“Non so più che giorno è”

Recupero dal coma, eterocronia e ricerca antropologica

Andrea F. Ravenda

Università di Perugia

Abstract. This article refers to an ethnography of specific practices and events in facilities to treat people with acquired severe cerebral lesions. It will focus mainly on the impact that the systematic representation of different time segments may have on the complex experience of people (and families) crossing the so-called phases of "coma recovery scale". Connecting ethnographic fragments of biomedical (clinical practice), relational (role of the family) and bodily (suffered person) dimension it will analyze the transformative and generative tension between the different space-time segments in new naturalization processes. In other words, this article will argue the heterochrony of chronotropic showing the complex experience of agency emerging from their conflicting social effects.

Keywords: heterochrony; coma; transformation; embodiment; agency.

Il tempo sospeso

L’unità Gravi Cerebro-Lesioni Acquisite si trova al terzo e ultimo piano del padiglione Est dell’ospedale di Fonterchi[1], piccolo comune del centro Italia. Per poterla raggiungere dall’ingresso principale della struttura è necessario attraversare il piano terra percorrendo tutto il padiglione Est, fino all’antro che si chiude con la rampa di scale e gli ascensori. Giunti al piano, la piccola sala d’attesa senza finestre introduce al reparto, che si sviluppa come una lunga corsia divisa da un più ampio spazio con la stanza degli infermieri e la postazione di accoglienza, spesso sguarnita. A destra vi sono le stanze, variabili per dimensioni e posti letto, a sinistra gli ambulatori e le due palestre per la riabilitazione. Tutto è abbastanza nuovo, ordinato e pulito. In un primo pomeriggio di estate il reparto è silenzioso e appare sospeso in una straniante immobilità. Da qualche ora è stato distribuito il pranzo e lo staff infermieristico dopo aver ultimato il “giro” di controllo dei pazienti, si è ritirato nella stanzetta posta a metà della corsia. Porte e finestre sono chiuse e il soffio dell’aria condizionata diffonde il forte odore dei disinfettanti mescolato a quello del pasto già consumato, con l’aspro della frutta e il vapore della minestra. Il silenzio è interrotto soltanto dal suono ripetuto del respiro filtrato dalla cannula tracheale, da colpi di tosse soffocati e da qualche impercettibile suono proveniente dai televisori accesi con il volume al minimo. Nelle stanze, le persone assistite sono a letto o su sedie a rotelle, alcuni interagiscono con l’ambiente circostante ma i più restano immobili, altri, soggetti a ipertonia muscolare, eseguono ripetitivi movimenti della testa e degli arti. Accanto a loro, quasi per ognuno, un familiare osserva con espressione stanca. Scorrendo il corridoio allo sguardo e ai sensi del visitatore inesperto, il reparto e gli attori che lo definiscono, sembrano raccogliersi in un unico segmento spazio-temporale sospeso e proprio della dimensione e del ritmo ospedaliero nei reparti di lunga degenza per gravi patologie (Murphy 1987). È come se il tempo nella sua accezione astratta e univoca (Gell 1992), lo spazio generato dalle pratiche ospedaliere e i corpi, nella propria sofferenza soggettiva siano reciprocamente identificati in una statica uniformità. Un istante sospeso tuttavia, che già dopo alcuni giorni di frequentazione, tende a disarticolarsi dalla propria immobilità, materializzandosi nel concreto e quotidiano protrarsi come sovrapposizione di molteplici frammenti spazio-temporali e di azione, che s’identificano e trasformano di volta in volta rispetto al posizionamento dei soggetti coinvolti: nelle attese e nel dolore dei familiari con le proprie dosi di speranza, tenacia e delusione; nelle procedure, nei percorsi diagnostici, clinici e riabilitativi; nelle strategie di gestione delle risorse per l’azienda ospedaliera; nella sofferenza corporea o nei miglioramenti delle persone assistite.

Questo contributo si riferisce a uno studio etnografico avviato nel 2014 in un’area del centro Italia, rivolto all’osservazione diretta di alcune pratiche e avvenimenti dentro strutture destinate al trattamento di persone con gravi cerebro-lesioni acquisite. Si tratta di un primo livello di analisi sull’incisività che le diverse dimensioni di un tempo sistematicamente agito e rappresentato, possono avere rispetto alla complessa esperienza di persone (e famiglie) che si trovano ad attraversare le fasi della cosiddetta “scala di recupero dal coma” (Giacino 2005, Lombardi et al. 2007). Connettendo alcuni frammenti etnografici definiti rispetto alla sfera biomedica (le prassi cliniche), relazionale (il ruolo della famiglia) e corporea (la persona assistita) si rifletterà sulla tensione generativa e trasformativa tra i differenti segmenti spazio-temporali verso la costruzione di nuovi processi di naturalizzazione o, in altri termini, sull’«eterocronia dei cronotopi e sull’irrisolta esperienza dell’agency che emerge dai loro contraddittori effetti sociali» (Bear 2014: 7). Una eterocronia (Bear 2014, Palumbo 2015) che scompone il tempo dalla sua ovvietà e linearità naturalizzata (Gramsci 1975) manifestandosi, con riferimento alla classificazione proposta da Alfred Gell, come un nodo tra processi eterogenei – fisici, biologici, psicologici, socioculturali e politico-economici – che definiscono le molteplici percezioni e rappresentazioni – individuali e collettive – del tempo (Gell 1992: 315). Il rapporto tra l’astratta universalità di un tempo non umano, fisico, implacabile ma intangibile, e la materialità del suo inquadramento sociale e delle pratiche che ne derivano, è stato uno dei principali temi trattati dall’antropologia del tempo di Gell, come «gioco dinamico»[2] (Gell 1992: 241) tra diverse immagini e mappe che hanno una relazione con il trascorrere del tempo non umano, mediando e modellando l’esperienza personale di esso (Bear 2014). Una tensione trasformativa tra il tempo e i diversi processi che avvengono nel tempo (Gell 1992: 317), generativa di nuove forme di conoscenza pratica e corporea, di rapporti di forza, di valori e relazioni proprie di quella che, con Antonio Gramsci, potremmo definire una “seconda natura” (Gramsci 1975, Pizza 2012)[3].

Il reparto dell’ospedale di Fonterchi, sotto la tassonomia biomedica “gravi cerebro-lesioni acquisite” ospita una variegata presenza di pazienti assistiti con storie, percorsi e problematiche diverse. Persone che, dopo aver superato la fase critica di terapia intensiva iniziano un percorso di recupero, così come persone in coma o che dal coma cercano di emergere nell’attraversamento dei fluidi livelli delle scale di recupero. Ictus, ischemia, anossia, gravi traumi cranici sono alcune delle cause principali per lesioni cerebrali di diversa natura, assonali, al tronco, alla corteccia che a loro volta, in maniera diversa generano cosiddetti stati anormali di coscienza o d’impossibilità al movimento, alla responsività e alla comunicazione, in alcuni casi considerabili anche come “stato vegetativo” o di “coma vigile”. Lo stato vegetativo, infatti, è stato definito nel campo biomedico come stato di possibile evoluzione dal coma caratterizzato dalla ripresa dalla veglia ma con assente o limitata consapevolezza del sé, dell’ambiente, delle relazioni socio-culturali (Jennett, Plum 1972; Jennett 2002). Benché si distingua con chiarezza dalla morte cerebrale (Lock 2002, Pizza 2005), questa definizione, per certi versi assorbita dai 26 gradi della “scala di recupero”, assume sfumature differenti rispetto sia ai tempi di persistenza di tale condizione, sia alla valutazione di lievi manifestazioni di coscienza o responsività declinandosi in: stato vegetativo, di minima coscienza, vegetativo continuo, vegetativo permanente, coma vigile (Royal College of Physicians 1996). Si tratta di una classificazione farraginosa per una “patologia in cerca di nome” (Jennett, Plum 1972), oggetto di continuo dibattito nel campo biomedico, per la quale non si è ancora ottenuto un accordo unanime. Anche per queste ragioni, da una prospettiva antropologica, tale tassonomia sembra definire stati di ambiguità, di attesa diagnostico-terapeutica e di articolazioni della cura in cui le soglie tra vita e morte, successo e insuccesso, recupero e danno permanente sono frequentemente cangianti e negoziate rispetto a variabili tecnologiche, biomediche, bioetiche e biopolitiche (Kaufman 2002; Lock 2002; Pizza 2005; Luchetti 2009; David, Israeli 2010). Variabili per le quali la dimensione temporale assume una valenza centrale (Kaufman 2011). Con riferimento alla plasticità del cervello e al rapporto tra questo, il corpo/mente e gli input del mondo socio-culturale circostante (Goldberg 2004, Owen et al. 2006; Gazzaniga 2009; Bateson 2010; Lende; Downey 2012), le possibilità e le fasi di intervento, di riabilitazione o di recupero, seppur minimo (Johansson 2000), mutano da persona a persona rispetto alle lesioni cerebrali, alla capacità motoria, alla responsività, alla minima coscienza, alla consapevolezza relazionale, agli stimoli offerti dall’ambiente e da altri soggetti. Processi molto complessi che si delineano nella indefinibile durata di un “tempo necessario”, “di un tempo che ci vuole”, di un “tempo che ci vorrà”. Rispetto a una diagnostica per immagini, il “vedere dentro” il cervello di tac e risonanze magnetiche, che non sempre produce dati esaustivi e definitivi, il tempo di attraversamento della scala di recupero diviene un parametro decisivo per la valutazione di ciascun caso clinico. Tuttavia se da un lato il tempo che passa scandito dalle procedure biomediche diminuisce le possibilità di recupero e aumenta i rischi di disabilità cognitive e motorie permanenti, dall’altro, per le persone con gravi cerebro-lesioni acquisite o che si trovano a percorrere “la scala di recupero dal coma” e, per i propri familiari, il tempo sembra essersi fermato il giorno in cui tutto è iniziato.

Il tempo interrotto

La rottura del tempo, lo shock cognitivo e la ricerca di significato – “perché a me?” “Perché in questo momento?” – sono fasi comuni per qualsiasi esperienza di malattia, soprattutto per una grave o “notevole” malattia. Domande senza risposta, tracce di una confusa genealogia da interpellare continuamente per tentare di comprendere il difficile presente in cui si è costretti a vivere, verso la costruzione di un futuro che appare assolutamente incerto. Un istante di rottura della quotidianità e di apertura alla «terra di nessuno del campo medico»[4] (Murphy 1987: 14) in cui il ritmo e il tempo della vita quotidiana si interrompono andando a collidere prima e collimare poi con quelli della malattia e dell’istituzione ospedaliera, verso una radicale trasformazione dell’esperienza del proprio corpo nel mondo e delle relazioni familiari e sociali che ne conseguono.

La mattina del 22 agosto 2014 la signora Giovanna ha un aspetto costernato. Durante la notte appena trascorsa, mentre riposava sulle sedie “sdraio” della piccola saletta d’attesa del reparto di terapia intensiva, qualcuno le ha rubato la borsa. Sua figlia Marta di 38 anni è ricoverata da alcuni giorni a seguito di un grave incidente stradale che le ha causato una frattura al cranio con lesione al cervelletto. Rientrava da sola in auto dopo qualche giorno di ferie trascorse al mare con amici ma in prossimità di casa, ha perso il controllo del mezzo finendo fuori strada. Arrivata in ospedale è stata operata d’urgenza. L’intervento è andato bene ma trascorsi alcuni giorni di coma farmacologico è stato necessario aspettare ancora per capire gli esiti e i passaggi successivi. Al risveglio, infatti, ha dato subito segni di coscienza senza però riuscire a muovere gli arti. Giovanna, invece, che ha 68 anni, è vedova e si trova in ospedale dalla sera in cui è stata ricoverata la figlia, quando nella casa dove vive da sola, ha ricevuto la telefonata che la informava dell’incidente. Sono quattro notti che dorme in ospedale, utilizzando la casa di una parente in città soltanto per lavarsi e cambiare i vestiti. La mattina del furto qualcuno le chiede se per caso ha visto o sentito il possibile colpevole mentre le rubava la borsa, ma lei risponde che non ha sentito nulla, che si è seduta per riposare e in un attimo si è addormentata profondamente senza sapere per quanto tempo, al risveglio la borsa non c’era più: «sono sempre chiusa qui, non dormo bene, non so neanche più che giorno è!»[5].

Il reparto di terapia intensiva è al piano meno uno dello stabile e la sala d’attesa è costituita da un breve e stretto corridoio con una piccola stanzetta attigua, forse pensata inizialmente come semplice vano per gli ascensori ma poi arredata con cinque sedie “sdraio” e un tavolino. Non vi sono finestre, la luce al neon è sempre accesa e di tanto in tanto il rumore degli ascensori che salgono e scendono sembra scandire il tempo che passa. Negli stessi giorni di agosto oltre a Giovanna ci sono altre persone che frequentano questo spazio angusto, parenti e amici di pazienti ricoverati per cause di diverso genere, molti per trauma cranico successivo a incidente stradale. I momenti di maggiore frequentazione sono tra le 12 e le 14 e tra le 18,30 e le 20,30, orari variabili in cui la porta chiusa dall’interno è aperta senza preavviso permettendo a parenti e amici di visitare le persone ricoverate. È necessario indossare la cuffia, il camice e i copri-scarpe. Non vi sono molte eccezioni alle regole e raramente i medici o lo staff infermieristico comunicano con l’esterno al di fuori degli orari stabiliti. Momento di comunicazione che può avvenire accanto ai letti degli assistiti o in alcuni casi in una stanzetta all’inizio del reparto, nei casi più gravi, con la presenza di uno psicologo. L’assistenza psicologica non è prassi per tutti i casi, quindi già dopo pochi giorni di frequentazione del reparto, la presenza dello psicologo è avvertita come segno di una situazione grave. Alcuni dei familiari quando vedono il professionista aggirarsi per la sala d’attesa o il reparto, cercano di evitarlo e abbassano lo sguardo sperando che non sia lì per parlare con loro. Il giorno in cui lo psicologo e lo staff medico hanno parlato con la moglie e con i genitori di Flavio, un uomo di 36 anni colpito da una forte scarica elettrica causata da un fulmine caduto mentre pescava in un laghetto di collina, le voci alte e dai toni tesi si potevano udire dalla sala d’attesa. L’uomo, sua moglie e i tre figli (due maschi di 6 e 9 anni e una bambina di 4) che abitano in una grande città del Nord Italia, stavano trascorrendo un periodo di vacanza nel paese in cui è nato Flavio e dove vivono ancora i suoi genitori. Dopo la fase di coma indotto, il ricovero era andato avanti per diversi giorni senza che i medici sciogliessero la prognosi. La famiglia aveva preso in affitto una camera nei pressi dell’ospedale e i bambini si erano adattati trasformando la sala d’attesa in uno spazio di giochi. Nel frattempo però, gli esami avevano evidenziato gravi danni assonali e il risveglio non era avvenuto, o perlomeno il fatto che aprisse e chiudesse gli occhi, alternando di tanto in tanto espressioni facciali a lacrime senza però manifestare consapevolezza dell’ambiente circostante né tantomeno responsività agli input, aveva spinto i medici a formulare una diagnosi di stato vegetativo, anche se di certo non furono queste le parole usate nella stanzetta.

Nella sala d’attesa è molto difficile che qualcuno sia preparato alla prognosi, né dal punto di vista conoscitivo né, soprattutto da quello emotivo. La parola “coma”, e in seguito quella di “coma vigile” o “stato vegetativo”, se e quando pronunciate dai medici e infermieri, o semplicemente evocate, generano un terribile effetto straniante per i familiari delle persone coinvolte. Nella maggior parte dei casi l’idea che si ha di queste condizioni, per lo più edulcorata dall’abitudine alle retoriche cinematografiche su “sonni” e “risvegli” improvvisi, è molto distante dalla realtà e dalla materialità dei corpi segnati da questa esperienza; lo stesso per l’influenza di un ambiguo e confuso dibattito bioetico e giudiziario anche esso manipolato nelle diffusioni mediatiche e dagli interessi partitici rispetto ai noti casi di Eluana Englaro o Terry Schiavo (Galofaro 2009, Luchetti 2009). La vista dei propri cari immobili nei letti della terapia intensiva con i corpi avvolti dai tubi, il respiro soffiato da un macchinario e la difficile comunicazione con lo staff medico che si manifesta raramente, prendendo tempo per sciogliere la prognosi e utilizzando un linguaggio quasi esclusivamente tecnico, contribuiscono a creare una situazione di angosciante attesa e di difficile consapevolezza degli avvenimenti presenti. Il vuoto dell’attesa è riempito da ripetitive passeggiate, dal rumore delle riviste sfogliate leggendo poco o niente, da crolli emotivi o da scatti d’insofferenza. Soprattutto in caso di incidente stradale, tra i parenti si alimenta la discussione sulle cause e i possibili esiti, si attraversa in maniera creativa il tempo dell’accadimento maledicendo il momento in cui «ha preso la moto» o «quando ha deciso di uscire con l’automobile», ci si rammarica perché «proprio ora che si stavano sistemando le cose non doveva accadere»[6]. Con il passare dei giorni si ha la sensazione di conoscere ciascuno per sé le storie e le situazioni degli altri. Ci si sente partecipi della sofferenza altrui e allo stesso tempo si prova una disperata invidia per i miglioramenti che non riguardano i propri cari. In questo segmento spazio-temporale confuso e sospeso in un’attesa che può durare per pochi giorni o protrarsi per alcuni mesi, l’esercizio biomedico sul corpo sofferente che si manifesta nella prognosi, guida e modifica, per le persone coinvolte, l’organizzazione e la programmazione del futuro e della vita che verrà. Se per Marta l’esito è positivo verso un lento e faticoso recupero che potrà restituirle la sua vita passata, per Flavio e la sua famiglia si aprirà l’oblio della scala di recupero dal coma.

Il tempo clinico

La scala di recupero dal coma o altrimenti nota come coma recovery scale è uno strumento per la comprensione e valutazione dei diversi stadi attraversati da una persona in coma nelle fasi del suo recupero o “risveglio”. Si tratta di un modello teorico-interpretativo con diffusione internazionale, basato sull’osservazione e l’analisi. È costituito da 26 articoli o “scalini” divisi in sei subscale rispettivamente rivolte alla dimensione visiva, uditiva, motoria, logopedica, comunicativa e di prontezza di risposta agli stimoli sensoriali: la cosiddetta responsività (Giacino 2005, Lombardi et al. 2007). Se da un punto di vista pratico e metodologico la scala è uno strumento di lavoro applicato al “tempo di recupero” di un paziente, da una prospettiva epistemologica essa appare utile per disarticolare la rigidità delle declinazioni proprie dello stato vegetativo o del risveglio dal coma. Inoltre, come spesso rilevato da diversi medici tra i quali lo stesso neurologo direttore dell’unità dell’ospedale di Fonterchi, i parametri nella scala sono in continua revisione e vanno considerati in maniera fluida, variabili da persona a persona, da caso a caso e rispetto al tempo che passa. Tuttavia se il corpo della persona che attraversa la scala di recupero non è da considerarsi immobile, non è comunque esclusivamente protratto verso il miglioramento; vi sono tutta una serie di ostacoli, rallentamenti e problemi legati alle lesioni che hanno provocato la patologia così come alle diverse patologie che possono essere provocate dalla lunga degenza ospedaliera. Anche per queste ragioni è altrettanto importante rilevare che da una prospettiva biomedica, nonostante la fluidità della scala, vi sono dei tempi previsti per l’ospedalizzazione rispetto ai quali l’intervento clinico può considerarsi concluso. Se, come ribadito più volte dai medici di Fonterchi, i primi sei mesi con le proprie prassi di cura, terapia e riabilitazione sono considerati generalmente come il periodo in cui è possibile il maggiore recupero, dopo circa un anno di degenza si tende a interrompere l’azione terapeutico\riabilitativa proponendo piani assistenziali alternativi, in istituti specializzati oppure a domicilio.

Rispetto a un tale quadro generale che tuttavia può variare da struttura a struttura e, come detto, di caso in caso, i reparti sono organizzati e gestiti da equipe multidisciplinari anche se quasi esclusivamente rispetto alla prospettiva biomedica. Vi sono i neurologi, i fisiatri, fisioterapisti, logopedisti, psicologi oltre ovviamente a infermieri e operatori socio sanitari (oss). Si cerca di favorire il recupero con azioni farmacologiche, di fisioterapia, di logopedia e con stimoli sensoriali proposti soprattutto tramite parenti e amici, mantenendo allo stesso tempo una grande attenzione verso l’aspetto fisiologico e patologico che spesso sembrano dominare l’azione dello staff. All’arrivo dalla terapia intensiva, o da altri centri specializzati la persona assistita può avere una serie di problemi spesso rappresentati simbolicamente dalle centinaia di pagine di cartella clinica che porta in dotazione. Tra le altre cose vi possono essere semplici fratture da saldare, infezioni o altri problemi più gravi come un’ipertonia muscolare dovuta al mal funzionamento del sistema nervoso o la presenza d’idrocefalo, di liquido cefalo rachidiano che a livello dei ventricoli cerebrali tende a dilatarli[7]. In questi casi è necessario intervenire farmacologicamente o chirurgicamente, con l’istallazione di uno shunt [8] per la riduzione dell’idrocefalo o di una pompa al baclofene[9] per ridurre alcuni sintomi di ipertonia muscolare o spasticità. Prestazioni chirurgiche per le quali i membri dello staff devono rivolgersi ad altri professionisti, ad altri reparti, ad altre strutture ospedaliere con tutte le dinamiche e le problematiche politico-amministrative che questo comporta. Dopo ognuno di questi interventi, più volte presentati ai familiari come passaggi necessari per il recupero, l’aspettativa è grande. I membri dello staff dedicano del tempo all’osservazione in attesa di un qualche segnale che possa indicare la via di un miglioramento: uno sguardo presente, un cenno di responsività, un movimento lieve di un arto. Se questo accade in tempi rapidi, i medici manifestano gioia per i pazienti e soddisfazione per la scelta terapeutica, ma se i segnali non arrivano, può capitare che dopo due o tre tentativi di osservazione prolungati per alcune decine di minuti, abbandonino la stanza scuotendo il capo e lasciando i familiari interdetti e angosciati. Vi sono poi i problemi dovuti alla lunga degenza come le infezioni e la presenza di batteri ai polmoni per l’accumularsi del catarro nelle posizioni supine a letto, o rispetto ai dispositivi come il catetere, la cannula tracheale o lo stesso shunt per l’idrocefalo. Se l’eliminazione o la riduzione dell’idrocefalo e dell’ipertonia può favorire la riabilitazione, le infezioni e la febbre legate alla lunga degenza possono rallentare o addirittura far arretrare il percorso di recupero. In questa lotta contro il tempo, fatta di tentativi in un permanente equilibrio precario, le azioni e le procedure a volte sembrano disperdersi in quella che allo sguardo dei familiari si presenta come un’apparente inconcludenza spesso identificata nei “tempi di attesa”, nel “tempo perso” e, in quello “che manca” per le prestazioni dell’azienda ospedaliera: per un esame, per una coltura, per un consulto, per un intervento chirurgico, per una convenzione con un’altra struttura ospedaliera. Si ha la sensazione che le “risorse umane” dell’azienda, intese come tempo dedicato dai professionisti a disposizione, tendano a scarseggiare, soprattutto nei casi in cui dopo alcuni mesi di tentativi i miglioramenti non arrivano. I medici passano raramente, a volte a causa di comprensiva frustrazione, o perché hanno valutato il caso non recuperabile decidendo di concentrarsi su nuovi casi. Sembrano tralasciare l’osservazione dei pazienti e i rapporti con i familiari le cui continue domande e opinioni sono liquidate – anche se con garbo – come parole prive di consapevolezza scientifica. Alcune azioni e prassi centrali per comprendere lo stato di coscienza e di responsività o per la ricerca dei segnali corporei, utili alla costruzione di eventuali o possibili veicoli comunicativi, sono spesso delegate ai familiari dei pazienti i quali, nel reparto di Fonterchi, sono invitati dal direttore a raccogliere tutte le impressioni su un diario che però purtroppo raramente (o mai) è condiviso con lo staff.

Il tempo da riempire

Marco è un uomo di 40 anni sposato con due figli che da circa un anno è ricoverato nell’unità di Fonterchi dopo un percorso di ospedalizzazione complesso e articolato. Come Flavio e Marta, anche lui si è ritrovato nello stesso reparto di terapia intensiva a causa di un incidente automobilistico che ha avuto come esito numerose fratture su tutta la parte alta del corpo, un trauma cranico con emorragie diffuse, gravi danni assonali e una notevole presenza di idrocefalo. Dopo un mese di terapia intensiva e l’interruzione della fase di coma indotto che purtroppo non è andata a coincidere con il “risveglio” è stato trasferito in una prima struttura per gravi cerebro-lesioni. Nonostante una situazione oggettivamente grave, la prognosi in uscita dalla terapia intensiva non è stata negativa; in considerazione della giovane età e della “forza” rispetto alla tenuta fisiologica del corpo, le possibilità di un “risveglio” erano buone. Con queste considerazioni il primario del reparto aveva congedato i familiari preoccupati e al contempo fiduciosi per il trasferimento nella nuova struttura, aggiungendo però che ci sarebbe voluta molta «pazienza e tempo per capire concretamente l’entità dei danni subiti e le eventuali possibilità di recupero»[10]. Nel trascorrere dei primi giorni in terapia intensiva, i familiari avevano sin da subito compreso la gravità della situazione e si erano indirizzati verso una nuova organizzazione della quotidianità che poi si sarebbe prolungata per oltre un anno. La madre, sessantenne vedova da alcuni anni, ha fatto richiesta per un periodo di congedo dal lavoro e con l’aiuto della figlia minore e di alcuni altri parenti si è prodigata affinché qualcuno fosse sempre presente, prima nella saletta d’attesa, in seguito accanto al figlio. La moglie di Marco, invece, da cui è separato da alcuni anni, dopo una prima fase di partecipazione ha maturato una sorta di rifiuto per la situazione e si è gradualmente allontanata concentrandosi sulla cura dei due figli di 10 e 6 anni.

Una volta trasferito nel primo centro, il neurologo responsabile della struttura ha sostanzialmente confermato il parere espresso dal primario della terapia intensiva. In una riunione organizzata con i familiari e lo staff al completo ha ripetuto che nonostante la situazione fosse grave si poteva auspicare il “risveglio” e che i primi miglioramenti forse si sarebbero potuti vedere già nel primo mese senza poter conoscere però il risultato raggiungibile. E qualche miglioramento sembrava arrivare già dopo la prima settimana con Marco che mostrava uno sguardo “pieno” e iniziava a “guardare”, a “seguire con lo sguardo”; allo stesso tempo con l’aiuto della logopedista aveva iniziato a deglutire. Azioni considerate come indici di una corretta azione terapeutica. In questo periodo il ragazzo era esclusivamente affidato allo staff medico con i familiari che potevano vederlo soltanto per due ore al giorno. La madre aveva preso in affitto una camera e trascorreva la sua giornata in attesa delle visite mentre la sorella e gli altri parenti si alternavano con visite settimanali. Non era molto soddisfatta di questo limite di orario del quale spesso si lamentava con gli infermieri e con il primario, considerando, inoltre, troppo lenti e poco visibili i miglioramenti del figlio che le sembrava «sempre allo stesso punto»[11]. Effettivamente il corpo di Marco, il suo sguardo e i suoi movimenti, ad un’attenta osservazione non sembravano progredire. Inoltre, il limite per le visite rendeva la sua stanza avvolta da una intensa solitudine. Già dalla seconda settimana poi, un’infezione polmonare con relativa febbre, il persistere di idrocefalo e il sopraggiungere di crisi neurovegetative e di ipertonia sedate da farmaci, aveva arrestato bruscamente il seppur lento processo riabilitativo facendo piombare i familiari nello sconforto.

Dopo circa un mese di trattamento nella prima struttura specializzata senza risultati considerevoli, i familiari di Marco decidono il trasferimento nell’unità dell’ospedale di Fonterchi, sul quale avevano raccolto informazioni positive e che si trovava più vicino alle abitazioni della sorella e di altri parenti che così avrebbero potuto dare maggiore sostegno alla madre. Giunto nella nuova struttura, il primario e lo staff confermano la presenza di una minima coscienza manifestata dallo sguardo pieno e dall’apertura degli occhi in concomitanza all’ingresso di qualcuno nella stanza, tuttavia rispetto ai colleghi che prima di loro si sono occupati del caso, sono meno ottimisti sulle possibilità di recupero e individuano nella presenza di idrocefalo e nel costante aumento di ipertonia i principali ostacoli. Considerano l’applicazione chirurgica di uno shunt come il primo passo da compiere, poi una pompa al baclofene per calmare le crisi di ipertonia. Nella struttura di Fonterchi, inoltre, i familiari possono essere sempre presenti nel reparto e, anche per questo motivo, la madre, con l’aiuto della figlia minore comincia a trascorrere gran parte del suo tempo – giorno e notte – accanto al figlio. Tale prolungata frequentazione diviene anche una osservazione costante e un’azione sul corpo di Marco. I familiari si rivolgono continuamente a lui parlando con modulazioni del tono diverse, tentano di stabilire un contatto fisico provando a muoverlo per placare le crisi di ipertonia che considerano per lui motivo di grande sofferenza. «È come se lui fosse intrappolato da questi movimenti, da questa agitazione»[12] dice più volte la sorella ai medici che però non tengono molto in considerazione questa opinione ritenendo le infezioni e l’idrocefalo come i principali ostacoli al recupero. Per questo motivo, dopo oltre un mese di ricovero, lo staff decide di applicare lo shunt con un intervento chirurgico da eseguire in un’altra struttura ospedaliera convenzionata. Purtroppo però, l’applicazione non ha esito positivo con il tubo sistemato male e una pesante infezione presa probabilmente nel post operatorio. L’intervento è fatto una seconda volta, ma l’assecondarsi di infezioni rallenta molto il recupero così come l’intervento di applicazione della pompa al baclofene lasciando Marco in preda alle crisi di ipertonia senza miglioramenti sensibili sul versante della coscienza e della responsività. Nel frattempo il corpo inizia a manifestare i segni della lunga degenza e soprattutto l’impatto delle continue infezioni e delle crisi di ipertonia: dimagrisce molto e presenta atrofia muscolare con il lato destro del corpo bloccato. Dopo circa sei mesi di ricovero e pochi segni di responsività o di coscienza, i medici iniziano a considerare molto difficile qualsiasi tipo di recupero, concentrandosi quasi esclusivamente sulla presenza delle infezioni. In questo periodo si instaura un complesso e nuovo legame tra i familiari e Marco il quale, come rilevato anche dallo staff, mostra molta agitazione se lasciato da solo. Proprio in virtù di questa “agitazione in rapporto alla solitudine” la madre e la sorella, continuano a vedere nel loro caro i segni, seppur lievi, di una “presenza”, di un “esserci”: «lui non è più lo stesso ma è pur sempre lui»[13]. Iniziano a pensare razionalmente soluzioni alternative al ricovero nella struttura di Fonterchi o per il difficile futuro a casa, ma soprattutto si prodigano per proporre stimoli di diversa natura cercando in ogni modo di stabilire un contatto, di mantenere viva la speranza di un miglioramento. Se è vero, infatti, che l’incidente o il sopraggiungere di una malattia provocano un’improvvisa rottura del tempo della quotidianità è altrettanto vero che durante l’attraversamento della scala di recupero dal coma per i familiari della persona assistita, il tempo sembra svuotarsi dei suoi valori di impiego oramai assodati e naturalizzati. Le abitudini, gli interessi, il lavoro, gli affetti, gli obiettivi stabiliti a breve o lungo termine assumono un ruolo di secondo piano rispetto alla preoccupazione, e alla sofferenza per le condizioni del proprio caro così come per il futuro che lo attende. Allo stesso modo vi è una difficile “riconoscibilità” rispetto al “carattere”, al corpo che non è più quello del passato. Gli esiti di questa trasformazione possono essere diversi e con diverse sfumature tuttavia sintetizzabili in due generiche polarità: ci si può arrendere agli eventi e alla delusione per i fallimenti terapeutici restando intrappolati nel percorso clinico e nella nostalgia per il passato o si può provare, sicuramente in maniera più gravosa, a riempire il tempo con nuove forme di agency . Come messo in risalto dall’antropologa Eleonor Antelius nel suo studio sulle narrazioni tra persone con gravi lesioni cerebrali, la tensione verso una speranza di miglioramento, descritta, ricercata o immaginata, dalle persone assistite e dai loro familiari, può divenire una risorsa determinante per superare lo svuotamento del tempo verso la progettazione di una possibilità di futuro (Antelius 2007). Una speranza tuttavia che può ridursi soltanto ad una malinconica illusione se non si manifesta concretamente come un “ottimismo della volontà” (Gramsci 1975) una tenace operosità pratica. Per affrontare la situazione, i familiari di Marco mettono in campo una trasversale operosità di “riempimento del tempo”. Iniziano a studiare articoli o saggi scientifici sulle cerebrolesioni e sulla scala di recupero (a volte “sfogliando” le confuse informazioni raccolte in rete), si informano su altre strutture specializzate, interpellano persone che hanno affrontato esperienze simili per condividerene i saperi, le opinioni. Chiedono continui confronti con i medici, o consulti con medici di altre strutture e, soprattutto, apprendono le tecniche e i modi di trattamento del corpo (come toccare, come parlare, dove posizionarsi), cercando possibili vie di comunicazione. Un apprendimento che avviene tramite l’osservazione continua dei segni che il corpo di Marco fornisce, dallo studio operativo dei suoi movimenti e comportamenti ma anche dalla dolorosa consapevolezza di una trasformazione, di una nuova vita per il proprio caro. Provano a mostrare delle foto, ad effettuare dei massaggi sulle gambe o le mani, costruiscono vere e proprie conversazioni sul passato, sul presente ospedaliero, sulla progettazione del futuro. Mettono in discussione i propri modelli comunicativi. Ed è proprio un tentativo della madre ad ottenere una prima considerevole “risposta”. Durante una conversazione mostra al figlio una foto del padre deceduto alcuni anni prima, pone l’immagine innanzi al suo volto invitandolo a baciarla. Marco accenna un movimento delle labbra che ripete successivamente anche in presenza di alcuni membri dello staff medico che stupiti ammettono un certo livello di “presenza” del ragazzo rimanendo però sempre scettici sulle possibilità di recupero: «signora questa è sicuramente un ottima notizia però è molto importante non illudersi»[14]. Dopo quasi un anno di percorso ospedaliero, infatti, caratterizzato da rallentamenti e arretramenti sulla scala del recupero, i medici, nonostante avessero accolto con favore la reazione di Marco alla foto del padre, iniziano a considerare la situazione irreversibile, riducendo i loro tentativi di intervento e il tempo di osservazione e studio del caso. Auspicano nei loro discorsi l’organizzazione di nuove soluzioni di assistenza domiciliare in funzione di una situazione che «purtroppo difficilmente migliorerà»[15]. Il tempo clinico sembra essersi concluso. Questa ipotesi però, non trova d’accordo i familiari, soprattutto in virtù delle continue crisi di ipertonia muscolare che secondo loro ostacolerebbero il recupero di Marco, rendendo oltretutto davvero impraticabile un eventuale rientro a casa. Sulla fine della primavera del 2015, una mattina, la madre di Marco esasperata decide di filmare con il suo cellulare le crisi di ipertonia muscolare del figlio. Con il filmato si reca dal direttore sanitario della struttura rivendicando con forza la necessità di un intervento. A seguito di questa iniziativa, lo staff decide per l’istallazione della pompa al baclofene, un intervento che, seppur non considerato determinante ai fini del recupero, avrebbe potuto attenuare le crisi di ipertonia migliorando le condizioni di vita quotidiana del ragazzo. La pompa viene posizionata poche settimane dopo l’incontro con il direttore sanitario mostrando sin da subito, oltre agli effetti sugli spasmi muscolari anche inaspettati benefici sulla responsività. Soltanto pochi giorni dopo, infatti, Marco aumenta la sua capacità di seguire con lo sguardo e inizia a rispondere con una certa prontezza di riflesso agli input che gli sono proposti. Apre e chiude gli occhi a comando, in questo modo codificando anche una capacità minima di risposta Si\No a domande semplici, riesce ad alzare il dito pollice come simbolo di approvazione e mostra espressioni facciali di “risata” o “pianto” generalmente associabili ai racconti ascoltati “divertenti” o “tristi”. Nonostante una situazione ancora molto grave, il lieve miglioramento successivo all’applicazione della pompa apre a un nuovo impegno per i medici e a nuove forme di relazione per familiari e amici verso passaggi successivi nella scala di recupero. Sembra che i familiari abbiano avuto ragione sulle crisi di ipertonia come principale ostacolo per un recupero, restituendo a Marco, nel tempo costante dell’interazione tutta la potenziale capacità di agire del suo corpo anche nei limiti della sua sofferenza. Proprio questo primo risultato di “risposta” spinge la madre e la sorella ad interpellare un importante medico di una struttura ospedaliera in Svizzera molto all’avanguardia sul recupero di persone con gravi cerebro-lesioni. Nell’estate del 2015 il medico si reca presso la struttura di Fonterchi e dopo una lunga visita e un confronto con lo staff medico dell’unità, si rivolge ai familiari ipotizzando per Marco alcune possibilità di recupero. Le sue parole sono motivo di grande soddisfazione per i familiari poichè sostiene di immaginarlo «tra qualche anno – certo, nella migliore delle ipotesi – seduto che interagisce con i figli e che mangia da solo con la mano sinistra»[16]. Nella primavera del 2016 Marco dovrà essere ricoverato in Svizzera per affrontare un nuovo percorso terapeutico e riabilitativo che potrà avere una durata massima di tre mesi. Nel frattempo però, dopo aver raggiunto un buon equilibrio fisiologico, è stato dimesso dall’unità di Fonterchi per un periodo da trascorrere a casa con sua madre che, come sostenuto dai medici «potrà essere per lui gratificante»[17]. Si tratta di mesi cruciali, durante i quali il ragazzo sta compiendo piccoli e difficili passi di recupero. Nell’interazione continua con familiari e amici, gli spazi domestici e “abituali”, hanno assunto nuove forme di relazione trasformative della quotidianità. Marco non parla, non mangia e ha la parte destra del corpo bloccata, ma non è soggetto a infezioni, ha aumentato il suo peso e ha velocizzato le sue reazioni agli stimoli: muove il braccio sinistro con lentezza ma in maniera finalizzata, ride se ascolta racconti divertenti anche in discorsi non esplicitamente rivolti a lui, guarda molti film in maniera attiva. La disposizione dei mobili per permettere il movimento della sedia a rotelle, lo scandire della giornata con gli interventi a domicilio di fisioterapisti e infermieri, con le visite di parenti e amici, si costituiscono come un decisivo e delicato laboratorio in cui affrontare e indirizzare i complessi processi di trasformazione che stanno investendo Marco e i suoi familiari rispetto allo spazio, al tempo, al corpo.

Il tempo corpulento: eterocronia ed etnografia

In una lettera scritta durante la sua prigionia nel carcere di Turi e datata 1 luglio 1929 Antonio Gramsci si rivolge alla cognata Tania Schucht per raccontare della rosa piantata nella sua cella che, dopo un periodo di difficoltà, sembra ravvivarsi. Con riferimento ai fenomeni cosmici e ai cicli delle stagioni in rapporto all’organismo umano, l’intellettuale sardo attiva una sorta di mimesi con la rosa: «il ciclo delle stagioni, legato ai solstizi e agli equinozi, lo sento come carne della mia carne; la rosa è viva e fiorirà certamente, perché il caldo prepara il gelo e sotto la neve palpitano già le prime violette, ecc. ecc: insomma il tempo mi appare come una cosa corpulenta da quando lo spazio non esiste più per me» (Gramsci 1996: 270). Se la crescita della rosa – come carne della mia carne – scandisce il ritmo delle stagioni, per Gramsci, nell’agonia della prigionia, nella limitazione di spazio e azione, il tempo sembra essersi mutato in un parametro incorporato o corpulento. A prescindere dalle ovvie distinzioni di contesto tra l’esperienza gramsciana e quella oggetto di questo saggio, ciò che appare utile sottolineare è la centralità del corpo come luogo in cui il tempo è simultaneamente percepito e agito. Dopotutto ogni processo di incorporazione inteso come complesso e dinamico rapporto di interscambio tra il corpo e il mondo (Csordas 1990; Van Wolputte 2004; Pizza 2005; Ravenda 2011), proprio perché costantemente trasformativo è anche interpretabile come una continua naturalizzazione del tempo. Nel quadro generale dei frammenti etnografici proposti, infatti, rispetto alle variabili cangianti proprie di una eterocronia che definisce l’esperienza del coma e della scala di recupero come un processo negoziato e di cambiamento, il corpo appare l’unico parametro di attraversamento e connessione dei diversi segmenti spazio-temporali e di azione. Esso è oggetto di continue manipolazioni rispetto al tempo della degenza scandito dalle procedure biomediche e dagli esiti che queste manifestano. Allo stesso tempo, come nel caso di Marco, il corpo diviene la variabile determinante rispetto alla organizzazione della quotidianità dei suoi familiari che, nel tempo che passa, possono restare intrappolati nella sofferenza per la malattia e nel percorso terapeutico\riabilitativo o possono cercare di acquisire strumenti per affrontare il complesso processo di trasformazione che investe tutti loro. Il tentativo di svincolarsi sia dai parametri biomedici sia dall’ovvietà delle proprie percezioni del passato e del presente, così come dalle abitudini relazionali, affettive e comunicative con il proprio caro, produce l’apprendimento di una nuova capacità al trattamento e alla cura che passa per un “ottimismo della volontà” (Gramsci 1975) e per una sorta di ermeneutica dei segni corporei: uno sguardo, un movimento, un’espressione facciale. Forme sperimentali di relazione corporea che conducono, seppur nei limiti segnati della sofferenza per la malattia, a nuove forme di agency. Il corpo diviene il centro di questa complessa sovrapposizione di piani spazio-temporali e di strumenti di azione su e con il tempo che modifica drasticamente i valori e i parametri socio-culturali oramai abituali e naturalizzati rendendoli fasi di costruzione per una nuova – o seconda – natura permanentemente in mutamento. Il concetto di «seconda natura» trattato da Antonio Gramsci nei Quaderni dal carcere (Gramsci 1975: 1032) come è stato recentemente discusso in una prospettiva di antropologia medica dall’antropologo Giovanni Pizza (2012) può essere utile per chiarire meglio questo passaggio. Con riferimento ad uno studio etnografico sull’alzheimer e specificatamente sulle prassi di diagnosi preventiva per tale patologia, Pizza considera criticamente il processo di costruzione della seconda natura che, al cuore della teoria gramsciana sull’egemonia si connette alla interiorizzazione delle “abitudini di ordine”, non soltanto nella prospettiva del dominio e dell’organizzazione della subalternità ma anche come possibilità di trasformazione e cambiamento (Pizza 2012: 97). Secondo l’antropologo, la costruzione e la de-costruzione di una “nuova natura” non è un procedimento meccanico ma si definisce nella complessa dialettica dei rapporti di forza storicamente determinati e nell’acquisizione di una consapevolezza critica rispetto al proprio posizionamento nei processi di trasformazione (Pizza 2012: 103). Assumendo una tale prospettiva teorica e metodologica, la scala di recupero dal coma è apparsa, nell’esplorazione etnografica, come un insieme di articolati processi di incorporazione rispetto a complesse e sovrapposte relazioni emozionali, istituzionali, tecniche e biomediche. La tensione generativa tra i diversi segmenti spazio-temporali e di azione ha prodotto nuove esperienze di naturalizzazione che si sono materializzate come azioni incisive dentro un campo di forze conflittuale e in base al posizionamento degli attori sociali coinvolti. In un tale quadro di complessità, l’etnografia può assumere una funzione determinante come strumento critico e operativo nei dispositivi di cura per le persone assistite e per la costruzione di relazioni produttive tra familiari e staff medico. Il lavoro di campo di lunga durata, infatti, che tende alla sovrapposizione con la vita quotidiana del ricercatore e degli altri attori sociali coinvolti (Palumbo 2009; Ravenda 2011; Pizza 2012), può attraversare criticamente proprio questi diversi frammenti spazio-temporali e le relazioni che li definiscono contribuendo alla loro continua riconfigurazione, restando, in un certo senso, sempre sulle diverse linee eterocroniche della trasformazione. Nella produzione di dati e analisi, infatti, l’etnografia genera relazioni che si spingono oltre le fasi della ricerca e i tempi dell’osservazione, verso l’esplorazione delle nuove esperienze di agency che si generano nella rete di rapporti sul campo. In questo modo come prassi di ricerca dialogica e applicata, l’esperienza etnografica è capace di riconnettere fatti, segni, azioni indipendenti e distanti tra loro, favorendo la costruzione di una rete di conoscenze e di metodologie condivise e incisive, che sappiano tener conto del posizionamento dei diversi attori coinvolti, siano essi familiari, professionisti o persone assistite. Tuttavia affinché questo avvenga, è necessario che l’antropologo possa lavorare a stretto contatto con gli attori sociali coinvolti, nell’osservazione di lunga durata delle persone assistite, nella costruzione di rapporti con i familiari, come parte attiva dello staff in un confronto critico e costante. In questo modo, ed è questo l’obiettivo progettuale di questo contributo, la scala di recupero dal coma, oltre che parametro e strumento biomedico può divenire, nel tempo indefinito che la caratterizza, anche un laboratorio pubblico in cui produrre conoscenza e sperimentare nove forme e soluzioni di relazione così come di interazione con le persone che la attraversano.

Bibliografia

Antelius, E. 2007. The Meaning of the Present: Hope and Foreclosure in Narrations about People with Severe Brain Damage. Medical Anthropology Quarterly, 21 (3): 324-342.

Bateson, G. 2010 [1972]. Verso un’ecologia della mente. Milano. Adelphi.

Bear, L. 2014. Doubt, Conflict, Mediation: the Anthropology of Modern Time. Journal of the Royal Anthropological Institute, (N.S.): 3-30.

Csordas, T. 1990. Embodiment as a Paradigm for Anthropology. Ethos. Journal of the Society for Psychological Anthropology, 18 (1): 5- 47.

David, N.D., Israeli, T. 2010. A Moment Dead, a Moment Alive: How a Situational Personhood Emerges in the Vegetative State in an Israeli Hospital Unit. American Anthropologist, 112 (1): 54-65.

Gazzaniga, M. S. (eds). 2009. The Cognitive Neurosciences. Cambridge Massachusetts, London. Bradford Book, The MIT press.

Galofaro, F. 2009. Eluana Englaro. La contesa sulla fine della vita. Roma. Meltemi.

Gell, A. 1992. The Anthropology of Time: Cultural Constructions of Temporal Maps and Images.Oxford. Berg.

Giacino, J. T. 2005. The Minimally Conscious State: Defining the Borders of Consciousness. Progress Brain Research, 150: 381-95.

Goldberg, E. 2004 [2001]. L’anima del cervello. Lobi frontali, mente, civiltà. Torino. UTET.

Gramsci, A. 1975 [1948-1951]. Quaderni dal carcere. Torino. Einaudi.

Gramsci, A. 1996 [1947]. Le lettere. Palermo. Sellerio.

Jennett, B., Plum, F. 1972. Persistent Vegetative State after Brain Damage: a Syndrome in Search of a Name. The Lancet, 1, 7753: 734-737.

Jennett, B. 2002. The Vegetative State: Medical Facts, Ethical and Legal Dilemmas. New York. CUP.

Johannson, B. 2000. Brain Plasticity and Stroke Rehabilitation. Stroke, 21: 223-230.

Kaufman, S. R. 2002. In the Shadow of “Death with Dignity”: Medicine and Cultural Quandaries of the Vegetative State. American Anthropologist, 102 (1): 69-83.

Kaufman, S. R. 2011. Medicare, Ethics, and Reflexive Longevity: Governing Time and Treatment in an Aging Society. Medical Anthropology Quarterly, 25 (2): 209-231.

Lende, D., Downey, G. 2012. Neuroanthropology and its Applications: an Introduction. Annals of Anthropological Practice, 35: 1-25.

Lock, M. 2002. Inventing a New Death and Making it Believable. Anthropology & Medicine, 9 (2): 97-116.

Lombardi, F., Gatta G., Sacco S., Muratori A., Carolei A. 2007. CRS-R Coma Recovery Scale Revised. Italian Version. Functional Neurology,22 (1): 47-61.

Luchetti, M. 2009.Eluana Englaro, Chronicle of a Death Foretold: Ethical Considerations on the Recent Right to Die Case in Italy. Journal of Medical Ethic, 36: 333-335.

Murphy, R. F. 1987. The Body Silent. The Different World of the Disabled. New York-London, Norton.

Owen, A., Coleman, M. R., Boly, M., Davis, M. H., Laureys, S., Pickard, J. 2006. Detecting Awareness in the Vegetative State. Science, 313 (5792): 1402.

Palumbo, B. 2009. Politiche dell’inquietudine. Passioni, feste e poteri in Sicilia. Firenze. Le Lettere.

Palumbo, B. 2015. Movimenti sociali, politica ed eterocronia in una città siciliana. Anuac, Rivista dell’Associazione Nazionale Universitaria Antropologi Culturali, 4 (1): 8-41.

Pizza, G. 2005. Antropologia Medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo. Roma. Carocci.

Pizza, G. 2012. Second Nature: on Gramsci’s Anthropology. Anthropology & Medicine, 19 (1): 95-106.

Ravenda. A. F. 2011. Alì fuori dalla legge. Migrazione, biopolitica e stato di eccezione in Italia. Verona. Ombre corte.

Royal College of Physicians, 1996. Guidance on Diagnosis and Management: Report of a Working Party of the Royal College of Physicians. London. Royal College of Physicians.

Van Wolputte, S. 2004. Hang On to Your Self: of Bodies Embodiment and Selves. Annual Review of Anthropology, 33: 251-263.



[1] Fonterchi è un nome di fantasia. Per tutelare la privacy, i nomi dei luoghi e delle persone coinvolte nella ricerca sono stati cambiati. Desidero ringraziare Selenia Marabello per l’attenta revisione del saggio e Margherita per aver contribuito in maniera rilevante alla realizzazione di questo studio.

[2] Traduzione dall’inglese a cura dell’autore.

[3] Per Gramsci la natura è l’esito di processi di naturalizzazione sempre in trasformazione, in altri termini delle relazioni socio-culturali e dei rapporti di forza storicamente determinati. «La “natura” dell’uomo è l’insieme dei rapporti sociali che determina una coscienza storicamente definita; questa coscienza può solo indicare ciò che è “naturale” o “contro natura”. Inoltre: l’insieme dei rapporti sociali è contradditorio in ogni momento ed è in continuo svolgimento, sicché la «natura» dell’uomo non è qualcosa di omogeneo per tutti gli uomini in tutti i tempi» (Gramsci 1975: 1032).

[4] Traduzione dall’inglese a cura dell’autore.

[5] Dal diario di campo 20 agosto 2014.

[6] Dal diario di campo 22 agosto 2014.

[7] I problemi in cui possono incorrere le persone con gravi lesioni cerebrali possono essere molti e difficilmente elencabili nello spazio del saggio. In questa sede si fa principalmente riferimento ai fenomeni e alle patologie osservate etnograficamente.

[8] Gli shunt sono dispositivi che agevolano il drenaggio del liquido cerebrospinale in eccesso verso altre aree del corpo. È normalmente formato da due cateteri e una valvola unidirezionale che regola la quantità, e la pressione del drenaggio.

[9] È una pompa che irradia direttamente un farmaco miorilassante su parti muscolari colpite da spasticità o ipertonia.

[10] Dal diario di campo 30 Agosto 2014.

[11] Dal diario di campo 21 Settembre 2014.

[12] Dal diario di campo 7 Dicembre 2014.

[13] Dal diario di campo 15 Gennaio 2014.

[14] Dal diario di campo 15 Marzo 2015.

[15] Dal diario di campo 7 Aprile 2015.

[16] Dal diario di campo 4 Luglio 2015

[17] Dal diario di campo 4 Luglio 2015.