Conversazione con Alessandro Monsutti

Alessandro Monsutti

Department of Anthropology and Sociology – Graduate Institute – Geneve

Giuseppe Grimaldi

University of Trieste

Roberta Altin

University of Trieste

Alessandro Monsutti è Professore presso il Dipartimento di Antropologia e Sociologia, Graduate Institute of International and Development Studies, Ginevra. È stato Research Fellow presso la School of Oriental and African Studies (1999-2000) e la Yale University (2008-2010), Grantee of the MacArthur Foundation (2004-2006), Visiting Professor presso l'Università di Vienna (2012, 2021) e Arizona Università statale (2014), ricercatore in residenza presso l'Institut für die Wissenschaften vom Menschen di Vienna (2020).

Ha svolto ampie ricerche sul campo in Afghanistan, Pakistan e Iran dalla metà degli anni '90 e, più recentemente, nei paesi occidentali tra rifugiati e migranti afghani. Tra i suoi attuali interessi di ricerca: l'economia politica della ricostruzione in Afghanistan; richiedenti asilo e rifugiati in Europa; la natura mutevole delle terre di confine in Europa, con una ricerca in corso tra Italia e Slovenia.

Oltre alla lunga e fruttuosa carriera accademica internazionale Alessandro ha anche lavorato come consulente per diverse organizzazioni umanitarie e di sviluppo, come l'Afghanistan Research and Evaluation Unit (è stato coordinatore scientifico di un team di ricerca sulle reti transnazionali tra Afghanistan, Pakistan e Iran) e il Tribal Liaison Office, entrambi in Kabul, l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), Ginevra, e l'Agenzia svizzera per lo sviluppo e la cooperazione, Berna.

Roberta Altin e Giuseppe Grimaldi: - A partire dalla tua lunga esperienza come accademico in ambito internazionale e come antropologo applicato e consulente per diverse organizzazioni umanitarie e di sviluppo, puoi raccontarci come hai vissuto biograficamente e metodologicamente questi due ruoli?

Alessandro Monsutti: Ho avuto la fortuna di lavorare e confrontarmi con l’UNHCR fin dall’inizio della mia carriera. A metà degli anni ‘90 i rifugiati afghani, che erano il focus della mia ricerca di dottorato, erano la prima popolazione of concern sotto il mandato dell’Alto commissariato per i rifugiati; all’epoca erano più di sei milioni e rappresentavano il 40% dei rifugiati sotto il mandato dell’Agenzia dell’Onu. Non appena giunto in Pakistan mi sono accorto della situazione di mobilità degli afghani: quando si andava nei campi rifugiati spesso gli uomini erano assenti, perché erano a combattere o a lavorare in Iran o Arabia Saudita. Ho capito presto che tanti afghani conosciuti in Pakistan avevano fatto ritorno almeno una volta in Afghanistan e ho realizzato che la mobilità era una strategia voluta e non solo subita. Era la risposta ad una situazione di pressione, ma anche una strategia sviluppata che seguiva itinerari migratori già battuti, con almeno un terzo della popolazione fuori del territorio nazionale.

Intuivo che non si poteva agire seguendo soltanto la logica dell’aiuto umanitario del UNHCR che contempla tre soluzioni al problema dei rifugiati. La prima è il rimpatrio, la soluzione ideale perché fa pensare che le persone ritornino nel luogo di partenza e alla vita precedente dopo una parentesi dolorosa. La seconda soluzione è l’integrazione nel paese di primo asilo, per gli afghani sarebbe stato l’Iran o il Pakistan. Ma in Iran ciò era impossibile; in Pakistan per alcuni gruppi come i pashtun poteva essere possibile considerando i legami preesistenti tra i due lati della frontiera, con famiglie che avevano fatto la scelta strategica di diversificare il capitale sociale avendo persone stabilite in Afghanistan e altre in Pakistan. La terza soluzione è la riallocazione in un paese terzo, ad esempio il Canada, gli Stati Uniti o i paese scandinavi. Ovviamente questo vale per gli happy few; saranno i giovani ben educati ad entrare in questo percorso, essendo la selezione basata su criteri che non sono umanitari ma di integrazione sociale.

Tutte e tre le strategie portano ad un’unica conclusione: che i problemi si risolvono quando smetti di muoverti, ma ovviamente questo è un approccio stato-centrico e non umano centrico o visto dalla prospettiva dell’attore sociale. La mobilità dà fastidio allo stato westfalico moderno perché hai persone che circolano e sviluppano identità non limitate e circoscritte in uno spazio politico, come i rom e, in modo diverso, gli ebrei. Sembra così abbastanza evidente che l’approccio dell’UNHCR nei confronti dei rifugiati abbia già in sé un’archeologia stato-centrica. Ho voluto mettere in moto una critica allo stato-nazione e al modo di costruire la concezione del mondo. Per me l’antropologia è guardare alla vita quotidiana delle persone ed è necessario accoppiare questa osservazione ad una critica radicale dei quadri concettuali. Più evidenti sono le categorie e più contengono una storia di interiorizzazione dei rapporti di potere. Per me questa cosa è parsa subito chiarissima, così sono entrato in dialogo critico con l’UNHCR i cui referenti sentivano che il mio lavoro empirico e la mia critica teorica erano rilevanti per loro, ma che non potevano dirlo perché le Nazioni Unite, pur essendo sovranazionali, erano la garanzia dello stato. Si sentivano bloccati dalla loro missione, che era ed è tuttora una missione stato-centrica.

Subito dopo la pubblicazione della mia tesi di dottorato sono stato contattato a Ginevra da un funzionario dell’UNHCR, un siciliano che aveva messo su assieme ad uno scozzese una struttura che si chiamava ACSU (Afghanistan Comprehensive Solutions Unit). Questi avevano letto i miei studi e mi avevano detto: “Tu spieghi a parole il malessere che noi abbiamo dentro l’UNHCR”. L’ACSU voleva superare le tre categorie individuate dall’UNHCR e inserirne una quarta, la mobilità, come soluzione. Il concetto era che se impedisci agli afghani (ricordiamo che a quei tempi si parlava del 40% della popolazione rifugiata al mondo) di muoversi li soffochi; e così abbiamo avuto un paio d’anni di collaborazione molto spinta, ma quando hanno lasciato questo posto, quello che è arrivato dopo ha buttato via tutto ed è ritornato verso un approccio classico. Gli anni di collaborazione con l’UNHCR per me come accademico sono stati una fase molto stimolante, mi hanno fatto pensare di essere davvero un cittadino del mondo. Il dibattito interno all’UNHCR era molto interessante perché le resistenze forti venivano dai giuristi, i quali sostenevano che il mandato dell’Alto Commissariato è prima di tutto la protezione giuridica e non l’operatività. È un argomento rispettabile anche se non ero d’accordo. Avevo un disagio morale invece verso gli operativi che non consideravano la mobilità come soluzione. Gli interlocutori includevano membri dei governi a Teheran e a Islamabad, ma anche a Kabul. Un vice-ministro afghano mi diceva “gli afghani devono votare con i piedi, se non tornano vuol dire che non credono nel processo di ricostruzione e quindi non sono cittadini leali”. Io sostenevo che non era così e che c’erano nazioni che mostravano una strada completamente diversa. Comunque non siamo riusciti a trasformare i paradigmi di pensiero e di azione, ma è stata un’avventura fantastica, vissuta con persone fantastiche.

R.A. G.G.: Nel tuo lavoro hai collaborato con numerosi team di ricerca sulle reti transnazionali dei migranti e ricoperto tanti ruoli: dal ricercatore, al consulente, all'attivista. Qual è e/o può essere il ruolo dell’antropologia nelle questioni riguardanti i richiedenti asilo e la gestione dell’accoglienza nello spazio europeo? In particolare, considerando che sempre più spesso emergono lavori portati avanti da antropologi impegnati come operatori e/o attivisti coinvolti nella gestione dei flussi come si potrebbe valorizzare la fondamentale attività di osservatorio dal basso che questi ricercatori svolgono quotidianamente in una situazione di precarietà economica ed esistenziale?

A. M. Io non ero un consulente durante quel periodo all’UNHCR. Ero un ricercatore indipendente. Preferirei quasi parlare di impegno cittadino. I risultati della mia ricerca li ho resi per ripensare categorie concettuali verso una riforma dell’azione. Penso che un consulente pagato dall’UNHCR non avrebbe mai la capacità critica di fare questo lavoro, pur intuendone la necessità. Io ho fatto il consulente e so che normalmente si hanno tre mesi per rispondere alla domanda di chi ti finanzia. Io ho preso tre anni per asserire che le domande che mi facevano erano sbagliate. Se sei pagato per tre mesi non puoi fare questo lavoro. Paradossalmente la possibilità di fare ricerca di base in certi contesti ti rende più applicativo del fatto di essere consulente. Perché il consulente è limitato, vedo consulenti professionisti intelligenti e preparatissimi spesso molto depressi perché si sentono intrappolati in un rapporto di lavoro che impedisce loro la libertà e credibilità.

R.A. GG: Cosa potrebbe a tuo avviso rafforzare la formazione universitaria offrendo la possibilità di acquisire competenze utili in contesti di antropologia applicata dentro e fuori l’accademia?

A.M. Io sono totalmente contrario a questa idea che gli antropologi sono traduttori culturali. Che capiscono il contesto eritreo o afghano e quindi possono essere più efficaci con i richiedenti asilo eritrei o afghani ad esempio.

Ho lavorato a Bergamo con gruppi di volontari di varie associazioni locali di sostegno ai richiedenti asilo. Qui abbiamo due fronti: l’antropologia offre un linguaggio per capire cosa fanno i richiedenti asilo, ma poi c’è anche la società italiana e dobbiamo studiare come questa si riproduce, non solo la società civile ma anche il corpo burocratico. Bisogna fare etnografia della questura, della prefettura, degli ospedali, dei centri residenziali, spendendo altrettanto tempo con gli italiani e non. Bisogna pensare che gli italiani hanno la loro cultura e capire come si riproduce come un sistema, e non limitarsi a osservare i rifugiati come fossero isole, con una cultura propria, che li rende più o meno capaci di integrarsi in Italia. Dobbiamo fare lo sforzo di familiarizzarci con eritrei e afghani, ma anche de-familiarizzarci con tutto ciò che ci sembra ovvio. Bisogna scendere nella sfera pubblica. Si deve parlare ai media, alle associazioni, si deve andare nelle parrocchie.

R.A. G.G. Cosa succede quando questo spazio pubblico e questi attori pubblici diventano finanziatori del progetto di analisi? C’è una parte dell’accademia italiana che dice che è come flirtare con il nemico.

A.M. Trovo che questo discorso sia molto confortevole. È confortevole fare le anime pure. Per me le istituzioni pubbliche sono gli ineliminabili interlocutori. È facile andare in associazioni dove sei di fronte a volontari e operatori sociali che sono convinti da quello che dici. Ma il vero impatto è far cambiare le persone che la pensano diversamente da te. Se non entri in dialogo critico con la prefettura, che cosa fai?

Noi al Graduate Institute abbiamo gli applied research seminars, con un ricchissimo tessuto associativo e dato che siamo abbastanza visibili, ogni anno c’è un pacchetto di progetti con degli attori esterni. Che possono essere istituzioni, enti o associazioni come l’IOM che offrono la possibilità di tirocini ai nostri studenti. Il patto è che noi mettiamo a disposizione tre tirocinanti per fare l’analisi dei bisogni ma poi agli studenti diciamo che non devono semplicemente eseguire il compito ma negoziare la loro autonomia critica. Il compito che chiediamo a questi studenti non è solo di fare un rapporto utile al partner esterno che potrebbe essere anche la prefettura. Ma di negoziare in modo critico il loro sguardo. Devono far capire il valore aggiunto non solo per rispondere, ma anche per contestualizzare e costruire le domande.

La decostruzione dello sguardo è un compito molto difficile. Ma questo può avere grandi risvolti pubblici. Questi lavori sono integrati nel curriculum, sono protetti da un contesto universitario, ma entrano nel dibattito con le istituzioni pubbliche. Questo è molto importante dato che gli studenti fanno delle ricerche che non sono didattiche o pedagogiche, ma sono già ricerca-azione.

Fino a quest’anno ho insegnato un corso di metodi etnografici su due semestri. Il primo più teorico dove insistevo tantissimo sull’osservazione perché se il lavoro empirico è basato solo su interviste si perde tanto. Spesso le persone non fanno quello che dicono, e non perché siano disonesti, ma perché non hanno la capacità riflessiva.

Nel secondo semestre si sceglie un argomento e si va sul campo. L’anno scorso il focus era sulla mobilizzazione di prossimità. Una fattoria urbana, un gruppo di donne sudamericane che facevano tamboreras. Ed è stato molto interessante perché scendendo nell’arena si deve negoziare l’entrata, la presenza, l’uscita; spesso si discute se fare due rapporti, uno pubblico e uno accademico. Penso sia molto importante portare gli studenti a fare ricerca di campo, anche se non è un esercizio semplice. Talvolta si può anche pubblicare o si può lanciare un dibattito pubblico, ma devo essere critico e non agiografico.

R.A. G.G.: Uno dei focus principali della tua ricerca è il tema della frontiera declinato in un’ottica transnazionale, su questo focus nell’ultimo periodo stai collaborando sempre più spesso con artisti, questa scelta è un’esigenza comunicativa o una necessità di cercare nuovi metodi interpretavi alla stessa domanda di ricerca?

A.M. È una domanda molto importante. Io ho 50 anni e due bambini, ma sento sempre l’esigenza di tornare in Afghanistan. Ho lavorato per anni con persone che attraversavano confini in maniera illegale, sono assolutamente contrario al termine “migranti illegali”. Dopo aver fatto ricerca con chi ha sofferto di un deficit di stato, come i richiedenti asilo, volevo lavorare con persone che soffrono di un eccesso di stato, come quelli che vivono alla frontiera dell’Italia, sull’ex cortina di ferro. Popolazioni di frontiera esse stesse non omogenee, su cui pesa sempre il dubbio di lealtà nei confronti dello Stato, basti pensare alle minoranze slovene e alle difficoltà che incontrano. Popolazioni che vivono un eccesso di stato, di controllo. Un terzo dell’esercito italiano durante la guerra fredda era stanziato in Friuli Venezia Giulia e qui costituiva una presenza fisica. Questa regione, dopo la Sardegna (ma per diverse ragioni) ha la proporzione più alta di dominio militare. Volevo lavorare sui borderlanders dell’alto Friuli che vivono di un eccesso di stato. Lo stato dopo la fine della guerra fredda se n’è andato non liberandole di una presenza ingombrante, ma abbandonandole. Con un calo demografico spaventoso. Per me c’è una continuità enorme tra il lavorare tra i rifugiati che attraversano i confini e i borderlanders che abitano le frontiere. Sono due facce della stessa medaglia. Perché in entrambi i casi è una critica antropologica e etnografica dello stato, del modo in cui pensiamo le categorie e come impieghiamo categorie stato-centriche senza accorgercene.

Anche in questo caso è fondamentale portare le categorie nell’azione e la pratica. I concetti di cui parliamo hanno un’architettura e una genealogia pesante, per immaginare un mondo dove si pensa fuori da queste categorie bisogna uscire dal mondo accademico. Puoi farlo andando a discutere in dibattiti pubblici con enti o associazioni, ma l’arte ti apre a qualcosa di diverso. Una persona con cui ho sviluppato questo tipo di collaborazione è Carlo Vidoni che già conoscevo. Sentivamo un comune bisogno di raggiungere nuovi obiettivi professionali che rispondono all’esigenza di nuovi stimoli e di cercare nuove espressioni, nella consapevolezza che queste nuove modalità espressive hanno potenzialità di impatto molto più alte che l’accademia. Con Carlo abbiamo sviluppato un’installazione sui rifugiati, coinvolgendo tre italiani e quattro non-italiani in interviste con montaggi video che narravano la loro storia. C’erano poi sette valigie con sopra il palmo della mano disegnato e dentro le storie scritte da me che erano un riassunto delle interviste; e, infine un’ultima istallazione con le mani di tutti, incluse le nostre, sulla mappa del mondo. Il lavoro è stato presentato nel Duomo di Gemona del Friuli, luogo per me fondamentale. Parlare nel Duomo è stata per me un’emozione incredibile, perché avevo il ricordo infantile del luogo distrutto dal terremoto del 1976. Andare a Oxford o a Harvard non è stato niente in confronto all’emozione di parlare a Gemona. Ho parlato liberamente e sono stato quasi aggressivo, denunciando le ipocrisie della pretesa superiorità morale dell’Occidente. Ecco, io sento un bisogno personale molto forte di moltiplicare le modalità di espressione e l’arte mi fa dialogare con persone che non potrei raggiungere con l’accademia.

R.A. G.G.: In questo periodo drammatico l'Afghanistan sembra essere di nuovo al centro dell'attenzione globale. Tuttavia ancora una volta risulta cannibalizzato da narrazioni totalizzanti. Tu difendi l'antropologia come modalità per guardare le cose da un altro punto di vista. In questo senso un approccio antropologico come può acquisire centralità nella comprensione e nell'engagement pubblico sull'Afghanistan?

A.M. Questa è una domanda che mi faccio oggi. Quando c’è stata la caduta di Kabul stavo male. Per un po' mi sono molto rinchiuso. Rifiutavo di rispondere ai giornalisti. Per me era troppo doloroso e troppo difficile da metabolizzare intellettualmente. Poi mi sono detto che non potevo fare così perché avevo un ruolo pubblico e quindi da qualche settimana rilascio una o due interviste al giorno sulla questione, giornali russi, un canale cinese, una canadese. Anzitutto penso che sia incredibile, vent’ anni di ricostruzione e due milioni di milioni di dollari spesi dal governo americano, tutto finito in poche settimane a causa di guerrieri in ciabatte di plastica che hanno sconfitto il più potente esercito della storia umana. Pensate che un soldato americano costa un milione all’anno per promuovere un modello di società e dello stato che gran parte della società afghana non ha voluto accettare. Bisogna prendere sul serio questa cosa, non bisogna affermare che sono arcaici. È la storia di fallimento di un progetto egemonico, in quanto larghi segmenti della popolazione afghana non hanno accettato la superiorità politica e morale degli Stati Uniti e più generalmente dell’Occidente. Dobbiamo ascoltarli. Penso che i talebani abbiano vinto la guerra della legittimità. Io ho lavorato con gli sciiti. So benissimo che i talebani fanno esecuzioni extragiudiziarie, vanno a prendere le persone nelle case, ma hanno vinto loro e forse l’Afghanistan adesso è nel suo momento più pacifico degli ultimi 40 anni. Non dobbiamo soltanto giudicarli.

A cosa abbiamo assistito? C’è stato questo focus sull’aeroporto di Kabul, messo in scena come reminiscenza di Saigon. E credo sia la riproduzione di una fortissima ineguaglianza sociale anche tra gli afghani.

Torniamo a Carl Schmitt, Agamben e Foucault, perché i governi nord americani ed europei si sono eletti come sovrani per decidere chi poteva essere salvato. Questa è la sovranità, non più il potere di morte ma di vita, messo in scena a livello globale con una ipocrisia assoluta. Evacuare 120.000 persone fuori Kabul può ricompensare 20 anni di ricostruzione fallita? Io sono molto arrabbiato, anche perché tantissime persone evacuate non erano in pericolo di vita, mentre tante in vero pericolo non avrebbero mai potuto essere evacuate. Ho un amico hazara i cui fratelli combattevano contro i talebani e non avrebbero mai alcuna possibilità di lasciare l’Afghanistan. Se i talebani li trovano, li mettono subito al muro, dunque c’è un’ineguaglianza assoluta di chi merita di essere salvato o no. I salvati sono quelli che sono stati nobilitati perché hanno lavorato in contatto con gli occidentali.

Sono stato intervistato da un canale cinese dove in un articolo si affermava che non solo i talebani, ma anche l’esercito americano doveva essere portato davanti a un tribunale internazionale. Perché l’esercito americano ha ammazzato più donne che i talebani: gli americani morti sono stati 2500, i poliziotti 66000 e lo stesso numero di talebani, più 50.000 civili afghani. Sono 170.000 afghani ammazzati nel conflitto contro 2500 americani. Hanno bombardato matrimoni e non si sono mai scusati. Un sergente ha ammazzato 16 o 17 persone ed è stato giudicato colpevole dopo essere stato portato fuori dal paese da un tribunale americano. Pensa se un afghano avesse fatto una cosa simile in Italia. Si vede l’ineguaglianza anche dei morti, tra gli afghani (tra rurali e urbani, poveri e ricchi, donne e uomini) e tra gli occidentali e i non occidentali con gli afghani. Penso che l’Afghanistan sia uno spartiacque della storia recente, perché indica la fine di una pretesa egemonica.

In un certo senso però la vittoria dei talebani è essa stessa una vittoria dello stato. Anche se loro dicono di non essere uno stato, ma un emirato i talebani non sono jihadisti transnazionali come al Qaeda. Sono un gruppo di liberazione nazionale. Hanno lasciato nel 2001 che al Qaeda usasse il territorio dell’Afghanistan per lanciare gli attacchi agli Usa. Ma anche la Cia dice che non hanno più nessuna relazione. Anzi, nel 2001 i talebani hanno fatto un suicidio politico lasciando al Qaeda fare questa cosa. Adesso gli esperti di terrorismo dicono che ricominceranno. Non lo so… perché hanno un gran bisogno di riconoscimento nella comunità internazionale e perché sono cresciuti molto a livello politico. Non so se ripeteranno questo suicidio politico. Posso aver paura che lo facciano. Ma ci andrei molto cauto. Poi c’è l’ISIS che è in guerra sullo stesso terreno di legittimità, ma non ha la capacità di occupare i territori, e quindi sferra attacchi terroristici. Al Qaeda invece ha riconosciuto la preminenza dei talebani. Lo stesso Bin Laden si era messo sotto la protezione del Mullah Omar. I talebani non sono jihadisti, non sono transnazionali, sono nazionali. Al contrario il governo di Kabul era totalmente portato dalla comunità internazionale, il presidente stesso era un cittadino americano (oltre che antropologo) e tanti ministri avevano passaporti occidentali. Il budget era per il 90% portato da fondi esterni. Per lo stato era impossibile finanziare l’esercito afghano con risorse interne. E quindi era un esercito fasullo, pagato per reprimere le insurrezioni, ma non per difendere l’Afghanistan. Si potrebbe parlare di Protettorato globalizzato, come dice Boris Petric per il Kirghizistan.

I talebani si dice che siano sostenuti dal Pakistan, ma molto meno di quanto il governo precedente fosse sostenuto dagli Usa. Loro rappresentano una riaffermazione dell’ordine nazionale. Quello che sta succedendo con l’aeroporto e la vittoria dei talebani riafferma quindi un ordine nazionale. Anche se c’è una cosa molto interessante, l’Afghanistan dopo la caduta dell’impero ottomano per tutti i musulmani anticoloniali era lo spazio di libertà. Lo spazio che non era stato colonizzato e sconfitto dall’Occidente. L’Afghanistan era uno dei pochissimi paesi musulmani indipendenti. Come Lenin andava in Svizzera, tanti musulmani dall’India andavano a Kabul ad esempio. Oggi lo è di nuovo. È uno spazio che incarna immaginari anticoloniali. Quindi anche se i talebani sono nazionali c’è sempre questo respiro globale.