Applicare, usare ... o condividere l’antropologia?

Per un’antropologia pubblica dei patrimoni culturali

Alessandra Broccolini

Sapienza, Università di Roma; SIMBDEA, Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici

Lo stimolante dibattito nato sulle pagine di Antropologia Pubblica a partire dalle due lettere di Tullio Seppilli e Antonino Colajanni (in Benadusi 2020a), e al quale hanno contribuito diversi studiosi provenienti da ambiti diversi dell’antropologia italiana, va a toccare un nodo fondamentale che anima da quasi un secolo il dibattito antropologico e, dal secondo dopoguerra anche l’antropologia italiana: quello del “rapporto tra il sapere e il fare” dell’antropologia, tra conoscenza e intervento, tra esigenze teorico-epistemologiche e impegno etico-sociale (Colajanni 2012; Malighetti 2001; Benadusi 2020b).

Come è stato osservato in diversi commenti apparsi nel numero precedente della rivista, il dissenso tra i due studiosi deriva dal loro essere posizionati su orizzonti teorici, intellettuali e accademici diversi, che si esprimono nell’uso di diverse terminologie. Di fronte alla nascita nel panorama italiano di una nuova associazione denominata di antropologia applicata – espressione che rimanda nel lessico all’antropologia sociale britannica e in seguito ad una antropologia che interviene per lo più in paesi cosiddetti “in via di sviluppo” –, Seppilli risponde a Colajanni dichiarando il suo disaccordo nei confronti di un approccio che giudica ambiguo e “conservatore”, optando “per un termine diverso”, che fa riferimento ad un uso sociale dell’antropologia, un’antropologia di orientamento critico, nella quale il sapere e la ricerca sono consapevoli della “scelta di impegno” etico-politica che muove una ricerca che partecipa ad una azione di intervento sociale o culturale. «Va preso in considerazione – scriveva infatti Seppilli in un saggio di venti anni precedente – il punto di vista dell’intervento»:

Vale la pena di risottolineare il carattere non neutrale di ogni politica di intervento o di pianificazione sociale [...]. Il carattere non neutrale obbliga ad una “fondazione” di un intervento di antropologi nei processi di programmazione sociale, ad una necessità di individuare il sistema di valori, l’ideologia e il sistema di interessi materiali che in qualche modo supportano la politica di intervento a cui l’antropologo viene chiamato a partecipare (Seppilli 1993: 155-156).

In sua risposta Colajanni rivendicava il valore e l’utilità di una antropologia applicativa rinnovata e critica e non più legata alla stagione coloniale, parte integrante dell’antropologia generale, capace di mettere al servizio dei processi di cambiamento l’accuratezza dei suoi strumenti teorico-metodologici, ma anche di farsi osservatrice critica delle istituzioni e dei processi politici in ambito pubblico e privato.

Le diverse posizioni dei due studiosi su sapere e fare dell’antropologia (anche se non conosciamo l’eventuale risposta di Seppilli alla lettera di Colajanni) rimandano dunque ad orizzonti storici, intellettuali e a configurazioni diverse che la disciplina ha assunto nei tempi e nei luoghi in cui si è radicata, sia a livello accademico che nella pratica professionale. Tuttavia, il dibattito intorno al rapporto tra sapere e fare dell’antropologia non si esaurisce nelle posizioni polarizzate espresse dal carteggio Seppilli-Colajanni, dove ad una antropologia applicata di taglio etnologico prevalentemente extraeuropeo orientata ai programmi di sviluppo vediamo contrapporsi in Italia un antropologia critica dell’intervento sociale e culturale che Seppilli esprimeva e che ha visto tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento una convergenza tra antropologia culturale e sociologia sui vari fronti dell’intervento sociale (vedi ad esempio le posizioni espresse dal Memorandum; AA.VV. 1958). È comunque un dibattito che coinvolge fortemente anche (e forse soprattutto) quella tradizione demologica che si è rivolta allo studio e alla documentazione delle diversità culturali regionali, locali, alle pratiche culturali, espressive, e alle forme di vita della gente comune.

Nel lungo sviluppo che ha avuto questa antropologia italianistica[1], il rapporto tra il sapere (il ricercare e lo scrivere) e il “fare” antropologia (intervenire nei contesti studiati) si è espresso in forme differenti rispetto sia ad una vera e propria antropologia “applicativa” di taglio extraeuropeo, ma anche rispetto ad una antropologia socio-antropologica dell’intervento sociale. Qui la prossimità e la vicinanza non solo territoriale, ma anche morale, storica e più di recente intellettuale tra antropologi e soggetti/territori è stata massima e complessa, dando vita ad un lungo e articolato processo che ha prodotto, nel corso degli anni, una antropologia che possiamo definire “pubblica”, spesso senza riconoscimenti istituzionali o accademici, raramente visibile a livello nazionale, se non in qualche sporadico caso, ma presente in modo capillare e con profonde diversificazioni in tutti i territori regionali. Questo “fare” dell’antropologia – che deve essere ancora ricostruito in molte delle sue vicende locali – si è espresso in progetti di ricerca e di documentazione territoriale, nella valorizzazione di elementi culturali, in raccolte e allestimenti museali e oggi anche in progetti di “salvaguardia” di elementi culturali locali, a volte incontrando l’attenzione degli enti pubblici, a volte invece rimanendo entro circuiti privati. Importante in questo processo sono state da un lato le ricadute locali che hanno avuto nel tempo le ricerche demo-antropologiche nate in contesti accademici, che hanno prodotto esiti spesso imprevedibili in termini identitari e di progettualità locali, e dall’altro l’attivarsi di processi territoriali che hanno visto collaborare antropologi e attori locali entro un movimentismo che vediamo a partire dagli anni Settanta del Novecento entro la cornice del revival folk e della riscoperta delle tradizioni popolari (Dei 2002).

Dopo la stagione della folkloristica otto-novecentesca che era stata “raccoglitrice”, spesso distaccata sul piano etico e metodologico, di “sopravvivenze” popolari e di forme culturali “altre” (canti, credenze, pratiche), l’antropologia di orientamento demo-antropologico è stata attraversata, nel secondo dopoguerra, da forti sollecitazioni di tipo etico-politico che hanno prodotto densi dibattiti sull’utilità pratica della ricerca antropologica nei confronti della vita e delle condizioni materiali e morali dei cosiddetti ceti subalterni. La ricerca demartiniana con le note “spedizioni” in Lucania e in Puglia (De Martino 1959, 1961) ha rappresentato un modo di relazionarsi con il campo e con la pratica antropologica del tutto nuovo, dove il sapere e la conoscenza non erano considerate avulse dal contesto storico-sociale che le aveva prodotte e che lo studioso voleva condividere nella prospettiva storicista di un dialogo con quei contadini che “vogliono entrare nella storia” e che nella storia ci stanno come se non ci stessero (De Martino 2013: 132]). Il fine dell’antropologia di De Martino è infatti quello di produrre un sapere storicamente fondato finalizzato al raggiungimento di un “umanesimo etnografico” che include lo studioso ed i soggetti della sua indagine in un processo di presa di consapevolezza reciproca che voleva avere effetti di trasformazione e di cambiamento (Broccolini 2020; cfr. Signorelli 2015: 91ss.). Un circuito dialogico più teorizzato che praticato nella forma di un engagement con specifiche comunità o territori e che raramente ha prodotto un “fare”, una pratica di “restituzione” della ricerca, o un confronto aperto con i soggetti studiati, un condividere concreto nei confronti di singole collettività consapevoli e strutturate nel presente. I soggetti con i quali De Martino interagisce rimangono infatti profondamente distanti, per condizione sociale, economica e culturale, dal mondo dello studioso. Ben diversa è invece l’influenza che ha avuto nel tempo la ricerca di De Martino sui territori da lui studiati, che ha prodotto processi rilevanti, come ad esempio la “trasformazione patrimoniale” del tarantismo nel Salento (Pizza 2015), un processo che possiamo vedere in molti altri contesti che sono stati attraversati dalla presenza di ricerche di terreno rilevanti (ad esempio l’importante influenza esercitata sul paese di Cocullo in Abruzzo dalle ricerche prolungate di Alfonso di Nola (Giancristofaro 2016: 58; Ranalli 2020).

L’impegno etico-politico della demo-antropologia italiana di orientamento demartiniano negli anni ha spesso prodotto negli studiosi riflessioni sull’utilità pratica della ricerca nei confronti dei ceti subalterni, ma più raramente questo impegno si è concretizzato in una restituzione o in un “fare” con e per le persone che si andavano studiando. Le ragioni vanno cercate probabilmente sempre nella distanza tra osservatore ed osservato che era una distanza culturale, sociale e a volte anche politica, e anche quando questa distanza non c’era, a volte ha giocato un non comprendersi reciproco tra l’antropologo e le comunità studiate, una difficoltà a farsi capire che spesso non ha portato oltre la restituzione di qualche fotografia, o la nascita di contatti personali anche profondi con singoli interlocutori, oppure la presentazione in loco dei prodotti della ricerca.

La domanda fondamentale del fine, dell’utilità della ricerca, pervade dunque l’antropologia di questi anni. Riflettendo sulla sua approfondita ricerca sulle feste novenali in Sardegna condotta alla fine degli anni Sessanta, Clara Gallini, dieci anni dopo quell’esperienza, si domandava a chi servisse la sua ricerca, se ai pastori o al ceto medio-colto, ed esprimeva un disagio scaturito dalla consapevolezza della difficoltà che questa antropologia mostrava nel leggere i mutamenti profondi che stavano interessando i fenomeni festivi e la cultura popolare in generale; una cultura popolare che negli anni Settanta appariva orientata su un diverso asse economico e sociale con una nuova cultura del consumo e della comunicazione di massa:

Sul piano teorico, cominciavo ad interrogarmi sull’utilità della ricerca. Mi infilai nel classico dilemma del cui prodest? Serviva ai contadini e ai pastori? O serviva – nel migliore dei casi – per una qualche presa di coscienza di un ceto medio colto? A che serve la teoria o la verifica sul campo quando non si accompagni a una azione pratica e collettiva? Quali forme di intervento pratico poteva mai suscitare uno studio sulle feste o sul malocchio? (Gallini 1981: 89; cfr. 1971).

In quegli anni, tuttavia, la ricerca demo-antropologica si è incontrata con un movimentismo locale spesso non di estrazione “popolare”, che ha iniziato a porsi come primo momento di rivendicazione “patrimoniale” della cultura popolare. È da questo movimentismo che inizia a nascere un fare antropologia non prettamente accademico e non finalizzato al puro sapere, ma rivolto a processi di cambiamento attraverso una messa in valore delle culture locali; un fermento di studio, di riscoperta e riproposta della cultura folklorica, a volte con il concorso di regioni ed enti locali, che ha avuto esiti molto diversi (ora scientifici, ora politici, anche dilettantistici e commerciali), ma che ha richiamato il mondo degli studi sempre di più sul terreno degli usi sociali della ricerca (la figura dell’intellettuale militante teorizzata da Gianni Bosio) (Bosio 1975). Da qui la riflessione sul fine politico (e anche pedagogico) della ricerca sul terreno come passo fondamentale per avviare nelle comunità locali una presa di coscienza (più teorizzata che praticata in realtà), per coinvolgere, conservare e “resistere” (De Simonis 1984: 17; cfr. Dei 2002: 30). Lo stesso Seppilli in questi anni scrive su beni culturali e usi sociali della ricerca sulle tradizioni popolari (Seppilli 1976). Ma permane il problema della “distanza” tra un sapere antropologico accademico e le comunità territoriali. Non sempre, infatti, gli antropologi, in questa stagione culturale, si sono fatti capire dai loro interlocutori; a volte è stato piuttosto il contrario e si sono avuti fraintendimenti, incomprensioni e varie reazioni “difensive” da parte delle comunità (Minicuci 2015: 15ss.). Ma anche ricadute importanti delle interpretazioni più affabulanti, come ad esempio quella antiquaria e frazeriana (De Santis 1984). In quegli anni, scriverà Pietro Clemente: «Testimoni come oggetto di conoscenza e studiosi come agenti di conoscenza si sono mescolati, confusi o ibridati, pur tenendo le distanze» (Clemente 1995: 284).

Diversi sono stati quindi gli effetti prodotti dalla ricerca antropologica sui territori, tema che meriterebbe una analisi specifica, tra buone e cattive pratiche, ma è stata questa stagione –fondamentale – a porre le basi, nonostante alcuni limiti ideologici dati dalla distanza culturale tra osservatore e osservato, per una prima riflessione sulla cultura popolare folklorica come “patrimonio culturale” e per l’attivarsi di processi importanti, anche sul piano normativo e istituzionale in ambito ministeriale di riconoscimento dei “beni etnoantropologici” e di competenze professionali etnoantropologiche, che ha portato – tra luci e ombre – ad una presenza di questa antropologia “territorialista” nel dibattito pubblico.

Uno snodo importante nella riflessione tra sapere e fare pratico dell’antropologia demoantropologica italiana in questa stagione fondativa dei nostri studi è rappresentato dalla diffusione capillare che c’è stata in Italia dei musei territoriali a vocazione demoetnoantropologica. Si tratta di quei piccoli musei spesso “spontanei” della “civiltà contadina” nati nella stagione del movimentismo culturale degli anni Settanta e poi moltiplicatisi a livello nazionale nel corso degli anni Ottanta in tutte le regioni italiane, che oggi costituiscono ancora la categoria di musei più diffusa su scala nazionale secondo i dati dell’ISTAT (Lattanzi, Padiglione, D’Aureli 2015: 161). Musei spesso nati “dal basso”, a volte con il sostegno (poco) degli enti locali, dal collezionismo povero di oggetti raccolti da ex contadini, insegnanti e altre figure di volontari locali, che volevano conservare tra l’indifferenza di molti e delle istituzioni, la memoria di forme di vita e di lavoro locale di contadini, pastori e altre figure socialmente marginali ma essenziali nella storia nazionale. Questi musei rappresentano il punto di incontro tra mondo degli studi, sapere antropologico e l’attivarsi di processi culturali locali attraverso una stessa militanza culturale (Padiglione 2008: 136). Ne sono esempio il Museo della Civiltà Contadina di S. Marino di Bentivoglio (Bologna), nato a metà degli anni Settanta dallo scambio tra il mondo degli studi e un gruppo di volontari ex mezzadri impegnati nella ricerca locale e nella raccolta di oggetti della cultura materiale (Clemente 1996: 91; Padiglione 2008: 135)[2]. Una esperienza che ha stimolato, in un processo di cortocircuito, la fondazione di una antropologia museale italiana il cui “padre fondatore” è stato Alberto Cirese (1977) che indicava i musei etnografici come luogo di restituzione della ricerca antropologica, e la nascita di un ricco campo di dibattiti sul rapporto tra sapere antropologico, musei etnografici locali e mondo contadino (Clemente 1996, 1999; Padiglione 1995, 2008). Anche in questo caso, tuttavia, la museografia etnoantropologica spontanea e territoriale non sempre ha prodotto una alleanza tra la ricerca etnografica di tipo professionale e le risorse culturali locali (Clemente 1999; Padiglione 2008), tanto da far parlare di una «mancata connessione tra loro e gran parte degli antropologi, a partire dal secondo dopoguerra sino agli anni Ottanta», e addirittura di un «disconoscimento reciproco» (Lattanzi et al. 2015: 164).

In questo inizio di millennio l’antropologia di orientamento demo-antropologico impegnata nel campo dei patrimoni culturali andrà incontro ad una ulteriore svolta intercettando il respiro del dibattito e delle vicende internazionali, non ultimo il profondo ripensamento dei fondamenti epistemologici della disciplina con la svolta “riflessiva” e anche “collaborativa” che ha investito le forme del sapere e l’autorialità etnografica dagli anni Settanta/Ottanta del Novecento (Clifford 1988; Lassiter 2005). Ed è sempre dal campo museale che si fa strada una alleanza più strutturata e meno “volontaristica” tra il mondo degli studi demo-antropologici e il “fare” locale rappresentato dai musei. La nascita nel 2001 dell’associazione SIMBDEA (la Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici) che ha visto, fin dalla sua origine, una sinergia di azione e di intenti tra musei locali, territori e professionalità antropologiche, va in questa direzione e mostra un superamento delle stesse istanze etico-politiche contenute nei dibattiti sugli “usi sociali” dell’antropologia, essendo la ricerca sul terreno sempre più connessa alle esigenze e a volte alla committenza dei territori e delle comunità (intendendo per “comunità” soggetti collettivi diversamente posizionati nel campo del processi culturali). In questo senso, i musei – ma anche in seguito gli ecomusei che rappresentano una ulteriore forma di sperimentazione di una condivisione tra ricerca antropologica e processi territoriali – divengono luoghi dove si fa (o si “tenta” di fare quando questo rapporto si realizza) un’antropologia “pubblica”, dove si producono narrazioni, interpretazioni, in un processo non raramente conflittuale, che coinvolge anche il posizionamento dell’antropologo (Ferracuti et al. 2013). È una antropologia – quella museale e dei patrimoni culturali – sempre più engaged con l’attivismo e il movimentismo di comunità locali sempre più attive nel rivendicare nuove e più autonome forme di presa in cura (e di ricerca) dei propri patrimoni culturali. In questo cambiamento di prospettiva l’antropologia si è trovata a dover sempre più “condividere” la ricerca e il “sapere” fin dalle sue fasi iniziali.

Questa antropologia della “condivisione”, che inizia a farsi strada entro un «paradigma patrimoniale» (Dei 2012: 118) sempre più pervasivo nell’ecumene globale (che Poulot definisce un “imperativo patrimoniale”; Poulot 2006), alle soglie del Millennio riceve una spinta di accelerazione proveniente dagli orientamenti dati dagli strumenti normativi internazionali, primo fra tutti la Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale approvata dall’UNESCO nel 2003 e in seguito la Convenzione Quadro sul Valore dell’Eredità Culturale per la Società approvata a Faro nel 2005 dal Consiglio d’Europa, entrambe fortemente orientate verso una partecipazione locale della società civile nella identificazione e gestione del patrimonio immateriale. Questi strumenti, soprattutto il primo che l’Italia ha ratificato nel 2007 (mentre il secondo è stato ratificato solo nel settembre 2020) hanno aperto in Italia e nel mondo (ASPACI 2011) una stagione di grande fermento territoriale, che ha visto accrescere la consapevolezza di numerosi enti locali, comunità (variamente intese) e realtà associative nei confronti delle espressioni culturali e intangibili (fenomeni rituali, coreutici, musicali, forme culturali espressive, etc.), soprattutto orientate alle candidature per l’iscrizione nella Lista Rappresentativa UNESCO, non senza criticità, manipolazioni e rischio mercificazioni (Padiglione, Broccolini 2016). Tutti processi che sono essi stessi oggetto di studio da parte dell’antropologia (es. Palumbo 2002, 2003).

La ricerca sul terreno e il sapere dell’antropologia, pur non potendo prescindere da approcci critici sui processi culturali, de-essenzializzanti e lontani da una antropologia che si faccia semplice megafono delle dinamiche locali, oggi non possono più prescindere da questo incrociare soggettività consapevoli che si muovono nel nostro stesso orizzonte storico, non può più fingere di non vedere le aspettative, gli investimenti non solo morali, gli interessi ed i sogni, che le persone e le comunità mettono nei propri contesti culturali. Non sempre questo “guardare insieme” che viene evocato dal termine “condividere” (il cui etimo è cum videre) è realizzabile in modo compiuto; a volte lungo il cammino si aprono strade tra noi e gli altri che vanno in direzioni diverse.

Questo breve excursus sollecitato dal carteggio tra Seppilli e Colajanni sulle connessioni tra il sapere e il fare dell’antropologia di orientamento demo-antropologico (e che meriterebbe ben altra analisi) ha voluto mostrare l’evoluzione di un campo di studi e di azione che, benché spesso accusato di provincialismo e di visioni “sulle retrovie”, ha rappresentato per l’antropologia nel suo complesso un ambito pionieristico del “fare” antropologia nella società italiana, capace – anche se tra mille criticità – di sapersi muovere dentro le trasformazioni epocali sociali e culturali che hanno attraversato la società italiana e di coniugare sapere critico e nello stesso tempo condivisione di progetti con attori e territori locali. Una antropologia pubblica della condivisione che, pur producendo un sapere proprio entro i quadri teorico-concettuali della disciplina, non può più prescindere da un engagement con i propri terreni di ricerca, sia di tipo etico (la metafora evocata da Pietro Clemente dell’antropologo «giardiniere» che cura è particolarmente efficace in questo senso – Clemente 2014: 24), ma anche di tipo “professionale”, dal momento che sempre più spesso il sapere prodotto dalla ricerca è frutto di una committenza, di investimenti locali da parte di quella che oggi chiamiamo “società civile” e quindi di quelle ragioni e di quelle scelte – e qui tornano le parole Seppilli – «che stanno dietro qualsiasi progetto operativo a cui viene chiamato a collaborare l’antropologo» (Seppilli 1993: 155). Con la differenza che ora spesso sono i nostri stessi (s)oggetti di ricerca a farsi parte attiva nel dialogo con l’antropologo, agenti di una progettualità culturale nella quale l’antropologo e il suo sapere sono una delle diverse voci in campo.

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[1] Intendendo per italianistica quel campo di studi demo-antropologico rivolto alle culture locali e regionali.

[2] Analoga esperienza è stata quella del Museo della mezzadria di Buonconvento (Siena) (Clemente 1996). Ma si vedano anche altre esperienze museali, come il Museo degli Usi e Costumi delle Genti di Romagna di S. Michele all’Adige o il Museo degli Usi e Costumi di S. Arcangelo di Romagna.