Trasformazioni nelle scienze del comportamento animale:

verso il riconoscimento di emozioni, intenzionalità, pensiero e coscienza

Annalisa D’Orsi

Associazione Himby

Indice

Gli animali come macchine biologiche
Vita mentale ed emozionale degli animali in quanto “tabù”
Donald Griffin e altri pionieri
“Antropodiniego”, “umanicità” e altri pregiudizi
L’affermarsi della visione cognitiva
Nuovi paradigmi epistemologici
Per concludere: brevi considerazioni etiche
Bibliografia

Abstract. The scientific representation of animals has often claimed a strong objectivity. However, it has gone through some very deep transformation. Whereas the possibility of animal emotions and thoughts has been long denied by the majority of scholars in the last century, from the late ’90s, thanks to the work of some pioneers, and to the important progress achieved in the field of neuroscience, the scientific perspective on animals has undergone major changes and now increasingly questions ethics and laws. This paper traces the anthropocentric bias of the mechanistic approach to animal behavior. On the other hand, it follows the emergence of cognitive perspectives and new epistemological paradigms showing an important continuity with the decentralization process undertaken by Alexander von Humboldt, Charles Darwin and Jakob von Uexküll. Following their legacy, the best naturalists have been introducing in our society elements of thought that are strongly subversive from the viewpoint of dominant ontology. Alongside, the participatory turn that distinguishes the field work of many contemporary ethologist is filling the gap between animal and social sciences, particularly ethology and cultural anthropology.

Keywords. Cognitive ethology; animal mind; human-animal continuity; intersubjectivity; naturalistic ontology.

La rappresentazione scientifica degli animali ha spesso rivendicato una forte oggettività. Eppure, è andata incontro a profonde trasformazioni. Mentre la possibilità stessa di emozioni e pensieri animali è stata a lungo negata dalla maggior parte degli studiosi del secolo scorso, dalla fine degli anni Novanta, grazie anche al lavoro di alcuni pionieri, nonché a notevoli progressi realizzati nell’ambito delle neuroscienze, la visione degli scienziati del comportamento animale è notevolmente cambiata e interroga sempre più anche l’etica e il diritto.

La storia e le ragioni di questa evoluzione sono appassionanti per quanto ci insegnano sulle altre specie, aprendoci orizzonti di conoscenza estremamente affascinanti. Ma proseguono e approfondiscono, anche, quel processo di decentramento dell’uomo compiuto da Alexander von Humboldt, Charles Darwin e Jakob von Uexküll e di cui i migliori naturalisti sono sempre stati, a mio parere, gli eredi, introducendo nella nostra società elementi di pensiero fortemente sovversivi rispetto all’antropocentrismo che ha caratterizzato l’ontologia dominante.

D’altro canto, la persistenza di posizioni discontinuiste che, persino nelle scienze del comportamento animale, hanno continuato a erigere un baluardo fra gli esseri umani e le altre specie animali, può essere considerata come un’interessante finestra che permette di osservare alcuni radicati pregiudizi culturali che hanno frequentemente influenzato, e in molti casi strutturato, la ricerca scientifica.

Gli animali come macchine biologiche

Nella nostra società, il senso comune attribuisce frequentemente delle forme di sensibilità e d’intelligenza a molti animali, per quanto vengano poi quasi sempre giudicati fortemente “inferiori” rispetto alla nostra specie. Ma se nella seconda metà dell’Ottocento, grazie alla crescente accettazione della teoria evoluzionista, tale posizione era sostanzialmente condivisa da naturalisti e psicologi, nel corso del Novecento, l’attribuzione agli animali di emozioni, intenzionalità e ragionamento è stata piuttosto considerata dagli studiosi come una rappresentazione popolare e ingenua.

Gli etologi Donald Griffin e Frans de Waal hanno dedicato importanti pagine per cercare di spiegare questo passaggio e il prevalere di una prospettiva discontinuista nelle scienze del comportamento animale del xx secolo. Mentre il pensiero nella seconda metà dell’Ottocento era stato relativamente libero e aperto, considerando perfettamente accettabile parlare di vita mentale ed emozionale degli animali, le due scuole che hanno dominato lo studio del comportamento animale nel secolo scorso «condividevano un punto di vista fondamentalmente meccanicistico» (de Waal 2016: 14). Per il comportamentista puro, gli animali erano «macchine stimolo-risposta in grado di ottenere gratificazioni o di evitare punizioni», mentre gli etologi sembravano considerarli alla stregua di «robot dotati geneticamente di istinti utili» (ibidem). Queste posizioni finirono poi per intrecciarsi in una visione che sostanzialmente negava la continuità fra esseri umani e animali.

Il behaviorismo spiega, in effetti, il comportamento animale[1] attraverso delle catene di apprendimento associativo. Gli animali, studiati in laboratorio sulla base di problemi sperimentali semplici e ripetitivi, in uno stato di frequente deprivazione alimentare e sociale[2], sono considerati esseri passivi condizionati da rinforzi (stimoli ambientali positivi o negativi) che essi imparano ad associare automaticamente a una determinata azione. Pensiamo, per esempio, ai ratti nella gabbia di Skinner, condizionati a premere o meno delle levette a seconda dei rinforzi ricevuti.

Sorprendentemente, gli animali appaiono come esseri fondamentalmente passivi anche nel lavoro di molti etologi. L’etologia, che si è interessata al comportamento spontaneo delle specie animali, valorizzando soprattutto l’osservazionein natura, riconosce nel comportamento animale una pluralità di modelli istintivi invarianti. Come evidenziato da Konrad Lorenz, il comportamento di ogni specie, proprio come le sue caratteristiche fisiche, sono stati plasmati dalle leggi dell’evoluzione. L’accento è messo sulla funzione adattiva e sull’ereditarietà di specifici moduli comportamentali innati mentre le domande sulla vita interiore degli animali vengono ampiamente evitate.

De Waal ha attribuito il trionfo del comportamentismo nella psicologia comparata del Novecento ai risultati scarsi e poco credibili prodotti dall’uso incontrollato del metodo introspettivo e di osservazioni aneddotiche da parte di studiosi come George Romanes, biologo e psicologo d’impostazione evoluzionista che Darwin designò come proprio successore. Paradossalmente, Romanes nominò a sua volta lo psicologo britannico Lloyd Morgan che, nel 1894, formulò una celebre raccomandazione a cui si deve un radicale cambiamento di rotta nella psicologia comparata. Nota come “canone di Morgan”, tale raccomandazione invitava gli psicologi a non attribuire agli animali competenze cognitive complesse se le loro azioni potevano essere interpretate mediante l’esercizio di facoltà situate «più in basso [...] sulla scala psicologica» (de Waal 2016: 61).

Considerato da generazioni di psicologi come una «variazione del rasoio di Occam» (ibidem: 62), secondo il quale la scienza dovrebbe cercare spiegazioni semplici e parsimoniose, con il minor numero possibile di assunti, il canone di Morgan spinse molti studiosi a considerare gli animali come macchine stimolo-risposta. In realtà, neppure per Morgan la semplicità andava considerata intrinsecamente come una garanzia di verità. In seguito, per maggior chiarezza, lo studioso aggiunse che delle spiegazioni cognitive complesse potevano essere ragionevolmente formulate per le specie che avevano già dato prova di grande intelligenza (ibidem: 60-61; vedi anche Griffin 2017: 85; de Waal 2002: 56).

Da parte dell’etologia, l’astensione da domande di tipo cognitivo fu forse, innanzitutto, «un passo obbligato per una scienza empirica nascente» (de Waal 2016: 63), che doveva affermare la propria credibilità e oggettività nell’ambito delle scienze naturali. Venne privilegiato un approccio fortemente osservazionale e, tranne alcune importanti eccezioni, l’intera questione della vita mentale degli animali fu evitata. Ma se all’inizio, come ha evidenziato Griffin, si trattò di una metodologia salutare, in quanto permetteva di limitare proiezioni e congetture che non era possibile provare, e sgombrare il campo dalle idee preconcette del passato, questa divenne rapidamente una rigida «camicia di forza mentale» (Safina 2018: 52), anche a causa del progressivo prevalere di un clima culturale di tipo behavioristico (Griffin 1984: viii).

Effettivamente, malgrado grandi divergenze iniziali, le due scuole cominciarono progressivamente ad avvicinarsi a partire dagli anni Cinquanta. Mentre, nella psicologia comparata, andava maturando il riconoscimento del ruolo delle forze evolutive nel comportamento animale, sul versante dell’etologia, si riconobbe l’influenza dell’ambiente e dell’apprendimento nei comportamenti innati. Gli etologi iniziarono a ricorrere più diffusamente a esperimenti controllati in laboratorio per verificare le loro ipotesi di ricerca ma aderirono anche a una visione riduzionista che privilegiava a priori le spiegazioni (considerate) più semplici, ponendo di fatto un veto sullo studio della vita cognitiva ed emotiva animale (de Waal 2016: 77-78, 80). L’influenza del comportamentismo si rifletteva inoltre nel linguaggio adottato dagli etologi, nel denso gergo scientifico e nell’uso abbondante di espressioni virgolettate per evitare ogni connotazione mentalistica che avrebbe potuto suggerire la presenza di esperienze soggettive negli animali osservati. Tale «behaviorismo semantico», come Griffin lo ha definito, produceva (e continua a produrre)[3] descrizioni del comportamento animale che possono essere indifferentemente applicate anche a degli automi (Griffin 1986: 191; vedi inoltre Griffin 2017: 65-66; Griffin 1999: 161; de Waal 2016: 217).

Griffin ha descritto lo scivolamento di psicologi e biologi nel secolo scorso da una posizione agnostica verso una posizione dogmaticamente negazionista in merito all’esistenza di processi mentali e coscienza al di fuori della nostra specie. Da una comprensibile prudenza metodologica, si arrivò alla convinzione che ciò che non poteva essere affrontato efficacemente con i metodi scientifici abituali fosse trascurabile o addirittura inesistente (Griffin 2017: 67-68). L’etologo Marc Bekoff, fra i primi a seguire le tracce di Griffin, ha fatto anche notare l’esistenza di una stretta correlazione fra la rappresentazione meccanicistica degli animali e la predilezione degli scienziati per spiegazioni deterministiche, basate su regole fisse e rigide (Bekoff 2003: 137). Di fatto, la cognizione animale è stata considerata un «ossimoro» fino agli anni Ottanta avanzati (Griffin 1999: 314; de Waal 2016: 23).

Vita mentale ed emozionale degli animali in quanto “tabù”

Molteplici etologi e biologi contemporanei hanno descritto il percorso accademico convenzionale nei termini di un efficace “indottrinamento”. Diverse generazioni di studenti sono state profondamente condizionate a negare la conoscibilità, la rilevanza e persino l’esistenza di una vita mentale animale. L’ipotesi che le altre specie animali provassero sensazioni ed emozioni o detenessero intenzioni e pensieri coscienti veniva liquidata come una forma di antropomorfismo, di romanticismo, di sentimentalismo infantile (o femminile) e anche, significativamente, di animismo. «Tutto il nostro sistema educativo insegna agli studenti che è ascientifico chiedersi che cosa un animale pensi o quali sono i suoi sentimenti. Problemi come questi vengono decisamente scoraggiati, messi in ridicolo e trattati con aperta ostilità», scriveva Griffin nel 1984 (Griffin 1986: viii). Questo «clima d’opinione behavioristico» (ibidem) agiva secondo lui come un pesante filtro semplificatore e paralizzante, impoverendo la letteratura e frenando fortemente il progresso scientifico. Esso inibiva ogni ricerca sulla vita cognitiva degli animali, portava a trascurare i comportamenti che più sembravano suggerire forme di pensiero cosciente, pianificazione, innovazione e flessibilità, orientava le scelte di pubblicazione delle riviste accademiche e induceva i ricercatori a non riferire le osservazioni che, in quel contesto, avrebbero potuto mettere in discussione la loro rispettabilità di studiosi (ibidem: 21-22). Anche l’ecologo Carl Safina ha recentemente sottolineato come la questione del pensiero e delle emozioni animali sia stata per molto tempo un vero e proprio «career killer» (Safina 2018: 53). «Perfino le inferenze più logiche e fondate riguardanti le motivazioni, le emozioni e la consapevolezza degli animali potevano far naufragare le prospettive professionali di uno scienziato» (ibidem). Ancora nel 1991, nella prestigiosa rivista Quartely Review of Biology, Sonja Yoerg scriveva che studiare le abilità cognitive degli animali non era un progetto che avrebbe consigliato a coloro che, in università, non avevano un incarico di ruolo (Bekoff 2003: 152).

La diffusa e radicata riluttanza delle correnti scientifiche prevalenti nel Novecento ad ammettere anche solo la legittimità di ricerche che s’interrogassero su eventuali esperienze mentali animali è stata descritta da Griffin come una posizione dogmatica, ascientifica e contraddittoria, un atto di fede, con forti risonanze emotive, che doveva essere attribuito a profondi pregiudizi culturali e filosofici, in particolare a un viscerale sentimento di superiorità umana. Le obiezioni sollevate contro lo studio della cognizione animale hanno, per Griffin, e numerosi etologi cognitivi dopo di lui, una natura fortemente ideologica e manifestano un significativo ritardo anche rispetto alla psicologia cognitiva.

Le indubbie difficoltà che comporta lo studio della cognizione animale (non è possibile osservare direttamente quanto accade nelle menti degli animali) non giustificano affatto una rinuncia a priori. Del resto, la ricostruzione di sequenze evolutive nella fisiologia e nel comportamento degli animali da parte dei biologi e degli etologi richiede un maggior numero di congetture difficilmente verificabili rispetto allo studio della vita mentale di animali di cui è possibile osservare il comportamento “qui e ora”, anche allestendo opportuni esperimenti (Griffin 1986: 36-37; Bekoff 2003). Per quanto riguarda l’applicazione del canone di Morgan, è stato sottolineato che le spiegazioni cognitive possono essere molto più parsimoniose rispetto alle lunghe catene di apprendimento associativo che occorre ipotizzare per spiegare dei comportamenti complessi e flessibili (Griffin 2017: 53, 99; Griffin 1986: VII, 134-135). Del resto, il ricorso sistematico alle spiegazioni più semplici, oltre a deformare la nostra comprensione del comportamento di molte specie, non è necessariamente parsimonioso dal punto di vista evoluzionistico, postulando un salto fra il sistema nervoso animale e quello umano difficilmente conciliabile con la teoria dell’evoluzione (de Waal 2016: 62; Griffin 2017: 87) come pure con le importanti somiglianze riscontrate a livello neurofisiologico (Safina 2015).

La filosofa della scienza Vinciane Despret ha fatto notare a sua volta come la necessità di avere dati statisticamente rilevanti e riproducibili in laboratorio in condizioni controllate abbia indotto numerosi scienziati a scartare a priori osservazioni significative sul comportamento animale in quanto rare e inattese e spesso compiute in natura in condizioni difficilmente controllabili (Despret 2016: 48).

Di fatto, nel corso del Novecento, e malgrado un consenso generalizzato per la teoria evoluzionistica, è andata affermandosi più o meno esplicitamente una visione dicotomica che contrapponeva il comportamento umano, pensato come intenzionale, intelligente e culturale, a quello di tutte le altre specie animali, che veniva invece ricondotto a istinti innati e a forme di apprendimento ambientale basate su automatismi (de Waal 2016: 80; Marchesini 2009, 2013). Gli animali erano studiati come soggetti fondamentalmente passivi, privi di intenzioni, obiettivi e strategie. Ma ci furono anche importanti eccezioni. Innanzitutto Donald Griffin, non a caso, come vedremo, ampiamente citato da Descola.

Donald Griffin e altri pionieri

A partire dal 1976, dopo aver pubblicato il libro The Question of Animal Awareness (“L’animale consapevole”), Griffin (1915-2003) si trovò a essere fortemente osteggiato e persino marginalizzato dalla comunità scientifica. L’etologo, uno scienziato altamente stimato per aver scoperto il sistema di ecolocalizzazione dei pipistrelli, non si limitava ad attribuire agli animali alcune semplici forme di cognizione, ma riteneva del tutto verosimile la possibilità che fossero dotati di pensieri ed emozioni coscienti. Non sorprende, secondo de Waal, che proprio lo studioso che aveva compreso il sistema di ecolocalizzazione dei pipistrelli (usato per orientarsi, evitare gli ostacoli e dare la caccia agli insetti), sia diventato uno dei primi fautori della cognizione animale. I pipistrelli elaborano un immenso insieme di echi prodotti dalle loro continue vocalizzazioni ultrasoniche trasformandoli in percezioni e conoscenze e, sulla base di queste mappe mentali, regolano il proprio comportamento. Il tutto avviene inoltre al di fuori dei limiti del nostro campo percettivo (de Waal 2016: 23-24, 37-39).

Nel libro del 1976, Griffin annunciava la nascita dell’etologia cognitiva come nuovo ambito d’investigazione sperimentale e scientifica, costruito sulla base di ipotesi verificabili e metodi obiettivi. Tre libri successivi, nel 1984, 1992 e 2001, approfondiscono ulteriormente le sue argomentazioni, anche attraverso un vaglio attento della letteratura scientifica passata e recente e l’adozione di una prospettiva naturalistica comparata. Griffin utilizza il termine cognitivo nella più vasta accezione di pensiero e conoscenza coscienti piuttosto che nel senso, a lungo privilegiato dalla psicologia cognitivista, di mera elaborazione delle informazioni, come potrebbe essere quella svolta da un computer. L’analisi delle conoscenze attuali sulle specie animali mostra piuttosto la complessità, l’intenzionalità, la versatilità e l’appropriatezza del comportamento animale. Le esperienze mentali sembrano verosimilmente diffuse in tutti gli animali ma, come aveva ipotizzato Darwin, differiscono in termini di carattere e grado. La radicalità delle tesi di Griffin è evidente nell’importanza attribuita al pensiero cosciente il quale conferisce, per lo studioso, un importante vantaggio adattivo e pare fondamentale persino per gli insetti che, date le piccole dimensioni del loro cervello, non potrebbero permettersi di memorizzare una grande quantità d’istruzioni comportamentali particolareggiate (Griffin 1986: viii; Griffin 2017: 120-121). La riflessione cosciente risulta particolarmente visibile quando gli animali comunicano intenzionalmente, quando adattano il proprio comportamento in modo flessibile e appropriato a circostanze nuove, quando danno prova d’innovazione e creatività individuale oppure mostrano forme di predizione e pianificazione deliberata. Nascondersi, cooperare o ancora simulare sono a loro volta comportamenti significativi. L’etologo nutre inoltre molte aspettative nei confronti delle neuroscienze.

Le tesi di Donald Griffin sono state presentate dall'antropologo Philippe Descola in Oltre natura e cultura come estreme e fortemente isolate nel contesto delle scienze naturali contemporanee (Descola 2021: 209-215). Senza sminuire il valore innovativo del pensiero di questo grande etologo che, con i suoi libri coraggiosi, ebbe, a suo tempo, «un effetto potentemente liberatorio» per tutta una generazione di studiosi (de Waal 2016: 39), occorre riconoscere tuttavia che, tanto nell’ambito delle scienze naturali quanto in quello della psicologia comparata, si sono avvicendati, prima e dopo di lui, una molteplicità di pensatori affini[4].

Innanzitutto Darwin[5]. Se Griffin e gli etologi cognitivi contemporanei si richiamano costantemente al lavoro rivoluzionario di questo grande naturalista, non è certo un caso. Charles Darwin (1809-1882), che è considerato il primo scienziato ad avere studiato sistematicamente le emozioni animali[6], attribuiva esplicitamente emozioni e facoltà cognitive alle altre specie ed era convinto che la mente umana differisse solo per grado[7]. Il suo pensiero è stato frequentemente paragonato a quello di Copernico per aver rotto con una tradizione intellettuale fortemente antropocentrica. Se l’esistenza di una continuità evolutiva graduale fra tutte le forme viventi era stata ipotizzata, già mezzo secolo prima, dal nonno Erasmus Darwin (1731-1802), da Lamarck (1744-1829) e da Goethe (1749-1832), a Charles Darwin va il merito di essere riuscito a spiegare il processo evolutivo attraverso la teoria della selezione naturale e aver dimostrato le sue tesi con metodo scientifico, attraverso la paziente raccolta di un grande numero di prove (Barlow 2008; de Waal 2016: 162-163; Wulf 2017: 28-53).

Nella seconda metà dell’Ottocento, l’evoluzionismo ispirò del resto una visione continuista anche in molti psicologi. Menzioniamo, oltre a George Romanes, considerato il fondatore della psicologia comparata, anche William James (1842-1910) che, nell’influente libro The Principles of Psychology (1890), riteneva che l’origine della coscienza dovesse essere pensata in una cornice graduale piuttosto che come «l’irruzione nell’universo di una nuova natura» (Godfrey-Smith 2018: 11).

Per quanto riguarda la fine del xix secolo e i primi decenni del xx secolo, pare importante ricordare anche l’approccio biosemiotico del biologo estone Jakob von Uexküll (1864-1944), che utilizzò il concetto di Umwelt (traducibile come “ambiente soggettivo”) per descrivere il modo distinto con cui ogni organismo percepisce l’ambiente che lo circonda e lo interpreta in funzione del proprio sistema percettivo e delle proprie particolari esigenze. Oggi, il pensiero di Uexküll è diventato estremamente attuale. Anticipando l’etologia cognitiva, questi contestava una lettura meccanicistica della psicologia animale, faceva degli animali dei soggetti e attribuiva alla scienza il compito di esplorare gli Umwelten delle varie specie animali (de Waal 2002: 62; Lestel, Brunois, Gaunet 2006; de Waal 2016: 19-21; Piazzesi 2017)[8]

Anche Konrad Lorenz (1903-1989) e Niko Tinbergen (1907-1988), che insieme a Karl von Frisch sono considerati i padri fondatori dell’etologia[9], non trascurarono del tutto la cognizione animale. Ma, mentre Tinbergen non vi lavorò mai apertamente[10], Lorenz analizzò i movimenti intenzionali negli uccelli[11] e s’interessò esplicitamente alle esperienze soggettive degli animali, sforzandosi di convincere i propri colleghi della possibilità di studiare scientificamente la coscienza animale (Griffin 1986: 5, 14; Griffin 1999: 33; Griffin 2017: 59; Bekoff 2003: 77-78; de Waal 2016: 63, 84). Quanto a Karl von Frisch (1886-1982), descrisse e decodificò le danze delle api, dimostrando che si trattasse di movimenti simbolici complessi e versatili usati per comunicare la direzione, la distanza e la desiderabilità del cibo o di altri elementi importanti per l’alveare (ci ritorneremo). Come è stato sottolineato, il linguaggio fortemente mentalistico adottato nei suoi testi rifletteva importanti implicazioni cognitive (Crist 2004: 27). Non a caso, gli studi dedicati alle danze delle api hanno notevolmente contribuito all’affermarsi dell’etologia cognitiva e furono ampiamenti citati anche da Griffin. Notiamo che perfino Carl Gustav Jung (1875-1961) si convinse, leggendo Frisch, che gli insetti fossero dotati di consapevolezza (Jung 1980).

Se Griffin ha ricordato una molteplicità di predecessori e di colleghi, è soprattutto Frans de Waal a passare in rassegna in modo sistematico, e con sguardo retrospettivo, il lavoro dei principali pionieri dell’approccio cognitivo al comportamento animale, raggruppandoli in tre generazioni distinte. Alla prima generazione, costretta da un clima culturale avverso a pubblicare in riviste di secondo livello e rimanere poco conosciuta dai suoi contemporanei, appartengono Köhler, Kohts, Tolman e Yerkes (de Waal 2016).

Della russa Nadia Kohts[12] (1889-1963), che lavorò a Mosca ai tempi di Stalin, non si sa moltissimo in Occidente. Ispirata da Darwin, a partire dal 1913, studiò le emozioni facciali delle scimmie, confrontando la vita emozionale e l’intelligenza di un giovane scimpanzé con quella del proprio bambino, fino purtroppo alla morte prematura dello scimpanzé. È noto che lavorò anche con tre grandi pappagalli occupandosi di cognizione negli uccelli molto tempo prima che questa acquistasse l’attuale notorietà. Negli stessi anni, dal 1913 al 1920, lo psicologo tedesco Wolfgang Köhler (1887-1967) compiva numerosi esperimenti sulla cognizione delle scimmie antropomorfe in una stazione di ricerca situata a Tenerife. Un resoconto dettagliato delle sue ricerche venne pubblicato nel 1925 nel libro L’intelligenza nelle scimmie antropoidi, oggi considerato un classico della cognizione evoluzionistica ma che un tempo, ricorda de Waal, fu ignorato e poi disprezzato. Köhler, che non nutriva dubbi sul fatto che il comportamento delle scimmie antropomorfe fosse intenzionale, studiò la risoluzione mentale dei problemi e l’utilizzo di strumenti negli scimpanzé in cattività. Fu anche il primo studioso a fare congetture sulla pianificazione del futuro nelle scimmie antropomorfe e a usare la parola “mode” per descrivere l’alternarsi di nuovi giochi fra gli scimpanzé che osservava. Esperimenti analoghi a quelli di Köhler vennero descritti, pochi anni dopo, anche dal primatologo americano Robert Yerkes (1876-1956) il quale inoltre ipotizzò, già nel 1925, che gli scimpanzé fossero in grado d’apprendere un sistema di comunicazione gestuale per comunicare con gli esseri umani.

Ma neppure il behaviorismo è mai stato una corrente di pensiero monolitica. Negli anni Venti del secolo scorso, lo psicologo Edward Tolman (1886-1959) usava esplicitamente il termine “cognitivo” per descrivere le mappe mentali dei ratti che percorrevano i suoi labirinti. Per Tolman, gli animali sono creature intenzionali, che elaborano attivamente gli indizi che li circondano e sviluppano obiettivi e attese. Lo studioso osservò per primo delle “risposte d’incertezza”: di fronte a compiti difficili, i ratti dimostravano esitazione, guardavano o correvano avanti e indietro essendo indecisi sulla decisione da prendere.

Nella seconda generazione di pionieri, de Waal annovera, oltre naturalmente a Griffin, gli psicologi Gallup, Shettleworth e Beck e i primatologi Menzel e Kummer, Imanishi e Goodall. Gordon Gallup (1941) dimostrò, negli anni Settanta, attraverso il noto test della “macchia rossa”, che gli scimpanzé sono in grado di riconoscere la propria immagine riflessa in uno specchio e interpretò esplicitamente la scoperta in termini di “autoconsapevolezza” scimpanzé[13], con grande irritazione dei behavioristi. Sara Shettleworth (1943) si emancipò da una formazione strettamente behavioristica e sviluppò un approccio alla cognizione animale che riconosceva l’importanza dei bisogni ecologici e delle forze evolutive nelle specie animali. Benjamin Beck dimostrò negli anni Sessanta che gli esperimenti sulla cognizione animale dovevano essere adeguati alla fisiologia e all’Umwelt di ciascuna specie. Così i gibboni, precedentemente considerati come primati “poco evoluti”, erano in realtà in grado di risolvere problemi complessi quando venivano sottoposti a test appropriati. Emil Menzel (1929-2012) studiò la cooperazione e la comunicazione fra gli scimpanzé, postulando obiettivi e ipotizzando soluzioni intelligenti. Mise inoltre a punto un paradigma sperimentale, che viene ancora utilizzato, per cogliere la loro comprensione del punto di vista e delle conoscenze detenute (o meno) dai loro simili. Hans Kummer (1930-2013), primatologo ed etologo svizzero, si occupò di cognizione sociale nei primati integrando l’osservazione etologica con l’uso sistematico di esperimenti controllati.

Di grande rilevanza scientifica, fu anche il pionieristico lavoro della scuola di primatologia giapponese, a partire da Kinji Imanishi (1902-1992) a cui gli etologi devono un importante cambiamento di paradigma nella ricerca sul campo nonché un’innovativa definizione di cultura che ha aperto la strada allo studio delle culture animali. Imanishi che, come Lorenz, raccomandava ai ricercatori di empatizzare con le specie studiate, dopo la Seconda guerra mondiale, iniziò a studiare le scimmie sul campo identificandole individualmente per mezzo di un nome, per poi seguirne la storia sociale attraverso le varie generazioni. Tale metodo, oggi talmente diffuso da apparire scontato, fu fortemente osteggiato in Occidente, dove l’attribuzione di nomi è stata a lungo percepita come troppo umanizzante[14]. Inoltre, avendo nel 1952 definito la cultura come «forma di trasmissione del comportamento che non poggia su basi genetiche» (de Waal 2002: 169) e avendo intrapreso, con i suoi allievi, lo studio di una prima prova di cultura animale – il lavaggio delle patate dolci in acqua di mare da parte dei macachi dell’isola di Koshima – il suo lavoro diede origine alla primatologia culturale e agli studi contemporanei sulla trasmissione culturale in un numero di specie animali che sta diventando sempre più ampio (de Waal 2002: 157-159; de Waal 2016: 71-72, 82-83).

Se, per quanto riguarda Imanishi e i suoi allievi, l’assenza di forti pregiudizi antropocentrici è stata attribuita a premesse culturali diverse e “orientali”, o “shintoiste”[15], la primatologa Jane Goodall (1934) ha sottolineato che, nel proprio caso, fu determinante il fatto di aver sviluppato, durante l’infanzia, importanti legami empatici con i propri animali domestici e di essersi recata sul campo senza alcuna formazione accademica[16] (Goodall 2000: 79-80). Goodall descrisse da subito gli scimpanzé di Gombe, in Tanzania, come esseri sociali dotati di una psicologia complessa: individui distinti, con personalità e obiettivi propri, capaci di ragionamento ed emozioni (Goodall 2003: 12-13; Bekoff 2003: 90-92; de Waal 2016: 216-217; Safina 2018: 215). Il suo approccio di ricerca, analogo per molti aspetti a quello della scuola giapponese, è stato definito dalla primatologa Biruté Galdikas come “rivoluzionario” per la lunghezza dello studio condotto sul campo, per aver attribuito agli scimpanzé dei nomi personali (piuttosto che numeri o appellazioni generiche quali “maschio”, “femmina”, “giovane”, ecc.) e per aver privilegiato un metodo che valorizzava l’empatia e la collaborazione con gli animali studiati (Galdikas 1997: 410-412)[17]. Inoltre, nel 1960, la notizia che gli scimpanzé di Gombe utilizzassero comunemente dei ramoscelli, opportunamente modificati, per catturare le termiti venne considerata cruciale in quanto «non poteva essere ricondotta ad alcuna influenza umana» e, come colse immediatamente il noto paleontologo Louis Leakey, metteva in discussione una delle principali definizioni esclusive attribuite all’umanità (de Waal 2016: 106; vedi anche Galdikas 1997: 48)[18].

Un’attenzione particolare meritano anche gli studi condotti, fra gli anni 1960 e 1980, su alcuni animali – soprattutto scimmie antropomorfe[19] – addestrati a comprendere il linguaggio umano, fosse questo l’inglese parlato, quello dei segni o ancora dei codici appositamente sviluppati che si avvalevano di fiches colorate o di tastiere munite di svariati simboli aniconici. Malgrado tali ricerche siano state diversamente valutate e persino screditate da molti linguisti[20], esse hanno comunque giocato un ruolo cruciale nell’aprire il campo alla cognizione animale. L’interazione umani-animali, in una forma mutualmente più comprensibile, mostrava di che cosa fosse capace la mente degli (altri) animali, permetteva più facilmente di cogliere il loro pensiero e le loro emozioni (Griffin 1999: 290; de Waal 2016: 130-148).

Una terza generazione di pionieri, in cui de Waal pone anche se stesso, sta ancora effettuando le proprie ricerche.

“Antropodiniego”, “umanicità” e altri pregiudizi

L’avversione, il rifiuto e numerose delle critiche rivolte alle ricerche di questi pionieri possono far pensare ai processi di resistenza che caratterizzano tutti i paradigmi scientifici di fronte a forme di pensiero innovatrici (Kuhn 1969). Ma costituiscono anche interessanti testimonianze del prevalere, in Occidente, di un’ontologia e di una cultura profondamente antropocentrica in tutto il Novecento, anche in ambito scientifico. Una cultura che, pur avendo formalmente riconosciuto l’appartenenza degli esseri umani al regno animale, di fatto ha continuato a contrapporli in modo netto e rigido, anche in assenza di prove. Questo non deve sorprendere se, come hanno giustamente sottolineato Elizabeth Povinelli e Tim Ingold (Nadasday 2007), persino gli antropologi che hanno lavorato presso i cosiddetti popoli autoctoni, pur confrontandosi con ontologie diverse dalla nostra, dove gli animali venivano considerati attori sociali dotati di coscienza e d’intenzionalità[21], hanno continuato a naturalizzare l’esistenza di una radicale discontinuità fra umani e animali e ad assumere una visione di società che escludeva a priori ogni interrelazione con le altre specie[22].

Secondo de Waal (ma anche per Griffin, Bekoff e Safina), le discussioni violente contro l’antropomorfismo degli etologi cognitivi nasconderebbero «una forma mentale predarwiniana, non conciliabile con la nozione, oggi accettata, degli esseri umani come animali» (de Waal 2016: 41). Il primatologo ha coniato il termine “antropodiniego” (che corrisponde fortemente al concetto di “antropofobia” in Safina) per indicare l’esagerazione delle differenze e la negazione dell’esistenza di somiglianze e continuità evolutive fra umani e animali riscontrata, ancora oggi, in alcuni studiosi (de Waal 2002: 57; Bekoff 2003: 95-96; Safina 2018: 55).

Se è innegabile che l’antropomorfismo possa comportare dei rischi di distorsione che vanno controllati[23], anche l’assunzione dell’esistenza di una radicale differenza dell’uomo rispetto alle altre specie, così come l’utilizzo di metodi di ricerca che escludono a priori forme di comportamento intelligente negli altri animali e bandiscono ogni forma di coinvolgimento empatico da parte del ricercatore, non sono affatto privi di rischi né sarebbero in grado di garantire una reale oggettività[24] (de Waal 2016: 41-42; Bekoff 2003: 42; Safina 2018: 50-57). Così, de Waal ha riconosciuto nella ricorrente opposizione all’antropomorfismo «non tanto una preoccupazione per l’oggettività scientifica, quanto il desiderio di tenere a distanza gli animali» (de Waal 2002: 68). Mentre l’etologo Marc Bekoff ha evidenziato come la scienza non possa pretendersi oggettiva in quanto tratta gli animali come oggetti. Al contrario, questo rende difficile scoprire la loro vita emotiva o comprendere pienamente il loro comportamento e la loro intelligenza (Bekoff 2003)[25].

Come l’antropodiniego, anche il concetto strettamente imparentato di “umanicità” è a sua volta fortemente antropocentrico. Coniato dal primatologo americano Marc Hauser[26], corrisponde fortemente, a mio parere, alla definizione di ontologia naturalista di Philippe Descola[27]. Le capacità cognitive umane sono state ritenute così eccezionali e uniche da molti scienziati da far postulare l’esistenza di una radicale discontinuità a livello delle interiorità. La continuità evolutiva viene riconosciuta al corpo ma non alla mente, una posizione che è stata descritta da de Waal come una forma di «neocreazionismo» in quanto «accetta l’evoluzione solo a metà» e pone la mente umana al di fuori della biologia (de Waal 2016: 158) [28]. Ma nella visione evoluzionista, «nessun carattere [...] viene mai dal nulla» (ibidem: 144) e, accanto ad adattamenti specifici, è plausibile ipotizzare l’esistenza di meccanismi mentali comuni (Heinrich 2019: 488).

La lista delle facoltà “uniche” attribuite agli umani è piuttosto lunga: dalla capacità di fabbricare e usare strumenti fino alla cultura, passando per l’interdizione dell’incesto, il riconoscimento facciale[29], l’imitazione, il linguaggio, la memoria, la “teoria della mente”[30], la cooperazione, l’etica, l’autoconsapevolezza e la coscienza riflessiva[31]. In alcuni casi, persino le emozioni! Illuminanti, le analisi di Griffin (Griffin 2017: 65) e de Waal (de Waal 2016: 163) sui “giochi semantici” con cui, dal Novecento a oggi, sono stati continuamente ridefiniti alcuni tratti comportamentali e cognitivi elevati a simboli dell’intelligenza umana nel momento in cui venivano riscontrati in altre specie. Così, per esempio, quando è diventato evidente che la trasmissione culturale fosse una strategia diffusa nel regno animale, alcuni scienziati hanno sostenuto che la cultura umana fosse basata su meccanismi specifici e diversi, in particolare su una forma d’imitazione “vera”, fondata sulla comprensione, e quindi cognitivamente complessa, di cui gli altri animali sarebbero stati privi. Oggi, tuttavia, contrariamente a quanto scriveva Descola in Oltre natura e cultura, esiste ormai un ampio consenso sull’esistenza di vere e proprie capacità imitative almeno nelle scimmie, nei cani, nei pappagalli, nei corvidi e nei delfini (Descola 2021: 212-213; de Waal 2016: 194-201)[32].

Ma l’antropocentrismo non si manifesta solo nella credenza nell’esistenza di una barriera netta e artificiosa fra l’uomo e gli “animali”, ma anche nell’assunzione che l’intelligenza o l’organizzazione del cervello umano possano essere considerate un metro adeguato per valutare le facoltà di tutte le altre specie, pensate lungo una scala cognitiva lineare analoga alla scala naturae di Aristotele che, da Dio e gli esseri umani, scende verso il basso, passando per gli altri mammiferi, gli uccelli, i pesci, fino agli insetti e ai molluschi.[33] Si tratta, ha sottolineato de Waal, di una prospettiva antiquata e deformante, di un «esercizio inutile» (de Waal 2016: 26) che ignora l’immensa variabilità delle soluzioni cognitive specifiche sviluppate da ogni specie, a partire da processi mentali condivisi, per far fronte ai problemi posti dalla sopravvivenza in ambienti diversi (Safina 2018: 423). Come evidenziato dall’etologo italiano Roberto Marchesini, la cognizione ha seguito «strade plurali» (Marchesini 2013: 134). Moltissime specie eccellono in abilità cognitive di cui gli umani sono privi o in cui, comunque, non potrebbero competere. Pensiamo, per esempio, all’ecolocalizzazione nei delfini o nei pipistrelli o ancora alle prodigiose capacità mnemoniche degli scoiattoli e delle ghiandaie. Sintetizza Marc Bekoff: «gli animali non sono inferiori agli esseri umani, sono ciò che sono e vanno compresi nei loro rispettivi mondi» (Bekoff 2003: 302).

Strettamente correlata alla scala naturae aristotelica, Donald Griffin, la sociologa Eileen Crist e, più recentemente, anche il neuroscienziato italiano Giorgio Vallortigara (Vallortigara 2021), hanno criticato la convinzione generale che le piccole dimensioni e la lontananza filogenetica rispetto alla nostra specie siano da considerarsi validi indicatori di assenza d’intenzionalità e di consapevolezza. Un dogma, afferma Griffin, che non è mai stato provato scientificamente[34]. Secondo questa idea preconcetta, eventuali forme di consapevolezza dovrebbero essere riscontrate solo nelle scimmie antropomorfe[35] o comunque in animali comparabili a noi per dimensioni e vicinanza nel cosiddetto “albero della vita”, mentre gli invertebrati, i pesci e persino gli uccelli sarebbero ritenuti a priori incapaci di sentimenti soggettivi, di pensiero o di progettazione coscienti.

Emblematica, la controversia suscitata dal riconoscimento della natura linguistica[36] delle danze delle api da miele. Le scoperte degli etologi Karl von Frisch e Martin Lindauer suscitarono inizialmente notevole incredulità e sorpresa dal momento che attribuivano a degli insetti un sistema di comunicazione molto sofisticato, implicante inoltre, più o meno direttamente, forme d’intenzionalità e di ragionamento. Ma finirono per ottenere un ampio consenso da parte della comunità scientifica grazie al rigore e all’evidenza delle dimostrazioni empiriche fornite[37]. Ciò nonostante, alcuni scienziati continuarono a opporsi radicalmente a quanto definivano “l’interpretazione simbolica” delle danze delle api. Ancora nel 1990, Adrian Wenner e Patrick Wells[38] attribuivano la posizione scientifica dominante (descritta come “antropomorfica” e “non parsimoniosa”) a fattori sociali non razionali: dal funzionamento del sistema accademico, alla diffusione del pensiero New Age! Come affermarono esplicitamente, non era credibile né accettabile che le api fossero dotate di un linguaggio in quanto questo contraddiceva l’esistenza di una discontinuità fisica e psichica fra gli esseri umani e gli insetti. Collocate molto in basso nel sistema filogenetico, le api non potevano che essere degli organismi passivi, interamente determinati da stimoli e istinti (Crist 2004).

L’affermarsi della visione cognitiva

Frans de Waal ha recentemente riconosciuto l’emergere di un nuovo Zeitgeist nelle scienze del comportamento animale all’inizio degli anni Ottanta del Novecento. Malgrado importanti resistenze, lo studio della vita mentale degli animali si sarebbe progressivamente diffuso e smarcato da numerosi assunti antropocentrici. Anche Donald Griffin, nel 1992, aveva riscontrato «un rinnovato interesse per la cognizione e l’intelligenza animali» (Griffin 1999: 10) e notato la comparsa di numerosi libri e articoli dedicati a questi temi. Al tempo stesso, tuttavia, il riconoscimento della coscienza animale sembrava essere rimasto un “tabù”. Mentre, secondo Griffin, la posizione che negava ogni forma di pensiero alle altre specie era ormai ampiamente superata, persino molti etologi cognitivi continuavano a considerare il pensiero animale come inconscio o comunque evitavano di prendere in considerazione esplicitamente il problema della coscienza, malgrado la sua centralità. Per questo grande etologo, la convinzione in un’esistenza “sonnambulistica” e “ignara” delle altre specie era indice di un behaviorismo latente ed era contraddetta dai copiosi e illuminanti dati ormai facilmente reperibili in letteratura sulla complessità e la versatilità del comportamento animale.

Una terza generazione di pionieri, che ha iniziato a lavorare a partire circa dagli anni Ottanta, comprende un così grande numero di ricercatori dediti alla cognizione animale che de Waal non ha nemmeno cercato di elencarli. Anche per loro si è trattato di affrontare molti pregiudizi. Così, ha sottolineato Jane Goodall, l’etologo Marc Bekoff è stato a lungo accusato di «stravaganze» per aver creduto che gli animali avessero vite emotive ricche e personali e aver affrontato la questione della coscienza. È tuttavia incoraggiante che i suoi articoli siano stati comunque accettati dalle riviste accademiche, prova evidente, secondo Goodall, di un lento ma importante cambiamento nell’atteggiamento di un numero crescente di scienziati (Goodall 2003: 12)[39]. De Waal (1948), che ha studiato le tattiche di potere[40] e, successivamente, le modalità di cooperazione, prevenzione e mediazione dei conflitti fra gli scimpanzé (soprattutto in cattività), è stato a sua volta molto osteggiato (de Waal 2016: 333-334). Analogamente, è stata una dura lotta per Irene Pepperberg (1949) convincere la comunità scientifica delle capacità dimostrate dai suoi pappagalli cenerini africani, Alex e Griffin, in grado non solo di comunicare in modo intelligente con i ricercatori, ma anche di comprendere concetti quali uguale/diverso, colore, forma, tipo di materiale, taglia relativa, reciprocità, numero e zero (Griffin 1999: 226-229; Pepperberg 2016: 172-173; de Waal 2016: 135-138).

Da alcuni anni, anche grazie alla messa a punto di dispositivi sperimentali sempre più inventivi, rigorosi e adatti alle specie animali studiate (e ai loro interessi), come all’ampliarsi e all’approfondirsi delle osservazioni sul campo, la barriera artificiosa fra cognizione umana e animale sta diventando sempre più sfumata e permeabile. Scrive de Waal: «se c’è una tendenza generale nel nostro campo, è che il muro fra la cognizione umana e quella animale ha cominciato ad assomigliare a un gruviera svizzero pieno di buchi» (de Waal 2016: 336)[41]. Parallelamente, secondo Bekoff, la ricchezza della vita emotiva degli animali e il suo fondamentale ruolo per la sopravvivenza sembrano divenute una questione di buon senso per la maggior parte degli scienziati. Importanti riviste accademiche pubblicano ormai articoli sulle emozioni negli animali – il riso nei ratti, il lutto negli elefanti, l’empatia nei topolini o l’avversione per l’iniquità nelle scimmie cappuccine[42] – e la questione non è più tanto se gli animali provino delle emozioni quanto piuttosto i motivi per cui le loro emozioni si siano evolute in determinati modi (Bekoff 2016: 125-126).

Se la primatologia è stata sicuramente determinante nell’abbattere tali barriere, la comprensione dell’intelligenza degli uccelli (in particolare corvidi e pappagalli)[43] e quella dei cefalopodi (soprattutto dei polpi)[44] sono fra gli sviluppi più significativi dell’etologia cognitiva e della psicologia animale degli ultimi decenni. Ma è stato dimostrato anche che molti invertebrati, quali granchi e gamberi, sono in grado di provare almeno alcune emozioni di base come il dolore o la paura, mentre sono state riscontrate negli insetti capacità mnemoniche, di apprendimento, ragionamento logico e comunicazione molto inattese. La cognizione pare ormai indispensabile per la sopravvivenza anche della maggior parte degli invertebrati (de Waal 2016: 310).

Dagli anni Sessanta in poi, sono state confermate e studiate le abilità strumentali di un numero crescente di specie, comprese lontre, delfini, megattere, formiche, corvi, fringuelli, aironi ed elefanti. Oggi sappiamo che una molteplicità di animali, fra cui alcuni tipi di vespe, riconoscono normalmente le facce dei loro simili, un’abilità che era stata creduta un tempo una prerogativa umana. Il riconoscimento individuale è talmente diffuso fra gli animali che certe specie, come i delfini, farebbero uso di veri e propri nomi personali (delle “firme acustiche” melodiche) con le quali identificano se stessi e i propri simili (de Waal 2016: 331; Safina 2018: 467). La cooperazione e l’empatia sono state crescentemente affiancate alla competizione in quanto motore del processo evolutivo. Alcune specie mostrano persino una preoccupazione per l’equità nelle interazioni con i propri simili. È stato dimostrato che molti animali comprendono e fanno assunzioni sui punti di vista altrui (ciò che gli altri vedono, conoscono, provano e desiderano) e adattano il proprio comportamento alla loro comprensione delle relazioni che intercorrono fra altri individui, siano questi membri della propria specie oppure no. Contrariamente alla strana convinzione che gli animali non umani siano bloccati nel presente, ricerche recenti hanno fornito un numero crescente di prove che il comportamento di molte specie sia orientato sulla base di attese, ricordi episodici dettagliati, pianificazione e obiettivi futuri (Jozet-Alves 2016; de Waal 2016: 259-295). Anche l’autocontrollo non è più considerato una prerogativa umana e forme di metacognizione[45] sono state riscontrate almeno nei ratti, nei delfini, nei macachi e nelle ghiandaie, forse persino nelle api (de Waal 2016: 288-292; Cavaillé-Fol, Pihen, Ikonicoff 2017: 51).

Settant’anni dopo le pionieristiche ricerche della scuola di Imanishi, è diventato evidente che la trasmissione culturale sia una strategia di sopravvivenza ampiamente diffusa nel regno animale. Solo fra gli scimpanzé, sono stati censiti più di quaranta utensili e circa sessantacinque tipi di comportamento culturale trasmessi dai genitori ai figli (Grundmann 2016: 34; Jouventin 2016: 77)[46] e si è scoperto che esistono gruppi di cetacei, in particolare fra le orche e i globicefali, che non si mescolano né si riproducono fra loro a causa di profonde differenze culturali (Safina 2018: 463-464). Quanto al linguaggio, sempre meno considerato come un prerequisito necessario del pensiero complesso, esso ha assunto minore rilevanza nello studio della cognizione. Sono state comunque riscontrate in diverse specie capacità di comunicazione simbolica e forme rudimentali di sintassi.

Persino la coscienza animale, posta da Griffin nel 1976 al vertice dell’inaccettabile dal punto di vista dell’ortodossia scientifica (Griffin 2017: 70), viene sempre meno ritenuta un appannaggio umano. Già nel 1992, Griffin aveva evidenziato l’emergere di «prove sempre nuove e sempre più forti del fatto che gli animali a volte pensano in modo cosciente» (Griffin 1999: 162)[47]. Significativamente, nel 2012, un gruppo di eminenti neuroscienziati ha proposto e firmato la Cambridge Declaration on Consciousness secondo cui non abbiamo, al momento, validi argomenti scientifici per negare l’esistenza di forme di coscienza nelle altre specie animali. Al contrario: «[...] insieme alla capacità di esibire dei comportamenti intenzionali [...] le prove disponibili indicano che gli esseri umani non sono gli unici a possedere i sostrati neurologici che generano la coscienza. Gli animali non umani, inclusi tutti i mammiferi e gli uccelli, e molteplici altre creature, fra cui i polpi, possiedono a loro volta questi sostrati neurologici» (mia traduzione)[48]. Tale dichiarazione è interessante anche perché riflette l’influenza crescente delle neuroscienze le quali, grazie a svariate tecniche quali l’elettroencefalogramma o la risonanza magnetica[49], stanno studiando nelle altre specie i meccanismi celebrali associati, per esempio, alle emozioni, all’attività onirica, ai viaggi mentali nel tempo, all’immaginazione (Bekoff 2003: 131; de Waal 2016: 278) e, appunto, alla coscienza[50]. Anche grazie al progresso tecnologico, la somiglianza dei nostri processi cognitivi con quelli degli altri animali sta diventando sempre più evidente.

La visione cognitiva ha dunque vinto? La risposta non è unanime ma alcuni eminenti protagonisti e osservatori delle trasformazioni in corso non sembrano avere alcun dubbio. Per de Waal e Goodall, i tempi sono effettivamente cambiati: dalla fine degli anni 1990, «forze e approcci esistenti da un secolo o più hanno preso il sopravvento» (ibidem: 341). Pur se rimangono alcuni scettici, la cognizione umana viene crescentemente considerata come «una varietà della cognizione animale» (ibidem: 15) e l’etologia cognitiva – ormai definita più frequentemente “cognizione evoluzionistica” – è diventata un ambito di studi non solo rispettabile, ma anche prestigioso, che attrae un numero crescente di studenti e riceve uno spazio privilegiato nelle riviste scientifiche (ibidem: 338; vedi anche Goodall 2016: 9).

Nuovi paradigmi epistemologici

Malgrado la persistente centralità di modelli e analisi statistiche[51], sarebbe in corso anche un importante cambiamento di natura epistemologica. Da una parte, come ha sintetizzato Ludovic Dickel, si è passati dal principio di parsimonia a quello di precauzione (Dickel 2016: 28). Ma, soprattutto, è possibile osservare un forte processo di decentramento anche a livello metodologico ed epistemologico.

Un numero crescente di ricercatori sta realizzando che i limiti cognitivi mostrati da numerose specie animali sono in realtà da attribuirsi al tipo di domande poste, ai protocolli sperimentali utilizzati e, più in generale, a una metodologia che spesso scartava a priori le osservazioni dei comportamenti più creativi e meno frequenti (Despret 2016; Bates, Byrne 2007). Così, per Telma Rowell, lo sguardo gerarchizzante di molti etologi ha fatto sì che i primati, studiati con metodi etnografici che valorizzavano le loro competenze sociali e cognitive, risultassero più interessanti di altre specie a cui l’etologia classica poneva domande più riduttive e applicava metodologie meno sofisticate (Despret 2005). Per esempio, non sono le pecore a essere limitate, quanto piuttosto il modo in cui sono state studiate.

Prendendo in considerazione ciò che conta per questi animali (non essere predati, oltre al fatto di nutrirsi), le implicazioni della vicinanza dei ricercatori al gregge (allontanamento dei predatori), i limiti delle loro domande più frequenti (disinteresse per la predazione, meno facilmente osservabile, interesse per l’ordinamento gerarchico e per la competizione più che per la cooperazione) e la gestione umana di diversi aspetti della vita del gregge (controllo esercitato sulla riproduzione, presenza dei maschi solo nella breve stagione riproduttiva), Rowell, anche attraverso la creazione di situazioni inedite[52], è riuscita a cogliere capacità cognitive e sociali insospettate (Despret 2005; Despret 2016; Briefer 2016).

Esiste oggi una significativa tendenza ad allentare il controllo esercitato dai ricercatori sugli animali in cattività, a metterli in condizioni più favorevoli e suscitare il loro interesse e la loro collaborazione[53], ad adattare maggiormente gli esperimenti agli Umwelten e ai comportamenti naturali delle specie. Anche in natura, si tratta sempre più di osservare e comprendere gli animali studiati «nei loro propri termini», aprendosi ai loro specifici modi di pensare e di sentire (de Waal 2016: 344; vedi anche Bekoff 2003: 122; Despret 2016: 45-53).

L’affermarsi di un orientamento meno antropocentrico si è tradotto anche in una crescente messa in discussione del paradigma dello scienziato come osservatore neutro e imparziale (Galdikas 1997: 410)[54]. Attualmente, per un numero crescente di etologi, quali per esempio Bekoff, Goodall, Galdikas, Rowell e Smuts, la distanza emotiva e l’assenza d’interazione con le specie studiate non sono necessariamente più euristiche rispetto alla vicinanza, alla partecipazione e all’empatia[55]. Così, George Shaller, a proposito delle proprie ricerche sui gorilla di montagna, ha affermato: «Solo considerando i gorilla creature vive e senzienti ho potuto avvicinarmi a loro e capirli, invece di rimanere uno spettatore ignorante» (Heinrich 2019: 488). Jane Goodall ha scritto: «[...] la maggior parte delle cose che ho compreso in merito a questi esseri intelligenti [gli scimpanzé] mi apparvero proprio perché mi sentivo vicina a loro sul piano emotivo» (Goodall 2000: 82). E Daphne Sheldrick: «Per capire un elefante, bisogna “antropomorfizzare”, perché dal punto di vista emotivo gli elefanti sono identici a noi» (Safina 2018:121).

Il caso dei pappagalli Alex e Griffin di Irene Pepperberg mi sembra significativo. Nel corso del Novecento, tentativi infruttuosi di addestrare i pappagalli per mezzo del semplice condizionamento operante (che associava l’imitazione di parole o frasi registrate all’erogazione di cibo) rafforzarono il pregiudizio, già diffuso, che l’imitazione del linguaggio umano non implicasse alcuna forma di comprensione da parte degli uccelli. Invece, gli importanti risultati ottenuti da Pepperberg[56], che hanno dimostrato un uso competente e ragionato del linguaggio umano nei pappagalli, sono stati conseguiti inserendo gli uccelli in un contesto sociale che imitava gli scambi interattivi che avvengono in natura. Alex e Griffin hanno potuto apprendere un importante numero di parole umane, insieme al loro significato, ascoltando ed osservando dei ricercatori umani che parlavano fra loro e interagivano con gli uccelli (Griffin 1999: 223-229; Pepperberg 2016).

Emblematico anche il resoconto che la primatologa Barbara Smuts ha dato della propria esperienza di ricerca con i babbuini. Sul campo, Smuts si accorse rapidamente che fingere d’ignorare i propri soggetti di studio, o fingere di essere un elemento del paesaggio, come dettava l’epistemologia scientifica dominante, non era affatto percepito come un comportamento neutro e rassicurante da parte dei babbuini. Non poteva trattarsi, pertanto, di un modo di procedere neutro neppure dal punto di vista scientifico. Per essere accettata, Smuts dovette piuttosto imparare a interagire con i babbuini adottando i loro codici sociali (Smuts 2001; Haraway 2008)[57]. Trasformata dalla relazione con gli animali studiati sin nelle posture corporee e nella percezione della propria identità, l’etologa ha finito per acquisire una comprensione approfondita della “prospettiva babbuina” sul mondo. Un approccio partecipativo che, del resto, ha sottolineato Vinciane Despret, ha un autorevole precedente nel lavoro di Konrad Lorenz, il quale interagiva abitualmente con i propri animali, adottando i loro codici comportamentali[58] (Despret 2013: 71).

Sul campo, ha evidenziato Despret, tanto il modo in cui molti etologi hanno praticato l’abituazione[59], quanto la regola di “non disturbare” gli animali sono stati a lungo «dettati dalle convenzioni di una scienza oggettiva» (Despret 2009: 752, mia traduzione) e pensati su presupposti behavioristici, sulla base di una separazione radicale fra osservatore e osservato (Despret 2013: 53). Anche in laboratorio, si è spesso fatto astrazione dal modo in cui gli animali potevano interpretare le situazioni sperimentali (Despret 2016) e si è assunto a priori che ogni interferenza umana dovesse essere evitata per non condizionare i risultati della ricerca.

Ma, nel lavoro di alcuni etologi contemporanei, la reciproca influenza di osservatore e osservato ha smesso di essere necessariamente un’«eterna fonte di errori» (Despret 2004: 121) per diventare il punto di partenza di una pratica di ricerca nuova e virtuosa[60]. Quando l’agency fra osservatore e osservato viene condivisa, quando si stabilisce una relazione collaborativa fra i ricercatori e gli animali studiati, gli animali non solo danno prova di migliori prestazioni, ma sono anche in grado di guidare il ricercatore verso domande più pertinenti, verso la comprensione di aspetti sempre più interessanti delle loro capacità e comportamenti.

Osservazione partecipante, intersoggettività (il “pensare con” sottolineato da Haraway e Despret), riconoscimento di un ruolo attivo agli “interlocutori” animali nel processo di ricerca, necessità di suscitare il loro interesse e la loro collaborazione, necessità di flessibilità ed empatia da parte dei ricercatori e loro progressivo decentramento: l’avvicinamento, anche epistemologico, del lavoro di alcuni etologi con l’antropologia culturale pare evidente.

Non si tratta certamente di cadere in un soggettivismo puro né di essere completamente assorbiti dalla relazione interspecifica. Proprio come in antropologia, fare l’esperienza di una relazione partecipativa con gli animali studiati viene declinato in modi e misure diversi[61] e rimane «un atto conoscitivo» (Fabietti 1999: 41), combinato con una molteplicità di procedure di distanziamento e di controllo delle proprie interpretazioni (raccolta di dati fisiologici ed ecologici, fotografie, registrazioni audiovisuali, scomposizione in moduli comportamentali, scrittura, confronto con modelli teorici preesistenti e con la letteratura scientifica, ecc.). Parallelamente, una maggiore trasparenza e consapevolezza delle premesse su cui è costruita una ricerca, come pure dello sguardo che portano gli animali studiati sul ricercatore e sulle eventuali situazioni sperimentali diventa garanzia di maggiore rigore scientifico. Anche ammettendo che non desiderino interagire, cosa niente affatto scontata, le “definizioni” di neutralità degli animali studiati possono essere estremamente diverse dalle nostre! Così, per esempio, un laboratorio asettico o una gabbia di Skinner, per un ratto, possono anche essere dei luoghi estremamente spaventevoli piuttosto che degli spazi neutri, proprio per la loro vuotezza e artificialità. E andrebbe considerato che altre specie sono sensibili a odori e suoni che noi nemmeno percepiamo!

Del resto, le critiche all’approccio partecipativo dimenticano spesso, a mio parere, che una relazione interattiva può permettere di superare più facilmente alcuni pregiudizi come pure di verificare efficacemente delle interpretazioni che, altrimenti, rischiano spesso di rimanere dei costrutti estremamente unilaterali[62]. «Per non applaudire con una sola mano, bisogna trovare l’altra» ha scritto significativamente l’antropologo Choon Soon Kim, per quanto in un contesto molto diverso.[63] (Kim 1996: 42).

Il paragone con la ricerca antropologica non è nuovo. Non si tratta solo di una metafora frequentemente evocata dagli etnologi sul campo. Negli anni Settanta, Donald Griffin aveva ripetutamente menzionato la possibilità di utilizzare metodi antropologici partecipativi e comunicativi per comprendere i processi mentali animali[64]. Qualche anno dopo, comparava anche il «desiderio di capire popoli di culture diverse» all’interesse per il comportamento animale (Griffin 1986: 24-25). Questo suscitò una polemica con Tim Ingold che è molto significativa, dal nostro punto di vista, dato che mostra chiaramente il nesso intrinseco che collega epistemologia, metodologia e riconoscimento delle capacità cognitive animali. Nel libro What Is an Animal? del 1988, Ingold affermava che i metodi etnografici non potevano essere applicati agli animali non umani per il semplice fatto che questi non erano affatto in grado di pensare (Ingold 1988: 90-97; Griffin 1999: 124-125). Persino per un antropologo che aveva saputo riconoscere, prima di altri, l’intenzionalità e l’agency degli animali non umani, essi rimanevano, a priori, delle creature completamente prive di capacità di ragionamento[65]!

L’esempio di Jane Goodall è altrettanto emblematico, per quanto in senso inverso. Interprete per eccellenza del nuovo approccio intersoggettivo, culturalista e partecipante allo studio del comportamento animale[66], Goodall considerò da subito gli scimpanzé di Gombe come soggetti pensanti individuali, dotati di agency, emozioni e personalità distinte. Nel lavoro di Goodall, ha fatto giustamente notare la filosofa Benedetta Piazzesi, prosegue quel processo di avvicinamento delle scienze naturali e sociali significativamente intrapreso, un secolo prima, da Charles Darwin (Piazzesi 2017: 244-245).

Per concludere: brevi considerazioni etiche

Al di là dell’importanza scientifica e filosofica, al di là anche del fascino che possiamo provare per la meravigliosa diversità della vita, il riconoscimento della vita emotiva e cognitiva animale appare cruciale nel definire le nostre relazioni con le altre specie[67], [68].

Citeremo tre esempi che mi sembrano emblematici. Il primo riguarda i polpi. Difficilmente motivabili con l’uso di rinforzi positivi, subivano nei laboratori comportamentisti molte scosse elettriche. Solo quando si è cominciato a comprendere la loro notevole intelligenza, ci si è posti il problema di definire le pratiche accettabili in laboratorio e porre dei limiti ai trattamenti più crudeli. Nel 2013, il polpo è stato incluso nella legislazione europea che regola il trattamento degli animali negli esperimenti. Si tratta, al momento, del primo e dell’unico invertebrato a godere di questo privilegio (Godfrey-Smith 2018: 74-75). Invece, come ha sottolineato il neuroscienziato Giorgio Vallortigara, l’utilizzo degli insetti in laboratorio, frequentemente percepiti come creature non senzienti, continua a non essere sottoposto ad alcun vincolo etico tanto nel contesto della normativa europea quanto da parte dei codici deontologici universitari (Vallortigara 2021: 14).

Forse più noto, è il caso di scimpanzé, bonobo e oranghi, oppure dei delfini e altri cetacei che, in un numero crescente di paesi, iniziano a godere di particolari misure di protezione per il fatto di aver acquisito, individualmente oppure come specie, lo status di “persone non umane”, una categoria giuridica nuova che è chiaramente fondata sul riconoscimento delle loro capacità cognitive come pure sulle somiglianze riscontrate con gli esseri umani da parte degli studiosi del comportamento animale (Bertoni, Beisel 2013; Wise 2019)[69].

Anche in ambito veterinario, dove un tempo operazioni dolorose venivano eseguite senza alcuna misura per ridurre la sofferenza dell’animale, la diffusione di pratiche come l’anestesia è strettamente legato al riconoscimento della senzienza degli animali[70].

Non è un caso se i teorici più noti dei diritti animali, i filosofi Peter Singer e Tom Regan, abbiano fortemente contestato la visione meccanicistica degli animali, a cominciare dalle tesi di Cartesio che, non riconoscendo la capacità di provare dolore degli animali, considerati automi privi di ragione e di coscienza, giustificava di fatto ogni abuso e crudeltà[71]. Per Singer[72], è proprio la capacità di provare piacere e dolore delle specie dotate di un sistema nervoso a creare un obbligo morale nei loro confronti. Proprio come noi, esse hanno un interesse a vivere la loro vita e a non soffrire che deve essere preso in considerazione ed equamente bilanciato con gli interessi degli esseri umani. La visione di Regan[73] è più centrata sulle capacità cognitive: i singoli animali dotati di autonomia di azione, di vita mentale, di forme d’intenzionalità e coscienza, in quanto veri e propri soggetti, hanno un valore intrinseco e, in quanto tali, detengono dei diritti fondamentali (Mannucci 1997: 61-64; Bekoff 2003: 227-232; Singer 2016; Descola 2021: 223-227). Più in generale, potremmo dire che la battaglia degli antispecisti per il riconoscimento di una serie di diritti comuni agli umani e alle altre specie animali è basata proprio sulla negazione dell’eccezionalismo umano (Vitale 2016: 43-46; Caron 2016: 194-195).

Paradossalmente, una parte della scienza, dopo aver a lungo descritto (e trattato) gli animali come macchine, si trova oggi in prima linea nell’ascolto del loro mondo mentale e interroga sempre più anche l’etica e il diritto. La questione della sofferenza fisica e psichica animale, che quarant’anni fa appariva ridicola persino all’interno della comunità scientifica[74], viene oggi percepita come seria e, pur non essendo unanimemente condivisa, è diventata non solo un tema deontologico importante, ma anche un problema d’interesse pubblico (Chapoutier 2016: 209).

Le scienze del comportamento animale ci stanno mettendo di fronte alle nostre responsabilità. Diventa più difficile ignorare gli orrori che accadono quotidianamente negli allevamenti intensivi industriali, dove miliardi di animali vivono sofferenze indicibili perché vengono di fatto considerati come meri oggetti o macchine in un sistema di produzione di massa incentrato pressoché solo sul profitto. In particolare, l’etologia cognitiva ha fortemente avvicinato le specie animali, denaturalizzando la distinzione fra specie “uccidibili” e “non uccidibili” denunciata da Jacques Derrida e Donna Haraway (Haraway 2008). Scrive Bekoff: “Le nostre conoscenze sono cambiate; anche le nostre relazioni con gli animali devono cambiare” (Bekoff 2016: 129, traduzione mia).

Che il rispetto si fondi sulla possibilità d’identificarsi con l’altro non è certo una novità. Il nostro filo è intrecciato da sempre con quelli di moltissime altre creature (Safina 2015: 19) che sono al contempo simili a noi e diverse. La visione dicotomica che contrappone umani e “animali” è sempre più datata. Innanzitutto, è distruttiva: erode le relazioni all’interno di quella complessa rete che è la vita. Lo mostrano i cataclismi ecologici e sociali in corso. Inoltre, come spero di aver dimostrato, impoverisce la nostra comprensione del mondo, degli altri animali e di noi stessi.

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[1] Per i behavioristi classici, l’apprendimento è essenzialmente uguale, basato sugli stessi meccanismi associativi, poco importa le specie animali considerate, e ancor meno le differenze individuali al loro interno. Skinner lavorava pertanto con specie facilmente gestibili in laboratorio, come ratti e piccioni, per poi estrapolare i risultati ottenuti e applicarli alle altre specie animali (de Waal 2016: 43; Godfrey-Smith 2018: 70). Se il condizionamento operante è indubbiamente un importante meccanismo di apprendimento nel mondo animale, esso non è più considerato come l’unica forma di apprendimento possibile e tanto meno come l’unico fattore che incide sul comportamento animale (de Waal 2016: 55, 79-81).

[2] Nei laboratori behavioristi, gli animali erano isolati da quasi tutti gli stimoli tranne quelli studiati ed erano inoltre sottoalimentati e assetati in modo da mantenere una forte motivazione per il cibo e per l’acqua (Griffin 1999: 167-168). Tale pratica, secondo de Waal, sarebbe ancora molto diffusa, per quanto non sia mai stato dimostrato che la fame incida positivamente sulla cognizione animale (de Waal 2016: 52-54). Più in generale, gli animali in cattività si trovano in condizioni di frequente deprivazione sociale e cognitiva per il fatto di non essere stati adeguatamente socializzati, di vivere in isolamento, costretti in ambienti strutturalmente semplificati e inadatti alle loro esigenze, e di essere sottoposti a traumi e stress che li condizionano anche sul piano neurologico. L’assenza delle sfide complesse che comporta la vita in condizioni naturali (ricerca del cibo, predazione, ecc.) influisce a sua volta sulla cognizione. Per queste ragioni, molti ritengono che le ricerche condotte in laboratorio possano essere fuorvianti (Griffin 1986; Bekoff 2003; Despret 2016; Safina 2018). È possibile tuttavia riscontrare un ampio spettro di posizioni che sembrano fortemente correlate alla metodologia e all’epistemologia sottese alle diverse discipline scientifiche che studiano il comportamento animale.

[3] Si vedano, per esempio, gli articoli dell’antropologo Matei Candea che documentano il lavoro di ricerca contemporaneo di un’équipe di ecologi del comportamento (professionisti e volontari) nell’ambito del Kalahari Meerkat Project (Candea 2010, 2013a, 2013b).

[4] Naturalmente, va messo in conto che Oltre natura e cultura è stato pubblicato nel 2005 e che, nel corso degli ultimi quindici anni, i progressi realizzati nell’ambito dell’etologia cognitiva e delle neuroscienze sono stati veramente importanti.

[5] È stata anche sottolineata una continuità con il filosofo David Hume (1711-1776) il quale, già nel 1739, attribuiva agli animali pensiero e ragione e riteneva che le somiglianze comportamentali riflettessero processi mentali condivisi.

[6] Darwin pubblicò nel 1872 il libro L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali.

[7] Darwin scrisse nel 1871: «Non c’è dubbio che la differenza fra la mente dell’uomo e quella degli animali superiori sia certamente, per quanto grande, di grado e non di genere» (de Waal 2016: 11).

[8] Non a caso, Uexküll contestò aspramente le ricerche condotte in laboratorio dai behavioristi i quali interrogavano i ratti in un modo che, dal loro punto di vista, non poteva avere alcun senso (Despret 2016: 44). Benedetta Piazzesi ha fatto notare che Uexküll ha portato all’estremo e conciliato l’anti-antropomorfismo e il riconoscimento della soggettività animale, posizioni che, fino ad allora, erano state piuttosto contrapposte (Piazzesi 2017: 234). Anche l’etnografia multispecie ha valorizzato l’approccio biosemiotico di Uexküll. Molto significativa la proposta di Eduardo Kohn di un’“antropologia della vita”, “oltre l’umano”, basata sull’embricazione degli organismi viventi in una rete di processi semiotici. Si veda: E. Kohn, 2021 [2013], Come pensano le foreste, Milano, Edizioni Nottetempo; A. Fuentes, E. Kohn, 2012, «Two Proposal», The Cambridge Journal of Anthropology, 30(2): 136-146.

[9] Nel 1973, i tre studiosi ricevettero il premio Nobel per il loro importante contributo allo studio del comportamento animale.

[10] Negli anni Trenta, Tinbergen studiò sperimentalmente l’orientamento nelle vespe sfecidi. Tuttavia, come sottolinea de Waal, nessuna delle quattro domande che assegnò all’etologia (note come i “Quattro perché”) menziona esplicitamente l’intelligenza o la cognizione animale (de Waal 2016: 63). Timbergen precisò infatti che, per quanto fosse personalmente convinto che gli animali avessero delle esperienze soggettive, queste non erano rilevanti per l’etologia dal momento che non erano osservabili (Candea 2013a: 427).

[11] Si tratta di brevi movimenti preliminari che manifesterebbero, negli uccelli, la pianificazione di azioni importanti, quali per esempio il volo.

[12] Per esteso, Nadezda Nikolaevna Ladygina-Kohts.

[13] Recentemente, Carl Safina ha fatto giustamente notare che il test dello specchio, non solo sia significativo soprattutto per le specie che fanno molto affidamento sulla vista, ma indichi in realtà la capacità di comprendere le immagini riflesse piuttosto che la presenza di autoconsapevolezza, plausibilmente molto più diffusa nel regno animale (Safina 2018: 412-413).

[14] Sembrava inoltre impossibile che un ricercatore potesse riconoscere individualmente più di un centinaio di esemplari.

[15] Il confronto condotto da de Waal fra primatologia giapponese ed euroamericana (de Waal 2002: 73, 94, 276) è molto interessante ma meriterebbe di essere verificato e approfondito. Esso parrebbe, a una prima analisi, troppo semplificante nella sua netta contrapposizione fra cultura occidentale e orientale.

[16] Il paleontologo Louis Leakey inviò sul campo Jane Goodall, Dian Fossey e Biruté Galdikas a studiare rispettivamente scimpanzé, gorilla e oranghi. Come ha sottolineato Emmanuelle Grundmann, Leakey era persuaso che le donne fossero più empatiche e che si trattasse di una qualità essenziale per condurre studi oggettivi sul comportamento delle grandi scimmie (Grundmann 2016: 33-34). Ad eccezione di Biruté Galdikas, privilegiò inoltre delle donne prive di formazione universitaria in biologia e antropologia (Galdikas 1997: 48-49). Come scrive Jane Goodall: «Di fatto egli [Luis Leakey] mi scelse perché la mia mente non era stata viziata dalle visioni riduzioniste che caratterizzavano la maggior parte degli etologi dell’epoca. Egli scelse piuttosto qualcuno che aveva imparato molte cose sugli animali, avendone avuti diversi fin dall’infanzia come maestri» (Jane Goodall 2003: 12).

[17] Per queste ragioni, e per aver usato pronomi personali femminili e maschili per indicare singoli scimpanzé al posto di un generico “it”, Goodall fu fortemente criticata dai docenti dell’Università di Cambridge dove s’iscrisse per conseguire il dottorato (de Waal 2016: 217; Safina 2018: 55, 215).

[18] Già nel xix secolo, era stato documentato l’uso di strumenti in scimpanzé e macachi allo stato selvatico, ma questa osservazione assunse piena rilevanza solo nel Novecento in quanto, secondo de Waal e Safina, metteva in discussione il monopolio che veniva ormai attribuito alla nostra specie sul ragionamento e sulla cultura (de Waal 2016: 164; Safina 2018: 292-293).

[19] In seguito, a partire dagli anni 1980, anche pappagalli, delfini e leoni marini (Griffin 1999: 226; 278-282; Delfour, Adam 2016).

[20] Nel 1980, alcuni linguisti chiesero addirittura il bando ufficiale di qualsiasi progetto di ricerca che tentasse d’insegnare una forma di linguaggio agli altri animali! (de Waal: 143-144)

[21] La concezione autoctona degli animali veniva considerata come un costrutto culturale e metaforico, mentre le ontologie di cui gli antropologi erano portatori continuavano a essere assunte in modo acritico (Nadasdy 2007: 30).

[22] L’antropologo Tim Ingold ha evidenziato che gli antropologi potrebbero avere un interesse disciplinare nel mantenere una rigida distinzione fra gli umani e le altre specie animali (Nadasdy 2007: 31). È interessante tuttavia notare che, nella ricostruzione storica di Frans de Waal, non siano stati affatto gli antropologi culturali ad aver contestato l’esistenza delle culture animali, quanto piuttosto gli psicologi dell’apprendimento. Nel 2001, il disinteresse degli antropologi contemporanei per il dibattito sulle culture animali veniva attribuito da de Waal alla relativizzazione antropologica del concetto di cultura combinata con il «nichilismo postmoderno» (de Waal 2002: 170).

[23] Di fatto, oggi, un numero crescente di studiosi ammette che una forma critica e controllata di antropomorfismo possa essere molto utile per formulare delle ipotesi di ricerca, progettare esperimenti pertinenti e descrivere le emozioni, i pensieri e il comportamento degli altri animali (Bekoff 2003: 93-96).

[24] Bekoff ha giustamente sottolineato che la pratica e il pensiero scientifico sono intrisi di valori, punti di vista e pregiudizi. Inoltre, «Gli scienziati, in quanto esseri umani, hanno priorità individuali, personali, sociali, economiche e politiche» (Bekoff 2003: 279).

[25] Analogamente, per quanto da un punto di vista complementare, gli antropologi Colin Scott e Tim Ingold hanno sottolineato che la concezione degli animali come persone senzienti e consapevoli, in grado di apprendere dalle proprie esperienze, adattare in modo flessibile il proprio comportamento e comunicare con i membri della propria specie, ha permesso ai popoli autoctoni dell’area artica e subartica dell’America settentrionale di cogliere importanti aspetti del comportamento animale che la scienza occidentale ha a lungo ignorato (Scott 1996; Nadasdy 2007).

[26] Hauser non utilizza tuttavia questo termine in senso critico, essendo a sua volta convinto che gli esseri umani siano l’unica specie dotata di autocoscienza e che comunque «il divario fra la cognizione umana e quella animale, persino quella di uno scimpanzé, è molto maggiore di quella fra uno scimpanzé e un coleottero» (de Waal 2016: 157; vedi anche Bekoff 2003: 162).

[27] Non sono sicura che il termine “naturalista” sia quello più appropriato e chiaro per designare l’ontologia occidentale moderna con le sue caratteristiche dicotomie natura/cultura e animali/umani, dal momento che è proprio nel contesto delle scienze naturali che è maturata una visione continuista delle facoltà mentali così come la consapevolezza del complesso intreccio esistente fra trasmissione genetica e culturale, corpo e mente, biologico e culturale. Penso, innanzitutto, a grandi pensatori che hanno anticipato l’evoluzionismo darwiniano come Goethe e Humboldt. Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) che, oltre a essere un uomo di lettere, fu anche un brillante scienziato, era persuaso che l’uomo e gli animali, pensati come totalità psicofisiche integrate, avessero un antenato comune e che piante e animali si adattassero al proprio ambiente. Credeva inoltre nella necessità di coniugare arte e scienza, soggettività e razionalità (Wulf 2017; de Waal 2016: 162-163; Piazzesi 2017). Alexander von Humboldt (1769-1859), che fu l’uomo di scienza più noto e influente della sua epoca, pensava alla natura come un vasto intreccio vitale e dinamico d’interconnessioni in cui l’uomo era incluso, anticipando così anche la nascita dell’ecologia. Come Goethe, era inoltre persuaso che per conoscere la natura fosse indispensabile combinare metodi di studio strettamente scientifici con un approccio empatico e intuitivo, che valorizzasse l’esperienza soggettiva, l’immaginazione e le emozioni. Le sue ricerche privilegiavano anche un approccio interdisciplinare che intrecciava le scienze naturali con quelle sociali (Wulf 2017). Come sappiamo, Darwin, e gli scienziati che hanno seguito più fedelmente le sue tracce, collocarono l’uomo all’interno della natura, fra gli altri animali, e non solo dal punto di vista fisico: credevano infatti nella continuità delle facoltà cognitive ed emozionali. Diversamente da Huxley, Darwin poneva anche l’etica umana nel mondo della natura ed era fermamente persuaso che fosse un prodotto dell’evoluzione (de Waal 2002: 264-265; Darwin, Omodeo 1980: 87-88). In ambito etologico, Konrad Lorenz (L’aggressività) e Desmond Morris (La scimmia nuda) hanno evidenziato fra i primi la continuità fra comportamento umano e animale, aprendo la porta al lavoro di numerosi altri ricercatori (de Waal 2002: 39). Lorenz inoltre, come del resto il primatologo giapponese Imanishi (de Waal 2016: 83), «credeva che non si potessero studiare efficacemente gli animali senza una comprensione intuitiva fondata sull’amore e sul rispetto» (ibidem: 34).

Se, come abbiamo visto, è indubbio che una visione culturale discontinuista abbia caratterizzato il lavoro di molti scienziati nel corso del Novecento (come tutti, gli scienziati sono profondamente influenzati dal contesto culturale in cui crescono e lavorano), l’apporto più specifico delle scienze naturali parrebbe essere proprio la messa in discussione delle dicotomie che caratterizzano, secondo Descola, l’ontologia occidentale moderna. Basterebbe pensare all’esistenza di discipline come l’ecologia, la neurobiologia, la sociobiologia e l’etologia cognitiva, nonché allo studio delle culture animali. Non dimentichiamo del resto che, già dal Settecento, le scienze naturali hanno molto valorizzato lunghi viaggi di esplorazione scientifica e che questi potrebbero aver aiutato alcuni naturalisti a mettere in discussione importanti pregiudizi culturali.

[28] Tale posizione è nota anche come il «problema di Wallace» dal momento che questo grande naturalista, che concepì contemporaneamente a Darwin il ruolo della selezione naturale nell’evoluzione, invocò, con grande perplessità di Darwin, un’imprecisata dimensione spirituale per giustificare l’unicità della mente umana (de Waal 2016: 159-160).

[29] I primi esperimenti sulla capacità d’identificazione facciale negli scimpanzé sono assai emblematici delle posizioni antropocentriche che hanno potuto assumere alcuni ricercatori. Così, si dedusse che gli scimpanzé fossero privi di abilità di riconoscimento facciale perché mostravano difficoltà nel distinguere delle immagini di volti umani. Ma gli scimpanzé riconoscono facilmente le fotografie dei membri della propria specie e riescono persino a individuare l’esistenza di legami di parentela attraverso l’osservazione delle facce dei propri simili (de Waal 2016: 33)

[30] Si tratta della capacità di comprendere gli stati mentali altrui. Tale abilità è stata considerata da numerosi scienziati come una prerogativa umana. In realtà, il concetto emerse nel corso delle ricerche svolte da Emil Menzel sui primati verso la fine degli anni 1960.

[31] Griffin distingue la coscienza percettiva, che riguarda appunto le percezioni, dalla coscienza riflessiva, che invece indica la consapevolezza di un soggetto dei propri pensieri ed emozioni. Secondo l’etologo, la coscienza riflessiva rappresenterebbe «un bastione, ancora difeso da molti, contro gli indizi sempre più numerosi che gli altri animali condividono in misura limitata molte delle nostre capacità mentali» (Griffin 1999: 27).

[32] Attualmente, secondo de Waal, sarebbe soprattutto nelle scienze sociali e nelle discipline umanistiche che continua a persistere una posizione eccezionalista, mentre nelle scienze naturali essa starebbe progressivamente perdendo ogni credibilità (de Waal 2016: 161-167; Safina 2018: 377-395). In realtà, l’eccezionalismo umano è da tempo al centro della riflessione critica di numerose correnti che hanno acquisito una crescente importanza in filosofia come nelle scienze sociali. Citiamo il postumanesimo, l’ecofemminismo critico, la cosiddetta “svolta ontologica” in antropologia, la “teoria dell'attore-rete”, l’antropozoologia, l’etnografia multispecie, la geografia oltre l’umano... In particolare, l’etnografia multispecie si sta sforzando di estendere la ricerca e la scrittura etnografica oltre l’umano, documentando l’interconnessione e l’interdipendenza delle forme di vita e l’agentività delle specie altre che umane. Parallelamente, il presente contesto di crisi climatica, malgrado il ruolo “geologico” esplicitamente attribuito all’umanità (ricordiamo il concetto di Antropocene), sta inducendo un numero crescente di antropologi a riflettere sul complesso intreccio di interrelazioni che costituisce la vita, restituendo a sua volta agentività a tutte le forze biotiche e abiotiche con le quali interagiamo e sforzandosi di cogliere la realtà ibrida “naturculturale” che ci circonda (Van Aken 2020). Si vedano, fra l’altro: S. E. Kirksey, S. Helmreich, 2010, «The emergence of multispecies ethnography», Cultural Anthropology, 25 (4): 545-576; R. Cassify, 2012, «Lives with Others: Climate Change and Human-Animal Relations», Annal Review of Anthropology, 42: 21-36); L. A. Ogden, B. Hall, K. Tanita, 2013, «Animals, Plants, People, and Things. A Review of Multispecies Ethnography», Environment and Society: Advances in Research, 4 (1): 5-24; A. Smart, 2014, «Critical perspectives on multispecies ethnography», Critique of Anthropology, 34 (1): 3-7; P. Locke, U. Muenster, 2015. «Multispecies ethnography», Oxford Bibliographies Online; P. Locke, 2018, «Multispecies Ethnography», The International Encyclopedia of Anthropology.

[33] Ancora oggi, la teoria evoluzionistica viene frequentemente fraintesa come un processo orientato verso un fine e si postula che l’uomo sia il risultato più elevato e l’obiettivo del processo evolutivo, una visione gerarchica e teleologica che era estranea al pensiero di Darwin.

[34] Griffin, già nel 1984, sottolineava che non esistono necessariamente differenze qualitative nella cognizione dei vertebrati e degli invertebrati e che «nessuna prova diretta conferma la limitazione del pensiero cosciente a una forma particolare di neuroanatomia macroscopica» (Griffin 1986: 246; vedi anche Griffin 2017: 83). Similmente, anche l’equazione fra complessità del comportamento animale e consapevolezza e quella fra apprendimento e consapevolezza, o fra comportamento istintivo e inconscio, non sarebbero mai state veramente dimostrate (Griffin 1999: 327-331; Griffin 2017: 63).

[35] Secondo de Waal, lo «scimpocentrismo» andrebbe considerato come una sorta di estensione del pregiudizio antropocentrico (de Waal 2016: 208).

[36] Nell’ottima sintesi di Eileen Crist, le danze delle api da miele devono essere considerate un vero e proprio linguaggio (sebbene diverso dal nostro) in quanto sono simboliche, performative, rette da regole strutturali, complesse e flessibili nelle loro applicazioni (Crist 2004). L’importanza attribuita alla sintassi nella definizione del linguaggio varia a seconda degli autori. Griffin, pur riconoscendo al linguaggio umano una versatilità senza pari, criticò la crescente tendenza a descrivere il linguaggio in maniera isomorfica rispetto al comportamento linguistico umano (Griffin 2017: 65). Fece inoltre notare che, come nella maggior parte delle lingue umane, gli animali potrebbero servirsi soprattutto della flessione piuttosto che dell’ordine dei significanti (privilegiato invece dagli studiosi di lingua inglese) per costruire le loro sintassi (Griffin 1999: 281-282; 289-291).

[37] A queste si aggiunsero importanti dimostrazioni sperimentali realizzate, negli anni Settanta, anche dall’etologo James L. Gould. Oggi le indicazioni trasmesse simbolicamente dalle danze delle api vengono utilizzate per raccogliere dati sui loro pattern alimentari (Crist 2004: 19-20).

[38] Si veda il libro di A. M. Wenner e P. H. Wells, 1990, Anatomy of a Controversy: The Question of a “Language” among Bees, New York, Columbia University Press.

[39] In La mente del corvo, Bernd Heinrich menziona per esempio che, negli anni Novanta, un suo articolo che relazionava una serie di esperimenti nuovi sull’intelligenza dei corvi imperiali venne respinto ben cinque volte (Heinrich 2019: 468).

[40] Il primo libro di de Waal, La politica degli scimpanzé, è stato pubblicato nel 1982.

[41] È possibile riscontrare, del resto, la presenza di comportamenti istintivi e meccanicistici anche negli esseri umani.

[42] È interessante notare che gli studi sulle emozioni animali continuano a privilegiare i mammiferi a discapito di uccelli, rettili, pesci e insetti (King 2016: 121).

[43] In varie specie di corvidi, si è riscontrata per esempio una notevole abilità nel risolvere problemi mai affrontati in precedenza sin dal primo tentativo della situazione sperimentale, senza procedere per tentativi ed errori, anche attraverso l’utilizzo di metautensili (de Waal 2016:123-124; Safina 2018: 290; Heinrich 2019: 454-472).

[44] Se proprio volessimo assegnare un primato di unicità cognitiva, questo andrebbe ai polpi! Polpi e seppie avrebbero evoluto parallelamente sistemi nervosi grandi e complessi, organizzati in maniera completamente diversa rispetto a quelli dei vertebrati. Dati genetici suggeriscono che la profondità storica della divisione fra il ramo dei polpi (octopoda) e quello delle seppie e dei calamari (decapoda) sia paragonabile a quella fra mammiferi e uccelli nei vertebrati (Godfrey-Smith 2018: 231-235). Dei polpi, al momento più studiati, colpisce in particolare la forma d’intelligenza diffusa, dove la «consueta separazione fra corpo e cervello» (Godfrey-Smith 2018: 95) non è applicabile: solo un terzo dei loro neuroni è situato nel cervello centrale mentre i restanti due terzi sono localizzati nelle braccia, dotate ciascuna di un sistema nervoso periferico ampiamente autonomo (vedi anche Cavaillé-Fol, Pihen, Ikonicoff 2017: 42-43).

[45] Con metacognizione, s’intende la capacità di un soggetto di essere consapevole delle proprie abilità, conoscenze e processi cognitivi. Questo campo di ricerca è emerso nel corso degli anni 1990 per opera dello psicologo John David Smith, il quale si appoggiava anche agli studi di Tolman sulle “risposte d’incertezza”.

[46] Fu Willim McGrew a effettuare il primo studio sistematico sulla cultura materiale degli scimpanzé, i cui risultati vennero pubblicati nel 1972. Seguirono fondamentali pubblicazioni sull’argomento nel 1994 e nel 1999 (de Waal 2002: 210-211).

[47] Si ritiene che anche gli esseri umani siano consapevoli soltanto di una piccola frazione di quanto avviene nel loro cervello.

[48] https://fcmconference.org/img/CambridgeDeclarationOnConsciousness.pdf

[49] Fra le più recenti pratiche di ricerca, pare promettente, anche dal punto di vista etico, lo studio delle emozioni animali in cani addestrati a entrare senza timore e rimanere immobili negli scanner che effettuano la risonanza magnetica funzionale (Berns 2016; Cavaillé-Fol, Pihen, Ikonicoff 2017: 44-45).

[50] I neurobiologi hanno formulato diverse teorie per spiegare la coscienza. La cosiddetta teoria dello “spazio di lavoro” presenta la coscienza come un processo cognitivo di trasmissione integrata delle informazioni che vengono rese disponibili all’attenzione cosciente di un soggetto (lo spazio di lavoro) per permettergli di valutarle e far fronte a situazioni nuove (Godfrey-Smith 2018: 179-181; Marchesini 2013: 132). Nella famiglia delle tesi che attribuiscono invece la coscienza al circuito di feedforward della copia efferente, il pensiero di Giorgio Vallortigara è particolarmente interessante, a mio parere, in quanto mette in discussione l’idea ampiamente accettata che la coscienza dipenda dalla ricchezza e dalla complessità di strutturazione del sistema nervoso di un organismo. Al contrario, la coscienza, definita come la capacità di distinguere il sé dal non sé, potrebbe essere un processo di base della vita mentale, condiviso da tutti gli organismi animali in grado di muoversi attivamente (Vallortigara 2021).

[51] «Come se gli animali fossero automi governati da semplici algoritmi comportamentali» (Gianni Pavan, bioacustico, comunicazione personale, 14 settembre 2021).

[52] Come ha osservato Despret, viene quindi a cadere la distinzione fra ricercatori sperimentali e “naturalisti” (Despret 2005).

[53] Oggi, alcuni protocolli di ricerca prevedono il consenso degli animali studiati. Così, nel caso per esempio di primati detenuti in cattività, il locale in cui vengono effettuati i test può essere lasciato aperto e sono i singoli animali a decidere se e quando entrarvi, recandosi liberamente davanti allo schermo o al dispositivo sperimentale attraverso cui vengono proposti loro degli esercizi cognitivi. Nel caso invece dei cani domestici studiati attraverso la risonanza magnetica nel Center for neuropolocy dell’università Emory, la dichiarazione di libero consenso firmata dai loro proprietari riconosce il diritto dei cani d’interrompere in ogni momento lo studio in corso e gli animali sono liberi di partire quando non se la sentono di entrare nella macchina.

[54] Le ricerche etnografiche condotte recentemente dall’antropologo Matei Candea nell’ambito del Kalahari Meerkat Projet (Candea 2010, 2012, 2013a, 2013b, 2019) confermano tuttavia che questo modello continua a essere un punto di riferimento epistemologico importante nella pratica di molti studiosi del comportamento animale. Naturalmente, l’approccio relazionale e partecipativo di Lorenz, Goodall, Bekoff, Rowell o Smuts non è l’unico possibile nelle scienze nel comportamento animale e dobbiamo significative scoperte a metodologie e prospettive estremamente diverse, dalle neuroscienze agli studi di biologia comportamentale ancora imperniati sull’astensione da domande di tipo cognitivo e su pratiche più oggettivanti.

[55] Un’empatia che non è pensata come immediata, ma deve essere piuttosto coltivata ed educata in parecchi anni di lavoro (Despret 2013: 61).

[56] Pepperberg migliorò e approfondì una metodologia introdotta, negli anni Settanta, dallo zoologo Dietmar Todt (Griffin 1999: 226).

[57] Nel 1999, Smuts scrive: «Sin dall’inizio, loro [i babbuini] la sapevano più lunga di me, insistendo che io fossi, proprio come loro, un essere sociale esposto alle domande e alle ricompense della relazione. Dato che ero nel loro mondo, essi stabilirono le regole del gioco, e mi trovai così forzata a esplorare il territorio sconosciuto dell’intersoggettività umana-babbuina (Candea 2010: 246, mia traduzione).

[58] Non a caso, il noto etologo Desmond Morris ha descritto il metodo di Lorenz e le descrizioni che dava degli animali studiati come “teriomorfi” (de Waal 2016: 57).

[59] Al posto di nascondersi, il ricercatore abitua talmente gli animali studiati alla propria presenza da rendersi “invisibile”, potendo quindi osservare i suoi soggetti senza influenzarne il comportamento.

[60] Emblematica la lettura di Despret della nota storia del cavallo Hans, come pure dell’esperienza dei ratti “stupidi” e dei ratti “intelligenti” effettuata da Rosenthal sui propri studenti (Despret 2004). Hans, a cui furono a lungo attribuite formidabili capacità di calcolo matematico, era in realtà un cavallo molto collaborativo, che aveva imparato a leggere alcuni piccoli segnali involontari del proprio proprietario e a rispondere nel modo in cui questi si aspettava. La storia di Hans viene sempre invocata per enfatizzare la necessità di mettere a punto esperimenti rigorosi che prendano cura di eliminare l’eventuale influenza degli studiosi sui risultati delle proprie ricerche. Ma le notevoli abilità di osservazione e comprensione di Hans si svilupparono sicuramente nell’ambito di un processo interattivo col suo proprietario e possono pertanto mostrare le potenzialità di un approccio alla ricerca basato sulla collaborazione.

Analogamente, l’esperimento di Rosenthal intendeva condannare l’influenza esercitata dalle aspettative dei ricercatori sul proprio lavoro. Lo psicologo indusse così i propri studenti a credere che avrebbero testato sperimentalmente le capacità di due gruppi di ratti geneticamente selezionati per essere, rispettivamente, più intelligenti e più stupidi del normale. I risultati ottenuti dagli studenti confermarono le loro aspettative anche se, in realtà, tutti i ratti erano stati scelti a caso e non era mai stato veramente effettuato alcun processo di selezione. Despret conclude che l’istaurazione di una relazione di reciproca fiducia fra ricercatore e ratto (nel caso dei ratti “intelligenti”) offra al ratto maggiori chances di esprimere al meglio le proprie capacità cognitive.

[61] Per esempio, Barbara Smuts afferma di essersi sforzata di non coltivare delle relazioni individuali con i singoli babbuini ma di aver stabilito una relazione di profondo coinvolgimento e d’intimità con tutto il gruppo (Smuts 2001: 298).

[62] Lestel, Brunois e Gaunet hanno fatto notare una persistente tendenza a pensare l’evoluzione delle specie viventi come se fossero indipendenti le une rispetto alle altre mentre, in realtà, sono co-evolute insieme (Lestel, Brunois, Gaunet 2006). Le interrelazioni fra umani e altri animali possono essere intrinsecamente interessanti anche da un punto di vista etologico. Proprio come noi, gli altri animali non sono “isole” a sé, ma esistono nell’interazione con le altre specie. L’idea che possa esistere un comportamento animale “puro”, come anche il concetto di wilderness, mi sembrano molto discutibili.

[63] Choon Soon Kim si riferiva all’incontro degli antropologi alloctoni con quelli autoctoni.

[64] Nel 1976, Griffin rifletteva esplicitamente sui vantaggi scientifici di stabilire una «comunicazione bilaterale» ed effettuare un’«indagine partecipe» almeno con alcuni animali (Griffin 2017: 103-104). Nel 1984, affermava che il lavoro di un etologo cognitivo sperimentale potesse assomigliare a quello degli antropologi sul campo (Griffin 1986: 102).

[65] L’antropologo Paul Nadasdy ha fatto notare la contraddittorietà della posizione di Ingold che, da una parte, ha sottolineato la necessità di prendere sul serio le concezioni degli animali dei cacciatori autoctoni mentre, dall’altra, pur considerando gli animali come attori sociali dotati d’intenzionalità e coscienza, ha continuato ad assumere che fossero privi di linguaggio e quindi incapaci di pensare, un’idea assolutamente estranea alle ontologie autoctone che aveva preso in esame (Nadasdy 2007: 32-34).

[66] Dominique Lestel e Benedetta Piazzesi hanno attribuito a Jane Goodall una trasformazione delle scienze animali in scienze sociali (Piazzesi 2017: 246).

[67] Rimando all’articolo di Alessandro Mancuso, in questo numero monografico, per una trattazione più approfondita degli aspetti etici della relazione umani-animali e del ruolo dell’antropologia.

[68] Darwin scriveva nel suo taccuino: «Gli animali – quelli che abbiamo reso nostri schiavi – non ci piace considerarli nostri eguali» (Safina 2018: 131). Sfruttiamo gli animali perché riteniamo che non pensano oppure riteniamo che non pensano perché li sfruttiamo? (Goodall 2003: 15; Heinrich 2016: 140; Chauvet 2016: 350) Entrambe le domande mi sembrano utili e pertinenti in quanto aiutano a riflettere sulla complessità delle nostre relazioni. Nella vita concreta, tuttavia, credo che questi aspetti risultino indistricabilmente legati.

[69] Significativamente, Filippo Bertoni e Uli Beisel considerano questa categoria giuridica come un’estensione dell’eccezionalismo umano, che reitera piuttosto che mettere in discussione la dicotomia umani/animali. Trovo molto pertinenti anche le loro considerazioni sulla scarsa efficacia di questo approccio individualistico per proteggere pienamente le specie animali, le quali non vivono isolatamente, ma dipendono da complessi ecosistemi (Bertoni, Beisel 2013).

[70] Tuttavia, per ragioni che sarebbe interessante esplorare anche etnograficamente, un approccio abbastanza meccanicistico pare persistere, a mio parere, nella medicina veterinaria e molto dovrebbe ancora essere fatto per tener veramente conto delle emozioni e dei pensieri degli animali tanto nelle relazioni di cura quanto nella formazione dei veterinari.

[71] Per Cartesio, le reazioni di sofferenza che gli animali sembrano manifestare sarebbero, in realtà, reazioni meccaniche, paragonabili, per esempio, ai cigolii di un orologio.

[72] Si veda P. Singer, 2015 [1975], Liberazione animale, Milano, Il Saggiatore.

[73] Si veda T. Regan, 1990 [1983], I diritti degli animali, Milano, Garzanti.

[74] Per esempio, il neurobiologo Georges Chapouthier ha raccontato: «Quando ho cominciato i miei studi negli anni 1970, mi è stato detto di considerare i topi utilizzati negli esperimenti come dei pezzetti di legno. Ogni forma di empatia nei loro confronti era oggetto di scherno, era considerata come un sentimentalismo fuori luogo» (Cavaillé-Fol, Pihen, Ikonicoff 2017: 55).