (affettive) quanto formali (e autoritarie) ha fatto sì che mi trovassi all'intersezione di proiezioni ed aspettative reciproche ben più ampie di quelle da me inizialmente considerate, intersecando campi personali e sociali mai neutri.

Negli ultimi tre anni mi sono seduta insieme ad alcuni leader Maxakali e ad altri interlocutori istituzionali, per partecipare alla negoziazione di politiche educative, culturali e sociosanitarie, il più delle volte con risultati alquanto frustranti. In ambito accademico ho partecipato ad un corso di formazione universitario per un gruppo di maestri Maxakali e tuttora faccio parte di un progetto di educazione interculturale, finalizzato alla produzione di materiali didattici per le loro scuole. In città, se ho avuto l’opportunità di accogliere ed ospitare alcuni miei amici Maxakali e godere di preziosi momenti di etnografia at home, mi sono trovata anche a gestire situazioni critiche riguardanti la logistica ed altre problematiche connesse alle loro visite.

Nei periodi in cui ho vissuto al villaggio, ospitata con molto affetto da alcune famiglie locali, ho potuto condividere la loro quotidianità e vivere momenti d’intimità e confidenza con molte donne – passando insieme a loro pomeriggi infiniti di chiacchiere e risate scanditi dai cerimoniali kapae (caffè); tessendo fili e cucendo tessuti. Con allegria ho danzato e mangiato con loro e i loro spiriti. Nonostante sia stata sempre ben accolta e accudita durante tutta la mia permanenza al villaggio, in alcuni momenti mi sono sentita a disagio, provando la solitudine e le difficoltà relazionali e logistiche del campo, sentendomi impreparata, inadeguata, fuori luogo. In questo senso, lo stare in campo mi ha richiesto un grande impegno emotivo, intellettuale e fisico. Il corpo s’è ammalato, le difese immunitarie si sono indebolite, le motivazioni personali e scientifiche sono state messe alla prova. Ci sono stati momenti in cui non vedevo progressi nella ricerca e che mi era difficile cogliere il filo dell’indagine. Il disegno teorico e i grandi propositi accademici si sono spesso persi nella concretezza del vissuto che mi ha messa a confronto con una serie di situazioni imprevedibili a priori. Incredibili momenti di contatto affettivo, d’interazione con gli spiriti, di canti notturni, di con-presenza, di segreti e commensalità, ma anche eventi più critici, come crisi familiari, tensioni sociali, violenze domestiche, emergenze sociosanitarie, negoziazioni politiche, lutti. Ho partecipato – non senza dilemmi personali e morali – alla gestione di tali contingenze, le quali, sebbene inizialmente non rientrassero nel tema stretto dell’indagine, sono state parte essenziale dell’esperienza etnografica. Come far entrare tali esperienze nella ricerca resta, tuttavia, un problema cruciale. La “crisi di campo” che muove le riflessioni qui presentate è scatenata proprio dalla difficoltà di far conciliare (dentro e fuori dal terreno etnografico) le diverse componenti di un’esperienza che è al tempo stesso corporea, intellettuale, affettiva e storica. Come includere le trasformazioni sensibili dell’incontro, gli aspetti non razionali, le situazioni di violenza, d’ingiustizia, d’emergenza, alle quali si partecipa? Dal punto di vista epistemologico, si sono resi da subito evidenti i grandi dilemmi teorici ed etici emersi sul campo: l’inadeguatezza di certi concetti pensati a priori, la difficoltà d’inquadrare le dimensioni sensibili dell’esperienza, il difficile compito di far corrispondere le relazioni personali, sociali e politiche ai propositi “scientifici” dell’indagine.

D’altro canto, questi dilemmi della ricerca non devono tralasciare il fatto che la mia presenza sul campo abbia suscitato altrettante (sicuramente diverse) domande e problematiche tra i Maxakali. Del resto anch’io sono entrata a far parte del loro contesto carica di prospettive, aspettative e interessi personali, accademici, formativi.

In questo senso il campo si è rivelato un’esperienza “di posizionamento”in cui la mia (e la loro) presenza è stata continuamente negoziata in un terreno di relazioni e proiezioni reciproche, più o meno velate. Tuttavia, imparare a posizionarmi cercando, da un lato, di non deludere dal punto di vista intellettuale, politico e personale, i miei interlocutori nativi (verso i quali nutro un sentimento d’amicizia e una profonda riconoscenza) e, dall’altro, dovendo fare i conti con le mie difficoltà teoriche, crisi personali, e risorse spesso inadeguate, non è stato di certo un processo facile, essendo un aspetto della dimensione etnografica che continua a mettermi alla prova.

Nell’intraprendere un’esperienza di campo in cui le cui dimensioni intersoggettive si intrecciano visceralmente a quelle sociopolitiche, si fa necessaria, dunque, una riflessione più profonda sulla natura stessa della ricerca e sul processo epistemologico di costruzione del suo oggetto, mettendo in luce le pratiche e i dilemmi insiti nella produzione del sapere sull’altro, i quali passano per l’esperienza sensibile e intellettuale del ricercatore, e per certi problemi di traduzione del discorso nativo.

L’etnografia come pratica sociale critica

Unfortunately, anthropology is also us, as well as the ambition of defining-descovering “what is human in humans”

Isabel Stengers, The cosmopolitan proposal, 2005

Se un approccio tradizionalmente critico dell’antropologia caratterizza le etnografie impegnate nel denunciare processi storici e sociali di diseguaglianza e ingiustizia, a tutt’altra riflessione ci porta uno sguardo profondo sugli aspetti ontologici e metodologici della pratica etnografica, così come proposta da Jean Lave (2011), ovvero, come pratica sociale di per sé critica: un processo di apprendimento relazionale e trasformativo che è allo stesso tempo teorico ed empirico. Situata in un peculiare contesto storico, considerato nelle sue congetture politiche, economiche e istituzionali, locali e globali, l’esperienza della ricerca sul campo diviene essa stessa oggetto di studio (Lave 2011) e i processi di produzione del sapere antropologico vengono posti concettualmente sullo stesso piano dei fenomeni osservati (Viveiros de Castro 2002b).

La presenza-agency dell’etnografo entra a far parte, dunque, di una riflessione epistemologica che riconfigura la pratica etnografica come un’esperienza sociale piena, le cui dimensioni teoriche, pratiche e sensibili si modificano nell’incontro, trasformando continuamente l’esperienza che si ha di se stessi, degli altri e del mondo. Se fin qui sono emerse le frontiere di un campo intersecato da relazioni storiche e sociali ampie, a partire dalle quali i soggetti si inventano e si posizionano a vicenda, si vuole prendere in esame ora il carattere trasformativo dell’esperienza dell’incontro, nel modo in cui è capace di modificare gli sguardi, mettere in crisi le certezze teoriche, segnare il corpo e riconfigurare la sensibilità dell’etnografo.

In tal senso, la mia ricerca di campo tra i Maxakali è stata in primis una ricerca di corpo. E’ a partire da un’unica esperienza intellettuale ed empirica, che la realtà nativa ha smosso continuamente i miei confini – i miei limiti teorici-pratici-sensibili – portandomi ad esplorare nuove possibilità, flessibilità, linguaggi, posture, prospettive, gesti, sapori, relazioni. Questo perché l’incontro etnografico non riguarda soltanto la conoscenza dell’altro, ma soprattutto la scoperta del sé, essendo un processo di apprendimento relazionale capace di metterci a confronto con le potenzialità e le rigidità dei nostri dispositivi sensibili, intellettuali e fisici.

L’interazione che ho sperimentato sul campo, con altre soggettività possibili, altri linguaggi, spazi, tempi, frontiere morali, modalità emotive, strategie sociali, pratiche e logiche di pensiero, ha spesso sfidato le mie categorie analitiche, provocato crisi personali, minato i miei principi etici, testato le mie resistenze fisiche e reazioni emotive. In qualche modo ho dovuto gestire la mia emotività diversamente, flessibilizzare i miei pre-concetti morali, direzionare l’attenzione verso altri linguaggi ed espressività. Il mio corpo si è segnato, ammalato, affaticato, allenato alle posture, ai tempi e agli spazi del campo; sapori, suoni e immagini nuove sono entrati nel mio repertorio sensoriale; i confini intellettuali lentamente hanno cominciato a sfumarsi.

Se molte di queste trasformazioni che ho fortemente percepito sul campo (e sul corpo) restano ad oggi degli elementi “in potenza”, le cui conseguenze devono ancora trovare il tempo di rivelarsi, o per lo meno, di assimilarsi (considerando che mi trovo tuttora nel pieno dell’esperienza etnografica), a partire da una dimensione sensibile dell’incontro, sono emersi invece, da subito, i limiti delle categorie attraverso le quali avevo pensato a priori il mondo Maxakali e il tema delle pratiche alimentari femminili. Il mio incontro con gli spiriti-y ã miyxop e la partecipazione alla preparazione del cibo nelle diverse occasioni quotidiane e rituali mi ha reso evidente quanto nozioni come “spiriti”, “denutrizione”, “alimenti” fossero riduttive per inquadrare le molteplici e corporee soggettività extra-umane che popolano in mondo Maxakali e le sfere del cibo e della commensalità. Anche dicotomie come quotidiano/rituale, maschile/femminile, tradizionale/moderno, non rappresentavano adeguatamente le esperienze che ho osservato e vissuto. Mi sono allora chiesta quanto le mie questioni di partenza rispondessero più alle mie preoccupazioni (e traiettorie) intellettuali ed alle mie categorie d’analisi, che non alle loro logiche di pensiero. Anziché cercare di capire quali fossero le risposte “giuste” alle mie domande, molto più interessante (e problematico!) era indagare quali fossero le questioni che i miei interlocutori si ponevano – e in quali termini – nel pensare e produrre il loro mondo, e la sfera delle pratiche alimentari. Ma come liberarmi delle mie reti teoriche?

Se descrivere e comprendere sistemi sociali ontologicamente divergenti, imprevisibili ed incoerenti fa parte di un tormento intellettuale che da sempre ha ispirato le scienze antropologiche[25] resta da risolvere come superare quel “technical problem” (Strathern 1987) insito nel progetto etnografico, dal momento in cui si pone come obiettivo produrre un sapere sull’altro a partire da un repertorio di categorie e modelli occidentali per loro natura inadeguati a tradurre altre prospettive filosofiche. Le categorie “pronte all’uso” – naturalizzate e neutralizzate – che ci portiamo in campo rivelano l’etnocentrismo del nostro universo concettuale e i limiti degli strumenti che si hanno a disposizione nell’indagare la natura umana e comprendere l’altro “nei suoi termini”. I dualismi ontologici ereditati dalla nostra tradizione filosofica razionale-positivista (noi/altri, scienza/credenza, natura/cultura…) si dimostrano incapaci di tradurre la complessità delle molteplici relazioni indigene (Favret-Saada 1990; Lave 2011; Goldman, Viveiros de Castro 2006) mentre molti dei concetti utilizzati per inquadrare le dimensioni native (religione, spirito, corpo, rito, cibo, malattia) rischiano di tradire la forza e la vivacità delle loro esperienze.

La centralità riservata alle nostre osservazioni ed interpretazioni (l’autorità riservata alle nostre categorie) ha dunque storicamente impedito di riconoscere le produzioni concettuali degli altri, le quali, formulate in altri termini – rispondendo ad altre preoccupazioni intellettuali – ancor oggi faticano a trovar spazio nelle produzioni antropologiche, essendo spesso relegate ad un piano meramente descrittivo-rappresentativo, inquadrate dalle più “sofisticate” teorie dell’etnografo. A tal proposito, Favret-Saada mette in luce come la confusione epistemologica basata sulla distinzione tra ciò che è reale, vero o “osservabile empiricamente” (Favret-Saada 1990), e ciò che è immaginario, inosservabile o frutto di credenza, abbia sistematicamente promosso la parola dell’etnografo a discapito del discorso nativo.

Nello sforzo di produrre un’antropologia simmetrica è perciò indispensabile riconoscere al pensiero nativo l’equivalenza (non l’uguaglianza) filosofico-intellettuale con il discorso antropologico, (Goldman 2008; Kopenawa, Albert 2010); essendo entrambi dispositivi autoreferenziali di produzione di concetti (Viveiros de Castro 2002b). Tuttavia, se da un lato, il potere esplicativo dell’etnografia deve tendere proprio a problematizzare le nozioni date a priori e investigare i concetti nativi al fine di renderli categorie analitiche, ovvero suscettibili di analisi storica e sociale, (Toren 2007), dall’altro, prendere realmente sul serio il discorso degli altri fino alle estreme conseguenze a cui esso può condurci (Goldman 2008), non è affatto così semplice. E nemmeno può ridursi ad un relativismo culturale in cui si dia spazio ad un’altra visione di una realtà (verità) universalmente data (Viveiros de Castro 2002b). Dev’essere, invece, un esercizio di “prospettivismo” (Viveiros de Castro2002a) attraverso il quale si cerchi di rendere giustizia ad un altro mondo, il quale è possibile nella maniera in cui è concepito e prodotto dai suoi soggetti (Viveiros de Castro, 2002b). Si tratta di far emergere mondi ontologicamente divergenti, anche se interagenti tra loro, come parte di una “proposta cosmopolitica” (Stengers 2005) che mira a destabilizzare l’universalità data al pensiero scientifico moderno (e alla nozione di “politica”) in favore di un’apertura ad esperienze politiche, filosofiche e pratiche radicalmente (ontologicamente) diverse. Secondo Stengers (2005) questo sforzo è possibile solo se ci scrolliamo di dosso le teorie generalizzanti per dare significato alle situazioni concrete che si svolgono nella pratica. A tal proposito non bisogna sottovalutare la potenzialità che proprio l’etnografia rappresenta. Per sua natura sperimentale ed avversa a modelli teorici ingessati, l’etnografia si costruisce sul campo nell’interazione con un altro (Peirano 1995) il cui discorso ha in sé il potere di destabilizzare i modi di pensare e di definire il reale dell’etnografo (Goldman 2008).

Tornando al punto da cui siamo partiti, sembra necessario prendere coscienza di quell’inevitabile moto di trasformazione insito nell’esperienza etnografica per far sì che le idee native trovino spazio per aprire, ampliare e sovvertire le nostre “categorie chiuse”. Un’esperienza di trasformazione dell’etnografo che, come si è sostenuto, non passa solo per il piano teorico, ma che s’insinua anche a partire da una dimensione sensibile, attraverso un’esperienza di contatto che Favret-Saada (1990) definisce come “être affecté”,la quale è capace di mettere in discussione il privilegio dato proprio all’approccio intellettuale (e empiricamente osservabile) dell’antropologia, come strada maestra per la comprensione dell’alterità. Un processo conoscitivo che, da notare, non passa per l’empatia, né per un antropologo che si faccia nativo, ma che auspica la riabilitazione degli aspetti sensibili dell’incontro con l’altro, mediante i quali si può modificare o mobilizzare il repertorio d’immagini dell’etnografo (Favret-Saada 1990).

Questa dimensione fenomenologica e intersoggettiva, il più delle volte tralasciata dalla riflessione antropologica, è parte centrale della ricerca e della costruzione del suo oggetto: lo “stare in campo” è un processo relazionale di apprendimento il cui effetto trasformativo (anche inconsapevolmente) modifica le idee sull’altro, sul mondo e su se stessi, producendo un discorso antropologico che è, anche inconsapevolmente, frutto di questa esperienza allo stesso tempo intellettuale, empirica e sensibile.

Le responsabilità dell’etnografo: il patto etnografico

A seguito della sua lunghissima traiettoria etnografica a fianco del popolo indigeno Yanomami, Bruce Albert (Kopenawa, Albert 2010) riflette profondamente sulle implicazioni della propria presenza di attore-osservatore in campo. Evitando un’esotizzazione antropologica del mondo amerindio, egli compie uno sforzo teorico ampio, impegnandosi a riconoscere e tradurre l’elaborato discorso di uno sciamano Yanomami (co-autore dell’opera) in quanto formulazione filosofico-intellettuale nativa – un’antropologia nativa diretta ai bianchi, attraverso l’antropologo – alla luce delle dinamiche sociopolitiche nelle quali si produce.

Al fine di condurre una pratica etnografica critica e simmetrica, l’etnografo francese mette a fuoco tre principi etico-metodologici fondamentali che riprendono gli elementi della ricerca messi in luce finora: a. rendere giustizia in modo scrupoloso all’immaginazione concettuale nativa; b. considerare rigorosamente il contesto sociopolitico locale e globale; c. mantenere uno sguardo critico sulla propria ricerca etnografica (Kopenawa, Albert 2010).

Una volta riconosciuti il pensiero e la capacità creativa dell’altro – l’antropologia prodotta dall’altro (Wagner 1992) – in quanto condizioni essenziali dalle quali dipende la pratica etnografica può instaurarsi quello che Bruce Albert definisce come “patto etnografico”: un impegno critico, onesto e simmetrico tra i co-partecipanti dell’incontro etnografico, che consideri le implicazioni intellettuali, sociali e politiche di tale incontro (Kopenawa, Albert 2010). La relazione con gli interlocutori sul campo porta l’antropologo francese ad assumere progressivamente un ruolo di alleato politico e mediatore nelle relazioni tra gli indios e i bianchi. Secondo l’autore, l’antropologo che decide di passare un periodo insieme ad una società nativa è chiamato sempre in qualche modo ad assumere un impegno in qualità di emissario, stabilendo con i nativi un patto implicito, sul quale si basa anche la produzione del materiale etnografico (Kopenawa, Albert 2010). Questo patto è di natura tanto diplomatica quanto “sciamanica”, essendo risultato della capacità dei nativi di tradurre punti di vista ontologicamente eterogenei e trasformare l’etnologo in un alleato politico in grado di rappresentarli adeguatamente di fronte alla società che li assedia e che egli stesso rappresenta (Viveiros de Castro 2015). Infatti, offrendo parte del proprio sapere, i nativi producono messaggi che vanno oltre l’individualità dell’etnografo (Kopenawa, Albert 2010). Stabilire una relazione posizionata corrisponde, allora, al tentativo di entrare in gioco in un dialogo storicamente povero, sporadico e fortemente asimmetrico – instaurato tra i popoli indigeni e i bianchi – con l’auspicio di invertire come possibile uno scambio immensamente disuguale che soggiace anche alla relazione etnografica (Viveiros de Castro 2015), e ricambiare, forse, in qualche modo, il debito della ricerca.

L’immagine dell’etnografo qui proposta – un intermediario tra i due mondi che esercita un ruolo diplomatico di ambasciatore-alleato – è definitivamente lontana da quella finzione etnografica in cui l’etnografo conquista i suoi cosiddetti “informanti” per raccogliere dati, contraccambiandoli con benefici materiali e le consuete righe di ringraziamento come apertura alla sua opera. Stringere (implicitamente) un patto con i soggetti della ricerca implica un impegno reciproco che prevede responsabilità molto più serie per l’etnografo: significa rinunciare ad un’illusione di neutralità per prendere posizione, considerando la rete di attori e implicazioni socio-politiche in cui il campo di ricerca (e la relazione con gli interlocutori) si produce quotidianamente. Significa chiedersi quali implicazioni ci siano nell’essere “bianchi”, e quindi parte di quel mondo che storicamente impone la sua voce e squalifica la loro. Vuol dire, infine, farsi carico delle responsabilità insite nell’apprendere e tradurre un discorso nativo, nella consapevolezza che sia anche un’enunciazione indirizzata attraverso di noi, e oltre noi, verso un mondo che, lo vogliamo o no, non smettiamo mai di rappresentare (Kopenawa, Albert 2010).

(In)conclusione

Siamo rappresentanti di questo popolo barbaro ed esotico

proveniente da oltremare che fa paura per la sua assurda incapacità di comprendere la foresta…

Viveiros de Castro, A queda do céu. 2015

I Maxakali sono molto conosciuti per la loro sorprendente vitalità rituale, musicale e visuale[26]. Chi entra in contatto con loro non può che rimanere colpito dall’immenso corpus di canti sciamanici che vengono eseguiti nei rituali che scandiscono il ritmo della loro vita quotidiana. Ciò nonostante, Tugny (2011) fa notare come questa qualità estetica abbia riservato loro uno spazio immobile e privo di potere enunciativo fuori dai confini dei loro villaggi:

il fatto di cantare tanto li ha relegati in qualche luogo costruito secolarmente nella loro relazione con i bianchi, nel quale nulla che venga enunciato ha effettivamente valore […] Le voci di questi cantori vengono sistematicamente squalificate, cancellate, silenziate quando tentano di dire qualcosa indirizzato ai bianchi (Tugny 2011: XXII, trad. mia).

In sostanza, un sapere che si elabora, si trasmette e si enuncia mediante il canto non è plausibile in un dialogo con il pensiero occidentale, a tal punto che Tugny (2011) afferma, in tono provocatorio, che essi «possono rimanere lì e continuare ad occupare il loro posto di “indigeni che cantano”, ma di certo non elevarsi ad un dibattito simmetrico con il popolo delle enunciazioni razionali» (Tugny 2011: XXIII, trad. mia). Tale incapacità dei bianchi e delle istituzioni di riconoscere ed accettare il discorso nativo nei termini in cui esso si esprime – un atteggiamento che la stessa autrice definisce “sordità deliberata” – contribuisce a mantenere i Maxakali senza potere di decisione nemmeno quando si delibera sulle loro vite, sui loro diritti e sulla loro sovranità politica, alimentare, economica (Tugny 2011). Se i Maxakali sono famosi particolarmente per i loro canti e le loro più recenti produzioni fotografiche e cinematografiche, troppo poco si sa «dei loro pensieri e percezioni, e di quanto siano differenti le questioni che loro stessi elaborano sul mondo in cui vivono» (Tugny 2011: XXVII, trad. mia).

A conclusione di queste riflessioni – che rimangono tuttavia aperte e irrisolte – faccio mie le preoccupazioni di Tugny, e mi chiedo se possiamo, e in che modo, essere capaci di ascoltare sul serio gli interlocutori della nostra ricerca in ciò che (ci) dicono attraverso i loro canti, la loro lingua, il loro cibo, i loro spiriti, i loro sogni, senza stravolgerli con le nostre proiezioni, domande e relazioni binarie. Senza far prevalere, in fondo, nel confronto con le soggettività e le relazioni di un mondo che sfugge alle nostre logiche, quello scetticismo razionale sedimentato nelle nostre categorie di pensiero.

Mi domando, insomma, fino a che punto siamo in grado di cogliere e sfruttare il potenziale trasformativo che il campo provoca, per far sì che si contaminino i nostri preconcetti e ci si lasci “être affecté” (Favret-Saada 1990) dal discorso nativo sul mondo, nelle modalità in cui esso si elabora. E se consideriamo, poi, le contingenze storiche e sociali nelle quali conduciamo l’indagine etnografica, mi chiedo se sia possibile assumere un posizionamento che eviti di riprodurre relazioni di potere e che possa rappresentare una forma più simmetrica di restituzione della ricerca. In altre parole, se siamo capaci di svolgere (analogamente ai soggetti nativi) una mediazione diplomatica tra i mondi attraverso i quali compiamo il nostro viaggio antropologico, per non venir meno a quel patto che implicitamente stringiamo con i co-partecipanti della ricerca.

Bibliografia

Alvares, M.M. 1992. Yãmiy os espíritos do canto. A construção da pessoa na sociedade Maxakali. Tesi di Dottorato, Universidade de Campinas, PPGA/IFCH Unicamp.

Brazzabeni, M.2010.Posições Fluidas: a escola e os professores indígenas Maxakali. Cadernos do Leme, 2 (2): 6-21.

Carneiro da Cunha, M. 2012. Índios no Brasil: História, Direitos e Cidadania. São Paulo. ClaroEnigma.

Clifford, J., Marcus G.E. (a cura di). 1997 [1986]. Scrivere le culture. Roma, Meltemi.

Favret-Saada, J. 1990. Être affecté. Gradhiva: Revue d’Histoire et d’Archives de l’Anthropologie, 8: 3-9.

Goldman, M. 2003. Os tambores dos mortos e os tambores dos vivos. Etnografia, antropologia e política em Ilhéus, Bahia. Revista de Antropologia da USP, 46 (2): 445-476.

Goldman, M. 2008. Os tambores do antropólogo: antropologia pós-social e etnografia. Ponto Urbe, 2 (3): 1-11.

Goldman, M., Viveiros de Castro, E. 2006. Abaeté, Rete de Antropologia Simétrica (Intervista). Cadernos de Campo, 14-15: 177-190.

Lave, J. 2011. Apprenticeship in critical ethnographic practice. Chicago and London. The University of Chicago Press.

Kopenawa, D., Albert, B. 2010. La chute du ciel. Paroles d’un chaman yanomami. Paris. PLON/Terre Humaine.

Marcus, G. 1995. Ethnography in/on the world system: the emergency of multi-sited ethnography. Annual Review of Anthropology, 24: 95-117.

Nascimento, N.F. 1984. A luta pela sobreviv ência de uma sociedade tribal do nordeste mineiro. Tesi di Dottorato, Universidade de São Paulo, TF44925.

Peirano, M. 1995. A favor da etnografia . Rio de Janeiro. Relume-Dumará.

Popovich, F. 1980. The Social Organization of the Maxakali. Tesi di Dottorato, University of Texas., Arlington.

Rubinger, M.M., Amorim, S.A., Marcato, S.A. 1980. Índios Maxakali: resistência ou morte. Belo Horizonte. Interlivros.

Sahlins, M. 1997. O “pessimismo sentimental” e a experiência etnográfica: por que a cultura não é um “objeto” em via de extinção (parte I). Mana, 3 (1): 41-73.

Stengers, I. 2005. «The cosmopolitical proposal», in Making Things Public, Latour, B., Weibel, P. (eds). MIT Press: 994-1003.

Strathern, M. 1999. «The ethnographic effect I», in Property, Substance and Effect. Anthropological Essays on Persons and Things, Sthratern, M. (ed). London. Athlone Press: 1-26.

Strathern, M. 1987. Out of Context: the Persuasive Fictions of Anthropology. Current Anthropology, 28: 3: 251-281.

Toren, C. 2007. «How do we know what is true?», in Questions of Anthropology, Astuti, R., Parry, J.P., Stafford, C. (eds). Oxford. Berg: 307-335.

Tugny, R.P. 2015. Trem do Progresso. Piseagrama. Rivista online: http://piseagrama.org/trem-do-progresso/ (sito internet consultato in data 10/04/2016).

Tugny, R.P. 2011. Escuta e poder na estética Tikmu'un_Maxakali. Rio de Janeiro. Museu do Índio.

Vieira, M.G. 2006. Guerra, ritual e parentesco entre os Maxakali: um esboço etnográfico. Tesi di Dottorato, Universidade Federal de Rio de Janeiro.

Viveiros de Castro, E. 2015. «O recado da mata» (prefazione), in A queda do céu, Kopenawa, D., Albert, B. (eds) São Paulo. Companhia das Letras.

Viveiros de Castro, E. 2002a. «Perspectivismo e multinaturalismo na América indígena», in A inconstância da alma selvagem, Viveiros de Castro, E. (ed) São Paulo. Cosac&Naify: 345-400.

Viveiros de Castro, E. 2002b. O nativo relativo. Mana, 8 (1): 113-148.

Wagner, R. 1992 [1975]. L’invenzione della cultura. Milano. Mursia.



[1] Tipo di pane azzimo a base d’amido di manioca.

[2] Utilizzo il termine “spiriti” per riferirmi alle molteplici soggettività-agenti non umane – gli yãmiyxop – le quali, provenienti da un mondo ultraterreno, con frequenza fanno visita al villaggio (presenziandosi corporalmente) per condividere con i Maxakali cibi, canti, e danze rituali (ma anche pratiche quotidiane), con la consapevolezza che tale nozione, che evoca un’entità immateriale e invisibile, non sia certamente la più appropriata per esprimere la dimensione agentiva, visuale e corporea propria degli yãmiyxop.

[3] I numerosi e diversi spiriti-yãmiyxop sono infatti chiamati dai Maxakali a visitare i loro villaggi, attraverso l’esecuzione di un immenso repertorio di canti sciamanici. Questi canti, inoltre, memorizzano e trasmettono una conoscenza enciclopedica delle specie vegetali ed animali della Mata Atlântica, ormai scomparse dal territorio da circa due secoli.

[4] Fundação Nacional do Índio; organo indigenista del governo brasiliano.

[5] Dal maggio del 2014 ad oggi partecipo a diverse attività che si svolgono a Belo Horizonte presso l'Universidade Federal de Minas Gerais con un gruppo di maestri e ricercatori Maxakali, nell’ambito di vari progetti di educazione interculturale. Durante il 2014 ho effettuato tre prime brevi visite al villaggio Maxakali Aldeia Verde (Ladainha, MG) mentre, tra il 2015 e il 2016, vi ho passato poco più di cinque mesi, ospitata da alcune famiglie locali.

[6] Se “Maxakali” è l’etnonimo storicamente usato da coloni ed esploratori (ora dalle istituzioni) per riferirsi a questo gruppo etnico (attualmente usato come cognome e nome etnico nei documenti ufficiali e anagrafici), “Tikmü’ün” – che in lingua indigena significa “noi persone, umani” – è il termine che loro stessi utilizzano per auto-denominarsi. Tuttavia, nel dialogo “in portoghese” con non indigeni o indigeni di altre etnie, loro stessi utilizzano il termine Maxakali, per definirsi come etnia. Sebbene voglia risaltare questa doppia nomenclatura, che esprime in sé la dimensione relazionale e storico-politica dell’identità etnica, scelgo qui di riferirmi a loro come “Maxakali”, essendo questo termine il simbolo di una relazione conflittuale e asimmetrica in qualche modo assimilata e risignificata dall’uso nativo, in linea con le discussioni proposte.

[7] Tronco linguistico Macro-Gê.

[8] Contrariamente alle immagini che certe invenzioni storiografiche tendono ad evocare, le società indigene precolombiane non erano isolate, semplici, congelate nel tempo (a-storiche), pacifiche, egualitarie e stabili, bensì una costellazione di mondi locali differenziati e in relazione tra loro, numerosi, altamente complessi, tecnologici, dinamici e conflittuali. Caratterizzate da relazioni di scambio, reciprocità e conflitto, tali società non furono di certo passive alle dominazioni europee, mettendo in atto con esse particolari processi di alleanza, negoziazioni e guerre.

[9] Nel secolo scorso l’approccio ufficiale delle politiche indigeniste brasiliane era “d’assimilazione”. La cosiddetta “tutela” dei popoli indigeni era praticata nella prospettiva di un loro graduale abbandono della vita tribale in virtù di un’assimilazione culturale e sociale alla popolazione nazionale, soprattutto nell’ottica di liberare terre “occupate” dai nativi e sopperire all’ingente domanda di manodopera necessaria a sostenere il processo di modernizzazione nazionale. Con tale obiettivo, il primo organo indigenista, fondato nel 1910, fu il S.P.I.L.T.N., ovvero il Servizio di Protezione degli Indios e Localizzazione di Lavoratori Nazionali.

[10] Con “mono-cultura” intendo enfatizzare una tendenza della tradizione occidentale moderna a promuovere (spesso imporre) un’unica possibilità – politica, economica, simbolica – di mondo, basata su principi filosofici ed empirici razionali auto-legittimati e dati per assoluti, negando la validità di altri criteri di misurazione, produzione e significazione del reale.

[11] Adotto la parola “bianchi” poiché è con questo termine che i Maxakali ed altri popoli indigeni del Brasile, si riferiscono, in lingua portoghese, alle persone non indigene.

[12] La politica indigenista del governo brasiliano s’implementa principalmente attraverso programmi educativi, piani di sicurezza alimentare e di assistenza sociosanitaria.

[13] Per citarne i principali: la FUNAI (Fundação Nacional do Índio), organo indigenista del Governo; la SESAI (Secretaria Especial de Saúde Indígena), organo di salute indigena; la SEE (Secretaria de Educação Especial), che implementa le politiche indigene scolastiche; la Procura Federale, che ha un settore specializzato nella tutela legale dei popoli indigeni e tradizionali.

[14] In molti contesti accademici brasiliani si sta consolidando uno scenario marcato da una presenza significativa di studenti e maestri indigeni. Oltre ai progetti d’inclusione e formazione di studenti indigeni nei corsi universitari ed alle collaborazioni nell’ambito di specifici progetti, si stanno sperimentando proposte formative nuove che mirano a favorire un maggior dialogo tra le prospettive scientifiche e i saperi tradizionali e indigeni, ampliando l’offerta dei curricula universitari con seminari, corsi e workshop condotti da maestri popolari e indigeni.

[15] Importante notare che se si osservano le modalità (autoritarie) mediante le quali si costruiscono e si legittimano tali relazioni, ci si accorge di come le condizioni dell’incontro presuppongano uno spostamento quasi sempre unilaterale – quello dei Maxakali verso le logiche, le pratiche e i linguaggi ufficiali – e mai viceversa. In questo senso la capacità di assumere “posizioni fluide” (Brazzabeni 2010) e prospettive divergenti sembra essere una specialità molto più indigena, che una qualità inerente alla nostra (mono)cultura occidentale moderna. Ben minore, infatti, è la capacità dimostrata dagli interlocutori bianchi, nell’effettuare tali movimenti prospettici.

[16] Dal diario di campo, villaggio di Aldeia Verde, Terra Indigena Maxakali, 21 ottobre 2015.

[17] Ibidem, 20 luglio 2015.

[18] Ibidem, 03 agosto 2015.

[19] Inoltre, per ovvi motivi etici e legali, l’antropologo che intende svolgere una ricerca in una comunità indigena può farlo solo se autorizzato formalmente dalle autorità locali, e quindi a partire da un previo processo di negoziazione della propria ricerca con i soggetti del campo.

[20] Dal diario di campo, Teófilo Otoni, 10 agosto 2015. In quest’occasione mi trovavo con una coppia di Maxakali in una sede istituzionale. Uno dei due aveva le mani completamente nere di jenipapo, una tinta naturale che aveva preparato giorni prima, e un’impiegata dell’ufficio ritrasse la mano quando egli le porse la sua in segno di saluto. Mentre lui le diceva di non preoccuparsi, che non l’avrebbe sporcata, la sua compagna, uscendo, mi disse con tono indignato la frase citata nel testo.

[21] Dal diario di campo, villaggio di Água Boa, Terra Indigena Maxakali, 28 luglio 2015. Questa frase si riferiva all’intervento di un´avvocatessa, ritenuto autoritario e inappropriato, durante un incontro partecipativo organizzato dalla Funai per definire alcune politiche indigeniste.

[22] Dal diario di campo, Belo Horizonte, 14 ottobre 2015. Era la vigilia della mia partenza per il villaggio e per telefono la persona che mi avrebbe ospitata mi disse che si trovavano in una situazione molto difficile, perché tutto il villaggio era rimasto senz’acqua. Io, preoccupata per loro, ma soprattutto, lo ammetto, per le condizioni che mi si presentavano in campo, le proposi di ritardare la mia partenza, in attesa che la situazione migliorasse. La sua risposta (citata) esprimeva invece il valore politico dato alla mia presenza in campo.

[23] Dal diario di campo, villaggio di Aldeia Verde, Terra Indigena Maxakali, 09 novembre 2015.

[24] Allo stesso modo in cui io sono stata al centro di alcune loro aspettative (economiche, istituzionali, politiche), ovviamente anche loro (come interlocutori imprescindibili della mia ricerca) sono stati soggetti alle mie proiezioni e richieste (di amicizia, di tempo da dedicarmi, di pratiche da insegnarmi, di risposte, spiegazioni, traduzioni, autorizzazioni formali, immagini e materiali di ricerca da raccogliere…).

[25] I paradossi insiti nella traduzione del discorso nativo, così come altri aspetti autoritari del discorso etnografico, fanno parte di un dibattito antropologico che, in modo più o meno esplicito, attraversa la storia della disciplina. Si vedano in particolare le critiche esposte da autori post-moderni come Clifford, Marcus, Crapanzano, Rabinow, raccolte in: Clifford, Marcus 1997.

[26] Oltre all’immenso repertorio di canti sciamanici e rituali che sono al centro di studi e pubblicazioni recenti di etnomusicologia, negli ultimi anni alcuni Maxakali si sono distinti per le bellissime produzioni fotografiche e cinematografiche realizzate nei loro villaggi, partecipando ad esposizioni e festival nelle diverse capitali del paese e all’estero.