Antropologia medica applicata at home

Dalle criticità alla necessità di un posizionamento “eretico”

Stefania Spada

Scuola Scienze Giuridiche, Università di Bologna; s.spada@unibo.it.

Table of Contents

 

Introduzione
Note dal campo
Problematizzare l’antropologia applicata at home
La soggettività e le esperienze
Quale etica pratica?
Conclusioni
Bibliografia

Abstract. This contribution aims to reflect on personal tensions emerged from an action-research carried out within a public hospital’s gynecology unit located in north western Italy. I got involved on this fieldwork in two different ways: both as a Ph.D. researcher, willing to investigate the capability of informed consent to protect or not migrant patients’ right to health, and as an anthropologist-tutor having a specific educative responsibility - identifying critical situations in the relations between health care professionals and migrant patients in order to develop more equal relationships of care. More specifically I analyze the relationship among three ethically relevant topics such as: doing research "at home", the dialogue between subjectivity and experience and the challenging concretization of an appropriate methodology in anthropology. Starting from the ethical dilemmas emerged in fieldwork I want to reflect on the political dimensions of being and researching "at home", on anthropology's public role and on the lack of recognition of the practitioner anthropologist and his/her work's legitimacy in this field.

Keywords:  Ethics; Role; Informed Consent; Methodology; Engaged Anthropology.

Introduzione

Il presente contributo si propone di esplorare le tensioni etiche emerse durante lo svolgimento della ricerca di campo intrapresa per l’elaborazione della tesi di dottorato, effettuata grazie alla partecipazione ad un progetto formativo regionale attivato in una azienda sanitaria del nord-ovest dell’Emilia Romagna[1]. L’azione progettuale, iniziata nel novembre 2013 e conclusasi nel giugno 2015, ha previsto la formazione “sul campo” di professionisti sanitari afferenti a quattro unità ospedaliere[2], ognuna assegnata ad una antropologa tutor con un preciso mandato pratico-formativo: individuare, attraverso l’affiancamento del personale sanitario, gli ostacoli in essere nella relazione medico-paziente straniero, al fine di sviluppare una relazione di cura equamente orientata.

L’indagine per la ricerca dottorale, condotta nell’Unità di Ginecologia ed Ostetricia, ha cercato di esplorare la “capacità” del consenso informato di porsi come garante dell’esercizio del diritto alla salute per i pazienti migranti. L’obiettivo era infatti comprendere come viene utilizzato il consenso, sia dai professionisti sanitari che dai pazienti, e soprattutto come avviene la comunicazione dell’informazione. In un certo senso la ricerca è stata spinta dalla volontà di comprensione rispetto all’eticità di un modulo necessario all’atto medico: la semplice firma sul consenso informato prestampato sancisce i principi che lo fondano? La “componente etica” è stata quindi oggetto privilegiato dell’osservazione, ma altresì origine di problemi complessi nel procedere del fieldwork. Il presente contributo intende quindi proporre al lettore un ragionamento in divenire rispetto alle criticità incontrate nella pratica dell’antropologia medica applicata at home[3] attraverso l’individuazione di tre ambiti, strettamente interrelati, ritenuti eticamente rilevanti: fare ricerca “qui”, il dialogo tra soggettività ed esperienza e la difficile concretizzazione di un metodo appropriato.

Note dal campo

La partecipazione, in qualità di tirocinante nel progetto formativo regionale, ha posto in essere un terreno di ricerca intriso di difficoltà metodologiche, cognitive ed affettive, amplificate dal mio ruolo duplice, come ricercatrice e come antropologa tutor “in corsia”. È stata dunque una ricerca operativa (Maturo 2003: 91), una ricerca-azione[4] (Lewin 1946) formativa, e l’ambiguità di ruolo che ne è derivata, sdoppiando il mandato e stratificando gli interlocutori, mi ha imposto un profondo impegno: la fatica di rispondere al mandato formativo per produrre risultati (aiutare i professionisti sanitari attraverso l’affiancamento nel lavoro quotidiano a sviluppare abilità comunicative e relazionali) andava infatti calibrata con la fatica propria della ricerca, un oggetto non «docile e classificabile, ma complessità di un permanente divenire» (Freire 1972: 131); ciò ha comportato sia vantaggi che svantaggi, che proverò ad esplicitare di seguito.

Il ruolo di tutor-formatrice, attraverso l’affiancamento di sei operatrici sanitarie con profili professionali differenti, mi ha permesso di entrare nel campo senza troppe difficoltà burocratiche, legittimando “formalmente” la presenza in reparto. Tale legittimazione, rappresentata materialmente dall’obbligo di indossare il camice bianco, è stata formale nel senso che la legittimazione “interpersonale” con le professioniste in formazione è avvenuta con il passare del tempo; l’affiancamento obbligatorio non è stato infatti accolto benevolmente da tutte le partecipanti al progetto, ma le difficoltà nel concordare le presenze e le lunghe attese sono state interpretate come tempi necessari (Olivier De Sardan 2013: 30):

a quasi un mese dall’inizio del campo sono finalmente riuscita a conoscere tutte le professioniste; appuntamenti saltati, tentativi di fuga all’ultimo minuto sono stati difficili da gestire. Perché mi evitano? Come farmi valere? Senza la loro collaborazione come poter rispondere al mandato del progetto?[5]

Il mio ruolo è stato inoltre interpretato diversamente dalle partecipanti: ricercatrice, esperta intrusa, formatrice, mediatrice, valutatrice; ciò ne ha creato differenti immaginari, andando direttamente a reificare diversi posizionamenti sul campoe costringendomi a calibrare differenti modalità di approccio, in una sorta di “rodaggio relazionale”, come raccontato nel diario di campo:

Il comportamento delle professioniste nei miei confronti varia a seconda di cosa loro immaginano di me e più in generale dell’antropologia; più o meno tutte pensano che io sia una sorta di mediatrice culturale con svariate competenze linguistiche, esperta di usanze e tradizioni “etniche”. C’è chi mi racconta dei viaggi in giro per il mondo, probabilmente sia per trovare un punto di partenza per il dialogo che per verificare il mio grado di competenza; chi cerca conferme su tipizzazioni culturali – gli africani come fanno? – Alcune frasi però mi hanno proprio ferito - “Non capisco come tu mi possa essere di aiuto” o “Ma se non parli tante lingue cosa ci fai qui” – e hanno iniziato a rimbombarmi nella testa. Come fare per rispondere a questi interrogativi? Come superare la fase culturalista? Come raccontare cosa può fare un antropologo in reparto?[6]

Quando sono in ambulatorio non so dove mettermi. Dove stare. Gli ambulatori sono tutti piccolissimi e sono già sovraffollati, soprattutto nelle visite alle donne con gravidanza ad alto rischio. A volte è come se non ci fossi o addirittura come se non ci dovessi essere: “Bhè se non ci stiamo l’antropologa va fuori”[7]

Il mancato riconoscimento del ruolo, in ambiente ospedaliero dove le relazioni sono fortemente gerarchizzate e si sostanziano attraverso la specializzazione di cui si diviene incarnazione, ha fornito però spazi di azione possibili. Riflettendo con le professioniste in formazione sull’utilità dell’antropologia medica applicata e sul misconoscimento professionale si è cercato quindi di mostrare come il sapere antropologico medico potesse entrare nel reparto. La condivisione e la co-costruzione di sapere, individuando spazi di traducibilità reciproca, è divenuta frammentaria, particolare, condotta attraverso le singole relazioni; scontrandosi con svariate forme di mancato riconoscimento, la mia azione in qualità di antropologa si è parcellizzata, in una sorta di diffusione della conoscenza “sartoriale” ad personam. La scarsissima e spesso stereotipata conoscenza di “cosa studia un antropologo, di cosa si occupa, cosa può fare” ha imposto così una profonda riflessione rispetto alla reale applicabilità della disciplina in ambito sanitario, confermando quanto l’«andare sul campo [sia] esperire in prima persona il nucleo metodologico della disciplina» (Rossi 2003: 118): «ogni campo di ricerca etnografica […] è in realtà per il ricercatore uno spazio di azione e non solo di mera osservazione. Uno spazio di rischio che per l’etnografo costituisce al tempo stesso le possibilità della sua conoscenza e la misura delle sue pratiche» (Navarini 2001: 287).

Nonostante la presenza del ricercatore fosse quindi autorizzata dalle stesse modalità formative, l’accesso e la frequentazione del campo hanno rivelato difficoltà pratiche, dovendo negoziare quotidianamente il posizionamento, il ruolo, l’autorità, le competenze e le aspettative con i diversi attori presenti, dai pazienti al personale sanitario, passando attraverso la committenza, rappresentata dalla referente ospedaliera del progetto. I primi mesi di campo sono stati infatti caratterizzati da un lungo lavoro di mediazione e tentativi di accreditamento con la direzione sanitaria proponente, la quale ha avuto un atteggiamento ambivalente nei confronti di noi antropologhe: curiosità e diffidenza rispetto ad un approccio di ricerca notoriamente scomodo (Koller 2006: 10) e spesso essenzializzato. Tali criticità di riconoscimento professionale si sono sommate alle normali problematiche di ricerca in cui si incorre in un ambiente altamente istituzionalizzato come l’ospedale: sia i tempi lunghi, imposti dalla burocrazia e dall’amministrazione, sia per il rilascio del badge identificativo da apporre al camice, sia per la predisposizione del consenso informato da sottoporre alle pazienti incontrate durante l’affiancamento, su cui non è stato possibile intervenire in merito ai contenuti; sia gli spazi chiusi ed interdetti, che hanno reso la frequentazione del campo frammentata. Ulteriori difficoltà, insite nello stesso contesto ospedaliero in generale, ed ancor più nel reparto di ginecologia, hanno inevitabilmente interrogato la mia personale, intima soggettività, come esplicitato nella tesi finale: «durante tutta la mia permanenza nel campo, quotidianamente e nello scandirsi della successione delle visite o delle altre interazioni, il mio sguardo era consapevole, ed intimorito al contempo, rispetto alla mia presenza in quel contesto che rimanda ad una delle esperienze più intime e personali dell’essere umano» (Spada 2015: 96). L’affiancamento ha però nel tempo mostrato aspetti positivi: ha favorito sia un accesso privilegiato ai diversi retroscena, permettendo di destreggiarmi meglio tra i vari attori presenti, attraverso informazioni-confidenze utili – chi evitare (ma comunque osservare), con chi interagire, dove potere andare.

Dal racconto dei primi mesi di ricerca appare evidente come siano le criticità proprie della disciplina antropologica – sostenibilità del mandato e principi metodologici – ad essere implicate nella pratica del campo; è stata questa “presa di coscienza” a innescare la riflessione rispetto a cosa significhi fare ricerca at home, considerando le implicazioni della mia soggettività e delle mie esperienze, nel tentativo di applicare una metodologia appropriata. Nei prossimi paragrafi si cercherà quindi di restituire al lettore il percorso cercando di dipanarne la complessità.

Problematizzare l’antropologia applicata at home

Perché un antropologo si trova ad occuparsi dell’oggi e del qui?

Per “comune decenza” si potrebbe dire, evocando George Orwell

Marco Aime, Etnografie del quotidiano.

Uno sguardo antropologico sull’Italia che cambia, 2014

I processi di cambiamento sociale, innescati dai flussi migratori presenti nel nostro paese, impongono e forniscono all’antropologia «nuovi ambiti di interesse»(Olivier De Sardan 2008: 27), stimolando, nella stessa riflessione metodologica, «un vero e proprio mutamento epistemologico» (Dal Lago 1995: 11). L’etnologia del noi, come giustamente sottolinea Augé (1995: 88), diviene quindi «un dovere, ancor più che una possibilità», rimarcandone i presupposti «inevitabilmente politici» (Dal Lago 1995: 15). La contemporaneità impone quindi un rimpatrio dell’antropologia in cui l’antico giro lungo dell’antropologo non avviene più in termini geografici ma esistenziali e di appartenenza, prescrivendo un cambio di rotta netto rispetto alla scelta di cui parla Lévi-Strauss (1997: 371) in Tristi Tropici. L’antropologia applicata at home rappresenta però un ambito disciplinare ancora poco battuto dai ricercatori, quanto meno come primo campo; in Italia, similmente a quanto sottolineato da Gupta e Ferguson negli Stati Uniti, l’antropologia at home è infatti scarsamente riconosciuta dall’accademia; il “qui” non è considerato un vero field:

it remains evident that what many would deny in theory continues to be true in practice: some places art much more “anthropological” than others […] according to the degree of Otherness from an archetypal anthropological “home”. […] whereas phenomena and objects that are similar to “home” or already in some way familiar are deemed to be less worthy of ethnographic scrutiny (Gupta, Ferguson 1997: 113 e 116).

Le difficoltà di riconoscimento esperite nel campo, amplificate nel caso specifico anche dalla tradizionale spaccatura tra ricerca pura e applicata (Baba, Hill 2006: 187; Kozaitis 2009: 46), hanno mostrato gli effetti del non completo riconoscimento dell’applicazione antropologica quale produttrice di conoscenza (Baba 2000: 17). L’antropologo, tanto più se applicato, è ancora una figura professionale limitatamente riconosciuta se non misconosciuta, e per questo percepita, nelle migliori delle ipotesi, come un surplus. Questa condizione ha posto in essere dei problemi reali, tangibili, nel momento della ricerca, come riportato nelle pagine precedenti. Nel campo si è fatta diretta esperienza degli esiti della tipizzazione stereotipata che assegna all’antropologo l’elsewhere, rendendo fin da subito difficoltoso spiegare – e spiegarsi – la legittimità nell’essere at home. È a partire da questo nodo che si è cercato di riflettere insieme alle professioniste sanitarie sul ruolo dell’antropologo come de-costruttore di ciò che appare naturale e scontato, dei propri “impliciti culturali”; quella che per me è stata una riflessione costante rispetto al sapere proprio della disciplina, e alla sua applicabilità, ha rappresentato un percorso a tappe in cui le professioniste sanitarie hanno mano a mano legittimato il punto di vista antropologico, come si evince dagli stralci delle interviste alle professioniste in formazione: «Non avrei mai pensato che dentro la relazione ci potessero essere tutte queste cose», «Il confronto con un nuovo punto di vista, apre delle possibilità… e in certi casi ristabilisce il dialogo»; «Con l’affiancamento ho compreso quante cose facciamo, che ci sembrano giuste, perché nostre, in realtà non sono così oggettive come pensavo»[8]. Proprio a partire dalla definizione antropologica di biomedicina, del suo modo di trattare il corpo e conseguentemente il paziente, e quindi grazie al sapere antropologico-medico critico, io e le professioniste sanitarie abbiamo iniziato a verificare le interpretazioni teoriche, cercandone gli eventuali scarti, individuati come spazi di riflessione congiunta per attuare dei cambiamenti nella quotidianità pratica, come il ripensamento della struttura del colloquio e del linguaggio tra ostetrica e paziente nella visita di presa in carico per il parto.

La difficoltà nel condurre ricerca at home risiederebbe proprio nel riconoscimento del “qui” come «place of difference» (Gupta, Ferguson 1997: 133), comportando un’inevitabile ampliamento – tendente all’infinito (Fassin 2006: 523) – del campo[9], e facendo emergere le criticità derivanti dall’originaria ambiguità dell’essere membro della società in cui si effettua l’indagine:

egli deve spaesarsi […] un etnografo di mondi che rientrano nella propria cultura […] si trova in una situazione più ambigua. Il suo spaesamento, infatti, non dipende da un viaggio, da una rottura con il suo stile di vita ordinario, ma di un riorientamento, da un mutamento di prospettive, che deve imporsi, spesso in accordo ma anche in contrasto con le sue inclinazioni o abitudini. In questo senso lo sguardo etnografico comporta uno spaesamento molto vicino alla doppiezza (Dal Lago, De Biasi 2002: XV).

Tale riorientamento, derivante dalla «discesa nella vita di tutti i giorni» (Das in De Lauri, Achilli 2008: 13) con quella che Fassin (2006: 523) ha descritto come osservazione attenta, ha permesso lo sviluppo della consapevolezza delle implicazioni etiche e politiche del proprio agire, ed ha provocato lo strabismo metodologico descritto da Augé:

L’etnologia ha sempre a che fare con almeno due spazi: quello del luogo che studia […] e quello, più vasto, in cui questo luogo si iscrive e da dove si esercitano influenze e vincoli che non sono prive di effetti sul gioco interno delle relazioni. […] L’etnologo è così condannato allo strabismo metodologico: non deve perdere di vista né il luogo immediato della sua osservazione, né le sue esternalità, le connessioni significative con il suo esterno (Augé 1993: 108).

Indagare la “propria curvatura culturale”, rendendo esotico il familiare (Piasere 2006: 47), stressa in profondità il corpo-io del ricercatore, impegnato a non cadere vittima del paradosso etnografico: quando «l’etnografo tenta di prescindere totalmente dalla propria storia culturale nella pretesa di farsi “nudo come un verme” di fronte ai fenomeni culturali da osservare e allora diventa cieco e muto di fronte ai fatti etnografici e perde, con i fatti da osservare e da descrivere, la propria vocazione specialistica» (de Martino 2002b: 391).

Attraverso lo sradicamento esistenziale della vita quotidiana, la ricerca ha risposto ad un invito espresso da Marcus e Fischer (1998: 25), quello appunto di «capire gli altri per capire sé stessi [con la speranza di] modificarsi e trasformare il contesto che produce discriminazioni, etnocentrismi e pregiudizi». Acquisire il dato at home ha richiesto quindi una capacità di oggettivazione molto intima (Rossi 2003: 117) e imposto un pensiero rigoroso, in quanto, secondo il paradigma costruttivista, la realtà può derivare esclusivamente ammettendo l’esistenza di rapporti soggettivamente informati; attraverso concatenazioni ramificate e impreviste, l’interpretazione del dato è divenuta un vero e proprio esercizio epistemologico auto-riflessivo, consapevole del proprio etnocentrismo.

Interpretare significa andare oltre l’evidenza dei dati, dotare di senso elementi tra loro disgiunti, […] calati in un orizzonte parcellizzato e, in quanto tali, semplici veicoli di informazione che, al contrario, se vengono tra loro connessi secondo una prospettiva ben precisa (interpretativa) costituiscono conoscenza. […] L’interpretazione deve cercare […] di individuare la complessa rete di cause che preludono a un fenomeno e di attribuire ad esso un senso ed un significato, senza sottovalutare né le prospettive individuali né l’influenza del contesto (Cremonini 2003: 83).

Tale condizione è stata molto “faticosa da vivere” ed ha generato molteplici interrogativi; il dubbio, «il più fedele compagno di cammino del ricercatore» (Antiseri 1996: 142), si è trasformato nella mia personale “regola aurea”. L’immanenza applicativa è stata percepita attraverso il naturale insorgere di dubbi rispetto al mio operato e più in generale sulla sostenibilità del tema di ricerca (Rossi 2003: 65), attivando una riflessione rispetto alla mia soggettività.

La soggettività e le esperienze

Il metodo etnografico ha sempre posto il problema dell’oggettività dei resoconti e della giusta dose di soggettività legittimata ad emergere dal testo. Con la stagione della riflessività, ineludibile premessa per un buon[10] resoconto etnografico, passando per la svolta postmodernista, enfatizzatrice della frammentarietà dell’esperienza di ricerca, unitamente all’imporsi delle riflessioni interpretativo-ermeneutiche[11], l’indagine antropologica è stata sempre più attenta a riportare una realtà negoziata tra i soggetti che la compongono: una multisoggettività restituita attraverso l’uso del dialogo e l’esplicitazione delle interpretazioni, cioè una costruzione dialogica[12] di significati negoziati, nell’ottica di una conoscenza situata (Rossi 2003: 77 e 80). È come se la disciplina antropologica si fosse imposta, come esito della svolta interpretativa, il dovere kantiano del “conosci te stesso”, avvicinandosi all’etica normativa hegeliana del doveroso, cioè di una «rettitudine legata ai doveri di un ruolo sociale storicamente dato» (Cremaschi 2012: 165), in netta contrapposizione all’ideale cartesiano del soggetto autonomo e non situato, tipizzato nell’astratta tabula rasa; in questo senso la tensione politica sottesa all’agire antropologico potrebbe essere già posta dal rifiuto della neutralità intesa sia come artificio stilistico retorico utilizzato nella restituzione scritta, che come passività complice di un sistema iniquo.

L’osservazione partecipante possiede quindi una funzione auto-riflessiva rispetto al posizionamento dell’antropologo, tanto fisico sul campo quanto sociale in senso lato, come emerso nelle pagine precedenti. Si fa quindi riferimento a «quella riflessività che si pone il problema di come fare i conti con la riflessività essenziale, come utilizzarla in modo strategico per specifici interessi conoscitivi, teorici ed empirici» (Colombo 2001: 221, nota 6). Del resto «non vi può essere conoscenza del mondo che non sia conoscenza della nostra esperienza interiore effettuata su di esso e delle nostre relazioni» (Gouldner 1980: 711), proprio perché «passare attraverso il proprio sé non significa, infatti, arenarsi in modo compiacente e narcisistico nei meandri del medesimo, ma comporta, al contrario un prezioso affinamento degli strumenti comunicativi di cui disponiamo per cercare di comprendere e costruire interpretazioni “colte”» (Rossi 2003: 112).

La natura del lavoro di campo rende la riflessività una caratteristica essenziale e costitutiva dell’antropologia. La negoziazione sul campo è influenzata dalla storia personale del ricercatore, dalla sua personalità, dal suo genere, dal suo orientamento teorico, dal suo ruolo istituzionale, come anche dal suo coinvolgimento emotivo, politico e ideologico e dalle differenti circostanze che incontra. Queste a loro volta sono determinate dalle caratteristiche degli interlocutori, dalle specificità della comunità nella sua relazione con il contesto generale inglobante (Fabietti, Malighetti, Matera 2002: 86).

«Proprio il sé, spaccato e contraddittorio, può interrogare i posizionamenti» (Haraway 1995: 116), come emerso rispetto alla criticità posta in essere dal mancato riconoscimento di ruolo e di come esso sia invece stato utilizzato in senso positivo e creativo: la riflessività quindi come tecnica, opposta al distanziamento, per acquisire consapevolezza e costruire uno sguardo sempre più oggettivo (Lévi-Strauss 1967: 63). La soggettività, onnipresente e onnisciente del ricercatore, è quindi da considerarsi una preziosa risorsa analitica, ma trasformando il ricercatore in “strumento” della ricerca lo si rende consapevole «che egli ne regge anche tutto il peso» (Corbetta 2003: 65). La profonda capacità riflessiva, avente per obiettivo il disvelamento di ciò che solitamente viene taciuto, dei discorsiin essere nel contesto di appartenenza del ricercatore, ha imposto così l’attivazione di un “filtro etico viscerale”, sensorialmente guidato dalla tensione verso un «umanesimo etnografico» (Matera 2008: 12). Procedere a colpi di intuizione, d’improvvisazione, di bricolage (Olivier De Sardan 2013: 30) ha imposto quindi uno «stato di vigilanza costante, di indisponibilità perenne a non lasciarsi pilotare da mezze verità o idee ricevute» (Said 2014: 36). L’incontro etnografico ha confermato così la sua identità di incontro «al limite» (Freire 1972: 120) o «alla frontiera, sottraendosi al pericolo di “ripetere” immediatamente e inconsapevolmente la storia interna dell’occidente» (de Martino 2002a: 93). Grazie alla ricerca applicata «impariamo che alcune delle nostre idee sono pregiudizi» (Antiseri 1996: 13), permettendoci di difenderci dai nostri più grandi nemici - «universalismo facile (che proietta ingenuamente la propria visione sul resto del mondo) e relativismo pigro (che condanna le culture a una reclusione identitaria all’interno dei propri valori specifici)» (Jullien 2010: 105) – e svelare il bluff di un antropologia (Scheper-Hughes 1995: 410) che dichiarandosi moralmente non coinvolta, compromette[13] «la proclamata operatività del sapere» a causa di «un relativismo che dissolve ogni possibile centro operativo» (de Martino 2002a: 103-104). «Riflettere [quindi] sulla propria condizione di esseri in situazione» (Freire 1972: 132), «è un tentativo di condividere con altri membri del proprio stesso gruppo delle possibili letture di alcune criticità e di alcuni aspetti socio-culturali caratteristici della nostra epoca» (Aime 2014: 12), in una sorta di «uso etico della conoscenza dell’Altro, votato alla decostruzione riflessiva del Sé occidentale» (Ricca 2013: 253). In questo senso l’etnografia, come il lavoro intellettuale, permette l’abbattimento di stereotipi e categorie riduttive «che tanto limitano il pensiero e le comunicazioni umane» (Said 2014: 10).

Possiamo dire che la prospettiva che richiede l’essere-nel-mondo […] procede sotto il segno della riflettività. In essa il sentimento viscerale pre-riflesso e l’impegno sensoriale sono innalzati al livello dell’autocoscienza metodologica, grazie all’introduzione dell’incorporazione, intesa in senso fenomenologico, all’interno dell’impresa etnografica. In questo senso riflessività e riflettività possono essere intese come contributi complementari provenienti dalla testualità e dall’incorporazione in vista di una riformulazione della pratica etnografica (Csordas 2003: 28).

L’antropologo at home, attraverso il rigore metodologico, diviene quindi un inquieto esule e come tale «vede il mondo sempre in una doppia prospettiva. […] Assumere il punto di vista dell’esule […] lo sollecita a guardare le cose non soltanto per come sono, ma per come sono diventate. È un invito a considerare la situazioni in quanto contingenti e non ineluttabili, […] a considerarle realtà sociali costruite da essere umani e non dati di natura» (Said 2014: 70-71). Il lavoro sul campo dell’antropologo può quindi divenire “spazio di possibilità”[14](Carrithers 2005), come descritto da un’ostetrica partecipante al progetto: «l’affiancamento con te, il confronto con l’antropologia, le nostre chiacchierate per me sono state una “palestra per l’imprevisto”, per imparare a gestirlo» (da intervista finale a ostetrica).

L’esplicitazione della duplice politica di campo con i diversi interlocutori – ruolo, e quindi posizionamento, ambiguo di ricercatrice e formatrice – ha permesso così di condividere, per mezzo di una “intima sincerità”(Jackson Jr. 2010: S280), il «chi sono io» e il «perché sono qui» (Rossi 2003: 131); non si è trattato semplicemente di evitare la deriva di un essenzialismo miope (Schramm 2013: 190) e dimostrare la fondatezza del proprio lavoro attraverso una riflessione costante, ma agire secondo la propria riflettività. Tale razionalità relazionale (Donati 2008), costruita nel tempo, attingendo ad esperienze altre – personali, di ricerca e di lavoro – ha consentito di interpretare i dilemmi morali come una vera e propria “bussola” per il comportamento. L’etica dell’azione e della ricerca appaiono quindi intimamente intrecciate in quanto partecipare, essere un membro attivo all’interno del campo, presuppone una forma di attivismo intersoggettivo. Vorrei quindi brevemente soffermarmi sull’esperienza personale, considerata come un vera e propria categoria ermeneutica (De Lauri, Achilli 2008: 10). Partendo dal presupposto che «se spengo la luce della mia esperienza personale non posso vedere l’esperienza di altri» (Cassirer in Antiseri 1996: 345), ho iniziato a riflettere rispetto a come le mie personali esperienze di ricerca e lavoro, tutte legate da una prossimità di interesse rispetto alle migrazioni, entrassero nel campo; in questo senso si è presa consapevolezza di quanto i confini tra la ricerca e la vita fossero sfumati (Fassin 2006: 523), e soprattutto quanto questa prossimità avesse creato una expertise dinamica ed eterogenea[15], utile per superare alcuni degli imprevisti incontrati nel fieldwork. La tensione a carpire “dati” non è in opera solo nel momento della ricerca di campo propriamente intesa ma nella vita di tutti i giorni, in una sorta di «observant participation» (Fassin 2006: 523); il campo insomma non finisce mai. Il semplice dialogare con persone o confrontarsi con episodi della quotidianità porta il ricercatore ad una elaborazione continua di dati vivi, che gli permettono di acquisire ulteriori elementi utili nel processo interpretativo; è come se at home la risonanza dell’esperienza si amplificasse. Come afferma Ciavolella (2013: 27) «i pensieri formulati incontrando persone» influenzano se non trasformano il proprio «modo di vedere il mondo in generale, al di là della particolarità etnografica». L’approfondimento teorico, fatto del lavoro a tavolino, va quindi a legarsi indissolubilmente alle personali esperienze di vita, fornendo utili e praticabili strumenti di lettura della realtà vissuta. «Il sapere esiste solo […] nella ricerca inquieta, impaziente, permanente che gli uomini fanno nel mondo col mondo e con gli altri» (Freire 1972: 82). Ma quando il contesto di ricerca non confonde per la sua esoticità ma per la sua perturbante vicinanza e pervasione, come agire, a livello metodologico e quindi etico, con il mondo circostante?La frustrazione della certezza nel “so di non sapere” può rappresentare un «guadagno per la morale» (Bauman 2010:227), aspirando a divenire segno di coerenza etica ed intellettuale?

Quale etica pratica?

La dimensione etica è stata marginalizzata all’interno dei resoconti della disciplina (Fassin 2012: 4), benché sia una dimensione ineludibile e connaturata alla ricerca, ancor più se applicata, in cui è richiesta un’etica che proceda non per valori trascendenti «mais produit ses propres règles ou codes d’orientation au plus près de la pratique anthropologique et de ses capacités d’implication» (Dozon 1997: 113-114). Difficilmente nella produzione antropologica italiana le questioni etiche vengono approfondite, ed il semplice riferimento allo svolgimento di una ricerca improntata a generici principi soddisfacenti le linee guida dei comitati etici, supposti quindi come universalmente condivisi, può di per sé, presentare criticità, oltre a non fornire strumenti immediatamente utili nella pratica sul campo. Come per Bateson: «my fieldwork was scrappy and disconnected […] my own theoretical approaches proved too vague to be of any use in the field» (1936: 257).

Marzano (2004), ad esempio, ritiene utili le indicazioni operative fornite della letteratura anglosassone, secondo cui la ricerca sociale è tenuta a rispettare gli stessi principi sottesi alla pratica biomedica: beneficienza, non malevolenza e autonomia. In realtà queste indicazioni si sono rivelate troppo vaghe per rispondere agli interrogativi concreti emersi durante il campo, fungendo semplicemente da traiettorie a priori parimenti da sottoporre a riflessione critica. Essendo la ricerca focalizzata sullo studio del consenso informato, nel campo si sono esperite tutte le contraddizioni emergenti nella sua pratica: lo strumento deputato a riportare la pari dignità tra medico e paziente, ed altresì ricomporre quella frattura tra oggetto/soggetto caratterizzante la pratica biomedica, intrappolato tra le logiche aziendalistiche e la medicina difensiva, si sta rivelando un mero atto burocratico velatamente paternalista, spogliato di tutto il suo potenziale agentivo. La pratica del consenso informato, per come viene posta in essere oggi, pare infatti essere responsabile di una ulteriore frattura nel rapporto tra medico e paziente, una sorta di neocolonialismo che legalizza le relazioni, sancisce l’incontro ma è cieco rispetto alla qualità dell’incontro e della comunicazione, e soprattutto rispetto al volto del soggetto. Come sottolineato dallo stesso documento ad hoc prodotto dal Comitato Nazionale di Bioetica, il modulo, da solo, non è sufficiente a ristabilire la fiducia tra i due soggetti: «una informazione fredda e distaccata, pur se legalisticamente precisa, […] di per sé sola non offre le condizioni di una vera consensualità» (CNB 1992: 9). Si ritiene quindi superficiale l’affidarsi ad un mero modulo legale, che ben lungi nell’evitare di esperire le difficoltà incontrate in una ricerca applicata, ne fonda di ulteriori. «However […] achieving agreement has never been easy, since such codes are often highly contested in their formulation, and agreement about interpretation is also problematic […]. Yet the ethics of anthropology is clearly not just about obeying a set of guidelines» (Caplan 2004: 3).

Come giustamente sostenuto da Fassin (2006: 524) il modulo del consenso informato mal si adatta al lavoro etnografico: fornendone una falsa garanzia, ripropone il problema, già riscontrato nella biomedicina, della cosiddetta etica fast, «come avviene nei fast food, dove si può ben chiedere quanto sia il manzo nel panino e di quale qualità» (Wear 1999: 71). In questo senso, il modulo standardizzato serve agli antropologi per evitare la riflessione rispetto al proprio coinvolgimento etico quanto ai medici per dimostrare la legittimità delle proprie azioni ed evitare sanzioni penali. L’oggetto privilegiato della mia indagine, il consenso informato, ha permesso così un ragionamento rispetto alla “tenuta” dei principi etici ad esso sottesi, a partire dalle modalità con cui lo strumento legale viene agito dai diversi attori. Attraverso il confronto con le professioniste in formazione e con alcune pazienti ho attivato una riflessione rispetto al mio comportamento nel momento in cui veniva richiesta la firma sul modulo di consenso alla ricerca, permettendomi di negoziarne un differente uso. Come poter passare da una firma «meccanica» e «data per scontata» (Cappelletto 2013: 213) ad una garante dell’avvenuta comprensione? Attraverso l’intendimento delle problematiche connaturate ai moduli del consenso – ad esempio linguaggio tecnico, modalità e tempistiche di somministrazione – ho così posto in secondo piano l’acquisizione della firma a favore di una comunicazione sincera orientata a verificare la reale comprensione del chi fossi, la motivazione della mia presenza, ed il futuro uso dei dati; questo atteggiamento, apprezzato dalle pazienti, ha permesso loro, così come esse stesse hanno dichiarato, «di capire, e quindi di aprirsi senza remore», dimostrando come non sia la mera apposizione di una firma a sancire l’eticità dell’azione, sia medica che di ricerca, ma il comportamento adottato ai fini del suo ottenimento.

Con queste consapevolezze, cercando di tenere presente gli orizzonti di senso scaturiti dalla problematizzazione della ricerca applicata at home e dal procedere riflessivo, ho iniziato a pensare come poter praticare una metodologia appropriata, intesa come una possibilità, un tentativo di cercare delle leve, delle traiettorie possibili. Partendo dal presupposto che «azione e riflessione costituiscono una unità inscindibile» (Freire 1972: 74), la teoria della prassi rivoluzionaria postulata da Baba (2000) può essere di enorme aiuto all’antropologo applicato at home:

Praxis is not simply any kind of practical activity but a commitment to action that is organized explicitly around specific values and purposes, namely, those of liberating individuals from alienating and exploitative processes. Praxis in applied anthropology is a way of knowing that relies on engagement in societal realty, on being embedded in the processes of social life. […] Praxis consists of a tension or negotiation between objective knowledge of the world which is operative in a given time and place (e.g. our ideas about culture) and the subjective experience of the world found in ongoing human action. This negotiation teaches us about the implicit patterns that underlie human existence: (Baba 2000: 26-27).

La teoria della pratica ancorando la produzione di conoscenza tanto alla riflessione teorica che agli imponderabili esperiti nella praxis, permetterebbe, nonostante le fatiche descritte nelle pagine precedenti, di agire nel campo verificando continuamente l’appropriatezza del proprio comportamento. Tale ancoramento alla dimensione pratica, sottoposta al vaglio della riflessività condivisa con le interlocutrici privilegiate, nel mio caso le professioniste sanitarie e alcune pazienti, mi ha permesso di individuare nell’attenzione levinasiana all’Altro, ai suoi bisogni e alle sue necessità per mezzo del riconoscimento del suo “volto”, un valido tentativo di attuazione di quella che Illich (2003: 88) ha definito etica dello sguardo[16]; Lévinas (1983) e Illich divengono quindi utili per una rifondazione etica della dimensione relazionale intersoggettiva esperita sul campo, ma anche al di fuori di esso. L’etnografo, così facendo, «tenterà non solo – per usare un’espressione di Tagliagambe – di “afferrare la realtà in modi innovativi” (1997: 81), ma anche di delineare nuove potenzialità e nuove condizioni per vivere la vita» (De Lauri e Achilli 2008: 10). La metodologia ermeneutico-riflessiva, come tecnica per acquisire consapevolezza (Marzano 2001: 260) ha sì destabilizzato l’autorità etnografica come neutrale ed oggettiva, ma al contempo le ha fatto prendere coscienza rispetto al proprio coinvolgimento etico. L’eticità di una ricerca si sviluppa infatti nelle relazioni e negli incontri concreti, «all’interno di concrete relazioni faccia a faccia» (Marzano 2006: 63) ed in alcuni casi nel semplice esserci. Se come fin qui appare, il metodo antropologico applicato è fondato su presupposti appropriati, ciò non elide le criticità connaturate alla propria responsabilità[17], sia nel-sul campo che intellettuale in senso lato. La consapevolezza di non essere agenti neutrali quando ci si confronta con problemi sociali (Fassin 2012: 5-6) apre la strada ad una metodologia in grado di inserire «gli uomini in una forma critica di pensare il loro mondo» (Freire 1972: 127): «volgendo lo sguardo l’antropologo potrebbe allora non solo descrivere una trasformazione […] ma innescarla» (Ricca 2013: 260).

La riflessione sulla metodologia adottata nel campo, ci rammenta che «instead of merely referring to abstract ethics codes in research and teaching, critical self-reflection on our engagements and positionalities in (and beyond) the field requires the cultivation of ethical and moral selves» (Dilger et al. 2015: 4-5). «La nostra relazione con l’altro dovrebbe essere un movimento in direzione del bene» (Zapuscinski 2015: 29), impegnato a mantenere un relativismo in equilibrio (Lévi-Strauss 1997: 373), frutto del faticoso lavoro quotidiano basato sul riconoscimento di posizioni diverse (Biscaldi 2009: 28). Usare il «relativismo culturale come posizione metodologica e critica di avvicinamento e comprensione della realtà» (Biscaldi 2009: 128), oltre ad esprimere «una esigenza di scientificità» (Biscaldi 2009: 93), è un modo proficuo per riflettere sul tema della diversità culturale, tanto più se intesa come «correlato ideologico delle strategie di potere nei confronti dell’Altro» (Dei 2005: 26). Sono infatti proprio i classici concetti di pertinenza antropologica quali la cultura[18], l’appartenenza, l’identità, la differenza, ad essere al centro degli attuali discorsi politici, dibattiti pubblici e conflitti sociali, e come raccontato, delle criticità esperite sul campo; per questo l’antropologia, specialista della differenza e del metodo per interpretarla (Gupta e Ferguson 1997: 102) appare essere “chiamata in causa” nel tentativo di “comprendere e agire” al fine di dipanare i nodi.

Conclusioni

Riflettere intorno alla dimensione etica del proprio lavoro di ricerca, nei diversi piani in cui si è coinvolti - verso i soggetti della ricerca, la domanda teorica, la committenza, la comunità scientifica – permette all’antropologo di effettuare il “giro più lungo”, inteso come «percorso intellettuale e morale, più avventuroso, nella complessità del vivere» (Remotti 1990: 164). In questo senso la dimensione etica si è rivelata intrinsecamente legata alla scelta del tema, all’impostazione metodologica e al posizionamento esperito dal ricercatore, in una sorta di “engagement in fieri”. Un metodo simultaneamente induttivo e deduttivo, empirico e immaginativo (Comaroff e Comaroff 2003: 147) in cui l’antropologo, attraverso un procedimento cognitivo abduttivo (Agar 2006) e un comportamento rispettoso (Sennet 2004: 207) ha cercato di prendere i bisogni degli altri seriamente. Come sottolineato da Baba: «the discipline requires a rapprochement between theory-building and problem-oriented inquiry. […] Engagement with the troubles of our own social context has been represented ad a strategy by which anthropology can revitalize theory, as well as make a contribution to the amelioration of social problems» (Baba 2000: 38-39).

Condurre una ricerca-azione nel proprio contesto culturale, appare essere inoltre una questione politica, in quanto l’antropologo, che intende svelare relazioni di potere e iniquità, effettua una forma specifica di critica sociale (Low, Merry 2010: S208-S209); in un certo senso è proprio «dall’inquietudine morale» (Lévi Strauss 1997: 372) vissuta at home dal ricercatore che può nascere l’engagement. «The choice to engage is a moral act […] engagement is not simply about the nobility of our discipline; it is also about deeply held core values and feelings about our individual identities and our roles as ethnographers and as real persons» (Davies 2010: 185). Aprirsi al senso dell’Altro ha infatti implicato il divenirne responsabili (Lévinas in Nguyen 2007: 35). Ha significato esperire il gap tra law in book e law in pratice tipiche della situazione di ineguaglianza sociale (de Sousa Santos 2008: 186). Divenirne responsabili, nel mio caso, ha significato quindi cercare di comprendere quali siano le sovrastrutture che impediscono l’esercizio sostanziale della propria autonomia e parimenti quali siano i discorsi socializzati che impediscono a norme di tutela valide di essere efficaci, in quanto «le questioni normative sono anche faccende reali di vita e di morte» (Goodale 2008: 77). «Everyday acts of sharing and support may not seem like “engagement” in terms of advocacy or activism, but they reflect the anthropological sense of responsibility and reciprocity that often develops into other form of engagement» (Low, Merry 2010: S208). At home la contrapposizione emico/etico perde di consistenza, o quanto meno merita di essere problematizzata. Riflettere intorno a un punto di vista esterno o interno reifica indirettamente confini, ponendo l’attenzione sull’aporia particolare/universale e trascendendo il soggetto, che invece è punto di partenza della conoscenza. Lo guardo emico inclusivo co-costruito diviene consapevolmente critico, per questo er-etico. Uno sguardo ed un posizionamento che divengono er-eticamente emici, attraverso l’etnocentrismo critico, il relativismo metodologico ed il dialogo ermeneutico, agendo la reciprocità noi/loro, Sé/Altro-da-sé. L’antropologo at home può quindi divenire un intellettuale in quanto “appartenente al proprio tempo” «che sceglie di non integrarsi» (Said 2014: 35, 64) ma intende «mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore» (Gramsci 1977: 1551), guardando oltre e «risalendo dalle differenze di superficie alle forze motrici di produzione di senso» (Ricca 2013: 244).

Proprio grazie alla «sua capacità di farsi pensiero critico assumendo come base della propria riflessione l’esperienza pratica (il campo etnografico), l’antropologia potrebbe sperare di ergersi tra gli interpreti principe della società del XXI secolo» (Ciavolella 2013: 352), confermando «that we are socially active already» (Kozaitis 2009: 51): «d’une certaine façon, les sciences sociales redécouvrent leur dimension de connaissance morale et pratique, destinée à la définition et la résolution des problèmes sociaux et soutenant la formation du jugement dans l’action publique» (Cefaï e Amiraux 2002: 5).Una «science at the service of humanity» (Kozaitis 2009: 45) come argutamente sottolineato da de Martino nel lontano 1962:

l’etnologia viene acquistando un suo specifico significato per la vita culturale del nostro paese, e non soltanto per il fatto generico che il nostro paese partecipa all’attuale congiuntura dell’occidente e alle sue alternative estreme, ma anche in un senso molto più specifico, più pertinente alle difficoltà oggettive in cui si imbatte la nazione in cammino (de Martino 2002a: 114).

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[1] Per tutelare la privacy dei diversi attori dell’indagine, ed in ottemperanza al D.L. 196/2003 “Codice in materia di protezione dei dat personali”, si è deciso di non indicare né il luogo né le date esatte della ricerca-azione. Nel testo verranno riportati stralci di interviste e del diario di campo, riferendosi esclusivamente al ruolo professionale del soggetto ed indicando il tempo trascorso dall’inizio della ricerca.

[2] Ginecologia ed ostetricia, medicina interna, infettivologia e geriatria.

[3] Con antropologia at home si intende una ricerca antropologica condotta nel luogo di origine e vita del ricercatore. Per approfondimenti si veda Jackson (1987).

[4] Ricerca azione pensata come possibilità di innescare una prassi riflessiva trasformativa della relazione sanitaria.

[5] Diario, quarta settimana di campo.

[6] Diario, terza settimana di campo.

[7] Diario, seconda settimana di campo. Frase pronunciata dalla ginecologa nell’ambulatorio ecografico.

[8] Stralci delle interviste finali semi-strutturate condotte con le ostetriche partecipanti al progetto formativo.

[9] «"The field” of anthropology and “the field” of “fieldwork” are thus politically and epistemologically inter twined […]. Exploring the possibilities and limitations of the idea of “the field” thus carries with it the opportunity — or, depending on one’s point of view, the risk— of opening to question the meaning of our own professional and intellectual identities as anthropologist» (Gupta e Ferguson 1997: 103).

[10] Nel senso di valido.

[11] Dalla seconda guerra mondiale si sviluppa una enorme riflessione metodologica, arricchita primariamente dai contributi dell’etnometodologia attenta ai micro-processi sociali e alle implicazioni derivanti dalla soggettività del ricercatore; negli anni Settanta poi, la svolta interpretativa inaugurata da Geertz fece emergere una profonda crisi rispetto al ruolo dell’antropologo nel campo, alla sua autorità – espressa attraverso la scrittura dell’etnografia – ed alle regole da seguire.

[12] Partendo dal presupposto che «a volte una discussione serve per farci cambiare idea» (Sandel 2014: 37), ne deriva una considerazione del dialogo quale «struttura efficiente-operativa […] tanto più rigorosa e feconda quanto più mette in campo tesi antitetiche» (Jullien 2010: 174), comportando necessariamente la nascita di un pensare critico (Freire 1972: 111).

[13] «Antipragmatism limits the influence of academics as much as anti-intellectualism compromise the work of the practitioners» (Kozaitis 2009: 53).

[14] «La prospettiva antropologica sottolinea come dietro ad ogni decisione morale ci siano le ragioni degli individui. Gli individui sono immersi in tradizioni culturali che certamente sono importanti e condizionano, ma non determinano completamente le loro scelte. Per questo le possibilità del dialogo e del cambiamento sono possibilità sempre aperte» (Biscaldi 2009: 32).

[15] Dalle questioni legali a quelle sociali, dalla dimensione linguistica a quella psicologica.

[16] «L’etica dello sguardo è importante perché l’hexis, o il modo di fare della persona, nel suo insieme, è collegata al modo in cui la persona agisce» (Illich 2003:88).

[17] «È solo l’io che è responsabile, egli è l’egli cui io assegno il diritto di rendermi responsabile. È da questo creare significato degli Altri, e quindi anche di me stesso, che trae origine la mia libertà, la mia libertà etica» (Bauman 2010: 92).

[18] «Here culture may actually be a disguise for an incipient or an underlying racism, a pseudo-speciation of humans into discrete types, orders, and kinds-the bell jar rather than the bell curve approach to reifying difference» (Scheper-Hughes 1995: 417, nota 7).