De-path

Depatologizzazione e ricerca-azione per una riforma della L.164/1982

Maria Carolina Vesce

Università degli studi di Siena

Indice

Introduzione
Definire, classificare, disciplinare: l’esperienza trans nei manuali diagnostici e statistici
Trans-It: la legge e le persone.
De-path: etnografia di un processo da costruire
Alcuni interrogativi conclusivi
Bibliografia

Abstract. In 2019 the WHO renamed gender incongruence the diagnosis previously called gender dysphoria and removed it from the ICD’s Mental Health Chapter. This was considered the founding act of trans depsychiatrization, which laid the foundations for a radical reform of the services addressed to trans and non-binary people, both on a legal and social-health level. The procedures for legal recognition of gender affirmation are still slow and cumbersome, when not openly abusive, in diverse National States. In Italy they are ruled by L. 164/1982, which resulted from the battles of the trans movement and was intended to rectify the legal position of those who, at that time, already underwent surgery abroad. Although the Supreme Court and the Court of Appeal have formally recognized the right to gender identity as a constitutional right, access to gender affirmation procedures is still bound to a psychological/psychiatric diagnosis and to a true "compulsory health treatment". Even in terms of medical practice, gate-keeping models inhibit and jeopardize the person's self-determination. By reporting the first findings of a research-action carried out in Bologna, and by analyzing legal and policy documents developed in recent years by the trans movement, in this paper I will focus on the elaboration of common meaning from which the trans movement is starting to imagine the implementation of alternative legal and health paths. Why should anthropology be called into question in this process? What role for the anthropologist in the construction of reform paths for current regulations? To these question I will offer a first answer by providing further problematization of the issues at stake.

Keywords. Trans depathologization; trans-medicine; medical anthropology; interdisciplinarity; action-research.

Introduzione

L’esperienza trans si presta bene a ragionare sui legami, le frizioni e le fratture tra la dimensione biologica, naturalizzata, del sesso e quella relazionale del genere, appreso attraverso l’esposizione ai comportamenti maschili o femminili e ai significati ad essi associati in uno specifico contesto sociale, incorporato attraverso le norme cui siamo esposti fin dalla nascita, normalizzato attraverso pratiche ritenute socialmente appropriate all’uno o all’altro sesso. Le ricerche di antropologi ed etnografi hanno da tempo mostrato come la relazione tra i due termini, tra sesso e genere come “qualità” afferenti a due sfere della vita diverse, quella biologica e quella sociale, non costituisca un rapporto necessitante: la percezione del sé di alcuni può essere slegata dalla loro condizione sessuata, cioè dal possesso di genitali maschili o femminili (Busoni 2000, Grilli, Vesce 2021; Mauriello 2014; Pieraccini 2013; Plemons 2015, 2017; Plemons, Straayer 2018; Valentine 2007; Vesce 2017). È il caso di quelle persone che oggi diciamo trans, transgender, non-binary o gender-queer: una miriade di etichette che sottolineano differenze in alcuni casi infinitesimali, in altri sostanziali, come la disponibilità del soggetto a sottoporsi allo sguardo del medico, dello psicologo, del giudice. Le persone trans sono persone cui alla nascita, generalmente a partire dalla sola conformazione dei genitali esterni, è stato attribuito un sesso diverso dal genere in cui si riconoscono e che desiderano vivere ed essere assegnati al genere cosiddetto “elettivo”, eventualmente intraprendendo un percorso (legale, farmacologico, chirurgico) di rettifica dell’attribuzione di sesso. Si parla allora, in ottica inclusiva, di persone Assigned Male At Birth (AMAB) e ci si riferisce loro con l’espressione “donne trans”; o Assigned Female At Birth (AFAB) detti “uomini trans”.

Non si tratta, insomma, di persone la cui “identità” è definita in modo esclusivo dalle preferenze, dai gusti, dal desiderio per il proprio o l’altro sesso, ma innanzitutto dalla percezione del sé, dal modo in cui ci si sente, ci si presenta e rappresenta. Emicamente definita una esperienza umana significativa (Arietti et al 2010), quella trans è una “condizione” che scompagina e scardina i presupposti di discontinuità tra maschile e femminile e la conseguente univocità del passaggio dall’uno all’altro polo del continuum M-F. Tale “condizione” è, inoltre, requisito necessario per avviare un percorso di affermazione di genere, disciplinato nel nostro paese dalla L. 164/1982. L’Italia, infatti, è da tempo intervenuta a legiferare sullo status di coloro che scelgono di intervenire sul proprio corpo e di trasformarlo in direzione del genere elettivo. L’approvazione della legge sulle “Norme in materia di rettificazione dell’attribuzione di sesso”, come vedremo, rappresentò un traguardo importante per la comunità trans italiana, tra le prime in Europa a intervenire per regolarizzare la condizione di non corrispondenza tra apparenza corporea e sesso indicato sui documenti (Voli 2015, 2018a, 2018b). Per quanto il testo a maglie larghe della L. 164/1982 abbia consentito ai giudici di pronunciarsi, in alcuni casi, a favore di un’interpretazione orientata ad accogliere le istanze dei soggetti (Grilli, Vesce 2020), ancora oggi le procedure di affermazione di genere sono lente, piene di ostacoli e forme di gate-keeping, non di rado abusive.

Vorrei proporre in questo saggio una riflessione a ridosso delle possibili traiettorie di depatologizzazione delle esperienze trans, un processo sollecitato dalla WHO con l’approvazione dell’ICD-11[1], che entrerà in vigore a partire dal 2022. Tale processo, tutto da costruire, chiama in causa i saperi giuridici e biomedici, le associazioni trans, le attiviste e gli attivisti dei movimenti, insieme, auspicabilmente, alle scienze sociali. Il percorso di ricerca di cui restituisco alcuni risultati preliminari si pone in continuità con un lavoro più che decennale in contesti diversi, radicandosi nella frequentazione di una tra le più importanti associazioni trans presenti sul territorio nazionale, il Movimento Identità Trans (MIT) di Bologna.

Nella convinzione che la pratica etnografica sia sempre il prodotto dello scambio e dell’interazione tra la ricercatrice e i soggetti con cui si relaziona, mi sono mossa in questi anni nello sforzo di attraversare i campi sui quali mi trovavo ad agire prestando la massima attenzione alle possibilità trasformative che la ricerca stessa avrebbe potuto produrre. In questo caso più che mai, mi pare che il ruolo dei saperi antropologici possa essere determinante, nell’ottica di un fare antropologia – sul campo e oltre il campo (nelle istituzioni, nei servizi, come negli spazi della comunicazione pubblica) – che sappia non solo farsi carico della produzione di un sapere critico, radicato nella pratica etnografica, ma anche sollecitare azioni e riflessioni attente ai bisogni dei soggetti, nel tentativo di orientare le pratiche istituzionali e produrre trasformazione sociale.

Da questa prospettiva vorrei muovere nel proporre le mie argomentazioni, maturate nel confronto con i soggetti che si definiscono trans e che, per ragioni diverse, frequentano il MIT, erogano o fruiscono dei servizi offerti dall’associazione o dal consultorio che in essa ha sede. La ricerca di cui qui rendo conto si è infatti nutrita degli scambi con gli attivisti e le attiviste, le educatrici alla pari e le figure professionali (giuristi/e, avvocati/e, professionisti/e dei saperi psicologici e psichiatrici) che operano all’interno del MIT. Attraverso la ricerca e la collaborazione alla stesura di una proposta progettuale[2] che mettesse a valore le esperienze maturate dall’associazione bolognese fin dalla sua fondazione[3] è stato possibile individuare gli ambiti di intervento che richiederebbero un’azione tempestiva, in vista dell’implementazione del processo di depatologizzazione.

Prima di entrare nel vivo delle questioni che propongo di affrontare, però, può essere utile impegnarsi in una breve genealogia delle traiettorie di patologizzazione delle esperienze trans, anche al fine di mettere a fuoco le opportunità della depatologizzazione. Non una storia dei processi di medicalizzazione della sessualità, quindi, ma una microstoria delle forme di classificazione di queste esperienze a partire dai manuali diagnostici adottati dalle principali agenzie transnazionali della salute e dalle più importanti società scientifiche. Mi riferisco, in particolare, alla World Health Organization (WHO) e all’American Psychiatric Association (APA), intese qui come agenzie incaricate di classificare le condizioni “patologiche” operando, così, nella direzione di una normalizzazione delle cure e dei trattamenti rivolti ai soggetti che incarnano le esperienze oggetto delle diagnosi. In questo senso, è possibile guardare alle classificazioni e ai manuali diagnostici e statistici periodicamente stilati da tali organizzazioni come i supporti su cui fa leva un vero e proprio sistema tassonomico globale (Palumbo 2010) delle esperienze di genere non conformi al sistema cis[4]-eteronormativo.

Definire, classificare, disciplinare: l’esperienza trans nei manuali diagnostici e statistici

Sebbene le esperienze trans siano state patologizzate e medicalizzate ben prima del formale inserimento di diagnosi specifiche nei manuali diagnostici delle principali agenzie sovranazionali, delle associazioni e delle società scientifiche, è a partire dalla seconda metà del Novecento che le persone trans sono state protagoniste di inedite attenzioni da parte dei saperi medici e psichiatrici (Beccalossi 2011; Meyerowitz 2002; Irving 2013; Schettini 2011; Stryker, Whittle 2006).

Risalire le linee genealogiche che, nel 1949, portarono alla pubblicazione della sesta edizione dell’International Classification of Disease, Injuries and Causes of Death (ICD-6)[5] e, nel 1952, alla pubblicazione del primo Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorder (DSM) ci porterebbe assai lontano, a un periodo antecedente la fondazione stessa della WHO (Clark et al. 2017). Mentre era ancora in corso la discussione in vista della pubblicazione dell’undicesima revisione dell’International Classification of Disease and Related Health Problems, in un articolo significativamente intitolato Minding the body: situating Gender Identity Diagnosis in ICD-11, Jack Dresher, Peggy Cohen-Kittens e Sam Winter (2012; cfr. anche Drescher 2014) hanno dettagliatamente ripercorso la migrazione della categoria diagnostica che identifica l’esperienza trans nelle diverse edizioni dell’ICD e del DSM, non mancando di sottolineare come tali classificazioni diagnostiche siano state a lungo caratterizzate da scarsa conoscenza, misconoscimenti e controversie. Fin dal 1949 era presente, nel capitolo sulla salute mentale dell’ICD-6, la diagnosi di «omosessualità»[6], classificata entro la categoria «deviazioni sessuali», a sua volta classificata nella supercategoria «disturbi del carattere, del comportamento e dell’intelligenza». Evidentemente, come attestato da un’ampia letteratura, la distinzione tra orientamento sessuale e identità di genere non assumeva a quel tempo i caratteri perentori e definitori che assume oggi (Drescher 2010; Meyerovitz 2002; Rubin 1984; Valentine 2007). La sovrapposizione tra le due esperienze, quella omosessuale e quella trans, trova per altro conferma nelle prime riflessioni medico-scientifiche, come testimoniato anche da diversi studi nel campo dell’antropologia e delle scienze sociali (Arfini 2008; Vesce 2017).

Solo a partire dal 1965 (ICD-8) è quindi possibile identificare la diagnosi di «travestitismo», classificata tra le «deviazioni sessuali» nella categoria «personalità patologiche», sotto la super categoria «disturbi del carattere, del comportamento e dell’intelligenza». Questa stessa diagnosi compare all’interno del DMS-II, e viene riconfermata nel 1980 all’interno del DSM-III, il quale riprendeva sostanzialmente le classificazioni adottate nel capitolo sulla salute mentale dell’ICD-8 (Clark et al. 2017: 77-78). Ancora di travestitismo si parla nel DSM II e nella sua riedizione del 1973.

La diagnosi di «trans-sessualismo» (sic) appare per la prima volta in un manuale diagnostico nel 1975, più precisamente nell’ICD-9, dove compare, ancora sotto la categoria «deviazioni sessuali», insieme alla diagnosi di travestitismo (rinominata transvestism in luogo di transvestitism). Va specificato che a lungo questa stessa categoria ha ospitato anche i feticismi, la pedofilia, il voyeurismo, il masochismo, le parafilie, concorrendo in modo significativo alla stigmatizzazione delle esperienze e dei vissuti delle persone trans. Per quel che concerne l’APA la diagnosi di «transessualismo» compare per la prima volta nel DSM III, pubblicato nel 1980, e tale resta, venendo riconfermata e consolidandosi nella comune pratica clinica fino alla pubblicazione del DSM-IV. Come sottolineano Kenneth Zucker e Robert Spitzer ripercorrendo il dibattito sull’eliminazione dell’omosessualità dal DSM e l’inserimento della diagnosi di transessualismo

nella terza edizione del Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorders, apparvero per la prima volta due diagnosi psichiatriche relative alla disforia di genere nei bambini, negli adolescenti e negli adulti: disordine dell’identità di genere dell’infanzia (GIDC) e transessualismo (quest’ultima doveva essere utilizzata per adolescenti e adulti). Nel DSM-III-R si aggiunse una terza diagnosi: disturbo dell’identità di genere dell’adolescenza e dell’età adulta, tipo non transessuale. (Zucker, Spitzer 2005: 32)[7].

A differenza di quanto avvenuto fino a questo punto, una certa collaborazione tra WHO e APA caratterizzò i lavori di preparazione alla stesura dell’ICD-10 e del DSM-IV, il che produsse una sostanziale uniformità tra i due manuali, anche in ragione del modello descrittivo adottato per la classificazione delle psicopatologie (Clark et al. 2017: 79-80). Nell’ICD-10, in particolare, si diede una significativa riorganizzazione al sistema di classificazione adottato dalla WHO e vennero inserite nuove diagnosi pertinenti i cosiddetti «disturbi dell’identità di genere» (DIG): oltre al transessualismo, troviamo infatti la diagnosi di «travestitismo a doppio ruolo», quella di «disordine dell’identità di genere dell’infanzia», gli «altri disturbi dell’identità di genere» e, infine, quella di «disordine dell’identità di genere non specificato» (Cohen-Kittens, Drescher, Winter 2012; Drescher 2014; Zucker, Spitzer 2005: 32). Anche nel DSM-IV e nel DSM-IV-R, pubblicati rispettivamente nel 1994 e nel 2000, la diagnosi di transessualismo venne sostituita da «disturbi dell’identità di genere», con criteri diversi per i bambini e per adolescenti e adulti.

È doveroso sottolineare che la classificazione dell’esperienza trans come disturbo era stata fortemente criticata dalle associazioni e dai movimenti trans, che avevano a più riprese sottolineato il carattere disturbante, piuttosto che disturbato, delle proprie esperienze. A partire dal 2007, per iniziativa di alcune organizzazioni attive in Francia e in Spagna e, successivamente in numerosi altri contesti nazionali, prese forma un network internazionale che chiedeva la depatologizzazione dell’esperienza trans. La campagna Stop Trans Pathologization 2012 ebbe un certo successo negli anni a cavallo tra il 2009 e il 2012, vedendo l’adesione di oltre 200 organizzazioni in 40 paesi nel mondo, tra cui 7 network internazionali. La rete si dotò inoltre di un manifesto con cui si chiedeva, tra le altre cose:

  • l’eliminazione della transessualità dai manuali dei disturbi mentali (DSM-IV-R e ICD-10) e di eradicare i trattamenti chirurgici sui bambini intersex;

  • il diritto di cambiare il nome e sesso nei documenti ufficiali senza dover passare attraverso alcun monitoraggio medico o psicologico (…);

  • (…) il diritto di decidere liberamente se modificare i propri corpi (…) potendo portare avanti le proprie decisioni senza impedimenti burocratici, politici o economici, né altre forme di coercizione medica[8].

È in questo contesto che il dibattito sulla depatologizzazione iniziò ad affermarsi anche in Italia, dove le associazioni e i movimenti trans diedero vita a una vera e propria ricostruzione di senso delle proprie esperienze e organizzarono diverse occasioni di confronto e dibattito su questi temi (Arietti et al. 2010; Ballarin, Padovano 2013; Marcasciano 2018). Non che la questione fosse nuova nel dibattito pubblico italiano: già a ridosso dell’approvazione della L.164/1982, il Movimento Italiano Transessuali aveva fortemente contestato l’idea che le esperienze trans potessero essere inquadrate nel campo della salute mentale[9]. Nel 2011, la IV edizione di DiverGenti Festival Internazionale di Cinema Trans [10], organizzato dal MIT di Bologna, fu dedicato proprio al tema della depatologizzazione. Nel 2012, nel corso di un convegno organizzato da SPO.T. Sportello per le persone Transessuali del Maurice GLBTQ di Torino, Porpora Marcasciano parlò di eschimesi in Amazzonia per sottolineare che:

noi (…) viviamo in un contesto culturale avverso, parlo di un esquimese [sic] in Amazzonia nel senso di un contesto che compromette, ostacola, falsifica un percorso che potrebbe essere dei più sicuri e tranquilli. Questa è la questione, non dimenticare mai i contesti, perché fino ad ora molto spesso, questo è il limite della scienza, (…) aver isolato la persona transessuale dai contesti in cui questa vive e agisce. (Marcasciano 2013: 42).

Il riferimento al contesto proposto da Marcasciano pone questioni di grande interesse per l’antropologia, che alla necessità della contestualizzazione si è dedicata fin dalla sua fondazione. D’altra parte, il riferimento volutamente “esotico” proposto dall’autrice richiama l’attenzione sullo spaesamento vissuto dalle persone trans, che la retorica dominante considera “nate nel corpo sbagliato” mancando di tenere nella dovuta considerazione il ruolo giocato da un contesto sociale e culturale tutt’altro che ospitale.

Vale la pena sottolineare, prima di tornare alla nostra genealogia, che nonostante gli sforzi del movimento trans la campagna Stop Trans Pathologization non sortì gli effetti auspicati. Con la pubblicazione del DSM-5, nel 2013, le persone trans si videro assegnare la diagnosi di «disforia di genere», che nelle intenzioni degli psichiatri americani avrebbe dovuto segnare il passo con un nuovo paradigma, attento alle rivendicazioni dei movimenti e delle associazioni. In realtà, il concetto di disforia aveva trovato largo impiego fin dai primi anni ‘70, inizialmente introdotto da Donald Laub e Norman Fisk per «liberalizzare indicazioni per la conversione del sesso» (Fisk 1974; cfr. anche Meyerowitz 2002: 254) e successivamente utilizzato nella denominazione stessa dell’Harry Benjamin International Gender Dysphoria Association (oggi World Professional Association for Transgender Health – WPATH) fondata nel 1979. Il riutilizzo della categoria diagnostica, tuttavia, non incontrò il favore dei movimenti trans, che la avversarono fermamente attraverso l’uso del concetto opposto di euforia[11] (Arietti et al. 2010). Cionondimeno, al di fuori degli ambienti dell’attivismo, il concetto/diagnosi di disforia ha trovato e, ancora oggi, trova largo impiego tra le persone trans, che ne fanno un uso teso a manifestare il sentimento di disagio non solo nei confronti del genere assegnato alla nascita, ma di specifiche porzioni del corpo o caratteristiche sessuali (genitali esterni, presenza o assenza del seno o della barba, tono della voce, altezza, etc.).

Oltre che sulle categorie diagnostiche, vale la pena soffermarsi a riflettere su quelle che vengono definite parent categories, cioè le categorie entro le quali le diagnosi vengono inquadrate. In questo caso, il primo passaggio di senso che merita di essere sottolineato si compie nel 1980, quando la diagnosi di transessualismo compare per la prima volta nel DSM III sotto la categoria «disturbi psicosessuali», che sostituisce quella di «deviazioni sessuali», impiegata nel DSM-II come nell’ICD. Nel 1987 il DSM III-R rivede ancora la parent cathegory trasformandola in «disturbi che generalmente si manifestano nel corso dell’infanzia, della pubertà e dell’adolescenza», che nel 1994 si ritiene opportuno semplificare in «disturbi sessuali e dell’identità di genere». Infine, nel 1990, si assiste a un ulteriore shifting di senso che si compie con il passaggio alla parent category di «disturbi dell’identità di genere».

Year ICD DSM Parent Category Diagnosis
1948ICD-6 N/AN/A
1952 DSM-IN/AN/A
1955ICD-7 N/AN/A
1965ICD-8 Sexual DeviationsTransvestitism
1968 DSM-IISexual DeviationsTransvestitism
1975ICD-9 Sexual Deviations

Transvestism

Trans-sexualism

1980 DSM-IIIPsychosexual Disorders

Transsexualism

Gender identity disorder of childhood

1987 DSM-III-RDisorders usually first evident in infancy, childhood or adolescence

Transsexualism

Gender identity disorder of childhood

Gender identity disorder of adolescence and adulthood, nontranssexual type

1990ICD10 Gender identity disorders

Transsexualism

Dual-role transvestism

Gender identity disorder of childhood

Other gender identity disorders

Gender identity disorder, unspecifi ed

1994 DSM-IVSexual and gender identity disorders

Gender identity disorder in adolescents or adults

Gender identity disorder in children

2000 DSM-IV-TRSexual and gender identity disorders

Gender identity disorder in adolescents or adults

Gender identity disorder in children

2013 DSM-5Gender Dysphoria

Gender dysphoria in adolescents or adults

Gender dysphoria in children

2018ICD-11 Conditions related to sexual health

Gender incongruenceof adolescents and adults

Gender incongruence of children

gender incongruence unspecified

Tab. 1: L’esperienza trans nell’ICD e nel DSM (riadattamento dell’autrice da Cohen Kittens, Drescher, Winter 2012)

Questo gioco di diagnosi, categorie e sottocategorie potrebbe andare avanti a lungo (gli antropologi e le antropologhe, si sa, sono appassionati di logiche classificatorie) e può essere ben sintetizzato attraverso una tabella (tab. 1). Quel che mi preme sottolineare è che i manuali diagnostici e statistici della WHO e dell’APA riflettono le trasformazioni che hanno investito la psicologia e la psichiatria, pur nella continuità dell’interesse dei professionisti a mantenere – se non potere – almeno voce in capitolo sulla “condizione” trans. D’altra parte, proprio a partire dall’analisi di questi strumenti è possibile evidenziare le poste in gioco nella relazione tra agenzie transnazionali e apparati istituzionali nazionali. In linea con quanto affermato da Palumbo (2010: 38) a proposito dei «sistemi tassonomici istituzionalizzati attraverso i quali agenzie transnazionali danno forma a, e organizzano un, immaginario di portata globale, agendo, così, come strumenti di una governance planetaria capaci di plasmare attitudini, emozioni e valori di milioni di persone», le classificazioni della WHO e dell’APA attivano infatti processi di oggettivazione ed essenzializzazione delle esperienze di salute/malattia mentale che le società scientifiche e professionali, di concerto con gli apparati burocratici e le istituzioni statali, sono chiamate a tradurre in protocolli e linee guida per la presa in carico di esperienze umane che non sempre sono riducibili ai criteri di definizione delle diagnosi. D’altra parte, nel caso specifico oggetto d’analisi, il campo d’azione di questi sistemi tassonomici non è limitato alla sfera biomedica, ma si estende al riconoscimento della cittadinanza e dello statuto stesso di persona delle soggettività trans (Bhattacharya 2019; Richardson 2018; Stryker Aizura 2016; Valentine 2007). All’incrocio di questi campi si è andata consolidando l’alleanza tra saperi giuridici, psicologici e psichiatrici che la derubricazione dell’esperienza trans dal capitolo dell’ICD-11 sulle malattie mentali sta facendo traballare.

In effetti, a riprova di quanto appena detto, nell’ICD-11 la diagnosi specifica non scompare del tutto ma, ancora una volta, migra: derubricata dal capitolo sulle malattie mentali viene inserita in un capitolo specifico, relativo alla salute sessuale, creato ex novo nel tentativo di ridurre lo stigma cui la classificazione patologica dava luogo. Ciò si motiva in ragione del fatto che siamo in presenza di esperienze che hanno diritto non solo a processi di autodeterminazione della propria persona, ma anche, in egual misura, all’accesso alle cure (nella forma delle terapie farmacologiche ed eventualmente dell’accesso alla chirurgia), talvolta garantito dai sistemi sanitari nazionali, come nel caso dell’Italia. È dunque necessario operare una distinzione netta tra depatologizzazione/depsichiatrizzazione e demedicalizzazione, muovendosi nello sforzo di accogliere le istanze dei soggetti, nel rispetto dei loro bisogni e delle loro richieste terapeutiche. Se infatti la medicalizzazione non compulsiva, risultato di una scelta del soggetto, può apportare dei benefici alle persone trans – consentendo loro il ricorso a terapie farmacologiche, trattamenti estetici e chirurgici – la patologizzazione, nella forma della diagnosi psicologica o psichiatrica, è di per sé elemento che favorisce forme di stigmatizzazione, come riconosciuto dalla stessa WHO.

Trans-It: la legge e le persone.

Quando, nel 1982, la legge sulle Norme in materia di rettificazione dell’attribuzione di sesso fu approvata dal parlamento, alcune[12] trans italiane si erano già sottoposte a chirurgia genitale all’estero: a Londra, a Bruxelles, a Casablanca o a New York (Bonanno, Astuni 1981; Fiorilli 2021; Marcasciano 2002; Voli 2017). Come sottolineato da più parti, la legge si configurò quindi come una sanatoria (Voli 2018b) che intervenne a regolarizzare la posizione giuridica di queste persone, pur senza mai nominare l’esperienza trans e lasciando aperti ampi spazi di interpretazione. In un certo senso, come sottolinea Stefania Voli (2018a; 2018b), si può affermare che la L. 164/1982 ponga in essere un meccanismo compensatorio (Goffman 1963: 127-128) «atto [a] contrastare il rischio di qualunque ambiguità o violazione del binarismo di genere» (Voli 2018b: 102). Si tratta, inoltre, come accennato, di una delle prime leggi in Europa (Lorenzetti 2013; Honkasalo 2020), che nelle parole della presidente del MIT, Porpora Marcasciano, segna una vera e propria linea di demarcazione tra un prima e un dopo:

prima le persone venivano definite come matte, pazze, psichiatriche; dopo invece, sull’onda dei movimenti, si affaccia la nuova soggettività trans, che diventava di gruppo, diventava collettiva e veniva vista sul piano sociale, non più solo sul piano psichiatrico. Io faccio sempre l’esempio delle foto: le foto che c’erano fino a quel momento erano quelle segnaletiche, della questura, quelle del manicomio di Aversa... le schede lombrosiane, ecco. Dopo invece, il grandangolo permette di inquadrare questi soggetti in un contesto socio-culturale che comunque è un contesto marginale, ma un contorno c’è, è un’esperienza sociale[13].

Le prime battaglie del movimento trans si collocano quindi in un contesto di totale stigmatizzazione dei vissuti e delle esperienze di queste persone, definite allora con termini fortemente dispregiativi, come nel caso della parola “travestito”. In questo senso, la storia del movimento trans permette di ricostruire l’emersione delle soggettività trans nella storia (Feinberg 1996; Pearce et al 2020; Stryker 2008; Stryker, Aizura 2013) e il loro protagonismo, come significativamente sottolineato dal deputato radicale Franco Corleone nel corso della festa che si svolse la sera del 24 aprile 1982 presso la sede dei Radicali di Milano per festeggiare l’approvazione della legge, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 19 aprile dello stesso anno:

ancora una volta si dimostra che con le battaglie per i diritti civili, con queste battaglie così difficili, ebbene sono questi i diversi, i reietti, come una volta i divorziati, i divorzianti, i separati, i cornuti, come le altre volte le donne che abortivano... sono proprio i reietti, gli ultimi della società che in questo nostro paese si dimostrano i legislatori, quelli che fanno le leggi e che cambiano i rapporti umani. Credo che questo possa essere per voi tute la soddisfazione maggiore: essere state protagoniste di un processo legislativo e di aver fatto una legge[14].

L'iter previsto dalla L.164/82, modificato sul piano procedurale con Decreto Legislativo 1 settembre 2011 n. 150[15], richiedeva che venisse inoltrata domanda al tribunale di riferimento il cui presidente provvedeva a nominare il giudice istruttore e a fissare la data per la trattazione del ricorso e il termine di notifica ai familiari (coniuge e figli, se presenti). A discrezione del giudice istruttore poteva essere disposta l'eventuale consulenza «intesa ad accertare le condizioni psico-sessuali dell’interessato» (Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 106 del 19/4/1982: 2897) e, una volta accolta la richiesta, il tribunale dava disposizione all'ufficiale di stato civile del comune di nascita di effettuare la rettifica di registro. È interessante notare che l'articolo tre della legge, abolito dallo stesso dlgs. 150/2011, recitava: «Il tribunale, quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, lo autorizza con sentenza. In tal caso il tribunale, accertata la effettuazione del trattamento autorizzato, dispone la rettificazione in camera di consiglio». Quest’ultimo aspetto consente di far luce su una questione dirimente, che si configura come un principio generale nel nostro ordinamento civile: la preclusione per il soggetto di atti di disposizione sul proprio corpo «quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume»[16]. Per questa ragione il legislatore volle introdurre la possibilità di autorizzare con sentenza l’intervento, imponendo una struttura bifasica al procedimento e disponendo, all'articolo sette, l’estinzione dei reati eventualmente maturati a causa del trattamento medico-chirurgico. L’ambiguità dell’espressione «quando risulti necessario» è stata oggetto delle più disparate interpretazioni da parte dei tribunali ordinari e di merito, punto d’appiglio per una lettura del dettato di legge orientata al soddisfacimento delle richieste delle soggettività trans (Grilli, Vesce 2020, Lorenzetti 2013). In questo senso, ha concorso in maniera determinante a una tale lettura anche la mancata specificazione, nel testo di legge, dei caratteri sessuali come di tipo primario (genitali esterni e organi riproduttivi) o secondario (presenza o assenza del seno, distribuzione pilifera, tono della voce, etc.). Quel che qui mi preme sottolineare, in ogni caso, è che la rettificazione del nome e del sesso sui registri di stato civile è stata a lungo subordinata, di fatto e in diritto, all’intervento di modifica dei caratteri sessuali primari, mentre la pratica medica si è consolidata in protocolli che a lungo hanno previsto l’obbligo di sterilizzazione del soggetto (Honkasalo 2020) e che ancora oggi implicano una diagnosi di salute mentale[17] e procedure lente e macchinose.

Fig. 1 Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 106 del 19/4/1982

Nel tentativo di offrire una lettura costituzionalmente orientata della 164 e di armonizzarne l’applicazione sul territorio nazionale, nel 2015 sono intervenute, a distanza di pochi mesi l’una dall’altra, la Cassazione e la Corte Costituzionale, che si sono espresse per la rettifica del sesso anagrafico anche in assenza della sterilizzazione chirurgica, a condizione che sia possibile valutare la convinzione del soggetto e l’irreversibilità delle trasformazioni fisiche prodotte dall’assunzione della terapia farmacologica. È doveroso sottolineare che la giurisprudenza di merito si è mossa in questi anni nell’ottica della tutela del diritto alla salute delle persone trans, in linea con i dettami del trattato costituzionale e con le indicazioni degli organismi sovranazionali. Infatti, per quanto il Consiglio d’Europa e il Parlamento Europeo si siano ripetutamente espressi per l’abolizione di ogni trattamento obbligatorio e della diagnosi di salute mentale come requisito necessario per la rettifica del nome e del sesso, e nonostante il riconoscimento formale di un diritto costituzionale all’identità di genere nel nostro ordinamento, ancora oggi i protocolli e la pratica medica – come la giurisprudenza ordinaria – rimangono ancorati a un modello ricco di vincoli e strettoie. Con la decisione della WHO di inaugurare un nuovo capitolo entro il quale far rientrare la diagnosi di incongruenza di genere, derubricandola dal capitolo sulle malattie mentali, ha iniziato a traballare il primato che le cosiddette “scienze psy” hanno storicamente giocato nel campo di forze per il riconoscimento delle esperienze trans. Un potere che, nel nostro paese, si è sostanziato nella delega dell’autorità del giudice ai medici (Grilli, Vesce 2020) o nella sostituzione del primo ai secondi (Lorenzetti 2013). Venendo a cadere il principio della patologizzazione, sul quale di fatto si reggeva tutta l’architettura del procedimento legale, sarebbe quindi necessario avviare un processo di riforma che coinvolga non solo il campo dei saperi psicologici e psichiatrici, ma anche il campo giuridico e, auspicabilmente, le scienze sociali. Entro tale percorso, come avrò modo di sottolineare con gli interrogativi proposti a conclusione di questo contributo, il ruolo dei saperi antropologici potrebbe giocare un ruolo tutt’altro che secondario nella ridefinizione delle procedure di rettificazione del nome e del sesso delle persone trans e di genere non conforme. Vale la pena, tuttavia, aggiungere ancora qualche elemento di riflessione sul processo di depatologizzazione/depsichiatrizzazione delle esperienze trans e sulla necessaria garanzia di accesso alle cure, laddove richieste, a partire dalle esperienze maturate nel corso della ricerca sul campo, a Bologna e in altri contesti del territorio nazionale.

È ancora Porpora Marcasciano a fornire alcuni significativi elementi di riflessione nel momento in cui sottolinea, nel corso di un’intervista, che se non ci fosse stato il discorso scientifico probabilmente, il mondo trans non sarebbe riuscito a venir fuori dalla reclusione ed emarginazione in cui era castigato:

cioè il discorso scientifico, da una parte è stato un marchio, da una parte però è stato uno sdoganamento. (…) Quindi un aspetto su cui si è riflettuto poco è proprio questo: cioè il discorso scientifico e quindi quello medico si è inserito da un certo punto in poi perché le persone trans esistevano comunque da sempre e non è retorica questa. Io non credo che i femminielli napoletani ricorrevano all’endocrinologo, al chirurgo o che… ma di cosa? Cioè quelle non chiedevano il permesso a nessuno! Come le varie comunità sparse nel mondo… e, come dire, la propria esperienza, nella forma e nella sostanza, andava al di là della medicina e di tutto questo. (...) Io, se devo essere sincera, nonostante sia responsabile di un consultorio per la salute delle persone trans e tutto (…) ho visto sempre la classe medica come la depositaria, la detentrice, di un sapere che è stato costruito sulle spalle della gente, non con la gente, affianco alla gente. (…) Perché se no i discorsi arrivano sempre lontano e, come dire, foucaultianamente parlando, è la pratica discorsiva che sostituisce il resto. Ora, la medicina, lasciamo perdere il discorso medico, la medicina ci è venuta incontro o ci è venuta contro?[18]

De-path: etnografia di un processo da costruire

Come mostra un’ampia letteratura antropologica, le disuguaglianze nell’accesso alle cure, nei diritti e nell'empowerment che colpiscono anche le persone trans non si verificano in modo casuale, ma sono socialmente determinate da decisioni politiche e sociali che producono una diseguale distribuzione di reddito, potere e ricchezza tra soggetti e tra territori (Farmer 2003; Nguyen, Peschard 2003; Pizza, Johannessen 2009; Schirripa 2014; Seppilli 1996). Nel caso specifico preso qui in analisi, queste determinanti sociali possono includere, ma certamente non sono limitate a, l’esposizione ad atteggiamenti pregiudizievoli; comportamenti intolleranti, discriminatori, o curiosità inopportuna da parte del personale medico; disparità di trattamento sul territorio; scarsa formazione dei medici di base, degli specialisti e del personale; bisogno di non essere riconosciuti; diverso volume del capitale sociale, economico e culturale a disposizione dei soggetti; consapevole e volontario rifiuto dell’accesso alle cure.

Già nel 2014 un report dell’Agenzia dei Diritti Fondamentali (FRA) metteva in luce l’altissimo livello di discriminazione percepito dalle persone trans in Europa. Con riferimento all’anno precedente l’indagine il 22% delle persone trans dichiarava di essersi sentito discriminato nell’accesso ai servizi sanitari, il 19% manifestava la stessa percezione per ciò che concerne l’accesso ai servizi sociali, mentre la percentuale saliva al 54% nel momento in cui si fossero prese in considerazione le discriminazioni subite sul posto di lavoro. Nello stesso periodo, sottolinea ancora la FRA, una persona trans su tre in Europa si è sentita discriminata in una situazione in cui ha dovuto mostrare i documenti di identità, mentre l’87% delle persone trans che aveva partecipato all’indagine dichiarava che la propria vita sarebbe stata semplificata da procedure di riconoscimento legale del proprio genere più snelle. Inoltre, il 33% degli uomini trans e il 37% delle donne trans dichiaravano di non aver bisogno di alcun sostegno psicologico per il fatto di essere trans, mentre addirittura il 79% dei rispondenti indicava nella possibilità di scegliere tra più opzioni terapeutiche la garanzia di una vita migliore. Si tratta quindi, come emerge dalla ricerca della FRA e come io stessa ho avuto modo di constatare nel corso delle ricerche sul campo condotte in questi anni di un “fenomeno” complesso: la variabilità delle condizioni e delle posizioni dei soggetti, la disponibilità di capitale economico, sociale e culturale, le scelte dei singoli e delle singole persone trans entrano in gioco su questo campo a rafforzare le determinanti sociali di disuguaglianza nell’accesso alle cure. La ricerca etnografica consente di apprezzare non solo questa pluralità di esperienze irriducibili a definizioni rigide e criteri diagnostici, ma anche le forme di agency di cui le soggettività trans sono portatrici e che talvolta vengono agite nella negoziazione dei percorsi terapeutici o nella narrazione del sé di fronte ai decisori (giudici e psicologi).

Alcuni Stati Membri dell’UE hanno recentemente adottato leggi basate sull’autodeterminazione che implementano procedure più rapide per la modifica nel nome e del sesso sui documenti. Il modello del consenso informato[19], adottato – ad esempio – a Malta e in Belgio, si è dimostrato uno strumento di semplificazione delle procedure legali che consentirebbe di trasformare quello che è oggi un procedimento giuridico in un atto amministrativo. Si tratta di un’ipotesi che incontrerebbe certamente il favore del movimento trans, poiché consentirebbe di evitare gli ostacoli posti dalla relazione con i professionisti dei saperi psicologici e psichiatrici attraverso un semplice dichiarazione di consapevolezza e l’affermazione di un atto deliberato e volontario riguardo alle scelte terapeutiche.

La decisione della WHO di derubricare l’esperienza trans dal capitolo sulla salute mentale è stata accolta con grande clamore in tutto il mondo, salutata dalle organizzazioni trans come un primo doveroso passo in direzione della depatologizzazione. Mentre scrivo, tuttavia, nonostante le diverse dichiarazioni e le prese di posizione delle principali società scientifiche di psichiatri e psicologi, ivi incluse l’American Psychiatric Association [20] e l’American Psychological Association (2021: 1), nessuna iniziativa sembra essere stata presa in direzione di una revisione del DSM che metta a valore tali affermazioni. Se la World Professional Association for Transgender Health sta lavorando all’adeguamento delle proprie linee guida[21], le società scientifiche e le associazioni di professionisti/e italiane non hanno ancora avviato la ristrutturazione dei protocolli di presa in carico, né sono stati stilati piani operativi per l’adeguamento alle disposizioni dell’ICD-11. La fase attuale sembrerebbe quindi particolarmente appropriata per valutare quali approcci possano meglio servire le persone trans e di genere non binario che desiderino ricorrere alle procedure di affermazione di genere. Si tratta, però, per dirla ancora con Porpora Marcasciano di mantenere il punto sui bisogni delle persone trans:

allora è proprio questo il punto: demedicalizziamo... dice: il percorso è medicalizzato… eh, è medicalizzato per chi? (…) Per chi ha garantito tutto e chi è abituato a giocare. Per tante persone che invece hanno delle necessità, come dire, non si mettono a pensare alla demedicalizzazione alla depatologizzazione: questo è e questo è. Non so come dire... sono questioni politiche? Sì, assolutamente sì. Poste dai movimenti, va bene, ma non sentite e percepite direttamente dalle persone trans nella loro stragrande maggioranza per quanto riguarda i loro bisogni. (...) Noi ci dimentichiamo sempre, nel parlare di queste questioni, del sistema di welfare che c’è in Italia. Ora, se noi ci sentiamo che non abbiamo bisogno di niente e nessuno – ed è un discorso, ripeto, che possono farlo i garantiti, ma i non garantiti questo discorso non lo fanno – allora, se non abbiamo bisogno di niente e di nessuno, il problema neanche si pone. Il problema si pone nel momento in cui andiamo a toccare quelli che sono considerati diritti delle persone[22].

Nel discorso di Porpora, la prospettiva transfemminista si coniuga in modo evidente e passa attraverso una lente intersezionale, attenta non solo alla dimensione di genere, ma anche alle differenze di classe, economiche, come all’esposizione ai processi di razzializzazione (Crenshaw 1989). In quest’ottica mi sono mossa nel corso della ricerca etnografica, sforzandomi non solo di intercettare i bisogni, i posizionamenti, le disposizioni e le prese di posizione dei diversi soggetti attivi sul campo, ma anche di costruire percorsi di condivisione a partire dai quali sia possibile strutturare ipotesi di riforma in un’ottica pienamente depsichiatrizzata. Sebbene nel corso dell’ultimo decennio siano stati depositati diversi disegni di legge, alcuni dei quali provano a muoversi in direzione del principio di autodeterminazione, la strada da compiere appare ancora sterrata e non sempre facilmente percorribile.

Nel tentativo di iniziare a porre le basi per una riforma della L. 164/82 che vada nella direzione di un pieno riconoscimento del diritto alla salute e all’autodeterminazione delle persone trans, nei primi mesi del 2020, il MIT ha stilato e reso pubblica una piattaforma per Garantire la piena effettività del diritto all’identità di genere e all’espressione di genere[23], sottoscritta da diverse realtà e associazioni trans presenti sul territorio nazionale[24]. Presentata nel corso di una conferenza stampa tenutasi presso la sede del MIT il 13 febbraio 2020[25], la piattaforma è stata elaborata dallo sportello legale dell’associazione e si configura come un’analisi giuridica e una proposta politica sui primi passi da compiere in vista di una riforma della L. 164/1982. Il 12 dicembre 2020, nel pieno della pandemia da COVID-19, il MIT ha poi organizzato un webinar durante il quale la piattaforma è stata discussa da avvocati e giuristi impegnati per l’affermazione dei diritti delle persone trans. Due i pilastri intorno a cui è ruotata la discussione: da un lato il principio di autodeterminazione, dall’altro quello della depatologizzazione, tanto sul piano medico quanto su quello sociale. In questa direzione, è emerso da numerosi interventi l’opportunità di operare nella direzione di una revisione complessiva, nei termini di una riforma radicale che innervi una nuova proposta di legge sul diritto all’identità di genere, eventualmente disarticolando la rettifica anagrafica e il percorso medico di affermazione di genere. Il rilascio di un parere medico o medico-legale, che sleghi la necessità di accesso alle cure dalla compulsività di una diagnosi di tipo psicologico/psichiatrico porterebbe al superamento della necessaria autorizzazione agli interventi da parte del tribunale, rappresentando al contempo un elemento di garanzia per i medici e le strutture mediche (Bonini Baraldi, Sangalli 2020: 1-2)[26].

Come sottolinea ancora Porpora Marcasciano, si tratta però di capire dove vogliamo andare:

Allora i due piani che si aprono sono quelli del pubblico o del privato. Perché prima della 164 le cose le persone le facevano ugualmente: sia andavano a operare a Casablanca, si facevano gli ormoni per conto loro, però erano perseguitate, entravano in carcere, venivano arrestate… dopo tutto questo non c’è stato più, però all’epoca era molto sviluppato lo sfruttamento su queste cose. Cioè, il servizio privato, i chirurghi, i vari chirurghi ci lucravano, come dire, un’operazione all’epoca costava 25 milioni e non erano… non li trovavi così, cioè dovevi fare fior di marchette per strada per operarti. Poi si è aperta la parte del pubblico, quindi il riconoscimento, la possibilità di accedere a tutto. Ora, cosa vogliamo, cioè, dove ci vogliamo muovere? Sul pubblico o sul privato? (…) Garanzie o non garanzie? Accesso o non accesso? Esclusività per alcuni e non per tutti… cioè, va messo tutto sul piatto della bilancia. (…) Quindi, è un discorso di classe che va fatto, non possiamo sottrarci![27]

È questo un punto dirimente, poiché qualsiasi processo di riforma e, congiuntamente, di depatologizzazzione – nei termini della collocazione delle esperienze trans al di fuori del campo dell’azione compulsiva dei saperi psicologici e psichiatrici – non può e non deve comportare l’impossibilità per il soggetto di accedere alle cure, ivi compreso il supporto psicologico gratuito e competente, se richiesto. In questo senso, qualsivoglia revisione delle attuali disposizioni di legge e dei protocolli di presa in carico dovrebbe necessariamente muovere dal diritto all’identità di genere come parte integrante del diritto all’identità personale e da un’idea dell’affermazione di genere come percorso di consapevolezza e di autodeterminazione.

Alcuni interrogativi conclusivi

Nel tentativo di contribuire al dibattito in vista della formulazione di proposte di riforma dei dispositivi giuridici e dei protocolli biomedici di presa in carico dell’esperienza trans, in questo contributo ho provato a ripercorrere quelle che sono state le principali tappe di fuoriuscita dalla criminalizzazione e invisibilizzazione delle esperienze trans, che hanno visto nell’approvazione della legge 164/1982 un momento importante, sebbene non di per sé sufficiente. Dall’analisi dei manuali diagnostici e delle classificazioni internazionali delle malattie è emersa la tendenza ad accogliere le rivendicazioni delle soggettività trans, per quanto entro uno spazio di confinamento che non sembrerebbe intaccare significativamente l’egemonia delle cosiddette “scienze psy”. Con la significativa eccezione dell’ICD-11, il cui processo di implementazione, tuttavia, rischia di durare anni e di non trovare piena ricezione nei protocolli e nel manuale diagnostico e statistico dell’APA, largamente impiegato nella maggior parte degli stati nazionali. Inoltre, sul piano giurisprudenziale, a dispetto delle numerose aperture verificatesi attraverso i dispositivi delle corti ordinarie e di merito, resta da strutturare un intervento ex lege, che riceva strutturalmente le indicazioni dei diversi organismi sovranazionali, primo fra tutti il Consiglio d’Europa. Ciò pone ulteriori questioni, di natura non solo giuridica, alle quali i saperi antropologici potrebbero forse contribuire a rispondere. Alcune delle sentenze in materia di rettificazione dell’attribuzione di sesso si sono mosse, infatti, nella direzione di un’identificazione della vita di relazione come dato imprescindibile per il riconoscimento dei diritti di cittadinanza, nell’ottica del diritto alla salute e all’identità di genere (Grilli, Vesce 2020). Mi pare sia questo il terreno su cui la ricerca antropologica, sostanziata dalla pratica etnografica come procedimento rigorosamente immersivo, potrebbe offrire un contributo. Le antropologhe e gli antropologi sono esperti di relazioni e il loro apporto potrebbe essere significativo nell’individuazione di nuove procedure da seguire nel tentativo di rispondere alla richiesta dei giudici di sostanziare la domanda di rettifica del nome e del sesso sui documenti e sui registri di stato civile attraverso la produzione di documenti, incartamenti, testimonianze che possano validare la necessità di sottoporsi ad un rigoroso controllo giudiziale. Si tratta, evidentemente, di un processo tutto da costruire, entro il quale, come scienziati sociali, possiamo osservare con sguardo distaccato o al quale possiamo contribuire, mettendo in gioco competenze specifiche come in altri momenti e per altri processi di riforma, in certi casi e contesti, abbiamo fatto. In questo senso, la sostituzione della relazione psicologica con un’etnografia che metta in luce gli aspetti più significativi della dimensione di genere nella vita di relazione del soggetto potrebbe rappresentare un contributo rivoluzionario nel quale i saperi antropologici potrebbero a pieno titolo trovare applicazione ed essere spesi in ottica trasformativa. La sfida che dovremo affrontare nei prossimi anni sta innanzitutto nel creare un ambiente sociale competente e non pregiudizievole nei confronti delle persone trans, che valorizzi i percorsi di autodeterminazione, predisponendo la disponibilità di risorse terapeutiche diverse, non compulsive, non stigmatizzanti e di procedure legali veloci e orientate al riconoscimento dei diritti e della dignità delle persone.

Nel discutere il dibattito critico intorno ai processi di “medicalizzazione della vita”, in un articolo del 2006, Tullio Seppilli, notava come:

Questa espressione è invero usata per indicare dinamiche che seppur legate in ogni caso alla crescente influenza della biomedicina nella nostra vita quotidiana manifestano tuttavia un eterogeneo carattere. Essa si riferisce talvolta al mutamento di particolari stili comportamentali prodotto dai processi di comunicazione scientifica e di educazione sanitaria e dalla conseguente acquisita consapevolezza, da parte di molti, delle implicazioni di numerose abitudini quotidiane sul proprio benessere e sulla propria salute. (…) In questo senso la cosiddetta medicalizzazione della vita sta a indicare, propriamente, la tangibile positiva ricaduta delle conoscenze biomediche su ambiti del costume precedentemente vissuti e praticati come estranei a ogni implicazione sanitaria: perciò, un allargamento della “coscienza scientifica di massa” e un conseguente incremento della salvaguardia e della gestione consapevole del proprio stile di vita e della propria salute da parte di una determinata popolazione. (Seppilli 2006: 86-87).

Ci metteva in guardia Seppilli dal dilagare di risposte medicalizzate ai bisogni e alle aspirazioni delle persone «che costituiscono un pesante e non casuale sbarramento contro la identificazione critica e collettiva di fattori patogeni insiti nella logica stessa del nostro attuale sistema sociale» (Seppilli 2006: 87). Nel caso preso in analisi, tra i fattori patogeni risultano determinanti, da un alto, la transfobia dilagante sul piano socio-culturale, dall’altro, sul terreno bio-medico e giuridico, una visione binaria e determinista del sesso e del genere, che le prospettive transfemministe e queer (Arfini 2020; Busi, Fiorilli 2014; Connel 2012; Enke 2012); hanno sottoposto a critica e provato a destrutturare, anche nell’ottica di una medicina trans. Una medicina, cioè, che – per riprendere ancora Seppilli – sappia avvalersi del contributo delle scienze sociali e dell’antropologia medica, sociale e politica per individuare i fattori patogeni insiti nella logica stessa del nostro attuale sistema sociale.

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[1] ICD sta per International Classification of Disease and Related Health Problems, già International Statistical Classification of Disease, Injuries and Causes of Death (fino alla nona revisione). Si tratta di una classificazione convenzionalmente adottata a livello internazionale dagli stati membri della WHO, stilata nella sua forma attuale a partire dal 1948, che oltre a classificare le patologie in capitoli e categorie, assegna a ciascuna un codice identificativo della diagnosi.

[2] In particolare, oltre a partecipazione alla vita associativa e all’osservazione più propriamente etnografica, ho contribuito alla stesura di una proposta progettuale presentata nel quadro della linea di finanziamento Rights Equality and Citizenship dello ERC. Tale proposta, dedicata ai temi oggetto del presente saggio, vedeva come capofila l’Università di Siena, insieme all’Università di Udine e alle associazioni MIT di Bologna, Ora d’Aria di Roma e all’Associazione Trans Napoli.

[3] Per una cronistoria del MIT si veda https://mit-italia.it/chi-siamo (ultima consultazione 31/3/2021). Per uno sguardo sui servizi offerti dall'associazione si faccia riferimento alla voce dedicata sul sito del MIT https://mit-italia.it/ (ultima consultazione 31/3/2021).

[4] Il termine cisgenere, introdotto dalla comunità trans per qualificare le esperienze di coloro che si riconoscono nel genere assegnato alla nascita, è un concetto dal portato eminentemente politico attraverso il quale la comunità trans ha inteso nominare la “norma”, denaturalizzandola. L’utilizzo di questo termine, originariamente circoscritto ai movimenti transfemministi e queer, è stato recentemente contestato, in particolare negli ambienti del femminismo radicale, entro i quali è sempre più presente una componente trans-escludente di chiara matrice determinista. Per una discussione del concetto di eteronormatività si veda Warner (1991).

[5] Si tratta della prima edizione dell’ICD per come lo conosciamo oggi (Drescher 2014; Drescher, Cohen-Kittens, Winter 2012). Prima di allora, l’ICD era pubblicato dall’Institute of International Statistics e si limitava a classificare le cause di morte (cfr: Clark et al. 2017). Dal momento che i disturbi mentali in generale e sessuali in particolare non erano considerati tra le possibili cause di morte (Drescher 2014), fino al 1949 il manuale non conteneva un capitolo sulla salute mentale, che compare per la prima volta nell’ICD-6 (Clark et al. 2017: 77).

[6] Com’è noto, si sarebbe dovuto attendere il 1990 e la pubblicazione dell’ICD-10 perché l’omosessualità cosiddetta “egosintonica” fosse definitivamente eliminata dall’ICD (Drescher 2010), sebbene già nel 1973, a seguito della presa di posizione da parte dell’American Psychiatric Association, una ristampa del DSM-II, originariamente pubblicato nel 1968, aveva sostituito la diagnosi di omosessualità con quella di disturbo dell’orientamento sessuale. Nel 1980 (DSM-III), la diagnosi sarebbe stata rinominata omosessualità egodistonica (Drescher 2010) e questa stessa terminologia sarebbe stata usata nell’ICD-10.

[7] Traduzione mia

[8] Si veda: https://www.tgeu.org/sites/default/files/Manifesto%20Stop%20Trans%20Pathologization.pdf (ultima consultazione 28/3/2021).

[9] Le registrazioni e le interviste reperibili grazie alla digitalizzazione dell’archivio di Radio Radicale, organizzazione entro la quale avevano trovato accoglienza le istanze di quello che, nei primi anni ‘80, si andava costituendo come Movimento Italiano Transessuali (MIT) danno ampiamente testimonianza di questo dibattito. Si vedano in particolare i file indicizzati sotto gli argomenti transessuali, MIT, Movimento Italiano Transessuali sulle pagine web dell’archivio: https://www.radioradicale.it/archivio.

[10] Per una rassegna stampa sulla IV edizione del festival si veda: https://issuu.com/comunicattive04/docs/divergenti_rassegna_stampa_2011 (ultima consultazione 31/3/2021).

[11] Il ribaltamento della concetto di disforia in quello euforia segnala d’altra parte un processo di riappropriazione di senso che connota le pratiche dell’attivismo LGBTQI+ almeno dalla seconda metà del secolo scorso e che si concretizza nella riappropriazione e nello stravolgimento dei significati attribuiti a termini stigmatizzanti, come nel caso del termine inglese queer (Wilson 2019).

[12] La ragione per cui l’esperienza trans è declinata qui al femminile è che, a quel tempo, la stragrande maggioranza delle persone che facevano richiesta di rettifica dell’attribuzione di sesso erano persone assegnate alla nascita al sesso maschile, quindi donne trans.

[13] Porpora Marcasciano, intervista raccolta dall’autrice online nel mese di gennaio 2021.

[14] Intervento di Franco Corleone, Milano, 24 aprile 1982. Si veda Radio Radicale, Transessuali: approvata la legge, da minuto 3:08 a 4:01: https://www.radioradicale.it/scheda/3021/transessuali-approvata-la-legge-legge-n-1641982 (ultima consultazione 28/3/2021)

[15] Se originariamente la legge prevedeva che la richiesta di rettifica andasse proposta con ricorso al tribunale del luogo di residenza in composizione collegiale, il succitato procedimento di semplificazione dei riti processuali, prevede che la domanda segua le procedure dei riti ordinari, con conseguente aggravio in termini di costi e di tempi. Inoltre, il passaggio al rito ordinario ha posto il problema di chi fosse la controparte da citare in giudizio, producendo la prassi paradossale per cui è il Pubblico Ministero ad essere citato, che tuttavia resta estraneo tanto al rapporto sostanziale quanto all'interesse concreto e non può, pertanto, essere considerato tecnicamente una "controparte" (Lorenzetti 2013).

[16] A seguito della promulgazione della L.164 fu quindi necessario inserire in nota una deroga specifica per il cambiamento di sesso, che si aggiunse alle preesistenti deroghe relative ai trapianti terapeutici di parte del cadavere, al trapianto del rene di persone viventi, alla raccolta, conservazione e distribuzione del sangue umano e all’interruzione volontaria di gravidanza, per le quali esistevano già al tempo, norme specifiche. Ringrazio Matteo Bonini Baraldi, responsabile dello sportello legale del MIT, per aver chiarito questo aspetto nel corso di un colloquio informale.

[17] Vale la pena sottolineare che tanto nella sua formulazione iniziale, quanto nel testo attualmente in vigore, la L. 164/1982 non fa alcun riferimento a tale diagnosi, menzionando esclusivamente la possibilità per il giudice di disporre l’acquisizione di una consulenza tecnica d’ufficio (cfr: Lorenzetti 2013: 37, 56-57).

[18] Porpora Marcasciano, intervista raccolta online dall’autrice nel mese di gennaio 2021.

[19] Per una discussione generale si veda Quagliariello, Fin 2016.

[20] Significativamente l’associazione degli psichiatri americani definisce la diagnosi di disforia di genere “un’arma a doppio taglio” poiché, da un lato, fornisce opzioni terapeutiche alle persone trans e di genere non conforme, acuendo dall’altro i rischi di una loro potenziale stigmatizzazione proprio in ragione della classificazione della diagnosi come malattia mentale. L’obiettivo cui mirare, continuano gli psichiatri americani, dovrebbe essere quello di classificare le esperienze trans includendole entro una diagnosi di tipo medico/endocrinologico. Si veda in proposito il sito dell’American Psychiatric Association https://www.psychiatry.org/psychiatrists/cultural-competency/education/transgender-and-gender-nonconforming-patients/gender-dysphoria-diagnosis (ultima consultazione 31/3/2021).

[21] Sono debitrice nei confronti di Paolo Valerio che mi ha informata di questo processo nel corso di una conversazione informale.

[22] Porpora Marcasciano, intervista raccolta online dall’autrice nel mese di marzo 2021.

[23] Reperibile online sul sito: https://mit-italia.it/wp-content/uploads/2020/02/Piattaforma-MIT_Rev1.pdf (ultima consultazione 31/3/2021).

[24] Tra le associazioni firmatarie figurano: Consultorio Transgenere, Associazione Trans Napoli, Sunderam Identità Transgender Torino, Gender X, Azione Trans, Mixed LGBTI.

[25] Si veda https://www.facebook.com/mit.italia/videos/3935628773125434 (ultima consultazione 31/3/2021).

[26] Si veda: https://mit-italia.it/wp-content/uploads/2021/03/sintesi_webinar_12dic.pdf (ultima consultazione 31/3/2021).

[27] Porpora Marcasciano, intervista raccolta online dall’autrice nel mese di marzo 2021.