Scienziati sociali e biologi conservazionisti:

perché è urgente collaborare

Maria Benciolini

Cooperativa Eliante

Mauro Belardi

Cooperativa Eliante

Indice

Il ritorno dei grandi carnivori: un successo della conservazione della biodiversità, una questione ancora aperta con gli umani.
Oltre la prevenzione danni: conflitto con i predatori, conflitto sui predatori
Costruzione e circolazione del sapere: un esempio del contributo dell’antropologia ai progetti di conservazione.
Difficoltà e sfide per il futuro
Bibliografia

Abstract. The expansion of large carnivores in Europe and Italy, favored by a complex set of natural and human factors, is a major success for biodiversity conservation. Although these species do not yet enjoy a satisfactory conservation status, the population situation is clearly improving. However, the presence of predators also reopens the conflict with farmers and shepherds. The efforts of communication and dissemination of best practices by environmental organizations have not been sufficient so far to mitigate the conflict and promote situations of coexistence. This article proposes some reflections on the social and cultural aspects related to the return of large carnivores and emphasizes the importance of social sciences, and anthropology in particular, in understanding the complexity of the conflict and in finding sustainable solutions.

Keywords. Human-wildlife conflicts; biodiversity conservation; farming; multidisciplinarity; large carnivores.

Il ritorno dei grandi carnivori: un successo della conservazione della biodiversità, una questione ancora aperta con gli umani.

Da circa due decenni, le popolazioni di grandi carnivori europei sono in espansione, dopo essere stati sull’orlo dell’estinzione per più di un secolo a causa prevalentemente della persecuzione diretta da parte degli esseri umani e della modificazione degli habitat. In Italia le due specie più interessate da questo fenomeno sono il Lupo (Canis lupus) e l’Orso (Ursus arctos)[1]. Questi processi di espansione si sono verificati grazie a un complesso intreccio di fattori, alcuni dei quali sono direttamente legati a scelte degli esseri umani, mentre altri riguardano le caratteristiche proprie delle specie e degli ecosistemi. Negli anni Settanta del secolo scorso, il Lupo era totalmente estinto sulle Alpi, e rimanevano alcune popolazioni isolate negli Appennini centrali e meridionali. Nonostante questo, grazie all’espansione degli habitat, in parte legate alla concentrazione della popolazione umana nelle città, e all’aumento delle prede (in particolare ungulati), la popolazione di Lupo ha cominciato ad espandersi in modo naturale e oggi è estesa a tutti gli Appennini e alle Alpi, mentre è in corso un processo di espansione anche nelle aree di pianura. In alcune regioni italiane, lo stato di conservazione della specie può dirsi soddisfacente, mentre in altre si trova ancora in espansione.

Nel caso dell’Orso, il ripopolamento delle Alpi italiane è invece avvenuto a partire dalla reintroduzione di alcuni individui provenienti dalla Slovenia nell’ambito del progetto LIFE Ursus, nel corso del quale sono stati rilasciati dieci individui tra il 1999 e il 2002. Sebbene ad un ritmo molto più lento rispetto ai lupi, anche la popolazione di orsi è in aumento. A oggi la popolazione di orsi nelle Alpi italiane rimane concentrata principalmente in Trentino, sebbene alcuni individui maschi in dispersione superino con una certa regolarità i confini regionali.

In Appennino la popolazione di Orso marsicano è sostanzialmente stabile da anni ed è in corso una lenta espansione al di fuori dall’areale storico delle aree protette abruzzesi.

Un importantissimo contributo a questi processi è venuto dai cambiamenti nello status legale di queste specie sia in Italia sia in Europa[2], e da una maggiore consapevolezza e sensibilità di una parte considerevole della popolazione sui temi della conservazione della natura.

L’espansione della popolazione di grandi carnivori può dirsi un successo del mondo conservazionistico, in particolare nel caso del Lupo, che grazie alla propria adattabilità ha visto negli ultimi anni un aumento di popolazione inaspettato anche per i più ottimisti tra i biologi della conservazione.

Gli sforzi per la conservazione di Orso e Lupo non sono legati solamente ad una maggiore sensibilità e consapevolezza ambientale, ma rispondono anche alle indicazioni della Direttiva Habitat (92/43/CEE), che sancisce l’obbligo, per gli stati membri, di favorire uno stato di conservazione soddisfacente per alcune specie prioritarie. Sebbene non si possa affermare che lo stato di conservazione di Orso e Lupo sia soddisfacente su tutto il territorio nazionale, la situazione attuale è senza dubbio in miglioramento.

Gli sforzi di conservazione di queste specie sono stati accompagnati anche dall’impegno a promuovere una convivenza il più possibile pacifica con le attività umane: il mondo conservazionista è infatti consapevole del fatto che la conservazione di alcune specie è strettamente collegata alla loro accettazione da parte dei principali portatori di interesse coinvolti. Per raggiungere gli obiettivi di conservazione, è quindi necessario favorire una situazione che possa essere accettabile per tutti gli attori umani e non umani, superando l’idea che i predatori siano nemici da sterminare. Su questo fronte, però, i successi del mondo conservazionista sono stati limitati. Il conflitto tra umani e predatori continua, e in alcuni casi si intensifica. I temi più controversi riguardano i danni portati al bestiame domestico e la potenziale pericolosità per gli esseri umani. In ogni nuova area di colonizzazione da parte di questi animali si accende il conflitto con più o meno veemenza, e anche in alcune delle aree di più lunga permanenza dei predatori, gli scontri persistono nonostante le campagne di comunicazione e sensibilizzazione, le compensazioni, il sostengo economico alle misure di prevenzione.

Il ritorno dei grandi carnivori vede coinvolti una grande quantità di attori umani e animali: pastori e allevatori, scienziati, ambientalisti, animalisti, cacciatori, società civile, turisti, associazioni di categoria, politici, ma anche gli stessi predatori, i cani da lavoro, il bestiame da allevamento e gli ungulati selvatici. Le specie animali coinvolte, poi, sono particolarmente significative dal punto di vista sociale e culturale: orsi e lupi non sono solo predatori, sono anche animali iconici della mitologia europea (Bobbé 1998).

Se le misure adottate fino ad ora hanno ottenuto scarsi risultati in termini di accettazione dei predatori e dei sistemi di prevenzione, come procedere? Quali altri strumenti adottare per fare in modo che la coesistenza tra mondo rurale e grandi carnivori sia il meno conflittuale possibile?

Se si prende in considerazione la complessità del fenomeno, risulta evidente che nel conflitto entrano in gioco, oltre ai fattori economici, anche aspetti sociali, culturali e psicologici. Il ritorno dei predatori si inserisce in un contesto lavorativo già complicato: pastori e allevatori spesso devono affrontare difficoltà burocratiche e logistiche, scarsa accettazione sociale (in particolare nel caso di coloro che praticano la transumanza), conflitti più o meno espliciti con turisti e abitanti delle città. Dal punto di vista culturale poi non va dimenticato che i predatori, al di là dei danni materiali che causano, hanno anche una posizione significativa nella visione del mondo e della natura del mondo rurale. Bisogna infine ricordare gli elementi psicologici, in particolare la paura, per gli umani e per i propri animali, e la sensazione di precarietà e di stress che in alcuni casi la presenza dei grandi carnivori può causare.

Dopo gli sforzi del mondo conservazionistico, solo un approccio multidisciplinare, che tenga conto della complessità del conflitto, può portare ad un significativo miglioramento della situazione.

Una delle discipline che possono offrire il proprio contributo alla gestione del conflitto e alla promozione di una convivenza il più possibile pacifica tra attività umane e grandi carnivori è senza dubbio l’antropologia, che dispone degli strumenti per comprendere quali aspetti culturali e sociali profondi influiscono nelle relazioni tra esseri umani e animali, nelle pratiche e nei processi che li coinvolgono, andando oltre quegli aspetti materiali ed economici spesso considerati come il principale problema della convivenza.

Latour (2015) propone di pensare al pianeta terra così come è abitato al giorno d'oggi come un mondo comune da comporre, dove umani e non umani contribuirebbero ad una socialità condivisa. È quindi necessario ripensare la relazione tra conoscenza, politica e vita sociale per chiedersi quali entità dovrebbero essere considerate come attori nelle controversie politiche e sociali e come possono coesistere in un mondo in cui natura e cultura sono sempre più intrecciate e alcune linee di separazione sono sempre più sfumate (Latour 2017). Nel caso della pastorizia, ad esempio, risulta difficile stabilire una linea di confine netta tra ciò che appartiene al mondo della natura (quali animali, quali spazi) e ciò che appartiene al mondo della cultura. Gli effetti politici, culturali, sociali ed economici della presenza dei predatori e le trasformazioni territoriali che questo comporta, permettono un fine studio e un’analisi della socialità presente nel mondo "composto" descritto da Latour.

Questo articolo riporta alcune delle riflessioni sorte nel corso della collaborazione professionale dei due autori, un’antropologa e un biologo della conservazione, coinvolti in progetti tutt’ora in corso sulla conservazione dei grandi carnivori e sulla mitigazione del conflitto. Nell’ambito di questi progetti sono state svolte a partire dal 2019 ricerche etnografiche in Lombardia, Trentino Alto Adige, Austria e Baviera durante le quali sono state condotte interviste e periodi di osservazione partecipante con allevatori e pastori di ovicaprini e bovini prevalentemente.

Oltre la prevenzione danni: conflitto con i predatori, conflitto sui predatori

Il ritorno dei predatori è stato accompagnato da campagne di comunicazione rivolte a diversi tipi di portatori di interesse (pastori e allevatori, turisti, studenti, amministratori, società civile), da strumenti legislativi e amministrativi volti a favorire la convivenza dei predatori con il mondo rurale e dagli sforzi di organizzazioni ambientaliste private.

Uno degli strumenti utilizzati per la mitigazione del conflitto con i predatori è la diffusione di misure di protezione del bestiame da allevamento. Le principali sono: sorveglianza, ricovero notturno, utilizzo di recinti elettrificati fissi o mobili, e l’impiego di cani da guardiania. Queste misure di prevenzione, se correttamente applicate, diminuiscono sensibilmente le predazioni sul bestiame domestico e gli allevatori che scelgono di metterle in pratica sono solitamente più tolleranti nei confronti dei predatori e più consapevoli del ruolo di questi animali per gli ecosistemi. La protezione del bestiame richiede però, da parte dei pastori, un aumento del carico di lavoro e delle spese, e a volte porta alla creazione di conflitti con turisti e cacciatori, a causa principalmente dei cani da guardiania, nei confronti dei quali è necessario tenere comportamenti corretti, per evitare di suscitare reazioni aggressive. Per quanto riguarda gli aspetti economici legati alle misure di prevenzione, esistono diversi canali di sostegno a cui gli allevatori possono ricorrere: i piani di sviluppo rurale, i progetti LIFE[3]e le iniziative di organizzazioni private. Oltre alle questioni economiche e lavorative, le misure di prevenzione sono rifiutate dagli allevatori più radicalmente contrari alla presenza di predatori, per i quali queste pratiche costituiscono una sorta di resa alla presenza dei predatori.

Esistono inoltre misure di compensazione per eventuali danni subiti a causa delle predazioni. I meccanismi di finanziamento e compensazione non funzionano però uniformemente in tutte le regioni italiane o europee, non sempre sono chiare agli allevatori le modalità di accesso a questo tipo di aiuti e, nel caso di fondi pubblici, il carico di burocrazia che è necessario affrontare è considerevole e a volte scoraggia le persone dal partecipare ai programmi proposti.

La sorveglianza degli animali durante il pascolo rappresenta un ulteriore carico di lavoro, soprattutto nei contesti in cui si praticava e si pratica tutt’ora il pascolo vagante incustodito. Data l’assenza di predatori, nei decenni passati gli animali venivano solitamente accompagnati in montagna all’inizio dell’estate e lasciati liberi di pascolare, con scarsa o nulla sorveglianza da parte dei proprietari (va sottolineato che, in accordo all’articolo 672 del Codice Penale il pascolo incustodito costituisce reato di “omessa custodia e mal governo di animali”). Questa pratica è tutt’ora ampiamente adottata in vaste zone delle Alpi e delle Prealpi, non solo rendendo gli animali da allevamento facili prede dei carnivori, ma anche causando problemi alla sicurezza di turisti ed escursionisti, nonché danni agli habitat.

Alcune iniziative, come il Progetto Pasturs nelle Alpi Orobie bergamasche e il Progetto Volontari Attivi nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi offrono agli allevatori la presenza di volontari che durante la stagione di alpeggio aiutano nella gestione degli animali e delle misure di prevenzione. Esistono, infine, nell’ambito di alcuni progetti europei, squadre di pronto intervento che intervengono per mettere in sicurezza gli animali da allevamento quando si verificano casi di predazioni.

Tutte queste misure mirano a sostenere gli allevatori negli aspetti pratici e in quelli economici legati al ritorno dei predatori e sono ormai piuttosto diffuse, anche se a volte incontrano le resistenze degli allevatori, che manifestano dubbi sulla loro efficacia e lamentano un eccessivo carico di lavoro per metterle in pratica.

Ciò di cui il mondo della conservazione e le amministrazioni si sono occupate in misura molto minore, sono gli elementi più intangibili del difficile rapporto tra allevatori e predatori, agli aspetti più pratici, vanno infatti aggiunti elementi emotivi, culturali e sociali che intervengono nel conflitto e nell’accettazione dei predatori e delle misure di prevenzione.

La morte di un capo di bestiame non rappresenta solo una perdita economica: alcuni allevatori stabiliscono con i propri animali anche una relazione affettiva e di cura basata sul tempo trascorso con gli animali, sulle cure a loro dedicate in caso di infortuni, malattie o di parti difficili. Da questo punto di vista, va osservato che gli allevatori che scelgono di mettere in pratica misure di protezione per il proprio bestiame le descrivono non solo come un mezzo per poter continuare a svolgere il proprio lavoro e per limitare i danni economici derivanti da eventuali predazioni, ma anche come un gesto di cura e di attenzione nei confronti dei propri animali. Non sempre questo accade, ci sono anche allevatori che lasciano i propri animali incustoditi per mesi e che utilizzano le predazioni da Lupo o Orso come pretesto per compensare le perdite di animali dovute ad altre ragioni.

Alla dimensione emotiva si aggiungono poi aspetti culturali legati alla concezione dello spazio, al modo di rapportarsi con gli animali, alla posizione che essi hanno e hanno avuto in passato nella visione del mondo delle popolazioni rurali.

Il tema dello spazio, e della vicinanza fisica dei predatori ai luoghi antropizzati, viene menzionato spesso. Il fatto che i predatori si avvicinino ai centri abitati, e il ritrovamento di segni di predazione vicino ai luoghi in cui le persone lavorano e si spostano quotidianamente è spesso fonte di preoccupazione, indipendentemente da quanto questi animali siano percepiti come pericolosi per l’incolumità degli esseri umani. “I lupi vicino alle case” sono un tema presente nelle conservazioni informali, nelle interviste, e nella trattazione mediatica su questi animali[4].

In generale, chi non è esperto della specie tende a pensare che i predatori non appartengano alle aree antropizzate e che dovrebbero rimanere nelle zone più remote e montagnose. Secondo Lescureux e Linnell (2010b) questa convinzione, già in parte presente nell’immaginario di molti paesi europei, si è ulteriormente rafforzata con la diffusione, negli Stati Uniti prima e in Europa poi, di documentari e altri strumenti di divulgazione che associano i predatori, in particolare il Lupo, a una natura selvaggia e incontaminata. Bobbé (1993) tratta il tema dello spazio come una questione di confini tra un mondo sotto il controllo dell’uomo e della civiltà e un mondo più selvatico. I predatori in questo caso, nell’avvicinarsi alle case o ai campi, superano questo confine immaginario, “invadono” un territorio che non appartiene loro e rompono una sorta di patto stabilito tra esseri umani e animali selvatici (Ibid: 63). Nei contesti nei quali gli allevatori o i pastori sono particolarmente coscienti dell’azione dell’uomo sull’ambiente e delle trasformazioni che l’attività di pascolo porta agli ecosistemi, alla gestione dei prati e delle foreste, i predatori sono considerati fuori posto perché non appartenenti ai territori trasformati e curati dall’uomo. A volte, i lupi che si avvicinano alle case sono considerati come individui “anormali”, che hanno perso la paura dell’uomo, o che si sono incrociati con cani, o che per qualche motivo sono diventati eccessivamente invadenti e confidenti. In realtà, l’ecologia della specie indica che la grande adattabilità di questi animali può spingerli anche ad avvicinarsi alle zone antropizzate in cerca di cibo, come rifiuti abbandonati dall’uomo, o ungulati, che a volte tendono ad avvicinarsi alle case proprio come strategia anti predatoria. Lo stesso può avvenire nel caso degli orsi, che possono avvicinarsi alle case attratti da rifiuti, cibo non adeguatamente stoccato, o a volte dalla semplice curiosità. La forza fisica di questi animali, inoltre, li porta a volte a distruggere alcune proprietà. Dal punto di vista etologico, questi comportamenti, spesso vissuti come un’invasione degli spazi degli umani e della loro intimità, non indicano in realtà qualcosa di anormale nei singoli individui che li mettono in atto.

Quello della spazialità è uno dei temi sui quali la collaborazione delle scienze sociali può contribuire alla gestione del conflitto. La semplice divulgazione di informazioni e di dati sul comportamento dei predatori e su ciò che dagli specialisti è ritenuto un comportamento normale e in linea con la biologia o l’etologia della specie non è sufficiente a favorire la tolleranza nei confronti dei predatori e l’adozione di misure di prevenzione. È necessario tenere conto anche degli aspetti menzionati fin qui, che non riguardano solo i predatori ma, più in generale, l’organizzazione dello spazio e la concezione di ciò che è domestico e addomesticato e di ciò che è selvatico. Questo può influire, ad esempio, sul modo di usare le misure di protezione del bestiame, o sulle percezioni della loro efficacia in diversi contesti spaziali e territoriali. I recinti, ad esempio, sono spesso pensati come uno strumento che serve principalmente a contenere gli animali e in alcuni casi per dare ai cani uno perimetro entro il quale lavorare, o come un modo per “tenere fuori” i predatori, quando in realtà i recinti elettrificati utilizzati nella prevenzione danni non sono pensati per costituire barriere fisiche nei confronti dei predatori, ma per funzionare da deterrenti nel momento in cui questi ricevono una scossa elettrica quando tentano di oltrepassarli. L’associazione del dolore fisico connesso al contatto con i recinti elettrificati è anche un messaggio che gli umani trasmettono ai predatori. Nel caso degli orsi, i cuccioli apprendono dalla madre la maggior parte dei propri comportamenti, tra cui eventualmente anche l’evitamento di situazioni dolorose o di eventuale pericolo.

Agli aspetti spaziali, si collegano anche quelli legati all’immaginario e ai saperi locali. Il Lupo, ad esempio, è sempre considerato un animale dannoso, a cui sono attribuite una cattiveria intenzionale e una furbizia particolare. In questo, alcuni comportamenti degli animali, come il fenomeno dell’over-killing, alimentano la convinzione che il Lupo si comporti come “nemico” degli esseri umani. Molti allevatori riconoscono che i predatori abbiano anch’essi bisogno di procurarsi del cibo, e accettano che sia nell’ordine delle cose che ogni tanto un animale carnivoro sottragga loro un capo. Può capitare però, nel caso del Lupo, che durante un solo atto predatorio vengano uccisi più animali di quelli che saranno poi effettivamente consumati. «Dopo una cosa che se potessi intervenire a spiegare al Lupo “ok va benissimo te hai da vivere come tutti ok se hai da mangiarne uno mangiamene una ma no ammazzarmene 50 in un colpo perché me le fai andare nel dirupo e poi andrai a mangiartele con calma”»[5].

L’uccisione di più capi di quelli che vengono poi effettivamente consumati, unita alla consapevolezza del fatto che i branchi di lupi adottano tecniche predatorie sofisticate, è visto come sintomo di cattiveria intenzionale di questi animali.

Agli orsi invece non è solitamente attribuita un’intenzionalità negativa nei confronti degli umani. La loro vita solitaria, la dieta prevalentemente non carnivora, il fatto che non pratichino la caccia cooperativa, il loro aspetto, li rendono, agli occhi delle persone, animali più accettabili, in un certo senso più rispettosi nei confronti degli esseri umani e delle loro attività.

Nell’immaginario di molti paesi europei l’Orso è un animale degno di rispetto, verso cui gli esseri umani nutrono sentimenti di timore, ma anche di ammirazione. Questa specie è spesso contrapposta ad altri carnivori, in primis il Lupo al quale, come abbiamo visto, si tende a pensare come a un animale intenzionalmente cattivo, ma anche la lince, a cui invece sono associati comportamenti particolarmente furtivi (Lescureux e Linnell 2010a). Anche le Alpi italiane non fanno eccezione rispetto a questo. Sulle Alpi Orobie l’Orso è considerato come un animale potenzialmente dannoso, ma verso cui generalmente si nutre una certa ammirazione, mentre il Lupo è visto solo come un predatore fastidioso: «Perché alla fine l’Orso è più come noi, no? Non mangia solo le pecore, e non ne uccide troppe»[6].Tra gli allevatori trentini che adottano misure di prevenzione, il Lupo è considerato come particolarmente intelligente e dotato di maggiori capacità di aggirare le misure di protezione rispetto all’Orso: «ma l'Orso è più stupido e non ha neanche tutto il bisogno che ha il Lupo di starmi dietro a me no, l’Orso mangia di tutto è onnivoro, se gli va male con le vacche e gli va male con le pecore mal che vada mangia erba ma che il Lupo…»[7]. Queste convinzioni spesso non coincidono con quello che la scienza rileva. Ad un’osservazione dei dati, risulta infatti evidente come anche l’Orso può fare overkilling, che è l’Orso la specie che dispone certamente di una maggiore intelligenza deduttiva e infine che è l’Orso ad essere potenzialmente più pericoloso per l’incolumità umana, per quanto si tratti in ogni caso di eventi molto rari.

Spesso, biologi e scienziati naturali faticano a dialogare con saperi costruiti da altri sulla base di diverse premesse epistemologiche, e tendono a dar loro poco peso nel perseguimento degli obiettivi di conservazione delle specie e di convivenza. Sono a volte anche convinti che la buona comunicazione e la divulgazione di dati “oggettivi” siano un buono strumento per perseguire gli obiettivi di conservazione. Una maggiore consapevolezza di quali siano e come si costruiscano le conoscenze di altri portatori di interesse potrebbe certamente favorire il dialogo e la ricerca di soluzioni utili. Nonostante questo, va anche preso atto del fatto che alcune convinzioni (come la minore pericolosità dell’Orso rispetto al Lupo per gli umani) possono rivelarsi pericolose per l’incolumità di umani e non umani.

La diversa collocazione che certe specie di predatori hanno nell’immaginario e il modo in cui questo immaginario dialoga con l’osservazione diretta di diverse specie sul territorio dovrebbero essere tenute in considerazione quando si progettano strategie comunicative e di conservazione: il fatto che alcune specie animali siano più rispettate di altre, o siano ritenute specialmente intelligenti, influisce sui livelli di accettazione e sull’efficacia attribuita alle misure di prevenzione in relazione a quelle particolari specie.

La presenza dei grandi predatori non è solo causa di conflitto diretto tra esseri umani e animali, ma anche tra diversi gruppi umani che su questo si scontrano e si confrontano, a volte entrando direttamente nel merito di questioni come la conservazione della biodiversità e degli ecosistemi e le relazioni tra gruppi umani e animali, altre utilizzando la presenza dei predatori come pretesto per confrontarsi su temi solo parzialmente legati ad essi. Dumez et al. (2017) propongono di distinguere il conflitto “con i predatori”, di cui abbiamo già descritto alcune caratteristiche, dal conflitto “sui predatori”. L’esempio più comune e più generale è quello del mondo ambientalista, favorevole al ritorno dei predatori e all’aumento della popolazione di queste specie, e il mondo rurale, generalmente contrario alla presenza dei grandi carnivori sul proprio territorio. A questa grande divisione, se ne aggiungono altre, maggiormente situate in termini di scala o connesse a tematiche più specifiche. Gli abitanti delle regioni montane o rurali tendono a inquadrare il conflitto sui predatori in un contesto più ampio nel quale “la gente di città”, con la sua visione ingenua della montagna e di chi la abita, “ha voluto” il ritorno dei grandi carnivori senza prendere in considerazione le difficoltà degli allevatori. In particolare nel caso delle zone alpine, chi lavora in montagna tende a rappresentare sé stesso anche come il custode di determinati ecosistemi, in contrapposizione a chi dall’esterno vorrebbe imporre determinati criteri senza conoscere davvero il contesto naturale in cui si opera. A questo, si aggiungono anche contrapposizioni sui modi in cui l’uomo dovrebbe rapportarsi alla natura. Nei contesti nei quali prevale l'idea della necessità di "addomesticare" e controllare la natura, si tende ad avere una minore accettazione verso i grandi carnivori, mentre una visione della natura in cui l'uomo non ha bisogno di mantenere il controllo è generalmente legata ad una maggiore accettazione e considerazione di queste specie animali (Hunziker et al. 2001; Hunziker 2009).

Alcuni pastori e allevatori si trovano inoltre a svolgere il proprio lavoro in luoghi e periodi di grande affluenza turistica, e questo può causare ulteriori difficoltà. Capita spesso infatti che i turisti non conoscano o non mettano in pratica basilari nozioni di comportamento nei confronti degli animali al pascolo o dei cani da lavoro, e non rispettino gli spazi personali e di lavoro dei pastori e degli allevatori, violando molto spesso la normativa, ad esempio tenendo i loro cani liberi. Quello che per questi ultimi costituisce lo spazio in cui svolgere la propria attività personale, è percepito dal turista come luogo di divertimento.

Come suggerito da Skogen e Krange (2003) posizionarsi contro il Lupo offre un appiglio per rafforzare o creare identità comunitarie locali, in un contesto nel quale le comunità rurali faticano a fronteggiare i cambiamenti sociali e culturali in atto e a trovare una propria collocazione in una società globalizzata.

A livello locale, il conflitto intorno ai predatori può essere la manifestazione di altre problematiche territoriali: un esempio di queste sono i parchi nazionali. Dispute intorno all’estensione e ai confini dei parchi nazionali, alla loro vocazione, alle modalità di gestione e di creazione a volte si esprimono anche attraverso il conflitto legato ai predatori. Per un’azienda agricola, trovarsi entro i confini di un parco può implicare maggiori vincoli e controlli, ma rappresenta spesso anche un’opportunità per dialogare con altri attori coinvolti nella gestione del territorio e per ottenere sostegno tecnico, economico e materiale.

Per i progetti che intendono favorire la convivenza tra allevatori e grandi carnivori, è dunque importante comprendere e distinguere quali siano gli elementi di conflitto sui predatori da quelli con i predatori, poiché gli uni e gli altri non possono essere affrontati allo stesso modo. In questo, l’intervento di discipline come l’antropologia e la sociologia può aiutare non solo a comprendere il quadro più generale nel quale si situano specifiche situazioni di conflitto, ma anche i modi migliori per favorire contesti di dialogo.

Costruzione e circolazione del sapere: un esempio del contributo dell’antropologia ai progetti di conservazione.

Una delle questioni su cui allevatori e mondo conservazionista faticano a trovare spazi di confronto e dialogo costruttivo è quello che riguarda le conoscenze sulla biologia e sul comportamento dei predatori e sulla messa in pratica e l’efficacia delle misure di prevenzione.

Le campagne di comunicazione sui predatori e gli sforzi di disseminazione di buone pratiche nei metodi di protezione del bestiame si sono basate fino ad ora sulla diffusione di dati sul numero e la distribuzione degli individui o dei branchi delle specie interessate, sull’efficacia dei metodi di protezione del bestiame, sulla frequenza delle predazioni, sulla biologia e il comportamento dei predatori[8].

Nonostante le campagne di comunicazione e gli sforzi di trasparenza da parte di scienziati e istituzioni, in generale allevatori e pastori non si fidano di queste fonti di informazioni, di chi le produce e di chi le diffonde. I dati sul numero di individui o di branchi, la loro diffusione sul territorio, la velocità di colonizzazione di nuove aree sono accolti con diffidenza o apertamente contestati da alcuni portatori di interesse, in particolare pastori, allevatori e cacciatori. Le ragioni della diffidenza nei confronti della comunicazione e della divulgazione sono varie. In alcuni casi, il fatto che questo tipo di materiali provenga da istituzioni e organizzazioni percepite come a favore dei predatori spinge le persone a pensare che i loro contenuti manipolino intenzionalmente la realtà dei fatti per portare avanti la causa dei predatori, in altre occasioni, più semplicemente, i metodi e i criteri utilizzati per studiare e valutare certi fenomeni non sono compresi. Un ultimo aspetto ha a che fare con il modo in cui le persone costruiscono il proprio sapere e riconoscono ad altri l’autorevolezza sufficiente a trasmettere nozioni e conoscenze.

Mauz e Ganjou (2008) si sono chieste quali siano le ragioni della diffidenza degli allevatori nei confronti dei monitoraggi sulla popolazione di Lupo in Francia e sui motivi per cui gli allevatori e in misura minore i cacciatori non sono generalmente interessati a partecipare a questo tipo di attività, sebbene passino molto del loro tempo nei territori di presenza del Lupo e si dicano interessati a conoscere lo status della popolazione.

Una delle ragioni di questa diffidenza, secondo le autrici, deriverebbe dal modo in cui le cifre e i risultati sono comunicati: privi di un’adeguata contestualizzazione e presentati senza riconoscerne esplicitamente i margini di errore, intrinsecamente legati ai metodi di monitoraggio. Anche i metodi messi in atto sia per la rilevazione della presenza dei predatori che per i successivi conteggi sono di difficile comprensione per i non esperti e generano grande diffidenza rispetto alla loro reale efficacia (Ibid.). La restituzione dei risultati può essere un ulteriore fattore di diffidenza: ad esempio informare sui numeri di branchi o di individui in termini di intervalli (Cfr. Marucco et al 2017) è vissuto come un atto di onestà intellettuale da parte degli scienziati abituati alle metodologie e ai modi di comunicare della scienza, ma risulta incomprensibile a chi non è familiare con questi metodi e avrebbe invece bisogno di informazioni certe.

Va infine osservato che non sempre scienziati e istituzioni applicano metodi davvero trasparenti nella restituzione dei dati di ricerche e monitoraggi: frequentemente gli allevatori lamentano il fatto che chi posiziona fototrappole o effettua altri metodi di rilevamento, anche vicino ai pascoli, poi non comunica i risultati delle proprie scoperte a chi su quei pascoli lavora tutti i giorni.

Nell’ambito del progetto LIFEstockProtect, è stata svolta in Trentino Alto Adige, Austria e Baviera una ricerca etnografica che aveva come obiettivo comprendere alcuni degli aspetti sociali e culturali legati alla convivenza con i grandi predatori utili alla promozione e alla disseminazione di misure di protezione del bestiame. Sono state realizzate trenta interviste e osservazione partecipante con pastori e allevatori. Alcuni di loro adottano da tempo misure di protezione del bestiame (in particolare sorveglianza, cani da guardiania e recinzioni elettrificate), mentre altri non adottano queste misure e per il momento non stanno prendendo in considerazione di farlo.

Le interviste vertevano sulle conoscenze degli interlocutori rispetto alla biologia e all’etologia del Lupo, sulle loro pratiche di allevamento e sull’eventuale uso di misure di protezione del bestiame, sulla creazione e circolazione dei saperi e sulla visione del futuro della pastorizia.

Dalle interviste realizzate è emerso che la principale forma di costruzione di conoscenza da parte dei pastori è la relazione diretta con gli elementi naturali. I pastori passano molto tempo ad osservare gli animali da allevamento e i cani da lavoro: il comportamento degli animali, le loro interazioni, il loro stato di salute sono oggetto di vaglio continuo. Si osserva il modo in cui i cani interagiscono tra loro, con gli animali selvatici e con quelli domestici, gli spostamenti delle greggi o delle mandrie, i corpi di singoli animali. Oltre alla vista, anche gli altri sensi sono coinvolti nella creazione e nella verifica di conoscenze: l’odore e il sapore dell’erba sono utili a valutarne la qualità e lo stato di maturazione, il suono prodotto dalle campane di un gregge al pascolo fornisce informazioni sul modo in cui gli animali si stanno muovendo, sul ritmo a cui mangiano, sul livello di gradimento dell’erba, infine, la manipolazione del corpo degli animali fornisce informazioni sul loro stato di salute.

Il modo in cui i pastori costruiscono il proprio sapere è, come direbbe Ingold (2000: 42), una questione di coinvolgimento più che di costruzione, la percezione delle cose è basata sul coinvolgimento diretto del sé nella condivisone di esperienze concrete con altri attori del mondo circostante (Ibid: 47). I pastori condividono con i propri animali una grande quantità di tempo, si spostano insieme a loro attraverso gli alpeggi, costruiscono un sistema complesso di relazioni che comprende loro stessi, i cani da lavoro, le greggi, l’erba a disposizione, i predatori.

La quantità di tempo spesa all’aria aperta, lavorando e osservando gli animali, è un elemento fondamentale nella costruzione del sapere. Molti pastori affermano che solo l’esperienza e il tempo speso a lavorare con gli animali permettono di costruire delle conoscenze e di prendere decisioni adeguate alle situazioni. Uno degli aspetti spesso contestati ai tecnici faunistici, ai forestali, agli scienziati è il fatto che non spendano davvero il loro tempo sul campo, ma si limitino a brevi visite o campagne di ricerca.

L’esperienza diretta e l’essere sempre sul campo è anche alla base dell’autorevolezza riconosciuta ad altri nella trasmissione dei saperi su certi argomenti. Le opinioni e le esperienze di altri pastori, specie se vicini in termini spaziali, e quindi conoscitori del territorio, sono particolarmente rilevanti e costituiscono, dopo l’esperienza personale, la principale fonte di conoscenze.

I pastori che impiegano cani da guardiania per la protezione del loro bestiame, ricorrono ad altri pastori più esperti per chiedere consigli sulla gestione degli animali, sul loro comportamento e sulla loro salute. Spesso, il pastore che cede o vende i cani è considerato fonte autorevole, a cui si ricorre in caso di dubbi sul comportamento degli animali o quando il rischio di predazioni è percepito come più elevato del solito. La scelta di un cucciolo si basa il più possibile sull’osservazione del suo comportamento e eventualmente di quello dei genitori, il pedigree certificato non è considerato, invece, elemento importante nella scelta.

Le persone al di fuori della cerchia dei pastori che riescono a guadagnare fiducia e autorevolezza nei loro confronti, sono quelle che spendono più tempo di altri sul campo. Un esempio sono i cacciatori, generalmente considerati buoni conoscitori del territorio e della fauna, anche se non sempre le loro conoscenze risultano direttamente utili al lavoro del pastore. In alcuni casi, i pastori allacciano rapporti di fiducia con personale dei parchi, o di determinati progetti, o guardie forestali, ma questo avviene sulla base della condivisione di tempo ed esperienze e del riconoscimento del coinvolgimento dell’altro con l’ambiente circostante, mentre la posizione istituzionale o gli studi realizzati da questi soggetti risultano meno importanti nel riconoscimento dell’autorevolezza.

I pochi casi nei quali la condivisione di conoscenze da parte di tecnici e specialisti ha avuto successo sono stati quelli in cui questo sapere specializzato è stato messo in dialogo con le conoscenze e le percezioni locali. Un esempio è quello del lavoro di Landry (2015) i cui dati sulle interazioni tra cani da guardiania e lupi, condivisi con pastori e allevatori, hanno spinto questi ultimi a riconsiderare le proprie valutazioni sul rischio di predazione degli animali e sull’efficacia dei cani da guardiania come strumento per la protezione del proprio bestiame. In questo specifico caso, una grande quantità di materiale audiovisuale è stata messa a disposizione degli allevatori e dei pastori e discusso insieme a loro, scambiando interpretazioni sui diversi tipi di interazioni osservate.

La co-costruzione di saperi condivisi può avvenire anche quando questi non hanno a che fare direttamente con elementi di prevenzione dei danni o di riduzione del rischio: nel delta del Danubio sono state collocate sette fototrappole nei dintorni di un villaggio, con l’obiettivo di raccogliere dati sulla presenza e il comportamento dello Sciacallo dorato. Il materiale raccolto è stato mostrato agli abitanti del villaggio e discusso con loro dopo una prima indagine etnografica sulle conoscenze e le percezioni locali su questa specie. Questo ha contribuito allo scambio di conoscenze sulla specie, ma anche ad una migliore comprensione da parte dei ricercatori delle attitudini e delle preoccupazioni degli abitanti. L’osservazione condivisa dei materiali raccolti con le fotorappole e le interviste realizzate con gli abitanti hanno inoltre permesso ai ricercatori di individuare i comportamenti dello sciacallo dorato che più destavano curiosità o preoccupazione da parte degli abitanti e ad inserirli nel contesto più ampio della relazione uomo-natura in quello specifico contesto socio-culturale (Tanasescu, Constantinescu 2019).

Il riconoscimento della legittimità di diversi tipi di conoscenze e di modalità di costruzione delle stesse apre la strada ad un dialogo più costruttivo per la ricerca di soluzioni accettabili per tutti.

Un’adeguata comprensione dei modi di creazione e di circolazione del sapere può consentire un notevole miglioramento dei metodi utilizzati per la condivisione di informazioni e di buone pratiche. A seguito della ricerca svolta per il progetto LIFEstockProtect, sono state create una serie di raccomandazioni da prendere in considerazione per la programmazione di corsi di formazione e momenti di scambio tra pastori, e la creazione di centri di formazione nei quali i pastori e allevatori interessati potranno osservare direttamente l’utilizzo di metodi di protezione del bestiame.

La coesistenza possibile tra allevatori e predatori costituisce non solamente un elemento fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi di conservazione delle specie, ma anche una nuova opportunità per pensare le relazioni tra esseri umani e animali per tutti gli attori coinvolti.

Difficoltà e sfide per il futuro

L’ingresso delle scienze sociali nel mondo della conservazione della biodiversità non è una completa novità. Le riflessioni su ciò che nell’ambito della conservazione della biodiversità viene definito Human Dimension, e che comprende gli aspetti psicologici, sociali e culturali legati a questo aspetto esistono da qualche decennio.

Nella maggior parte dei casi, però, quando questo tipo di tematiche viene inserito nelle attività di conservazione di specie particolarmente significative per gli esseri umani con cui convivono, si ricorre a metodi quantitativi per misurare attitudini e livelli di accettazione delle persone. In alcuni casi queste ricerche vengono fatte in modo piuttosto dettagliato, mettendo in relazione gli elementi di accettazione con fattori come l’età, il genere, la categoria lavorativa, la situazione abitativa (città/campagna), l’esperienza con le attività all’aria aperta e la sensibilità a temi ambientali in generale (cfr. Caluori and Hunziker 2001; Kaczensky 2006, Majic 2007; Majic e Bath 2010; Piédallau et al. 2016).

Nell’ambito dei programmi LIFE è obbligatoria la misurazione dell’efficacia dei progetti anche sulla base di eventuali cambiamenti nelle attitudini e nei livelli di accettazione delle specie target dei progetti attraverso apposite indagini quantitative Ex-Ante e Ex-Post (cfr. Majic-Skrbinšek, Skrbinšek, 2018; LIFE WolfAlps, n.d b.)

Sebbene le indagini quantitative possano essere uno strumento utile per conoscere in generale le attitudini di un grande numero di persone e per osservare eventuali cambiamenti nell’orientamento e nelle idee del pubblico, risultano molto meno utili quando si tratta di mettere in pratica le azioni di conservazione in contesti sociali e culturali concreti.

La ricerca etnografica può invece offrire al mondo della conservazione gli strumenti per comprendere più a fondo i gruppi umani con i quali si trova a lavorare, tessendo relazioni più o meno conflittuali.

Le questioni sulle quali l’antropologia e la ricerca etnografica possono offrire un contributo sono molte: l’accesso a diversi modi di concepire e di vivere la relazione con la natura e con gli animali; la comprensione dei modi in cui le persone costruiscono e applicano il proprio sapere, il riconoscimento degli elementi culturali che influiscono sulla percezione di determinate specie animali.

Alcuni recenti sviluppi teorici e metodologici, che hanno proposto di superare una visione naturalista del mondo e di considerare anche la capacità di agency degli animali, favoriscono certamente la collaborazione tra antropologia e discipline naturalistiche. La proposta di Haraway (2008) di considerare la relazione tra umani e altre specie animali come un processo di “divenire con”, e l’etnografia multispecie (Kirskey, Helmreich 2010; Van Dooren et. al 2016) offrono importanti strumenti teorici e metodologici per affrontare la complessità dei temi connessi alla conservazione della biodiversità. Un approccio di questo tipo consente di mettere in evidenza come il rapporto tra umani e animali sia il frutto di una storia condivisa, nella quale diverse specie, attraverso l’osservazione reciproca e l’esperienza dei rispettivi comportamenti hanno appreso le une dalle altre. Anche per quanto riguarda le scienze naturali, esiste una certa consapevolezza del fatto che la relazione umani animali, anche quella di studio, va oltre l’osservazione oggettiva di dati e fatti.

La presenza di scienziati sociali nelle organizzazioni votate alla conservazione della biodiversità può anche, come fanno notare Bennett et al (2017), favorire processi di consapevolezza e di riflessione all’interno delle organizzazioni stesse, e aprire la possibilità a schemi e metodi diversi per la conservazione della biodiversità. Come sottolineato da Fox et al (2006: 217) la conservazione della biodiversità è un’azione umana necessariamente influenzata da fattori sociali e culturali

La collaborazione tra scienze sociali e conservazione della biodiversità porta con sé anche alcune importanti problematiche metodologiche e pratiche.

In primo luogo, la collaborazione interdisciplinare deve essere aperta alla diversità di metodologie e di risultati. Non è sempre facile, per chi pratica discipline più quantitative, comprendere quale possa essere il prodotto di una ricerca etnografica e come possa essere utilizzato sul campo. Allo stesso modo, chi è abituato a ricerche qualitative a volte fatica a creare documenti utili ad intervenire nei tempi tipici dei progetti di conservazione.

Le difficoltà metodologiche non si limitano agli strumenti utilizzati e ai prodotti della ricerca ma anche alle tempistiche: le necessità di una ricerca etnografica, in termini di raccolta documentale e analisi dei dati, non sono sempre compatibili con i progetti di conservazione, e può essere difficile far comprendere queste necessità agli esperti di altre discipline.

Vanno infine prese in considerazione anche difficoltà legate all’assetto istituzionale e organizzativo del mondo della conservazione: questa pratica è nata e si è sviluppata nel contesto delle scienze naturali, non di quelle sociali, e questo ha senza dubbio influenzato le culture organizzative, il modo in cui si prendono le decisioni, la legislazione i regolamenti (Bennett et al 2017: 61)

Nonostante queste difficoltà, la partecipazione degli scienziati sociali ai progetti e alle pratiche di conservazione della biodiversità costituisce uno strumento importante per la gestione dei conflitti e per il raggiungimento degli obiettivi minimi di conservazione delle specie considerate come prioritarie dalla direttiva Habitat.

Al di là poi delle dimensioni tecniche e legislative, una disciplina come l’antropologia, naturalmente vocata alla creazione di spazi di dialogo e di confronto tra punti di vista diversi, può favorire la creazione di situazioni di convivenza accettabili per le parti in causa.

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[1] In anni molto recenti si è osservata anche l’espansione dello sciacallo dorato (Canis aureus).

[2] Nel 1971 il Decreto Ministeriale Natali ha proibito la caccia al Lupo e l’uso di bocconi avvelenati e nel 1976 il Lupo è stato dichiarato specie integralmente protetta dal Decreto Ministeriale Marcora. Da allora la legislazione sul Lupo e su altre specie di grandi carnivori ha continuato ad evolversi. Ad oggi la Direttiva Europea Habitat (92/43/CEE) costituisce la fonte da cui discende la normativa italiana sui predatori.

[3] Il programma LIFE è lo strumento di finanziamento dell’Unione Europea per l’ambiente e il clima. Ha come obiettivo l’implementazione e lo sviluppo della policy europea su questi temi e agisce attraverso il cofinanziamento di progetti.

[4] Il tema degli animali vicino alle case colpisce particolarmente quando si tratta di predatori, ma questi ultimi non sono l’unica specie che preoccupa. Anche i cinghiali, a volte, vengono visti come invasori (Mounet 2006).

[5] Intervista ad allevatore raccolta dall’autore in Trentino il 18 luglio 2021.

[6] Intervista ad allevatore di pecore raccolta dall’autore, Parco delle Orobie Bergamasche, 17 agosto 2020

[7] Intervista a pastore raccolta dall’autore, Trentino, 18 luglio 2021

[8] Si veda ad esempio Life wolfalps n.d. a, http://www.protezionebestiame.it/, e i rapporti annuali della Provincia di Trento sulla presenza dei predatori.