Spazi e relazioni di cura per le donne richiedenti asilo

Valeria Bochi

Università di Milano Bicocca

Indice

Metodologia e fonti
Ruoli, oscillazioni morali e “costruzione della madre” negli spazi della seconda accoglienza
Corpi negli spazi di cura
Conclusioni
Bibliografia

Abstract.  In a context of second non-emergency hospitality, the article analyzes the interaction between social workers, medical staff and asylum seekers women, considering their sexual and reproductive health and the asymmetrical relationships among them. Reproduction is an interesting prism to analyze not only the dynamics of power/subjection in the construction of women subjectivity "in transit", but also to highlight the interaction between the staff involved in this relationship. This constitutes the physical and symbolic space where the vulnerability of women and their children is actively built. During this interaction pregnancy, motherhood, contraception, abortion become dimensions lived and acted differently and where this difference can lead to opposition, resistance, discrimination or violence, especially when real or presumed attempts to shape women's sexual and reproductive customs to European standards are determined.

Keywords. Migration; reproduction; vulnerability; black body.

L’articolo deriva da una ricerca etnografica svolta tra novembre 2019 e dicembre 2020 in alcuni comuni marchigiani. Oggetto dell’indagine sono state le dinamiche di presa in carico socio-sanitaria delle donne richiedenti asilo e/o rifugiate, quando viene espressa una domanda di salute sessuale e riproduttiva. Volutamente si è scelto di analizzare entrambi gli spazi in cui transitano le donne che manifestano questo tipo di bisogno: quello del progetto di accoglienza che le ha in carico, dove interagiscono con mediatori e operatori, e quello del percorso sanitario vero e proprio dentro consultori e ospedali, dove incontrano altre figure di cura (infermieri, medici e ostetriche). Tenere insieme nella stessa analisi etnografica questi due spazi di interazione e di intervento è complesso ma estremamente interessante, perché entrambi sembrano agire sulle donne con dispositivi di controllo simili che generano nelle varie figure professionali posizionamenti che vanno dal disciplinamento (fisico e psico-sociale) più o meno consapevole, al disagio morale, alla frustrazione, ad atteggiamenti esplicitamente discriminatori. Vedremo che tale condizionamento è particolarmente intenso nei casi di intersezione di alcuni fattori di provenienza geografica e di condizione giuridica specifica delle donne accolte. La seconda peculiarità della ricerca riguarda le soggettività direttamente coinvolte nell’indagine etnografica, che non sono state le donne ospiti dei progetti bensì l’insieme eterogeneo degli operatori socio-sanitari che le prendono in carico. Si è voluto volgere lo sguardo su chi accoglie e non su chi è accolto, poiché se esiste una letteratura ricca sui vissuti delle donne richiedenti asilo e rifugiate (Pinelli 2011; Grotti et al. 2018, 2019), soprattutto negli spazi di primo approdo, l’etnografia della seconda accoglienza appare meno sviluppata, soprattutto in relazione alle soggettività che ricoprono, nella relazione di presa in carico, la posizione dell’istituzione giuridico-sanitaria (operatori dell’accoglienza, mediatori e personale medico e ostetrico) (Altin et al. 2017). Questa prospettiva è utile per comprendere le dinamiche complesse innescate dalle presenze migranti nelle nostre città, negli ospedali, nei consultori, e per mettere in luce i discorsi generati in chi le assiste e i significati sociali e politici di questa relazione. La dimensione della riproduzione ha un valore euristico particolare, perché consente di osservare, in modo molto diretto, come le diverse soggettività si relazionino alla vita e alla morte, alla generazione di rapporti familiari e sociali, alla gestione del dolore fisico ed emotivo; come venga pensato il corpo dentro gli spazi di cura e, in particolare, dentro sistemi di potere profondamente asimmetrici quali sono i progetti di seconda accoglienza; e come tutto questo si traduca in discorsi, gesti, comportamenti, protocolli e procedure che di fatto rischiano di condizionare lo spazio di autodeterminazione e il libero esercizio dei propri diritti (riproduttivi) da parte delle donne accolte.

Metodologia e fonti

Le metodologie di ricerca etnografica utilizzate sono state necessariamente adattate alla contingenza pandemica, che ha reso difficili le osservazioni partecipanti all’interno degli appartamenti, degli ambulatori e dei reparti, portandomi a lavorare in contesti molto informali, attraverso incontri all’aperto, interviste in videoconferenza, scambi di racconti vocali tramite Whatsapp, invio di documenti per email. Ho interagito in maniera prolungata con venti professionisti (operatori di accoglienza, ginecologhe, ostetriche, mediatrici culturali, psicologhe e una assistente sociale) e ho avuto modo di leggere documenti metodologici e materiale informativo prodotto in tre progetti (ex SIPROIMI e CAS della provincia di Ancona). È attraverso gli occhi e i racconti di tutte queste figure professionali, a vario titolo coinvolte nella presa in carico delle richiedenti asilo e/o rifugiate, che riporterò alcuni episodi che riguardano storie di donne che però in nessun caso – per chiarezza metodologica lo esplicito – sono state da me interpellate direttamente.

La ricerca antropologica negli ultimi anni si è molto arricchita in relazione ai contesti di frontiera esterna (Grotti et al. 2018; 2019) e al continuum di violenza subito dalle donne descritto in molti studi recenti (Pinelli, Ciabarri 2016; Fassin 2011; Mattalucci 2017), mentre sembra esserci una letteratura meno abbondante in relazione ai contesti di seconda e terza accoglienza, non liminali e di approdo ma di ricollocamento, in cui i percorsi di presa in carico hanno dinamiche e tempi meno compressi, consentendo pianificazione e coordinamento territoriale (Altin, Saba 2020). I riferimenti teorici di questa ricerca possono essere riassunti in alcuni concetti chiave che emergeranno in controluce nel resoconto etnografico. Prima di tutto la prospettiva biopolitica delineata da Foucault (1976) rimane come cornice epistemologica, se consideriamo nel suo insieme il dispositivo di accoglienza per come oggi esso si dispiega in Italia, uno spazio asimmetrico, disciplinante e conflittuale, che vorrei indagare usando la lente particolare della riproduzione come esperienza anch’essa soggetta a controllo (Ginsburg, Rapp 1997), ancora più forte perché diventa la vera e propria “generazione di vita” ad essere oggetto politico e oggetto di politiche (Mbembe 2019; Das 2011). E trattandosi di una sfera intima che ha a che vedere con il corpo delle donne, questa lettura dei dispositivi disciplinari mette a fuoco immaginari femminili densi di asimmetrie, che in alcuni casi possono sfociare in vere e proprie letture essenzializzanti che proverò ad esplorare attraverso gli occhi non di chi ne è oggetto ma di chi ne è soggetto produttore: operatori e personale sanitario. Partendo dagli studi di Ahiwa Ong (2005) mi interessa esplorare come il sistema istituzionale dell’accoglienza incontra queste soggettività, e come ci si relaziona nel ri-negoziare e ri-definire la loro identità per tutto ciò che riguarda la sfera delle loro scelte riproduttive, coinvolgendo in questo processo anche i servizi territoriali di salute (consultori e ospedali) che diventano un ulteriore soggetto che eroga cura attraverso uno stringente controllo (biomedico). In questo senso propongo di declinare in maniera differente la nozione di “costruzione del rifugiato” della Ong (2005), parlando di vera e propria “costruzione della madre” come atto performativo e simbolico che viene agito in maniera sistematica attraverso sia i protocolli di accoglienza (corsi sulla sessualità, sulla genitorialità, sull’affettività, sulla nutrizione, interventi di accompagnamento psicologico), sia quelli medico-sanitari (gestione del dolore, protocolli di visite ed ecografie, tecniche di attaccamento e allattamento, contatto col neonato, ecc.) che si attivano ogni qual volta una donna in accoglienza si trova a vivere una gravidanza o una qualsiasi necessità di salute sessuale e riproduttiva. In questo processo di “costruzione della madre” agiscono, sia dentro lo spazio di accoglienza sia dentro le strutture sanitarie, alcune categorie performative molto potenti, che attraverso l’etnografia proverò ad esemplificare e che possono essere qui sinteticamente richiamate. Prima di tutto la nozione di vulnerabilità, che è uno dei capisaldi normativi nel nostro sistema di accoglienza, una categoria medico-giuridica che è divenuta una lente quasi esclusiva attraverso cui leggere le storie e i corpi delle persone accolte, mentre la ricerca antropologica ci dice quanto essa sia in realtà una condizione storicamente determinata e processuale, che viene quotidianamente costruita anche con il contributo proprio di chi pensa di doverne solo gestire gli effetti (Harrell-Bond 2005; Vacchiano 2005; Van Aken 2008; Sorgoni 2011). Essa attraversa tutto il sistema di accoglienza italiano, nella norma e nella pratica, è divenuta condizione e presupposto della cura stessa, come verrà mostrato dall’etnografia, per esempio attraverso i meccanismi di inclusione/esclusione dai progetti e dai servizi, l’iper-medicalizzazione, i comportamenti compassionevoli, l’approccio moralizzatore o didattico-emancipatorio delle attività informative e formative, tutti atti fortemente disciplinanti che si basano sull’assunto che l’interlocutrice sia in una posizione di bisogno, di mancanza, di sofferenza. Indubbiamente il discorso pubblico intorno alle donne richiedenti asilo rafforza la vitalità di questa costruzione simbolica e giuridica, alimentando l’immaginario diffuso che esse siano vulnerabili e quindi innocue e integrabili nella nostra comunità più facilmente degli uomini. Quando poi le donne sono in gravidanza questo immaginario si esprime all’ennesima potenza, proiettando sul corpo portatore di vita un ancor più forte intento di tutela che in qualche maniera anticipa il tempo della nascita predefinendo le tappe diagnostiche e formative a cui la donna dovrà andare incontro per poter essere “una buona madre”, rendendo così ancora più stringente la sua posizione di subalternità (Quagliariello 2019) e compiuto questo particolare processo di costruzione della madre. Alcune storie che ho incrociato mostrano, inoltre, che esiste una maggiore intensità di controllo in alcune situazioni particolari, per esempio di fronte a donne di origine subsahariana o vittime di tratta e sfruttamento sessuale, che rende indispensabile adottare la lente interpretativa dell’intersezionalità (Crenshaw 1989) per riuscire a comprendere appieno le differenti dimensioni di tutela agita sulle donne accolte e sui loro figli. Dalle parole delle operatrici emerge chiaramente una maggiore intensità di care, cure and control (Agier 2005: 50) sulle donne di provenienza sub-sahariana, così come dalle interviste con il personale ospedaliero queste donne vengono rappresentate come portatrici di una domanda di salute spesso difficile da comprendere se non, addirittura, apertamente contestata nei termini in cui viene presentata. Il paradigma che agisce all’interno del sistema di accoglienza e di cura pare essere quello di una “normalità riproduttiva” (Rapp, Ginsburg 2007) anch’essa prodotto discorsivo di un sistema culturale egemonico, che stabilisce cosa sia sano, opportuno e utile in merito alla vita riproduttiva di una donna e al suo essere madre, a cui si deve adeguare il profilo della donna accolta sia da un punto di vista comportamentale e sociale, sia sanitario. Ovviamente quando i soggetti sono particolarmente divergenti rispetto a questo modello femminile e materno, come nel caso di donne vittime di tratta e sfruttamento sessuale, queste diventano oggetto di interventi intrusivi e disciplinanti feroci che, in alcuni casi estremi ma non rari, consentono di mettere in luce in modo molto chiaro come agisca la tensione (solo apparente) tra ethos vittimizzante e moralizzante del sistema di accoglienza e disciplinamento fisico delle pratiche biomediche. Questi casi sono emersi prepotentemente durante la ricerca etnografica nei racconti di operatori e mediatori e anche nelle considerazioni raccolte tra il personale medico e ostetrico, portandomi a includere nella cornice teorica di riferimento, anche una ultima categoria di più recente formulazione e di più complessa collazione, che è quella di “razzismo ostetrico”. Si tratta di una prospettiva di analisi fortemente intersezionale che unisce la nozione di violenza ostetrica (Quattrocchi 2019) a quella di razzismo medico (Wolff, De-Shalit 2007) cercando di definire ciò che accade negli spazi di cura ginecologica quando il comportamento del personale mette a rischio la salute di donna e bambino, aprendo una riflessione sul perché ciò avvenga e quanto tali comportamenti costituiscano una violazione profonda dei diritti umani del soggetto in quanto paziente e madre (Davis 2018). Questi atti possono includere superficialità di cura, diagnosi frettolose o scorrette, mancanza di rispetto per la paziente, mancanza di attenzione nel provocare dolore fisico, esecuzione di procedure mediche senza il consenso consapevole della donna. Vedremo che alcuni di questi comportamenti sono emersi come frequenti nei racconti delle mediatrici culturali e degli operatori che ho incontrato, e, in maniera speculare, la narrazione raccolta dal personale sanitario che ho interpellato non è in contraddizione con l’universo simbolico sotteso a questa rappresentazione, e per questo ritengo sia un ambito estremamente interessante da approfondire con future ricerche.

Ruoli, oscillazioni morali e “costruzione della madre” negli spazi della seconda accoglienza

È necessario chiarire che questa ricerca etnografica ha riguardato gruppi non omogenei composti da varie soggettività che differiscono da un punto di vista giuridico o professionale (richiedenti asilo, rifugiate, vittime di tratta e sfruttamento sessuale, operatori di progetto, mediatrici, ostetriche, ginecologi), offrendo vissuti e posizionamenti rispetto al sistema in cui si trovano a vivere (o lavorare) estremamente differenti e spesso contradditori. Entrambi gli spazi in cui le donne accolte transitano quando vivono una gravidanza o una qualsiasi necessità inerente la loro salute riproduttiva – il progetto di accoglienza da una parte e i servizi sanitari (consultori e ospedali) dall’altra – non sono campi lineari e univoci ma ambienti in cui agiscono continue negoziazioni tra le posizioni individuali degli operatori e le pratiche istituzionali. Sono due spazi distinti ma collegati nel percorso di una gravidanza, di una richiesta di IVG o di una qualsiasi patologia inerente la sfera riproduttiva. La complessità di questi due campi relazionali genera riposizionamenti soggettivi continui e alimenta il rapporto che il personale ha con le donne accolte – a loro volta agenti forme di negoziazione e/o di resistenza – generando una tensione continua che informa il modo in cui la norma (giuridica e biomedica) viene tradotta in pratica quotidiana all’interno di uno spazio relazionale comunque artificiale, una finzione che funziona finchè che i soggetti implicati nella storia ci credono (Sorgoni 2011). Le dinamiche emergenziali documentate in letteratura (Agier 2016; Brambilla 2010, 2015; Fassin 2011; Cuttitta 2006) sono assenti nel territorio indagato, mentre esistono meccanismi di presa in carico utili per analizzare quello che accade “dopo l’approdo” (Pinelli, Ciabarri, 2016), quando il sistema dell’accoglienza si dà il tempo e gli strumenti politici, economici e tecnici per organizzare nel lungo periodo queste presenze che esprimono anche domande quotidiane di servizi e di salute.

Quando chiedo ad A., mediatrice nigeriana con una lunga esperienza di lavoro nei progetti di accoglienza, quale sia il suo vissuto con gli operatori delle équipe e come veda il loro ruolo in particolare nella relazione con le donne accolte, la risposta è immediata: «gli operatori sono dei bellissimi stronzi!» (intervista realizzata dall’autrice il 25/6/2020). Un potente ossimoro con cui si è aperta la nostra prima conversazione, sedute su una panchina del parco. Questa espressione di A., nella sua crudezza, riassume in realtà molte delle contraddizioni che caratterizzano oggi il lavoro della presa in carico dei richiedenti asilo da parte degli operatori di accoglienza, e denota la complessità del loro ruolo. Il lavoro dell’operatore che produce cura e nello stesso momento controllo, offre un’accoglienza che è al contempo attenzione disciplinante, producendo stati d’animo, comportamenti e rappresentazioni davvero complesse. Il progetto è uno spazio artificiale, che delimita un “dentro” e un “fuori” – fisico e giuridico – e che colloca gli operatori nel ruolo di sentinelle di questo confine burocratico, che regola la vita di persone il cui statuto di destinatario non necessariamente coincide con il riconoscimento effettivo di un diritto, se non per uno spazio-tempo a termine continuamente rimesso in discussione. La governance di questo spazio/tempo è un frame potente per comprendere le dinamiche della cosiddetta integrazione, per osservare lo scarto tra come essa è definita dal dettato normativo e come poi si realizza nella realtà. Uno spazio artificiale quindi, all’interno del quale si costruiscono relazioni altrettanto artificiali, basate su ruoli e posizioni etero-normate, soggette a continua negoziazione. In una conversazione di gruppo avuta con cinque operatrici CAS, tutte con una lunga esperienza, sono emerse scelte lavorative motivate prima di tutto da una grande carica ideale, il «voler aiutare persone che non hanno le stesse opportunità che abbiamo noi» per «dare senso al lavoro che non è certamente retribuito per le ore che faccio, ma che comunque mi riempie di soddisfazione» (Testimonianze raccolte dall’autrice durante un focus group con operatori CAS e ex SIPROIMI il 22/6/2020). Nelle narrazioni di queste operatrici, come di altre incontrate successivamente, traspare quella «oscillazione tra analisi politiche, commenti operativi e introspezione rispetto alle proprie aspettative» di cui parla Daniela De Bono (2019: 62) riferendosi ai borderworkers, le cui narrazioni vengono analizzate come parte integrante (e inconsapevole) della costruzione del confine stesso. Ci troviamo in contesti meno emergenziali, ma la complessità dei discorsi degli operatori mostra analoghe oscillazioni morali tra registri narrativi e simbolici molto diversi tra loro (Riccio, Tarabusi 2018).

Sicuramente questo è un lavoro bellissimo, ma è usurante, si può dire? Io ho smesso di avere orari e mi porto a casa le storie delle donne che incontro. Si dà per scontato che gli operatori non abbiano sentimenti né opinioni, o se ce li hanno che siano capaci di tenerli fuori dalla porta. Ecco, non è proprio così… (Intervista ad operatrice CAS raccolta dall’autrice il 21/8/2020).

S., 28 anni neolaureata e molto entusiasta del suo lavoro, nell’ambito di un progetto (ex) SIPROIMI ha organizzato una serie di incontri sul tema della pianificazione familiare. Nel raccontarmeli ha cercato di dare una spiegazione allo scarso entusiasmo con cui era stata accolta questa attività dalle donne richiedenti asilo «caldamente invitate a partecipare»:

Come progetto organizziamo periodicamente incontri di sensibilizzazione per le donne; l’obiettivo è trasmettere informazioni secondo una visione occidentale di sessualità: noi le gravidanze le programmiamo mentre questi bambini piovono in situazioni difficili… Cerchiamo di informarle su come funziona il sistema sanitario per la gravidanza, che esiste il consultorio che può aiutare per qualsiasi problema, e si informano le donne su quali sono i rischi di malattie e gravidanze indesiderate, che si può scegliere se e quando avere figli, ecc (Testimonianze raccolte dall’autrice durante un focus group con operatori CAS e ex SIPROIMI il 22/6/2020).

Le chiedo se le sembra che siano incontri utili e la sua reazione fisica è un po’ dissonante rispetto alle sue parole. Dopo una smorfia e un mezzo sorriso mi dice «beh sì, noi le seguiamo molto da vicino e diciamo sempre che siamo a disposizione per qualsiasi dubbio o problema anche intimo». Ma poi ammette che, almeno lei, non riesce a rendersi conto di quanto effettivamente questi incontri abbiano poi effetto nelle scelte familiari. Rimane un dato oggettivo, mi dice con grande sincerità, che queste persone condividono con gli operatori solo una parte della loro vita, una fase molto transitoria e problematica, ed è comprensibile che la conoscenza sia davvero limitata, poco spontanea e sicuramente su temi intimi come la sessualità e la maternità ancor di più.

Sono soprattutto le donne di origine subsahariana, in particolare nigeriane, che mettono in crisi gli operatori dei progetti (e vedremo che accade lo stesso anche negli spazi ospedalieri) perché nella relazione di cura e controllo esse spesso si sottraggono al gioco di potere, che è spesso potere della compassione e della morale. E non tutti gli operatori hanno gli strumenti, emotivi e cognitivi, per collocarsi e gestire questa relazione, come emerge dalla conversazione tra operatrici:

I: «Quando una di loro (sta parlando delle donne nigeriane) rimane incinta è un casino. Io ci ho provato molte volte a costruire un dialogo su questo, ma loro mettono un muro. Approfittano di tutto quello che il progetto può offrire per le visite e i controlli, ma poi non è possibile nessuna condivisione emotiva di questo momento».

P: «Non è come qui da noi, che quando una ragazza è incinta è un momento di gioia, di vicinanza con le amiche e le persone. Loro sul piano sanitario si affidano totalmente a noi, non si ricordano le date, non capiscono l’importanza delle ecografie e dei prelievi di sangue, insomma la presa in carico sanitaria è totale; qui la gravidanza è medicalizzata e loro non sono abituate, ma non c’è condivisione emotiva e alla lunga a me questo pesa» (Testimonianze raccolte dall’autrice durante un focus group con operatori CAS e ex SIPROIMI il 22/6/2020).

Qui ritroviamo nuovamente l’oscillazione tra registri narrativi molto diversi. Si sottolinea che il progetto viene sfruttato al massimo per quello che può offrire in termini di servizi ma poi si lamenta la mancanza di condivisione emotiva. Si suppone che la gravidanza proietti la relazione in una dimensione altra per cui, tra donne, la vicinanza e la condivisione dovrebbe essere automatica, ma siccome questo non avviene – perché l’asimmetria dei ruoli è più potente della possibile solidarietà di genere – la delusione è forte e l’impossibilità di costruire alleanza emotiva con le donne migranti rischia di tradursi in un nuovo giudizio. Le ragioni sembrano essere molteplici – aspettative emotive, sincera gioia per l’altra, proiezione di sé, desiderio di aiutare – e tutte convergono nel far sì che l’atteggiamento paternalista, diffuso in molti contesti di cura asimmetrici, in questo caso specifico di traduca in atteggiamento “maternalista” (Saharoui 2020), per cui lo spazio della gravidanza fa esplodere tutte le contraddizioni di una relazione artificiale e squilibrata. L’impressione è che ciò che fino a quel momento scorre sottotraccia, dinanzi a una gravidanza esploda in maniera potente e chiami in causa tutte le componenti del sistema, quelle individuali ed emotive degli operatori e quelle normative e operative del progetto. S. a un certo punto dell’intervista afferma: «Alcune donne a volte nei primi colloqui ci chiedono se abbiamo figli e se dici di no, non ti considerano più molto. Perdi autorevolezza. Io alla fine, per stanchezza, mi sono inventata un figlio che non ho per potermi far ascoltare da loro». P. conferma questo vissuto: « per loro la gravidanza è sacra, in qualunque condizione ti trovi se generi figli sei donna e sei viva. C’è una discriminazione anche verso di noi, se noi non abbiamo figli ai loro occhi valiamo molto di meno». Il tema del figlio non è neutrale, quindi, e la spiegazione che si danno le operatrici «nella loro cultura se non sei madre non vali nulla» è un macigno che condiziona molto la relazione operatrice-richiedente, già complessa di per sé, e in cui si inserisce anche una componente intima e profonda che esplode quando la donna accolta entra in gravidanza. In questi casi scatta un meccanismo interessante da indagare: cosa vuol dire essere donna e, quindi, quanto l’essere madre fa parte dello statuto dell’essere donna, in generale e dentro uno spazio di accoglienza? La risposta non è univoca e andrebbe contestualizzata nella storia di ogni soggettività coinvolta, ma il sistema non lo consente, non offre né il tempo né lo spazio relazionale per poterlo fare. Rimangono quindi spazi interrotti di dialogo e di avvicinamento che generano aspettative da una parte e dall’altra quasi mai soddisfatte. Non ci sono i tempi e i mezzi necessari per poter fare questa «messa in gioco di sé», come ha auspicato G. psicologa impegnata in molti progetti CAS e (ex) SIPROIMI con la quale ho dialogato a lungo su questo aspetto, che forse sarebbe l’unico modo per ricollocare la relazione su un piano paritario, autentico e meno discriminante, da una parte e dall’altra. G. mi racconta:

Due mesi fa, mentre facevo una supervisione in un progetto Siproimi, vengo informata che una donna ospite del progetto, alla quarta maternità, aveva deciso di abortire. L’operatrice che in quel momento l’ha seguita mi riportava in supervisione la fatica, nonostante una buona predisposizione dei sanitari della struttura (definita un miracolo) sua personale a seguire quel percorso. Quando le ho chiesto quali fossero le ragioni di quel profondo turbamento l’operatrice mi ha risposto “la donna non ha voluto dirmi la motivazione della sua decisione”. Come se le donne ospitate nel progetto dovessero spiegare “a tutti i costi” il perché di questa scelta, come se lo strumento di accoglienza ti obblighi alla verità assoluta (Intervista raccolta dall’autrice il 20/6/2020).

Chiedo a G. come ha aiutato questa operatrice, in concreto.

Ho provato a lavorare sulla sua difficoltà, non su quella della donna. L’operatrice in realtà ha fatto un ottimo intervento perché non si è tirata indietro accettando di non “comprendere” ma sostenere la scelta in modo che la beneficiaria non si sentisse sola. È quello che io chiamo procedere “per presenza”, che a volte basta in queste situazioni. Poi in supervisione, con me, ha portato tutto il suo impianto morale, il suo disagio e il suo essere "madre di tutti” che le ha fatto scegliere di non tirarsi indietro pur soffrendo. Io voglio pensare che sul lungo termine, con l’esperienza, l’approfondimento e la relazione forse non sentirà più il bisogno di interrogare le zone buone di sé. Saprà riconoscere e accogliere il dolore che non trova una spiegazione accettabile nella sua vita perché appartiene agli altri, vicini, ma non coincidenti con il sé. (Ibidem).

Un altro esempio molto concreto della forza performativa di alcune pratiche mi è stato offerto da L., operatrice di lunga esperienza, che mi ha raccontato con orgoglio dei laboratori sulla femminilità e sulla genitorialità organizzate, con le risorse dei progetti FAMI[1] per le donne ospitate nei progetti CAS e (ex) SIPROIMI. Nei documenti di metodologia che mi ha reso disponibili leggo che gli obiettivi di questi interventi sono identificati in modo molto chiaro: il laboratorio sulla femminilità si intitola Avere cura della propria femminilità e ha come obiettivo esplicitato fin dalla locandina promozionale quello di «accompagnare le donne straniere a una affettività consapevole»; il laboratorio sulla genitorialità si intitola Genitorialità e Cultura e ha come obiettivo quello di « accompagnare le donne migranti ad essere madri in un paese straniero: criticità e punti di forza». Entrambi i laboratori sono tenuti in quattro lingue e prevedono una metodologia condivisa dall’équipe sotto la guida di una psicologa. Purtroppo non ho potuto partecipare fisicamente ai laboratori perché al momento della ricerca erano stati sospesi a causa della pandemia, quindi ho potuto solamente leggere i documenti e parlare con le operatrici senza osservarne le dinamiche nel gruppo, e questo evidentemente è un limite all’analisi che sto proponendo. Posso tuttavia ipotizzare che queste pratiche volte a promuovere un discorso emancipato, siano condotte con la sincera convinzione di farlo per migliorare la situazione delle donne. Ma non sembra esserci, se non in modo molto sfumato, il pensiero che questo corrisponda effettivamente ai loro bisogni, alle forme che può assumere il loro desiderio di cambiamento, a una scelta libera e non condizionata dal meccanismo progettuale del «caldo invito a partecipare» alle attività proposte. Queste attività sembrano mostrare un approccio disciplinante verso il femminile analogo a quello descritto da Pinelli e Ciabarri (2016), ancor più sofisticato poiché non è più strumento emergenziale di contenimento ma è pratica istituzionalizzata dentro uno spazio di permanenza medio-lunga, habitus incorporato nei progetti, sostanziato di procedure e pratiche condivise, che hanno come obiettivo una vera e propria “costruzione della madre”. Con questa definizione intendo riferirmi a qualcosa di molto vicino al concetto di “matro-poiesi” proposto nello studio di Sara Bonfanti (2012) sulla costruzione sociale della maternità, atto non solamente biologico, ma culturale e storicamente determinato. La costruzione della madre – ovvero la messa in campo di azioni e narrazioni attive su quella che dovrebbe essere una buona madre – è particolarmente cogente in questi spazi asimmetrici, in cui il corpo femminile di fatto non è pienamente titolare delle proprie decisioni riproduttive, proprio nel momento in cui tale libertà viene auspicata come esito di un percorso di emancipazione e di piena integrazione. Le pratiche di accompagnamento delle donne accolte mettono in evidenza come questa cogenza agisca su due piani paralleli ma complementari: quello della maternità nella sua dimensione emotiva, sociale e culturale che deve essere insegnata a chi si suppone abbia codici di maternità e genitorialità differenti e non sempre compatibili con la cultura del paese di approdo. E quella strettamente biologica che negli spazi di cura deve adeguarsi ai protocolli biomedici ufficiali che difficilmente dialogano con pratiche e rappresentazioni differenti del travaglio, del parto, del dolore, dell’allattamento: ed è qui che entriamo nell’altro spazio in cui transitano le donne richiedenti asilo e rifugiate, quello sanitario.

Corpi negli spazi di cura

Le donne richiedenti asilo ricevono, se necessario, il supporto degli operatori per entrare nei percorsi di cura previsti dalla legge, negli spazi medici veri e propri – consultori e ospedali – dove, con l’aiuto delle mediatrici, il più delle volte, esse traducono la loro domanda di salute in richieste concrete. In questo transito lo spazio protetto dell’accoglienza (dell’operatore che accompagna e accudisce, della presa in carico individualizzata e sedimentata nel tempo lungo) si connette con lo spazio esterno (fatto di protocolli sanitari, visite ed esami in spazi non esclusivi e in tempi brevi). Ed è in questa duplice relazione che si costruisce il vissuto riproduttivo delle donne in accoglienza di cui provo a mettere in luce alcuni aspetti utili, spero, per comprendere il ruolo dei diversi attori in campo con le donne.

Il posizionamento di medici e ostetriche, anche con molta esperienza di lavoro con pazienti migranti, sembra essere granitico sul «far comprendere il concetto di benessere materno e fetale in un mondo, il nostro, in cui esistono ben chiari alcuni concetti chiave che ci guidano: malattia, assenza di malattia, morte», come afferma F., ginecologa ospedaliera, che qui riscontra la più grande difficoltà nella relazione con le donne richiedenti asilo e rifugiate. La biomedicina occidentale si fonda su questo paradigma, sebbene ci siano molte diverse posizioni individuali; tuttavia la relazione con un corpo migrante portatore di istanze a volte diverse o diversamente codificate, non sembra scalfire, nel lavoro quotidiano, il riduzionismo organicista su cui si fonda la prassi clinica. Pare impossibile includere nel proprio discorso sulla riproduzione le dimensioni ritenute avulse dal piano biologico, riducendo salute e malattia al mero dato organico. Questa medicalizzazione della riproduzione che si applica a tutte le donne, italiane e straniere, produce l’effetto che il corpo venga concepito solo come “ambiente somatico” del feto e che il gesto di cura si riduca al «monitorare e controllare, secondo precise scadenze, eventuali anomalie della macchina riproduttiva» (Bonfanti 2012: 9). Chiaramente ciò esprime una difficoltà di fondo del personale medico e ostetrico nel leggere alfabeti diversi per pensare il corpo, il binomio salute/malattia, il vissuto del dolore e l’esperienza riproduttiva nel suo insieme:

Per me è chiaro che culture diverse hanno diversi modi di esprimere il dolore del travaglio. In generale nelle africane ho sempre visto una maggiore drammatizzazione rispetto alle italiane, poca collaborazione e a volte sono proprio oppositive verso di noi, diventa difficile gestire il travaglio così (Intervista a ginecologa raccolta dall’autrice il 18/9/2020).

Qui in ospedale il travaglio è davvero vissuto in modo differente. C’è quella che urla ma non è per il dolore ma per cultura, quella che sta zitta perché si trattiene, quella che balla. Le bangla si trattengono molto. Le nigeriane fanno un gran casino. Anche gli uomini sono molto diversi. L’italiano se sente la moglie lamentarsi chiede subito aiuto, l’africano lascia che urli e soffra e non interviene. In generale queste situazioni ci mettono in crisi ogni volta (Intervista a ginecologa, raccolta dall’autrice il 23/08/2020).

Il concetto di dolore per loro è molto diverso. Tutte fanno il colloquio per l’epidurale e sembra che alla fine sia una scelta molto convinta, se possono evitarsi il dolore lo fanno come noi. Io ho capito alla fine che se siamo direttive loro non capiscono. Bisogna spiegare e fare in modo che capiscano quello che devono fare. Ricordo che una donna nigeriana a un certo punto non voleva più che le facessimo prelievi di sangue e quando le ho chiesto perché, mi ha risposto ‘non ho più sangue, me lo avete tolto tutto’. In questi casi a noi viene da ridere ma purtroppo dobbiamo spiegare che i prelievi e i controlli servono per il bene del bambino (Intervista a ginecologa, raccolta dall’autrice il 18/09/2020).

L’incontro con altre culture e pratiche della riproduzione potrebbe essere una occasione per mettere in discussione la certezza che essa sia solo un fatto biologico, universale e invariabile, per riscoprire il fatto che è anche un evento bio-sociale culturalmente costruito (Oakley 1980; Jordan 1983; Davis-Floyd 1992; Ranisio 1996). Se ciò non avviene è estremamente importante interrogarsi sul perché. Il nostro sistema sanitario non sembra ancora pronto ad assumere un punto di vista decentrato rispetto alle proprie pratiche di assistenza al parto perché la riproduzione è il primo sito di difesa dell’identità culturale (Davis-Floyd, Fishel Sargent, Rapp 1997): mettere in discussione le proprie pratiche e saperi medici significa mettere anche in discussione i discorsi culturali, sociali e politici su cui poggiano il modello di cura e l’idea di corpo, individuale e sociale. Una ricerca che abbia come oggetto la relazione di cura con corpi di stranieri/e ha un potenziale euristico importante perché chiama in causa tutte le dimensioni di questa relazione, non solamente quelle che hanno a che fare con gli aspetti clinici ma anche tutte le narrazioni e gli immaginari simbolici che si attivano dentro questa relazione. Come accade nei percorsi di accoglienza, anche in quelli sanitari quella che emerge è una evidente stratificazione delle forme di interazione tra personale medico e donne-pazienti, una sorta di gerarchizzazione nelle modalità di relazione che si costruisce anche in funzione della provenienza geografica. Dai racconti delle mediatrici, degli operatori e anche del personale sanitario, emerge che le donne richiedenti asilo di origine subsahariana sono considerate le pazienti più problematiche o, quantomeno, quelle che attivano i registri simbolici e gli atteggiamenti più complessi e, in alcuni casi, apertamente discriminatori. G., psicologa e operatrice racconta la storia di N. che è paradigmatica di quanto succede alle donne richiedenti asilo o rifugiate dentro i reparti di ginecologia e ostetricia:

N. È una donna congolese di 46 anni, richiedente asilo. Una mattina arriva in ufficio con una pancia gonfia che lei tiene abbracciata come ci fosse un bambino. Sto male mi dice, mi puoi accompagnare all’ospedale? N. parla pochissimo durante il tragitto ma non lascia mai la pancia. Io le chiedo da quanto sente dolore e secondo lei cosa ha. Mi risponde con un filo di voce che è da qualche settimana che sente delle fitte ma che non ha detto nulla perché pensava passassero da sole. Eravamo state in commissione due settimane prima, io e N., a Caserta, un viaggio lunghissimo verso la speranza di ottenere l’asilo. Stava bene, penso tra me e me, ha sostenuto tutta la commissione, ha cantato in macchina mentre andavamo lì. Ha cantato tutto il tempo (una canzone straziante) e io non mi sono accorta di nulla. Dopo tre ore di pronto soccorso in attesa viene ricoverata d’urgenza in reparto. N. ha un fibroma grande come “un bambino” (testuali parole del ginecologo). Io la seguo in reparto e anche se spiego che sono una operatrice non mi lasciano entrare, ma resto di tigna dietro la porta e sento le sue urla strazianti. La sta visitando a mano viva, senza sedazione, il ginecologo. Lui è un uomo che le allarga le gambe e dice che deve stare ferma. Io cerco un’infermiera e pretendo che entri con lei, poi la portano via e la operano. Quando passa io le stringo le mani e lei canta la stessa canzone della commissione. A me viene da piangere e mentre aspetto chiamo il coordinatore del progetto che ad una settimana dall’accaduto farà un esposto all’ospedale per quel ginecologo uomo che ha trattato N. con una violenza di cui io sono testimone indiretta perché tenuta lontana da lei. N. ce l’ha fatta anche se le hanno dovuto asportare l’utero. N. non aveva detto niente dei dolori perchè aveva paura di saltare la commissione che aspettava da 11 mesi. N. ha ricevuto la protezione sussidiaria un mese dopo l’operazione. N. non potrà mai avere figli, però ha avuto il documento. N. canta sempre quando ha paura perché la sua mamma le ha detto di fare così. (Intervista a psicologa CAS, 31/8/2020).

Di storie simili ne ho raccolte molte, tutte in forma indiretta, riportate da operatrici e mediatrici che hanno accompagnato donne ospiti di progetti di accoglienza nei reparti ospedalieri. Tutte raccontano la stessa impotenza e violenza, spesso verbale e a volte anche fisica, vissute dalle donne, in particolare da quelle che hanno in comune oltre al percorso migratorio e allo status di richiedente protezione internazionale un altro elemento ricorrente: il colore della pelle. Senza generalizzare ma con un preciso intento analitico, dopo i primi racconti in cui emergevano parole, azioni e rappresentazioni chiaramente ascrivibili non solamente alla categoria della violenza ostetrica[2] ma anche a quella, ancor più specifica e meno conosciuta, del “razzismo ostetrico” (Davis 2018) ho deciso che questa, per quanto estremamente delicata, dovesse essere una delle lenti interpretative della mia ricerca, utile per avviare una riflessione sui rischi di “razzializzazione” negli spazi di cura (Ribeiro Corossacz 2012, 2013) La totalità delle operatrici e mediatrici incontrate mi ha confermato di aver assistito a episodi in qualche modo ascrivibili alla categoria di violenza ostetrica e, in molti casi, ad atteggiamenti di vero e proprio razzismo, mentre i medici e le ostetriche che ho conosciuto non hanno mai manifestato verbalmente alcun atteggiamento discriminatorio, pur esprimendo giudizi e diverse considerazioni nei confronti delle pazienti provenienti dall’Africa sub-sahariana. In tutto il percorso nascita, il parto è forse il momento in cui i discorsi e i significati maturati intorno al corpo emergono in maniera più evidente e sostanziano una relazione di cura profondamente asimmetrica dove gli immaginari potenti agiscono come categorie interpretative dei comportamenti delle donne. Ciò che non è spiegabile in termini clinici e biomedici, o in generale in termini razionali, viene ascritto immediatamente alla categoria del “selvaggio” e “dell’istintuale”: «Durante il parto sono molto teatrali, la scena è molto pittoresca. Urlano, si buttano a terra. Una voleva l’acqua fredda addosso, si spremeva l’assorbente bagnato tipo gavettone» (Intervista telefonica a ginecologa ospedaliera realizzata dall’autrice il 3/9/2020). E ancora: «Hanno comportamenti istintivi, quasi selvaggi. Una donna girava nuda per la sala parto, era un donnone grosso, difficile da gestire. Si allargava da sola i genitali con le dita, era molto istintuale. Molto pittoresca da vedere, e a un certo punto l’abbiamo lasciata fare» (Ibidem). Quello che il personale sanitario definisce selvaggio è tale perché manifesta una diversa idea di gestione del corpo: una inaspettata capacità di sapere come muoversi, cosa fare e come fare; una disturbante spontaneità nel gridare, cantare e lasciare libero il corpo di soffrire senza autocontrollo; una relazione col bambino senza i filtri biomedici dei protocolli, dei tempi, delle pesate, delle curve di crescita, delle medicine. Questa categorizzazione dell’altra come selvaggia, in senso positivo o negativo, mostra quanto di fatto questa categoria sia una invenzione, una costruzione di chi osserva più che una evidenza di dato oggettivo. La categoria del selvaggio è emersa di frequente, nei racconti raccolti, come spiegazione di atteggiamenti considerati non conformi alla presunta normalità del travaglio e del parto ospedaliero, e sopravvive con sfumature ancora più pericolose nel giudicare il rapporto con il neonato, i modi di attaccamento al seno, le tecniche di allattamento e svezzamento, rispetto ai quali sembra esserci una norma biomedica che non ammette digressioni, alimentando così uno spazio simbolico dentro cui poi maturano a volte decisioni invasive nei confronti delle madri. Mi racconta un’operatrice anti-tratta:

La chiamata tipica che ricevo è quella dell’ostetrica del nido ospedaliero, disperata perché la madre “manipola” la testa del bambino e mi chiede di fare qualcosa “altrimenti chiama l’assistente sociale”. E non serve a molto che io le spieghi che si tratta di una pratica che hanno appreso dalle loro madri per tentare di arrotondare la testa del bimbo dopo la nascita, cosa per cui noi paghiamo fior fiore di osteopati… O mi chiamano perchè in camera urlano, hanno vestiti sporchi, buttano le cose a terra. Mi fanno liste di comportamenti inaccettabili e in assenza di mediatrici in ospedale che possano intervenire diventa difficile evitare che queste preoccupazioni si trasformino in qualcosa di più pericoloso per queste donne, che vivono già in una situazione di assoluta precarietà (Intervista a operatrice anti-tratta raccolta dall’autrice il 15/7/2020).

È l’intero percorso nascita che dentro l’ospedale – perché lo spazio consultoriale sembra avere dinamiche diverse – può assumere questi connotati irrispettosi, profondamente intrusivi se non violenti. Se la paziente è di origine subsahariana, ancor più se è vittima di tratta, questi connotati intrusivi e giudicanti possono esplodere in comportamenti individuali chiaramente ascrivibili al razzismo ostetrico. P., operatrice mi racconta:

Personalmente ti posso dire che c’è una grande differenza di atteggiamento tra i medici del consultorio e quelli dell’ospedale. Almeno questa è la mia esperienza. Il consultorio è uno spazio meno compresso, i medici sanno di essere il primo contatto di una popolazione molto eterogenea, svolgono un servizio di base accessibile a tutti. In ospedale arrivi quando hai problemi seri o devi partorire. Sono proprio diversi gli atteggiamenti verso i pazienti. Ti racconto questa storia di qualche anno fa: un giorno prendiamo in carico una prostituta giovanissima che era stata ricoverata fuori dalla nostra regione per una setticemia molto grave, provocata dal cotone idrofilo che queste donne si infilano in utero durante il ciclo, per poter continuare a lavorare. L’infezione era davvero brutta ed era finita in sala operatoria dove le avevano asportato le tube e parte dell’utero. Arrivata qui durante un controllo ginecologico al consultorio ci rendiamo conto dell’intervento molto invasivo che aveva subito e in assenza di una cartella clinica iniziamo a chiedere cosa fosse successo. Emerse un quadro che lasciò senza parole anche il medico che la stava visitando: lei ricordava solo di aver avuto dolori e febbre, di essere stata ricoverata e operata con una grande cicatrice sulla pancia. Ma nessuno in quell’ospedale le aveva spiegato il tipo di intervento che le avrebbero fatto e, soprattutto, le conseguenze permanenti che avrebbe comportato. È stato fondamentale il medico del consultorio che è riuscito a spiegarle, anche con disegni e qualche parola in inglese, quello che le era successo. Lei era disperata, abbiamo dovuto attivarle un supporto psicologico per molto tempo e con grande sofferenza anche per noi, che non sapevamo come aiutarla (Intervista a operatrice raccolta dall’autrice il 3/7/2020).

Questo evidentemente è un caso estremo, in cui a una giovane ragazza nigeriana non si ritiene di dover dare alcuna spiegazione, né chiedere il consenso informato, o prevedere alcun accompagnamento prima di agire sul suo corpo, seppur con l’intento di salvarlo. Senza arrivare a questi casi estremi, la quotidianità dei percorsi di salute riproduttiva delle donne in accoglienza racconta una realtà piena di chiaroscuri, fatta di piccoli e grandi episodi di empatia, soprattutto nel consultorio che appare l’ultimo presidio di prossimità e di tutela della salute sessuale delle donne su un piano di parità e orizzontalità del rapporto medico-paziente. Negli spazi ospedalieri i tempi più compressi, l’assenza di continuità nella cura, la scarsa formazione interculturale del personale, la prevalenza di obiettori di coscienza e di un atteggiamento diffuso fortemente medicalizzante e disciplinante possono generare atteggiamenti fortemente discriminatori.

La gestione del travaglio, per esempio, è una fase estremamente critica nel racconto di tutti gli attori che ho incontrato. I racconti riportano molti travagli in solitudine (soprattutto negli ultimi mesi di pandemia e di chiusura dei reparti agli esterni), con interventi verbali bruschi da parte del personale sanitario, a volte invasivi anche fisicamente su donne già esposte da molteplici punti di vista. Senza ovviamente voler generalizzare, i vissuti riportati da più voci sono coerenti tra loro sebbene siano espressione di punti di vista differenti. Le parole e i giudizi, formulati in modo compiuto non mettono mai in discussione il proprio approccio di cura ma, anche quando emerge una maggiore apertura alla comprensione, la lettura stereotipata sembra rimanere l’unica spiegazione a comportamenti e reazioni delle pazienti, in maniera analoga a quanto avviene, a volte, dentro gli spazi di accoglienza:

Le nere sono più difficili da gestire in reparto. Molto spesso queste non si lavano, si mettono a letto coi vestiti del giorno. Sono più indipendenti e distaccate, in fondo le nere fanno figli qua e là, una cosa che per noi italiane sarebbe impensabile. Hanno un distacco del senso materno che noi non abbiamo. Per carità hanno delle storie bruttissime alle spalle, ma alla fine arrivano qui e dobbiamo gestirle noi (Intervista a ostetrica ospedaliera raccolta dall’autrice il 22/7/2020).

Molti episodi che ho raccolto descrivono un approccio regolativo al farsi madre che inizia ancor prima del concepimento e prosegue ben oltre il parto. Quel processo di “costruzione della madre”, quindi, sembra proseguire anche dentro gli spazi ospedalieri attraverso un approccio regolativo non solo sul comportamento delle donne ma direttamente sul loro corpo, sul gesto materno, sull’attaccamento al seno, sulla relazione col bambino, e sarebbe interessante analizzarlo in una prospettiva più ampia, per comprendere se e come possa perpetuarsi in altri spazi, per esempio nella relazione col pediatra, nella scuola, nel rapporto coi medici di base, ecc. Campi, questi, che meriterebbero uno studio approfondito, capace del doppio sguardo, che tenga insieme le dinamiche del percorso di accoglienza con quelle dello spazio esterno, sociale e relazionale nella comunità in cui la donna deve inserirsi.

Conclusioni

Si è cercato di mostrare il potenziale euristico di una etnografia nei territori di ricollocamento, per indagare l’ambiguità che li abita e mostrare che, sebbene siano considerati meno traumatici e più “morbidi” rispetto a quelli di primo approdo, tuttavia presentano dinamiche di controllo altrettanto potenti e velate dal linguaggio performativo dell’integrazione. In particolare, se osserviamo i percorsi di presa in carico socio-sanitaria delle donne richiedenti asilo e rifugiate, il cui status giuridico le colloca sempre e comunque in una posizione debole rispetto all’istituzione che ne legittima lo status, appare evidente che la pluralità di soggetti che agiscono nella relazione di cura (operatori e personale sanitario) esprimono discorsi e rappresentazioni che incarnano la norma giuridico-sanitaria. Il loro vissuto è fondamentale per capire la violenza agita dal sistema, la sofferenza e la complessità di tutti i posizionamenti individuali, le micro-strategie quotidiane agite per esprimere bisogni, rispondere a domande e interpretare il proprio mandato lavorativo. Dall’etnografia emergono alcuni fattori potenti che spesso non dipendono dalla volontà dei singoli ma ne condizionano l’interazione con le donne accolte: mancanza di tempo e di supervisione efficace, carenza di formazione, discontinuità dei luoghi e dei tempi dell’accoglienza, discontinuità della presa in carico sanitaria tra consultori e ospedali. Queste condizioni sistemiche di lavoro interagiscono, diventando a volte giustificazioni autoassolutorie, con le rappresentazioni e i comportamenti dei singoli che risultano sempre molto stratificati, in cui si mescolano motivazioni personali, approcci politici, costruzioni morali, atteggiamenti giudicanti o al contrario estremamente compassionevoli, in un groviglio complesso di emozioni e vissuti che merita di essere indagato. In questo sistema giuridico fatto di cura e controllo, verità e potere, tramite il corpo «si possano comunque giocare più partite contemporaneamente» (Ong 2005: 20) e in questo spazio intersoggettivo tutte le figure che entrano in relazione con le donne, lo fanno attraverso la dimensione corporea, propria e altrui, in un continuo flusso di negoziazioni e riposizionamenti. Come è emerso dall’etnografia, il codice dell’accoglienza prevede che le donne richiedenti asilo confermino, nella loro relazione con il sistema, la categoria medico-giuridica della vulnerabilità su cui poggia l’intero impianto normativo del diritto d’asilo e che sembra essere sottesa non solo all’impostazione dei protocolli di accoglienza ma anche all’interazione quotidiana tra le persone accolte e coloro che le hanno in carico. Sguardo vittimizzante, approcci educativi ed emancipatori dentro i progetti, percorsi sanitari di diagnosi e accompagnamento alla sessualità e alla gravidanza molto rigidi, difficoltà nel mettere in discussione le procedure e i protocolli consolidati, sono alcuni degli aspetti che la ricerca ha messo in luce, per mostrare quanto sia pervasiva e trasversale l’attitudine del sistema a “costruire la madre”, a disciplinare a livello fisico e simbolico perfino una dimensione così intima com’è quella della riproduzione. In questa interazione che vede come campo di relazione il corpo e la possibilità di decidere e agire per esso in maniera autonoma, tutti gli attori coinvolti – donne richiedenti asilo e operatori/personale sanitario – agiscono piccole e grandi forme di negoziazione, di ribellione, di adattamento o di profonda frustrazione. Sono gesti quotidiani agiti attraverso il corpo, la voce, lo stare in un certo modo in uno certo spazio, dando significato alla presenza ma anche all’assenza. E non sono gesti di poco conto se pensiamo al contesto normativo e sociale in cui queste relazioni di cura avvengono. L’etnografia ha fatto emergere che la violenza sistemica nutrita di certezze su cosa sia una buona madre, si esercita in maniera particolarmente feroce sulle donne di origine subsahariana con interventi terapeutici o socio-assistenziali che non ammettono alternative, con una severità di giudizio che sembra non esserci per le donne di altra provenienza. L’attitudine giudicante sottende la convinzione diffusa che queste donne siano per loro natura madri abbandoniche, disattente, madri iper-fertili ma egoiste e anaffettive. In assenza di formazione e accompagnamento adeguato, sia negli spazi di progetto sia negli spazi sanitari, il personale è spesso in difficoltà nella comprensione di significati non decodificabili secondo l’alfabeto giuridico e biomedico, per gestire queste situazioni si attivano categorie e immaginari sommersi, che denotano posizioni complesse e a tratti contraddittorie, di giudizio misto a frustrazione, di empatia mista a rifiuto. Pare assente, a causa del depotenziamento progressivo dei servizi di supporto alla presa in carico ospedaliera, per esempio, e ancor più oggi in epoca di pandemia con i reparti sigillati, una dimensione spaziale e temporale che possa facilitare l’incontro con queste donne, per cui la relazione di cura resta in balia di ciò che l’emergenza e il protocollo medico impongono, senza il sostegno di una mediazione efficace e senza il tempo di una formazione multidisciplinare per tutte le figure attive, soprattutto in ospedale. In alcune testimonianze di medici e ostetriche ritorna il tema, emerso anche tra gli operatori di accoglienza, della solitudine e della consapevolezza di non avere gli strumenti adeguati per affrontare alcune situazioni. La risposta a queste situazioni, alla fine, sembra essere sempre individuale, contraddittoria e spesso ambivalente, ma è innegabile che ci sia un “intorno narrativo e simbolico” in cui matura questa risposta, e che ne condiziona pesantemente gli esiti. È in questo spazio storico, intersoggettivo e profondamente politico che transita il corpo femminile migrante quando viene “preso in carico” dal sistema di accoglienza e dal sistema di salute. Un corpo vissuto, agito dalla storia e, allo stesso tempo, agente di questa. Per queste donne il corpo sembra diventare “passaporto”, mezzo di produzione di significati e di possibilità. Il corpo costruisce verità, quelle fisiche (delle gravidanze, delle malattie o delle interruzioni), quelle emotive (delle relazioni intime e della relazione con i servizi) e quelle legali (dei documenti e dei permessi di soggiorno).

La ricerca ha cercato di aprire uno spazio di riflessione sulla violenza che si riverbera su tutte le soggettività coinvolte nella relazione di cura: sulle donne richiedenti asilo, sulle quali pesa uno sguardo sociale che arriva sempre prima delle richieste che portano, e sugli operatori, sulle mediatrici, sul personale sanitario e su tutti coloro che vengono risucchiati dentro un sistema che piega ogni relazione e ogni interazione alla logica “della cura e del controllo”, lasciando comunque spazi di reazione e resistenza individuale. Alcuni interrogativi rimangono ovviamente aperti per un futuro sviluppo della ricerca: quanto le dinamiche che sembrano essere un portato specifico della condizione giuridica in cui si trovano le donne richiedenti asilo, possono essere in realtà riscontrate anche verso donne straniere regolari o con status giuridico diverso, o quanto il tema della violenza ostetrica, che nel caso delle donne sub-sahariane riverbera con connotati specifici di razzismo ostetrico, sia in realtà un fenomeno diffuso e trasversale che riguarda tutte le donne, italiane e non, che transitano negli spazi ospedalieri del nostro paese.

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[1] Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione del Ministero dell’Interno

[2] La definizione di violenza ostetrica a livello giuridico è nata in Venezuela nel 2007, primo paese al mondo ad aver approvato una legislazione in proposito, e indica l’appropriazione del corpo e dei processi riproduttivi della donna da parte del personale sanitario attraverso un atteggiamento offensivo, l’eccesso di medicalizzazione e patologizzazione dei processi naturali, avente come conseguenza la perdita di autonomia e capacità decisionale da parte della donna.