Genealogie statali?

Della “genitorialità sociale” del “tutore volontario di minori stranieri non accompagnati” e del suo inserimento in una rete istituzionale locale

Giulia Consoli

Università di Bologna

Indice

Mancanze (in)appropriate
Genealogie statali
La fatica di tenere i pezzi insieme
Riflessioni conclusive
Bibliografia

Abstract.  In Italy, the definition of “unaccompanied foreign minor” was recently reaffirmed by Law 47/2017, which at the same time established the figure of “volunteer guardian”. This essay discusses both rhetoric and representations on this figure conveyed by some institutional actors and the performed experiences of a group of volunteer guardians in a northern Italian town. The description of this re-shaped guardianship as an expression of “social parenting” calls for an in-depth analysis of the extent of state regulatory intervention in the relational life definition of the foreign minors living in its territory. If volunteer guardianship is asked to fill a part of the alleged void since their not being considered, to some extent, someone's child, I propose to call the practices developed on volunteer guardians “State genealogies”. Consisting in the mobilisation of parental lexicon in an attempt to de-bureaucratise and personify the State and its institutions, “State genealogies” involve at once an anthropo-poietic project of de-kinning and resocialization. Drawing on an ethnographic fieldwork that took place from 2018 to 2021, I engaged the progressive difficulties in placing oneself in these genealogies and in acting out the shared parenting when faced with a scarce circulation of knowledge or an often limited conviviality. In the end, it is the call by the guardians themselves for anthropological contributions that closes this ethnographic path and opens up the possibility to outline a deeper involvement of anthropological knowledge and practices in these public spaces.

Keywords.  Unaccompanied foreign minors; volunteer guardianship; migration; State; kinship.

«The state has its own interest in establishing paternity

precisely because the relationship carries responsibility;

regardless of the ways in which parenthood may be created,

the child must still be looked after, and someone must be accountable»

(Strathern 2005: 53).

Nel pieno degli anni Novanta fa la sua comparsa nella letteratura e negli ambienti amministrativi di molti paesi dell’Unione Europea (Kanics et al. 2010) una denominazione che, pur subendo cronologicamente e geograficamente interessanti variazioni, trova oggi in Italia formulazione ufficiale nella dicitura “minore straniero non accompagnato” (MSNA). Iniziando a circolare in una sfera discorsiva che Peraldi (2013: 5, traduzione mia) qualifica come «pregiuridica» e «preamministrativa», questa categorizzazione viene progressivamente a costituirsi come un “nuovo soggetto migratorio” (Vacchiano 2012) e assume fin da subito caratteristiche contrastanti per il suo porsi de facto più che de iure «all’incrocio di appartenenze giuridiche multiple» (Giovannetti, Accorinti 2017: 99). Negli anni acronimi e tentativi descrittivi si sono diversificati anche a seconda dei soggetti che ne hanno fatto uso, faticando a trovare formulazioni consone a delineare situazioni ampiamente eterogenee (Senovilla Hernàndez 2014): separati, isolati, migranti, soli, devianti, in pericolo, vulnerabili, in stato di abbandono o di pregiudizio sono stati alcuni degli aggettivi più utilizzati. Più che tratteggiare specifiche situazioni di vita, tuttavia, queste descrizioni testimoniano dei processi di categorizzazione (Trucco 2006: 31), esprimendone logiche e principi guida. Primo fra tutti, quello censitario, fondato sulla ricerca di una efficace profilazione numerica e tipologica risultata nella «costruzione di un soggetto misurabile» (Vacchiano 2012: 101). La raccolta dati relativa alla popolazione individuata dalla categoria MSNA inizia in Italia nei primi anni Duemila. Osservata nel ventennio 2000-2020, conta al 31 dicembre di ogni anno tra le 6.000 e le 8.000 segnalazioni – eccetto un notevole picco tra 2014 e 2017, con 18.303 presenze registrale al 31 dicembre 2017, coerentemente ad un relativo incremento anche delle istanze di richiesta asilo[1]. Queste profilazioni restituiscono l’immagine di una popolazione indicata prevalentemente come di genere maschile e tra i 15 e i 18 anni; più di 20 sono annualmente le diverse cittadinanze censite e la loro prevalenza varia notevolmente a seconda dei contesti ricettivi locali. Similmente eterogenee risultano le misure istituzionali di “presa in carico”; recentemente molti territori, come quello di seguito discusso, si sono strutturati secondo l’implementazione di percorsi specifici destinati a questa categoria che prevedono una iniziale collocazione in comunità per minori di “pronta accoglienza” e un successivo passaggio in altra comunità per minori o in un gruppo appartamento con più o meno “presidio educativo” anche in ragione dell’età dichiarata.

A costituire un punto di approdo di un frammentato iter normativo iniziato nel 1998[2] è nel corpus giuridico italiano la legge n. 47 del 7 aprile 2017, Disposizioni in materia di misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati, che contribuisce a stabilire questa nomenclatura e regolamentare omogenee linee di azione. Per «minore straniero non accompagnato» la legge 47/2017, più conosciuta come “Legge Zampa”, dal cognome della sua prima firmataria, intende riferirsi a

il minorenne non avente cittadinanza italiana o dell'Unione europea che si trova per qualsiasi causa nel territorio dello Stato o che è altrimenti sottoposto alla giurisdizione italiana, privo di assistenza e di rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per lui legalmente responsabili in base alle leggi vigenti nell'ordinamento italiano (art.2)[3].

Se questa definizione ricalca le descrizioni più diffuse anche a livello internazionale[4], un’interessante specificità è introdotta all’articolo 11 con l’istituzione, presso ogni Tribunale per i Minorenni[5], di “un elenco di tutori volontari”; un passaggio che ha giocato un ruolo chiave anche nell’agevolare la sospensione del pagamento di una misura di infrazione europea aperta dal 2014 (Di Pascale, Cuttitta 2019: 12).

Rinviando ad altra sede e ai principali riferimenti sopra delineati una più approfondita disamina delle criticità relative all’utilizzo operativo della categoria giuridica MSNA[6], in questo saggio propongo più specificamente di riflettere sulle rappresentazioni relazionali legatesi all’istituzione della figura di “tutore volontario di minori stranieri non accompagnati” in una città dell’Italia settentrionale[7]. Tale riflessione è proposta senza la volontà di essere rappresentativa delle esperienze di tutela volontaria tout court sviluppatesi in Italia, prima e dopo la promulgazione della Legge Zampa, diversificate anche in ragione delle difformità dei sistemi ricettivi locali (Sanò 2017) e delle eterogeneità interne ad una platea di persone che si continua a delineare in modo omogeneo, tramite la denominazione MSNA, ma che tale non è[8].

Prenderò qui in considerazione il percorso di formazione, nomina e sviluppo delle esperienze di tutela di un gruppo di aspiranti tutori volontari a composizione variabile che, nel corso della ricerca, ha riunito dalle 25 alle 10 persone appartenenti ad uno stesso contesto amministrativo municipale frequentato da marzo 2018 a marzo 2021. Con qualche rara eccezione, la maggior parte del gruppo è stato formato da donne, di età superiore ai 45 anni, occupate, con una formazione scolastica di livello medio-alto, con cittadinanza italiana e residenti sul territorio in zone sia della città municipale sia della provincia, in abitazioni condivise con altre persone (mariti, compagni, figli, genitori)[9]. La frequentazione di lungo periodo, permessa dalla pratica etnografica, mi ha consentito di seguire le diverse vicissitudini del gruppo: dai tentativi di creazione di un’associazione in seguito messi da parte, agli incontri di una rete informale regionale di tutori; dai confronti su timori o dubbi iniziali, a quelli sulle difficoltà incontrate nelle esperienze poi concretizzatesi. L’attività di tutela è invece stata rivolta solo verso persone collocate in strutture per minori di genere maschile, tra i 15 e i 18 anni, tutti residenti in comunità con presidio educativo e capienza media di 15 persone. I soggetti a cui è stato proposto un tutore o una tutrice volontaria avevano prevalentemente cittadinanza marocchina e pakistana – eccetto uno con cittadinanza albanese, uno con cittadinanza bengalese e uno con cittadinanza somala congiuntamente a richiesta e ottenimento di asilo – secondo una casistica rispecchiante solo in parte le cittadinanze prevalenti dei soggetti presenti nelle comunità per minori del territorio, che, nel periodo di ricerca, erano in prevalenza marocchina e albanese, seguite da tunisina e pakistana. L’esperienza etnografica si è dispiegata inizialmente attraverso la partecipazione al percorso di formazione degli aspiranti tutori e successivamente tramite incontri formali e informali del gruppo, attraverso colloqui individuali ma anche partecipando al percorso di conoscenza e affiancamento di alcuni dei “tutelati minorenni” da me già conosciuti nella parallela frequentazione delle comunità nelle quali alloggiavano. Il contributo qui proposto rappresenta infatti solo un tassello di una ricerca più ampia, che mi ha visto frequentare con assiduità una struttura residenziale minorile – dove prima, durante e dopo lo svolgimento di dodici mesi di Servizio Civile Nazionale ho condotto attività di ricerca e osservazione partecipante – nonché visitare altre strutture residenziali del territorio, frequentare fuori da questi spazi alcuni soggetti ivi residenti, partecipare a colloqui, equipe e tavoli di coordinamento a simmetria variabile (coordinatori di comunità-Servizi Sociali; Servizi Sociali-progetto “famiglie accoglienti”; Servizi Sociali-tutori volontari-educatori sociali; minorenne-Servizi Sociali, ecc.). Un percorso che non è qui possibile restituire nella sua ampiezza e che si concentrerà sulle forme di istituzionalizzazione della figura del tutore volontario nelle sue dimensioni formative e performative. Dialogando esplicitamente con pubblici diversi, dai ruoli e poteri asimmetrici, la restituzione di tale percorso ha considerato con attenzione la necessità di accordare a ciascuno la riservatezza richiesta e la sua condivisione in forma scritta è stata preventivamente condivisa con gli interlocutori coinvolti.

Affidando ad un primo paragrafo un’introduzione contestuale più ampia, una seconda parte si concentrerà sui tentativi di costruzione di questa figura quale perno di un articolato progetto antropopoietico (Remotti 2013). In questa seconda sezione affronterò la discussione di retoriche e rappresentazioni veicolate da alcuni rappresentanti di istituzioni regionali e, in parte, nazionali. Per permanere vicini all’esperienza fattane dalle tutrici con le quali la ricerca si è sviluppata, farò in particolare riferimento ad un primo seminario regionale che ha preceduto le formazioni localmente implementate e ha visto raccolti aspirati tutori e tutrici insieme a interlocutori istituzionali di alto profilo e diversi ospiti di alcune realtà locali. Un terzo paragrafo interrogherà poi le dinamiche emerse a livello comunale; la discesa, ricezione e le eventuali contro-rappresentazioni dell’amministrazione locale incaricata dell’organizzazione dei corsi di formazione nonché delle complesse relazioni tra Servizi Sociali, operatori delle strutture ricettive per minori e tutori volontari stessi nella performatività di tale ruolo.

Mancanze (in)appropriate

Richiamando la definizione di MSNA presente nell’attuale corpus giuridico italiano, la mancanza di “assistenza e rappresentanza”, corrispondente nell’acronimo al termine “non accompagnato”, configura un’assenza che, in relazione ad un’età anagrafica inferiore agli anni 18, non è ritenuta adeguata. Un’inappropriatezza che, come approfondirò successivamente, viene evocata tanto per i soggetti così individuati come giuridicamente incapaci di piena rappresentanza, vulnerabili e depositari di diritti di assistenza e protezione, quanto verso le società in cui essi si manifestano, ugualmente potenzialmente vulnerabili alla potenza creatrice e distruttrice che “la gioventù” come categoria sociale storicamente situata tende a portare immaginativamente con sé (Honwana, De Boeck 2005; Bolotta, Vignato 2017). Se la mobilità non regolata di una popolazione di minore età è garbatamente descritta da Peraldi (2013) come una “sfida” per i paesi europei e i loro sistemi amministrativi, Trucco (2006) sottolinea piuttosto la dimensione di “crisi” e la “preoccupazione” sorta negli anni Novanta che la mobilità minorile non statalmente autorizzata potesse costituire una falla nei regimi di controllo migratorio in via d’implementazione. Se reti e network parentali ampiamente intesi si sono rivelati importanti infrastrutture di mobilità (Andrikopoulos, Duyvendak, 2020: 303; Cole, Groes 2016) anche una loro rivendicata o ascritta assenza, se associata a particolari status giuridici e anagrafico-temporali culturalmente e contestualmente determinati come quello di “minore età” (Jourdan 2011; Taliani 2015), ha determinato una importante via di navigazione dei regimi di mobilità e immobilità (Glick-Shiller, Salazar 2013; Riccio 2019). È innanzitutto opportuno sottolineare dunque come tali mancanze possano risultare appropriate o inappropriate in stretta correlazione al punto di osservazione.

Negli ultimi decenni il compito di porci di fronte al «fatto» tanto pubblico quanto privato della parentela (Grilli 2019: 12) è stato affidato soprattutto alla discussione sulle forme riproduttive emerse nel XX secolo attraverso l’utilizzo di biotecnologie. Se queste hanno dato vita ad un rinnovato fervore agli studi sulla parentela in ambito antropologico, inaugurando i cosiddetti “new kinship studies”, hanno al contempo ribadito la loro dimensione pubblica e politica (Carsten 2004; Grilli, Parisi 2016). È situandosi in questa corrente che Strathern (2005: 52) sottolinea, in alcuni processi statunitensi riguardanti forme di riproduzione alternativa, gli interessi statali nello stabilire i legami parentali e le loro conseguenti responsabilità. Quello che emerge da alcune sentenze da lei discusse è la disponibilità di alcuni giudici a soprassedere in taluni casi sulle modalità di costituzione di tali genitorialità, altrove fonte di aspri dibattiti, in virtù della possibilità di identificare qualcuno in grado di rispondere, giuridicamente ed economicamente, di un soggetto ancora necessitante accudimento (Ibidem: 53). Rimarcando dunque l’inequivocabile ruolo del mercato e le implicazioni economiche nel fare e nel farsi, anche giuridico, dei rapporti di parentela Strathern evidenzia una stretta interrelazione tra conoscenza, relazionalità e responsabilità (giuridico-economica) che risulta molto utile a comprendere anche le esperienze discusse nel presente contributo. Sebbene ancora poco studiate in questi termini infatti, le scelte di mobilità e le traiettorie di vita implicate nelle esperienze qui proposte testimoniano con una lucidità inequivocabile la dimensione in tutti i sensi pubblica e politica dei legami interpersonali e della loro designazione (Heidbrink 2014). Esse si rivelano allo stesso modo particolarmente atte a riflettere sui meccanismi di naturalizzazione nella gestione e categorizzazione delle relazioni interpersonali, sulle loro ricadute pubbliche e politiche (Di Silvio, Saletti Salza 2017) e sul dialogo e sulla ricerca antropologica con e sugli apparati giurisprudenziali (Gribaldo 2020; Taliani 2015). Il progressivo radicamento della denominazione MSNA quale categoria ormai giuridicamente legittimata testimonia come un tracciamento genealogico amministrativamente riconoscibile unitamente ad una dimensione di territorialità – blood and soil, ius sanguinis e ius soli – siano ancora due binari importanti di riflessione sulle appartenenze nelle conformazioni sociali costituitesi all’interno dell’Unione Europea (Decimo, Gribaldo 2017). Strathern (2005: 12, traduzione mia) parla, riferita alla parentela “euro-americana”, di un «sistema scientifico di parentela», la parentela di una società fondata sulla conoscenza. In tale sistema, un soggetto la cui genealogia non sia conosciuta o riconosciuta, assente o per vari motivi inaccettabile, geograficamente “lontana” o semplicemente occultata sia dal soggetto stesso sia dalla forza simbolica della designazione di “non accompagnato”, presenta dunque una mancanza inappropriata e inaccettabile, quanto meno congiuntamente al suo status giuridico di “minorenne” e “non cittadino”. In qualche modo tale soggetto, concepito primariamente come “alieno” (Rozzi 2018), deve diventare dunque “familiare”, conosciuto e apparentato, per il suo superiore interesse, o per quello della società in cui si è palesato (Taliani 2015).

Nel contesto italiano è stato storicamente l’ente locale, il Comune, nella persona del sindaco o più spesso dei suoi delegati, a dover sopperire a questa problematica mancanza (Giovanetti, Accorinti 2017) diventando la personalità giuridica a cui riferire – nel senso più etimologico del termine latino “re-fero”, riportare – questo soggetto mancante. In questo senso l’ente locale aveva nella maggioranza dei casi incentrata su di sé sia la tutela giuridica, la rappresentanza, sia il finanziamento diretto e la predisposizione di forme di sostentamento di tale soggetto, le responsabilità. Tale presenza è sempre stata, per gli operatori delle strutture residenziali socio-educative per minori, di complessa traduzione verso i propri residenti anche in virtù di difficoltà reciproche di comprensione linguistica. Dovendo spiegare come alcune regole interne sarebbero cambiate nei mesi successivi in base a modifiche nei regolamenti comunali, nel corso di un “gruppo”, un’attività a carattere assembleare svolta a cadenza bisettimanale tra minorenni e adulti-educatori della struttura, il coordinatore della comunità trova nei termini genitoriali il riferimento più diretto e rappresentativo:

questo cambiamento, lo ha deciso il Comune di Denza [pseudonimo], che è il vostro tutore… cioè… è come se fosse il papà e la mamma di tutti i ragazzi che sono nelle comunità. Quindi, questa decisione, non l’abbiamo presa noi [..] gli educatori di questa comunità, ma ce l’hanno detto quelli che sono i vostri… che fanno la parte dei vostri genitori qua in Italia (Coordinatore di comunità, 29/06/2018).

Su queste prassi interviene la legge 47/2017 istituendo all’art.11 un «elenco dei tutori volontari, a cui possono essere iscritti privati cittadini, selezionati e adeguatamente formati». L’articolo rimanda al Codice civile, al libro primo - Delle persone e della famiglia, titolo IX - Della potestà dei genitori, facendo riferimento, come sottolinea Albano (2017: 60), alle disposizioni «afferenti alla responsabilità genitoriale e ai diritti e doveri del figlio» che si configurano come «responsabilità ulteriori rispetto a quelle attribuite in generale al tutore». La figura del tutore volontario resta tuttavia poco definita nella normativa e la sua formazione e rappresentazione più precisa viene delegata principalmente all’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza (AGIA) nazionale, e alle rispettive Autorità Garanti Regionali (d’ora in poi, AGR). È l’AGIA ad introdurre, nelle Linee guida per la selezione, la formazione e l’iscrizione negli elenchi dei tutori volontari, le emblematiche espressioni di “genitorialità sociale” e “cittadinanza attiva”, diventate poi quelle prevalenti nella descrizione di tale figura:

perseguire la costituzione di un elenco di tutori volontari da mettere a disposizione dell’autorità giudiziaria richiede uno sforzo e anche un salto culturale. Il tutore volontario, invero, incarna una nuova idea di tutela legale, espressione di genitorialità sociale e di cittadinanza attiva: un tutore non solo per la rappresentanza giuridica della persona di minore età, ma un tutore attento, altresì, alla relazione con il tutelato, interprete dei suoi bisogni, dei suoi problemi (corsivo nel testo)[10].

Sebbene esperienze pilota di tutela legale nei confronti di minorenni assunte a titolo gratuito da privati cittadini possano essere rintracciate in diversi contesti locali italiani anche prima di questa legge[11], il “salto culturale” che si mette in moto a partire dall’istituzione di questi elenchi e linee guida non può non interessare il “pubblico” antropologico. In questa cornice legislativa nazionale si intarsiano le attività delle AGR, dei tribunali e dei Comuni ai quali sono affidate le formazioni locali. Propongo ora di focalizzare lo sguardo su una di esse per capire come queste indicazioni si siano declinate in un contesto municipale, a partire dalla sua rispettiva dimensione regionale.

Genealogie statali

Il termine “kinning” – introdotto in letteratura da Howell (2003) per riflettere su esperienze di adozione transnazionale – e traducibile solo parzialmente con l’espressione “imparentare”, pare essere il riferimento più efficace a riassumere il lavorio relazionale recentemente messo in campo anche nei confronti della mobilità minorile non statalmente autorizzata. Nella definizione della ricercatrice norvegese questo termine tenta di esprimere un «processo attraverso il quale un feto, un neo-nato o qualsiasi persona precedentemente non connessa è introdotta in una relazione significativa e permanente che è espressa con un idioma indicante parentela» (Ibidem: 465, traduzione mia). Recentemente ripreso anche come «sforzo di trasformare stranieri in parenti e cittadini» (Guerzoni, Sarcinelli 2019: 8, traduzione mia) e declinato sotto diverse forme quali “rekinning”, “akinning” o “never-kinning”, questo termine parrebbe idoneo anche a riflettere sui percorsi di tutela volontaria, quanto meno per quel che riguarda la loro costruzione istituzionale. In quest’ultima, vedremo a breve, il “minore” di cui il “privato cittadino” diventa tutore a seguito di volontaria scelta è infatti descritto innanzitutto come estraneo e non accompagnato, privo di connessioni e a-socializzato. La relazione del tutore verso il tutelato è inoltre espressa esplicitamente come “genitorialità sociale” e l’utilizzo di appellativi quali “mamma”, “zia” o “figlio” sono stati elemento di discussione – abbracciati o criticati – nei vari momenti formativi. Sebbene spesso i tempi per stringerla siano molto esigui e i ruoli reciproci ufficialmente sciolti al diciottesimo anno d’età del tutelato, si auspica che la relazione instaurata sia significativa e duratura – per poter far fronte a quella riconosciuta come una delle principali problematiche in questi frangenti: “il post-18”. È tuttavia necessario precisare come ciascuno degli elementi sollecitati dal termine “kinning” sia, nelle esperienze qui discusse, tanto calzante nella ricostruzione istituzionale quanto liminale nelle pratiche performative.

In sede di ricerca si è notata la consuetudine di esprimere con espressioni gergali differenti le due situazioni di tutela legale illustrate nel paragrafo precedente: se la prima, che potremmo descrivere come comunale e obbligatoria, ha preso l’appellativo prevalente di “tutela istituzionale”, alla seconda ci si è spesso riferiti come “tutela relazionale”. D’altronde, i soggetti maggiormente impegnati nella complessa delineazione della figura del tutore volontario in questo contesto, ovvero AGR insieme al Presidente del Tribunale per i Minorenni (d’ora in poi, PTM), hanno principalmente declinato la mancanza di assistenza e rappresentanza proprio in una mancanza relazionale: l’assenza di una relazione che letta da un punto di vista statale porta e comporta precise responsabilità (Heidbrink 2014; Strathern 2005). La mancanza di queste responsabilità, desunta dal finanziamento economico di vitto, alloggio, formazione e cure sanitarie a carico dell’ente locale, è dunque recepita come equazione di mancanza di relazionalità. Nelle descrizioni dei “minori” proposte da questi rappresentanti istituzionali è infatti preminente l’aggettivo “soli”: «sono ragazzi che noi, anziché definire con l’acronimo MSNA, definiamo “minori soli” […] ragazzi che hanno lasciato tutto quello che avevano, tutto quello che conoscono, hanno lasciato il proprio mondo e sono senza riferimenti» esordì PTM in un primo seminario regionale rivolto ad aspiranti tutori volontari nella primavera del 2018. Una descrizione a cui fece eco AGR parlando di «fenomeno dei minori soli […] questi ragazzi stranieri, che sono soli, e sono presenti nei nostri territori».

Prerogativa del tutore volontario in queste descrizioni diventa dunque un’attività e una capacità relazionale: «il tutore volontario è espressione di genitorialità sociale e cittadinanza attiva perché non solo assolve alla rappresentanza giuridica della persona di minore età ma è interessato alla relazione con il minore e a interpretare i sui bisogni e i suoi problemi» (Presidente dell’Assemblea Legislativa regionale, primavera 2018). La triade di conoscenza, relazionalità e responsabilità torna qui particolarmente utile a discernere alcune fondamenta del processo costruttivo di questi legami. La «capacità di relazionarsi» (PTM, primavera 2018), caratteristica non scritta ma richiesta e attesa, assume infatti fin da subito forte densità di significato:

Ci si aspetta dal tutore volontario l’attenzione alla relazione, e questo apre un mondo: la relazione significa conoscere l’origine, da dove si arriva, qual è la storia delle persone, conoscere le aspettative, i sogni, anche i sogni nel cassetto, anche quelli che non si ha il coraggio di esprimere, e quindi la prospettiva, dove si vuole andare (AGIA, primavera 2018).

La relazione, derivante e resa visibile dall’assunzione di determinate responsabilità sociali da parte del tutore genitore-cittadino, viene, in queste retoriche, già legata a doppio filo a una produzione di conoscenza: la relazione significa conoscere. È proprio una delle principali promotrici di questa legge, sempre in questo prolifico incontro regionale, a esplicitare maggiormente questa correlazione: «il tutore è il principio di un cambiamento incredibile, molto più grande di quello che lui stesso potrà percepire, perché, in realtà, la sua presenza in questo sistema permetterà di conoscere questo sistema, di controllarlo, di monitorarlo, verificarlo» (Parlamentare, primavera 2018). La relazione dunque significa conoscere, ma anche produrre conoscenza.

Fin qui il tutore volontario è, quindi, un privato cittadino che assolve alla rappresentanza giuridica di un soggetto impossibilitato a farlo per sua stessa definizione; essendo però tale soggetto anche “straniero” e “non accompagnato” – estraneo ed estraniato – in quanto espressione di genitorialità sociale il tutore volontario riporta, almeno temporaneamente, questo soggetto entro la cerchia non solo della socialità, ma anche della società, dei sui usi e costumi, delle sue pratiche e strutture di reciprocità genealogico-gerarchiche, del sistema di diritti-doveri:

questi ragazzi sono titolari di diritti, ma devono anche assumersi dei doveri. Noi li dobbiamo aiutare in questo passaggio, in questa tutela dei diritti che diventa anche espressione di un dovere […] è una relazione di reciprocità, in cui noi ci assumiamo delle responsabilità ma voi [rivolta ad alcuni “ragazzi” presenti] vi lasciate prendere e condurre per mano (AGR, primavera 2018).

La «responsabilità genitoriale» che deve essere ripristinata poiché in presenza di un soggetto minorenne «privo di assistenza e rappresentanza» si biforca tuttavia, in caso di nomina di un tutore volontario, in almeno due dimensioni: una economica e una giuridica. Mentre le responsabilità economiche di assistenza materiale di tali soggetti continuano a restare in capo alle amministrazioni locali, i tutori volontari vengono incaricati della rappresentanza giuridica. Tale rappresentanza viene presentata però in rottura rispetto ad una tradizione precedente – quella di una “tutela istituzionale” o “tutela pubblica” ma, più in generale, di una concezione della tutela di orientamento prettamente giuridico-legale – e viene espressa nei termini di una “genitorialità sociale” poiché «essere genitori significa avere una relazione, e una relazione calda» (AGR, incontri regionali di formazione continua, luglio 2020). La “genitorialità sociale” che viene a delinearsi in questo ambito pare discostarsi dai significanti di “genitore sociale” come locuzione oppositiva a quella di “genitore biologico” comunemente utilizzati in ambito giuridico in riferimento alle cosiddette “famiglie ricomposte o allargate”[12]; qui si tratta di essere più “cittadini” che “parenti”, in cui è l’ultimo termine ad essere funzionale al primo. È solo tramite la relazione formulata in questi termini parentali – di cui il tutore volontario si dovrebbe fare espressione – che lo Stato, nelle sue molteplici e spesso contradditorie istituzioni e programmi di welfare, può da una parte personificarsi e dall’altra personalizzarsi: «il tutore restituisce un nome, questa è la prima cosa che il tutore fa, gli ridà un’identità a tutti gli effetti, perché si rivolge a lui, non è più soltanto burocratico il rapporto che questo ragazzo ha con il paese, ma diventa finalmente tra persone» (Parlamentare, primavera 2018). Senza la personificazione figurativamente apportata dal tutore volontario, la costruzione di un legame, di una relazione, con la struttura statale di riferimento è sempre risultata difficile da immaginare nell’orizzonte di senso normativo; d’altronde, la relazione non può essere un soggetto legale, solo gli individui tra cui si instaura una relazione lo sono (Strathern 2005: 13)[13]. In questi ambienti si diventa persona propriamente riconosciuta, con un nome e un’identità, solo in quanto imparentato e relativo a qualcun altro in un sistema che possa conoscere e riconoscere una reciprocità di responsabilità, è quanto questi rappresentanti istituzionali sembrano confermare.

In questo processo di personificazione, il rapporto tra tutore volontario e istituzioni statali è rimarcato come necessariamente strettissimo e viene presentato con tutta l’ambivalenza che caratterizza i discorsi sull’acronimo MSNA fin dalla sua prima emergenza: il tutore volontario, «privato cittadino» e allo stesso tempo «espressione della comunità tutta» (AGR, primavera 2018), svolge un «impegno comune a tutela tanto dei ragazzi soli, quanto delle nostre comunità» (Presidente Assemblea Legislativa regionale, primavera 2018). Grazie alla relazione fonte di conoscenza, il tutore «nello svolgimento dei suoi compiti sarà impegnato a costruire un rapporto con l’obiettivo di orientare il minore nelle scelte di vita, nella realizzazione di un impegno di studio, di lavoro, e di interessi personali che andranno individuati in collaborazione con i servizi socio-sanitari di riferimento» (Ibidem). Questa necessità di stretta collaborazione è rimarcata soprattutto a livello municipale, da dirigenti e operatori dei Servizi Sociali di diverse città, preoccupati dal possibile svolgimento di tutele volontarie in modo «isolato». Adottando un atteggiamento più cauto e meno entusiasta rispetto agli interlocutori regionali, la dirigente dei servizi di un’amministrazione comunale, ugualmente relatrice a questo primo seminario, tenne infatti a ribadire come, nella sua visione, il tutore volontario potesse occuparsi di alcuni aspetti ma come, d’altra parte, ci fossero anche delle professionalità a muoversi in questi ambienti:

la cosa importante che noi riusciamo a mettere insieme è che…è la condizione di famiglia, è la condizione di relazione, anche la famiglia single, che vuol dire un luogo, un posto, in cui le persone possono sentirsi accolte in quella dimensione che nessun servizio potrà mai avere per principio, per senso, per funzione, non ce lo può avere un’istituzione. E poi però ci sono delle altre cose che è meglio che lasciamo fare a chi le sa fare […] questo bisogna che ce lo ridiciamo: funziona solo così. Funziona con una centralità pubblica che sappia fare spazio e stare in un clima di collaborazione (Coordinatrice Servizi Sociali comunali città di Lobano [pseudonimo], primavera 2018).

La sinergia e personificazione, nella sua dimensione più corporea, con gli interlocutori statali è spesso stata riassunta nell’immagine del tutore volontario come «interfaccia»: micro-garante e punto di riferimento del minore, il tutore è figurato anche come «perno» intorno al quale «gli attori del sistema d’accoglienza devono fare rete» (AGIA, primavera 2018).

Questa dimensione in alcuni casi è stata parte integrante dell’interessamento stesso di aspiranti tutori:

le motivazioni sono tante […] vorrei contribuire ad un rinnovato senso civico […] fare il volontario perché lo decidi tu, perché aderisci tu, va bene, però qui c’è l’istituzione che ti è vicina, e tu diventi a tuo modo, tra virgolette, una piccola istituzione, anche per il vicino di casa […] fa sì che la gente ti guardi e dica ‘ah, ma è l’istituzione, è un rapporto diretto con l’istituzione, con la mia istituzione’, no? È come un passaparola, ma un passaparola certificato (aspirante tutrice volontaria, primo seminario regionale, primavera 2018).

Il tutore volontario sembra dunque essere pensato come una figura che incorpora questo nesso parzialmente inedito di filiazione statale in un’operazione, anche piuttosto esplicita, di apparentamento dello Stato – o “State kinning” (Thelen, Thiemann e Roth 2014). Seguendo tali premesse il tutore volontario sembrerebbe incaricato del compito di far rientrare l’eventuale crisi presentata da queste soggettività poiché “minorenni” ma non riconosciute nell’afferente costrutto sociale di «figli di» qualcuno (Remotti 2013: 80), ricostruendo un legame, privato e pubblico, tra il soggetto-minorenne e il contesto amministrativo in cui si trova, dando vita a forme relazionali in parte inedite e andando a delineare quelle che propongo per ora di chiamare “genealogie statali”. L’eventuale esistenza di altri legami è spesso rimossa in questi discorsi poiché relazionalità ritenute lontane, non rilevanti sul territorio in quanto non rispondenti alle responsabilità attese; altri legami sono tendenzialmente evocati secondo linguaggi indagativi, volti al rimpatrio o al riaffidamento, e possono diventare eventualmente fonte di incriminazione – con interessanti continuità e discontinuità rispetto ai processi di dichiarazioni di adottabilità di minorenni discussi da Taliani (2015).

Al tutore volontario è affidato questo incarico di kinning sociale, distinto da altri tipi di genitorialità e parentela presumibilmente non-sociali o meno-sociali poiché forse meno esplicitamente afferenti alla sfera pubblica, in un compito anche di “filiazione” inteso come processo che «istituisce il figlio» in tale posizione gerarchica di «essere pieno di bisogni» e dunque detentore di diritti come portatore di doveri (Remotti 2013: 80).

Seguendo il percorso intrapreso dagli stessi aspiranti tutori, viste caratteristiche, aspettative e rappresentazioni nella costruzione di tale figura nel contesto istituzionale regionale, la riflessione proseguirà indirizzandosi verso alcune esperienze performative di tale “tutela relazionale” a contatto con i vari interlocutori professionali che hanno invece animato queste realtà in ambito comunale.

La fatica di tenere i pezzi insieme

Parentela e statualità sono ormai da un’ampia tradizione di studi evidenziate come categorie centrali per descrivere e classificare l’organizzazione sociale (Thelen, Alber 2018) tra loro non reciprocamente esclusive: lo “stato moderno” come ordine politico “senza parentela” e la “parentela” come ordine politico di società “senza stato”. Raramente tuttavia rappresentanti istituzionali si sono fatti così espliciti portatori di questa lettura di reciprocità come nella definizione del tutore volontario quale espressione congiunta di genitorialità sociale e cittadinanza attiva. Considerata la centralità che un’attenzione antropologica alla parentela sta sempre più acquisendo negli studi su mobilità e migrazioni transnazionali (Andrikopoulos, Duyvendak, 2020: 300-301), non è forse un caso che tale figura, per quanto da alcuni oggi auspicata indiscriminatamente per tutti i minorenni in carico ai Servizi, sia stata istituzionalizzata prioritariamente in riferimento a minorenni “stranieri”[14]. L’attitudine sopra rintracciata a pensare e declinare istituzioni statali in logiche di ghéne, in cui le esigenze di conoscenza e tracciamento sono interconnesse all’erogazione di servizi, non costituisce dunque una novità negli studi antropologici che si cimentano costitutivamente e metodologicamente con le faticose matasse della relazionalità interpersonale. Interrogando le dinamiche parentali in contesti di mobilità Carsten (2020) ha di recente sintetizzato i modi di intenderle e studiarle secondo due modelli piuttosto differenti tra loro. Il primo, «kinship as “being”», caratteristico soprattutto delle origini di questa disciplina, intende la parentela in modo «ascrittivo», come un “essere” – o, nel nostro caso, a volte, un non esser-ci. Il secondo, «kinship as “doing”», da lei e dai più recenti studi antropologici abbracciato, risiede invece in un’attenzione di tipo performativo: la parentela intesa come un fare e nel suo farsi (Ibidem: 321). Questa seconda modalità di guardare alla relazionalità interpersonale – espressa in altri suoi lavori piuttosto con il termine relatedness (Carsten 2000), traducibile in «relazionalità parentale» (Grilli 2019: 27) ma volta letteralmente a sottolineare “la qualità dell’essere interrelati” – permette di focalizzare l’attenzione etnografica su come agire quella “capacità di relazionarsi” richiesta al tutore volontario. Relazionalità come “essere” e come “fare” non sono qui state intese come due sguardi reciprocamente escludenti. Se nel paragrafo precedente l’attenzione è stata posta sullo “sforzo” a porre in essere in modo ascrittivo una certa relazione – e in non-essere altre, il versante performativo è invece quello che ci interessa di seguito. È questo secondo sguardo che permette di approfondire come le rappresentazioni ordinatorie e i progetti antropopoietici prima discussi si siano dispiegati in una quotidianità che, come spesso accade, ha messo in luce la non meccanicità delle dinamiche relazionali immaginate, le crisi e le continue riconfigurazioni di relazionalità istituite per legge ma agite da soggettività eterogenee in scenari in continuo mutamento. È proprio forse il «poco da fare» e poco spazio per un loro “fare”, la sensazione di sentirsi «sottoutilizzati» (tutrice volontaria, incontro informale tra tutori, 08/05/2019), ad aver messo a volte in crisi queste genealogie statali.

Per le aspiranti tutrici e i pochi aspiranti tutori, al primo incontro regionale sopra delineato è infatti seguito il corso di formazione organizzato invece dall’ente locale, consistente in una decina di incontri a cadenza settimanale. Troppi mesi passano poi, secondo alcuni, tra il corso – arrivato a più di 6 mesi dalle prime manifestazioni di interesse nell’autunno del 2017 – il colloquio di selezione finale, poi la proposta di abbinamento ad un minore, un primo incontro alla presenza anche dell’assistente sociale e infine, a volte aspettando ancora diversi mesi, la nomina ufficiale al Tribunale per i Minorenni. Se questi tempi burocratici, percepiti come eccessivamente lenti in rapporto al carattere più dinamico della relazionalità interpersonale, fanno già dubitare qualcuno della effettiva volontà o capacità dei diversi ingranaggi della macchina statale di promuovere questa figura, è fin dai primi incontri presso l’ufficio dell’assistente sociale tra tutore volontario e minore proposto per l’abbinamento che le razionali rappresentazioni relazionali tra un bambino-tabula rasa e un tutore-faber entrano nella maggior parte dei casi fortemente in crisi. Nel primo incontro presso i Servizi Sociali con il “minore solo” che gli viene presentato, Sandro [tutore volontario] inizia ad apprendere tanto della presenza di diverse persone nella vita di Mohamed [minorenne tutelato] quanto di una loro possibile relativa rilevanza nonostante la riconosciuta parentela: un cugino minorenne appena arrivato in città, la cui presenza è rimarcata dall’assistente sociale con il quale Mohamed non mostra interesse a interagire; un altro cugino maggiorenne che risiede da tempo a Milano, saltuariamente frequentato. «Il suo obiettivo», riferisce il coordinatore di comunità, «è quello di crearsi qualcosa di slegato» (primo colloquio tutore-minore, febbraio 2019). In successivi incontri, svolti in solitaria tra tutore e tutelato, si affacciano altri legami che, pur non essendo territorialmente prossimi, sembrano avere per Mohamed una quotidiana rilevanza. Confrontandosi con reciproche difficoltà di comunicazione e timidezza, Sandro riesce comunque «ad estorcergli a fatica» che ha una sorella rimasta in Marocco, due fratelli più grandi di lui, di cui uno fermatosi in Spagna; «poi mi ha detto che spesso, ogni due o tre giorni, sente la madre…» (colloquio informale, febbraio 2019). Con tutte queste persone della rete interpersonale di Mohamed, Sandro non entrerà mai in contatto. L’esperienza di un’altra tutrice, Alessandra, permette d’altra parte di notare come il non contatto o il non trapelare di informazioni tra questi ambiti sia stato a volte reciproco:

l’altro giorno, eravamo da soli, mi ha finalmente fatto vedere la foto del fratellino appena nato. In questa foto c’era anche sua mamma… non l’avevo mai vista… gli ho chiesto “ma…lo hai detto alla mamma che…di me?” e lui mi ha detto di no. Lei non lo sa (colloquio informale con tutrice, luglio 2020 – nomina avvenuta a giugno 2019).

D’altronde, la segretezza e l’omissione di informazioni, se da una parte è poco compatibile con una visione ascrittiva e genealogica dei rapporti interpersonali, basati proprio su una loro manifesta conoscenza (Strathern 2005), è invece molto frequente nel sostentamento quotidiano dei legami affettivi (Bakuri et al. 2020).

Il coinvolgimento nelle reti interpersonali del tutelato è comprensibilmente variato molto a seconda dei soggetti, delle proprie predisposizioni e delle relazioni progressivamente instauratesi. Se per alcuni le motivazioni per vedersi sono rimaste di ordine più «freddo» o «burocratico» e i contatti si sono diradati dopo il compimento del diciottesimo anno, in altri casi la frequentazione ha coinvolto anche le reciproche reti e abitazioni: «molti venerdì va dai cugini, a cui è molto legato… Mi hanno anche invitata là una volta, sono andata! […] Qualche volta andiamo a mangiare la pizza, ieri abbiamo festeggiato il compleanno di mia mamma tutti insieme, c’era anche mio figlio, lei è stata felicissima» (colloquio informale con tutrice, ottobre 2019).

Manchevole, secondo un coordinatore di comunità con esperienza ormai decennale, non è dunque tanto la relazionalità attorno alle persone residenti nella struttura da lui coordinata, ma il prenderla in serio conto: «Se parliamo di minori stranieri non accompagnati e non consideriamo il fatto che loro abbiano una rete… è un ragionamento un po’ monco…» (incontri di formazione continua, novembre 2019). Se queste reti appaiono dipinte, nella maggior parte delle occasioni, come evidenza di truffa ai danni dello Stato o rischio/segnale di coinvolgimento nella microcriminalità, sono qui invece indicate come «una rete di persone intorno a loro, sotto di loro, che li aiuta, a volte in alcuni casi li sovvenziona e, nella stragrande maggioranza dei casi, li protegge. Spesso la più grossa forma di protezione che loro hanno» (Ibidem).

Le presenze, per diverse ragioni a volte ineffabili, di questa rete sono però anche una tra le varie motivazioni che hanno spinto Sandro, riflettendo sulla sua prima esperienza da tutore ormai conclusa, a ridimensionare le prerogative in-formative connesse al suo ruolo:

Se guardo il risultato dell’unico ragazzo che ho seguito: […] quando è stato il momento decisivo, al compimento della maggiore età, nel momento in cui gli è stato specificato il percorso che…insomma…non era il miglior percorso del mondo ma era l’unico che c’era… lui ha tirato fuori un’altra carta per risolvere la questione alla sua maniera andando con un altro ragazzo a Tolano e scegliendo tutto un percorso diverso… è la sua vita, non è che…magari è quello giusto, però, in quel momento lì abbiamo inciso zero (incontri di formazione continua, novembre 2019).

L’obiettivo di “crearsi qualcosa di slegato”, evocato nel primo colloquio, si è arricchito per Sandro, a fine percorso, di ulteriore significato. Tutori e tutrici volontarie si sono spesso trovate impreparate a confrontarsi con la rete interpersonale di soggetti precedentemente descritti loro come soli e senza riferimenti. Di conseguenza, il ruolo antropopoietico, incisorio, assegnato al tutore volontario da una certa descrizione istituzionale è risultato in molti casi un’aspettativa da mettere da parte e uno strumento di pensiero controproducente.

Oltre a questi legami imprevisti ai più, il gruppo-tutori si è trovato a doversi districare anche in altre fitte reti, più prevedibili nella presenza ma forse meno nella agentività: le professionalità, le «tante persone che lavorano su questi ragazzi» (tutrice volontaria, incontro di formazione continua, novembre 2019). Come la maggior parte delle altre tutrici, Sandro non ha mai avuto contatto con una certa rete interpersonale di Mohamed, ma con un’altra – quella costituita da operatori sociali a vario titolo – si è invece dovuto confrontare spesso, in linea con le indicazioni ricevute durante il corso e per ragioni dettate dalla non coabitazione tra i due soggetti. Sandro si è trovato pertanto a dover costruire una relazione con questa ulteriore rete di professionalità cercando allo stesso tempo una propria collocazione e una capacità di movimento:

una cosa che devo ancora capire è…come muovermi…cioè: se lui fosse mio figlio e non ci fossero ragionamenti di relazione di cui dover tener presente, soprattutto all’inizio, io la prima cosa che farei è chiamare la scuola, qualcuno del suo corso e andrei a parlarci per capire qualcosa in più di questo tirocinio…ma…secondo me mi toccherà, prima di fare questa cosa qua, o fare da filtro con Marco [coordinatore comunità] e Gabriele [educatore di riferimento di M. in comunità] o con Elena [assistente sociale] per capire chi ha parlato l’ultima volta con la scuola… perché, per esempio, l’altro giorno avevo pensato di accompagnarlo a scuola…però non sapevo che invece lui aveva delle visite mediche quindi…c’è tutta una relazione da mettere in piedi… (colloquio informale, febbraio 2019).

La declinazione di “genitorialità sociale”, confrontata alla sua esperienza più comune di “genitorialità”, assume qui la sfumatura non solo di acculturazione all’interno della società, ma anche di condivisione e socializzazione della stessa con diverse professionalità. Nel dialogo con diversi tutori è emerso come nel proprio immaginario di senso comune “essere genitori” rimandasse all’idea di un certo potere decisionale e a un posizionamento gerarchico la cui spettanza in queste pratiche non è risultata, invece, sempre facile da determinare. In particolare, l’avvicendarsi in queste arene di una vasta platea di attori – tutori volontari, operatori di servizi sociali e comunità residenziali, padri, madri, zii, cugini, presidenti di tribunali e garanti d’infanzia – ognuno depositario di qualche significante di genitorialità, rendeva precari i confini di intervento di ciascuno.

L’assistente sociale ha fatto un progetto per Issam: la tutrice volontaria si impegna ad aiutarlo con i compiti e le materie scolastiche, di andarlo a prendere e riportarlo quando fanno lezioni di recupero, e poi la comunità invece sorveglia che vada scuola, ecc. Questo è venuto con 4 insufficienze, 2 ingiustificato, 39 assenze e 26 ritardi. Se il progetto va a…puttane [sussurrato]…io a chi devo scrivere? Perché io sono tutore, faccio la genitorialità sociale…devo scrivere all’assistente sociale e, mi viene in mente, per conoscenza anche al presidente del tribunale? (tutrice volontaria, incontro informale tra tutori a seguito delle prime nomine ufficiali, 08/05/2019).

Calata nell’esperienza performativa del ruolo, Maria ha progressivamente realizzato che il suo posizionamento in questa nuova genealogia, la rete parentale statale in cui andava ad inserirsi, non le risultava sempre così chiara come le era sembrato al termine del corso di formazione. L’attività sinergica tra tutore e altre professionalità, il suo ruolo di interfaccia e personificazione statale, è poi risultato meno scontato di quanto auspicato per l’intrinseca frammentazione dell’apparato statale:

anche quando c’è stata la questione della scuola…che era stata fatta una riunione in cui si era deciso che per il ragazzo era meglio fare un certo corso…e poi non è stata fatta l’iscrizione a quello…io lì non sapevo più…ma, chi decide? Devo decidere io? Decide la comunità? Decide il Comune? …ho avuto una crisi di identità forte (tutrice volontaria, incontro di formazione continua, novembre 2019).

Come ci si inserisca e ci si debba comportare all’interno di questa rete assimilata terminologicamente a quella parentale è rimasta una questione per nulla risolta o scontata. Se inizialmente una narrazione di sé come “genitore” era da alcune tutrici piuttosto rimarcata, col tempo questa descrizione è stata meno evocata. In uno dei primi incontri informali tra neo-tutrici, ancora molto vicino ai momenti della formazione e con alcune esperienze avviate solo da pochi mesi, discutendo riguardo la possibilità o meno di accompagnare i propri tutelati al consolato per l’emissione del passaporto, diverse tutrici si sentivano investite di un ruolo rispecchiante loro terminologie genitoriali:

Lara: Luca [educatore di riferimento] mi ha detto “no, no, no, non abbiamo bisogno di te perché noi vogliamo mandare i ragazzi da soli, con un mediatore, in modo che loro facciano questa cosa in autonomia” […].

Alessandra: beh, però tuo figlio non lo manderesti mai a fare un documento così importante da solo…cioè…io ci vado lo stesso...c’è anche una gerarchia, e tu sei sopra.

Sara: io sono suo genitore e come farebbe un genitore lo accompagno.

(incontro informale gruppo-tutori, maggio 2019).

Negli incontri di formazione continua dell’autunno successivo, dopo diversi mesi di esperienza e interlocuzione coi Servizi Sociali locali, le certezze riguardo al proprio definirsi, al proprio ruolo e alle prerogative dei diversi soggetti sono parse più sfumate. Alessandra rimandò che del ragazzo che seguiva da quattro o cinque mesi «sapeva» in realtà poco: «mi sono stati dati i fogli…dieci righe stiracchiate» (novembre 2019). «Facciamo molta fatica a capire», aggiunse, «da un lato sentiamo la responsabilità di questo ruolo, dall’altra sentiamo che, proprio perché ci sono tante persone che lavorano su questi ragazzi, bisogna imparare a lavorare insieme». «Quello che manca», sostenne, «è…questa rete di informazioni» (Ibidem). Il non avere sufficiente “conoscenza” ha fatto sorgere dubbi sull’appropriatezza di utilizzo di un lessico genitoriale e sulla capacità di performare le proprie responsabilità, riportando in evidenza l’interconnessione di queste tre dimensioni. A questa riflessione di Alessandra fece, infatti, quasi subito eco Francesca:

io a questo mi aggancio perché…noi stessi, o almeno io, non ho ancora capito il ruoloa volte ti senti “oh, sono il suo tutore alla fine sono come un suo genitore” quindi in una situazione che non mi è chiara dico “vado avanti sperando che sia giusta” …in altri momenti dico…però, alla fine, sono il suo responsabile per la legge ma lo vedo poi due ore a settimana, non so quasi niente di lui…è la cosa giusta? Sto forzando la mano? (Ibidem).

La scarsità di informazioni e di circolazione delle comunicazioni, percepita da alcune tutrici, è a sua volta stata una delle principali cause di incrinature, più o meno momentanee, nel posizionarsi all’interno della genealogia statale: «loro decidono senza interpellare…noi siamo i tutori, quando prendono una decisione ci devono convocare, non a posteriori» ribadì una tutrice con le colleghe, amareggiata per la decisione di spostamento del suo tutelato da una comunità ad un'altra senza il suo iniziale coinvolgimento (colloqui informali, maggio 2020); «a me è venuta una crepa grossa tanto, ho perso tanta fiducia» (novembre 2019) comunicava a tutti i presenti Francesca in un incontro di formazione continua.

La non condivisione abitativa e la mancanza di tutto il quotidiano, di spazi e tempi, di condivisione e convivialità (Marabello, Riccio 2020) – tanto coi propri tutelati quanto con gli altri soggetti – aprirono inoltre fin da subito ulteriori incertezze nella performatività e nel posizionamento di tale figura:

io sono il tutore… quindi…in teoria…l’ultima parola…cioè…la figura di più responsabilità nei suoi confronti adesso è diventata il tutore… poi…il fatto che lui però viva qui vi responsabilizza voi [comunità educativa] per la questione della convivenza (primo colloquio tutore-educatore di riferimento in comunità, febbraio 2019).

«Io, come tutore, mi sembra di non avere il polso sul suo quotidiano […] noi, non vivendoci insieme non è che possiamo avere una capacità di… imporre una disciplina…non vive a casa mia e se ne frega bellamente!» rivendicò una tutrice volontaria (novembre 2019) in un incontro di supervisione, aprendo una discussione dove si affrontarono poi difficili suddivisioni tra «mansioni affettive» e «mansioni normative». In un incontro successivo sono proprio convivenza e quotidianità, nella loro dimensione anche economica, ad essere evocate dalla responsabile del Servizio Sociale come segni tangibili per tracciare le contese linee di intervento tra comunità, servizi e tutori volontari. Rifacendosi probabilmente alle abitudini consolidate nella “tutela istituzionale”[15] espresse le sue rappresentazioni riguardo a una suddivisione di ambiti e ruoli prendendo come esempio gli aspetti sanitari: «i tutori dovrebbero occuparsi della gestione extra-ordinaria, in quanto la gestione ordinaria è pensata per le comunità, ovvero chi materialmente accudisce» (tavolo di confronto tutori volontari-Servizi Sociali, novembre 2020), volendo rimarcare, con questa frase, la responsabilità economica rimasta in capo all’amministrazione comunale e una più volte evocata limitatezza di tali risorse. Il tentativo di dislocazione plurale di sociali responsabilità genitoriali in queste esperienze non sempre si è rivelato frutto di un matrimonio felice. «Si fa fatica a tenere i pezzi insieme, è estremamente frustrante e faticosa la relazione, ma, più che con i ragazzi, con le istituzioni!» è la conclusione che Francesca sentì di condividere con gli interlocutori del tavolo di confronto tra tutori volontari, assistenti sociali e loro responsabile (tutrice volontaria, novembre 2020).

Riflessioni conclusive

Alla crisi che il “viaggiatore illegale” è passibile di introdurre nel meccanismo statale (Khosravi 2010, 2) – ancor più profonda se soggetto non legittimamente espellibile poiché “minore” e concepibile solo come “non accompagnato” in una mancanza inappropriata a cui è obbligo porre rimedio – la legge 47/2017 e alcuni suoi interpreti istituzionali paiono dare risposta tramite il tentativo di costruzione di un legame di filiazione statale attraverso la personificazione permessa dal tutore volontario. Questa relazione è immaginata ampliare, per sua stessa definizione, la conoscenza e la protezione/controllo delle vulnerabilità tanto del soggetto-minorenne quanto della società in cui ha manifestato la sua presenza. Affiancando alcuni percorsi di tutela volontaria nel loro farsi, è progressivamente emerso come una questione di “conoscenza” e di “circolazione di informazioni” si sia legata ad una possibilità tanto di descriversi come “genitori” quanto di inscriversi all’interno di un inedito albero genealogico statale. È la scarsità di circolazione di queste ultime ad essere spesso stata ritenuta principale causa di tagli e rotture (Strathern 1996) in questi network statali, generando a volte nelle tutrici estraneazione proprio verso quei soggetti (“le istituzioni”, “il proprio Stato”) che si sarebbero inizialmente immaginati come più familiari. Il limitato campo di azione, il “poco da fare”, e la condivisione di questo spazio con molteplici soggetti è risultato, infine, decisivo nell’aprire incertezze riguardo a un’autodefinizione e a una performatività parentale di queste relazioni – una lettura spesso scoraggiata, per diverse ragioni, anche dagli operatori sociali locali più direttamente coinvolti nelle quotidianità dei “soggetti a tutela” rispetto alle istituzioni regionali e nazionali. La dimensione economica in capo all’amministrazione locale ha inoltre continuato a giocare un ruolo cruciale. È dalla crisi in queste genealogie statali allargatasi alle tutrici, piuttosto che da loro sanata, che, in un recente incontro del tavolo sopra citato, una tutrice volontaria rivolge un’inaspettata richiesta di coinvolgimento all’antropologia:

come mai non si organizzano degli incontri con esperti proprio su questa tematica… con degli antropologi magari… mi hanno molto colpito dei corsi online promossi in provincia di Brescia[16] in cui intervenivano degli antropologi, sono stati molto utili per me… perché magari si riescono a trovare degli agganci più facili di quel che non si pensi (tavolo di discussione tutori-Servizi, 15/02/2021).

Un simile coinvolgimento viene subito accolto positivamente dalla dirigente comunale, rappresentando un favorevole punto di ricongiunzione tra tutori e servizi, che immagina tuttavia la sua introduzione sotto la forma di «un approfondimento culturale della migrazione» (Ibidem) sentito come formazione mancante e necessaria in diversi servizi comunali.

I corsi di formazione per tutori volontari di cui sono stata resa partecipe hanno previsto incontri con referenti di servizi territoriali (Servizi Sociali, Centro Stranieri, Centro per il Volontariato, SerT), offerto contenuti di ordine statistico, legale, sanitario e psicologico[17], incontrato un paio di realtà associative interne ed esterne al territorio ma sono stati vissuti dalle tutrici come manchevoli di diverse dimensioni. Tra le principali menzionate: un dialogo proficuo con coordinatori e operatori delle comunità, una comprensione più puntuale delle realtà nelle quali si sarebbero trovate a dover agire e un confronto con i loro più giovani possibili soggetti di tutela. La richiesta di introduzione in queste o successive formazioni di un contributo antropologico rappresenta una duplice sfida per un’antropologia che voglia interloquire o suggerire l’appropriatezza di un proprio contributo in questi spazi pubblici.

I seminari online menzionati dalla tutrice si sono situati in quella delicata sfera di “approfondimento culturale della migrazione” delineata dalla dirigente comunale e possono essere interessanti per aver costituito, sebbene in parte inconsapevolmente, interventi di antropologia pubblica “a distanza”. Tuttavia, considerata la recente evocazione di un lessico genitoriale in questi ambiti e la familiarità di lunga data che antropologhe e antropologi hanno con le questioni inerenti all’espressione e alla classificazione della relazionalità interpersonale, sembrerebbe più opportuno un intervento mirato in questa direzione. Necessario appare un contributo volto in primo luogo a problematizzare adeguatamente il “culturale approfondimento” che spesso ci si aspetta dall’antropologo/a (cfr. Fichera, Pitzalis 2019; Taliani 2015); a evidenziare, poi, la dimensione politica implicata nella gestione e categorizzazione dei legami relazionali, i posizionamenti da cui ciascun soggetto della rete guarda e costruisce questi “legami di legge”, chi è incluso o escluso in queste reti e secondo quali elementi. Un’antropologia implicata forse, più che applicata, vi si dovrebbe situare come pratica di consapevolezza dei confini di volta in volta tracciati, da chi, come, in base a cosa, in base a quale “sapere” o “non sapere” (Taliani 2015), per ottenere quali conoscenze o accettare quali indeterminatezze. Soprattutto però un contributo antropologico risulta appropriato ad indirizzare una questione che emerge come centrale dalle esperienze qui presentate: la tendenziale assenza, questa sì, del coinvolgimento dei “tutelati” stessi e delle loro reti interpersonali in questi percorsi.

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[1] Dati approfonditi sono reperibili sulla pagina dedicata del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali https://www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita/immigrazione/focus-on/minori-stranieri/Pagine/Dati-minori-stranieri-non-accompagnati.aspx nonché nei 6 dettagliati rapporti ANCI di Cittalia (2005-2016) disponibili al sito https://www.cittalia.it/pubblicazioni/, consultati in data 15 febbraio 2021.

[2] A partire soprattutto dalla risoluzione C 221/123 del Consiglio dell’Unione europea del 26 giugno 1997, viene a costituirsi in Italia un corpus legislativo attinente a modifiche al Testo Unico sull’Immigrazione i cui principali riferimenti normativi sono disponibili al sito: https://www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita/immigrazione/focus-on/minori-stranieri/Pagine/Normativa-e-pubblicazioni.aspx, consultato in data 15 febbraio 2021. Per analisi critiche di alcuni di essi cfr. Trucco 2006; Rozzi 2018.

[3] Testo integrale disponibile in Gazzetta Ufficiale: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2017/04/21/17G00062/sg.

[4] A titolo soltanto esemplificativo cfr. http://www.connectproject.eu/PDF/CONNECT-EU_Reference.pdf, consultato in data 3 gennaio 2021.

[5] In Italia sono presenti 29 Tribunali per i Minorenni, composti da due giudici togati e due giudici onorari ciascuno, con sede presso i distretti di Corte d’Appello.

[6] Dalla problematica delineazione di “minore età” e “infanzia” come concetti universalistici (Taliani 2015; Gardner 2012; Jourdan 2011) alla ancora meno chiara definizione relazionale (Heidbrink 2014; Vacchiano 2018), passando per l’ordinamento legislativo separato di dubbia legittimità (Trucco 2006; Rozzi 2018).

[7] In ragione dell’eterogeneità di posizionamento sociale degli interlocutori coinvolti, nonché a tutela della loro privacy, i nomi di persona e luogo sono pseudonimi e la definizione puntuale del contesto regionale e municipale è stata omessa. Per la stessa ragione, date di eventi formativi pubblici sono state indicate con una più ampia delineazione di mese/anno o stagione/anno. Tutti gli estratti del presente contributo provengono da annotazioni dell’autrice raccolte in momenti formativi o in colloqui formali e informali con il consenso dei propri interlocutori.

[8] Per un interesse di questo tipo è possibile trovare un’ampia letteratura sia nelle pubblicazioni di associazioni e ONG impegnate su questi temi (Save The Children, UNHCR, OIM, Defence for Children International Italia, Melting Pot Europa, Osservatorio CESPI), sia nei recenti rapporti di monitoraggio FAMI e il sito afferente dedicato (https://tutelavolontaria.garanteinfanzia.org/biblioteca), nonché in diversi manuali operativi (per ampiezza di analisi si rinvia in particolare a Long 2018).

[9] Da questo punto di vista il gruppo risulta in linea con i dati resi disponibili da AGIA riguardo un profilo dei tutori volontari a livello nazionale: https://tutelavolontaria.garanteinfanzia.org/rapporti-di-monitoraggio, consultato in data 15 febbraio 2021.

[10] Reperibili al sito: https://www.garanteinfanzia.org/sites/default/files/Linee%20guida%20tutori%20volontari.pdf, consultato in data 14 novembre 2020.

[11] A titolo esemplificativo, corsi rivolti a tutori legali di minorenni sono documentati in Veneto a partire dal 2004, in Emilia-Romagna dal 2013, in Sicilia dal 2016.

[12] Cfr. http://studiolegalelibra.eu/wp-content/uploads/2017/03/La-genitorialita%CC%80-sociale-dal-punto-di-vista-giuridico.pdf e http://www.comparazionedirittocivile.it/prova/files/cordiano_funzioni.pdf, consultati in data 5 maggio 2021.

[13] Da un punto di vista normativo anche la “tutela istituzionale” è infatti “personificata”. Nell’apertura di una tutela legale deve sempre essere inserito un nominativo individuale – vedasi la prassi diffusa di indicare il nome del/della sindaco/a del territorio in cui il soggetto minorenne si manifesta.

[14] Che nel rivolgersi a questi ultimi continui a prevalere un approccio atto a sottolinearne l’assenza di cittadinanza italiana in luogo della minore età è ampiamente documentato (Trucco 2006; Rozzi 2018; Giovannetti, Accorinti 2017).

[15] È da considerare a questo proposito che nel contesto territoriale qui discusso la nomina di un tutore volontario ha riguardato solo una minoranza dei soggetti censiti come MSNA, con 12 nomine da inizio 2019 a marzo 2021 a fronte di più di cento segnalazioni annuali di “prese in carico di MSNA” da parte dell’amministrazione locale.

[16] Gli interventi a cui fa qui riferimento la tutrice riguardano in particolare l’iniziativa “Migrazioni forzate: seminari di geopolitica e antropologia”, che ha visto coinvolti noti antropologi quali Luca Ciabarri, Tommaso Sbriccoli o Alessandro Jedlowski – e alla quale la ricercatrice era totalmente estranea – ma sono intesi solo a titolo esemplificativo di iniziative a carattere pubblico ampiamente diffuse sul territorio nazionale.

[17] In linea con le indicazioni dell’AGIA, che propongono l’organizzazione dei corsi sulla base di tre moduli: fenomenologico, giuridico e psico-socio-sanitario, https://www.garanteinfanzia.org/sites/default/files/compendium-attivita-garanteinfanzia-easo.pdf, consultato in data 3 maggio 2021.