Il carteggio Seppilli-Colajanni.

Riapplicare l’antropologia applicata in Italia?

Mara Benadusi

Università degli Studi di Catania

Indice

Tullio Seppilli, novembre 2013
Antonino Colajanni, novembre 2013
Bibliografia

Keywords. Antropologia applicata; demo-etno-antropologia; professione antropologo; associazioni antropologiche in Italia.

Il 12 dicembre del 2013 veniva formalmente costituita a Lecce la Società Italiana di Antropologia Applicata (SIAA). In occasione del primo convegno nazionale dell’associazione, la città salentina ospitava circa novanta antropologi e antropologhe che avrebbero animato due giornate di dibattito intorno alle criticità e prospettive di un approccio ancora minoritario nel panorama nazionale.

Erano giornate turbolente quelle del convegno di Lecce. La nuova legge elettorale stava passando all’esame della Camera dei deputati e Silvio Berlusconi tentava un’alleanza con il Movimento Cinque Stelle per la legge di stabilità. Imperversavano inoltre i blocchi autostradali e le marce di protesta organizzate dai Forconi. Con l’appoggio degli autotrasportatori, gli agricoltori, pastori e allevatori di diverse regioni italiane avevano gettato nel caos il paese, e a Piazzale Loreto quel 12 dicembre i manifestanti chiedevano a gran voce la chiusura di Equitalia, la rimozione dell’alta finanza, la cancellazione dell’Euro e non da ultimo la caduta del governo. Lo stesso giorno i nomi delle aziende con esuberi di personale – Selex, Electrolux, Indesit, Pirelli, Fiat Mirafiori – figuravano stampati a grandi lettere su scatoloni di cartone innalzati a formare quello che i manifestanti della FIOM (Federazione Impiegati Operai Metallurgici) battezzarono il “muro della crisi”, in un atto pubblico volto a scongiurare licenziamenti e cassa integrazione. Mentre la SIAA prendeva forma sotto gli affreschi del Monastero degli Olivetani, davanti al Ministero dello Sviluppo Economico l’allora segretario generale della FIOM, Maurizio Landini, nel corso della protesta buttava simbolicamente giù quel tramezzo cartonato a colpi di calci, come Roger Waters faceva nelle rappresentazioni live di The Wall. Ad appena un’ora di macchina dalla sede del convegno, più o meno nelle stesse ore, gli uomini della Guardia costiera di Taranto sequestravano il depuratore in contrada Rotondella per via dei liquami di scarico sversati in mare fuori dalla normativa disciplinante la materia, mentre la Marina Militare Italiana soccorreva 244 migranti naufragati a 120 miglia dalle coste di Lampedusa. Era del giorno prima la notizia che l’Italia si era classificata all’ultimo posto tra i paesi Ocse per l’abbandono precoce degli studi, con un’alta percentuale (del 23,4%) di giovani Neet (Not in Education, Employment or Training), in pratica ragazzi e ragazze fuoriusciti dall’istruzione scolastica e dalla formazione e rifiutati dal mercato del lavoro. Contemporanea anche la notizia dei ritardi dello Stato italiano nell’adeguarsi alle direttive europee che limitano l’abuso dei contratti a tempo determinato, con una paventata multa di 10 milioni di euro dall’Europa.

Di lì a qualche ora, a convegno in corso, il 13 dicembre, sarebbero usciti i risultati della prima tornata di Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN), la procedura di valutazione non comparativa gestita direttamente dal Ministero della Pubblica Istruzione, dell’Università e della Ricerca attraverso le commissioni dei diversi settori concorsuali; un sistema che avrebbe regolato gli avanzamenti di carriera e le assunzioni nel cronico regime di austerità che continua a penalizzare i ricercatori costretti nelle fila del precariato universitario.

Dietro il coordinamento dei soci fondatori della neo-costituita SIAA – Antonino Colajanni, Leonardo Piasere, Giovanni Pizza, Bruno Riccio, Alessandro Simonicca, Sabrina Tosi Cambini, Antonio Palmisano, Massimo Bressan e Roberta Bonetti –, i partecipanti al convegno si erano riuniti non solo per condividere i loro percorsi di ricerca, impegno pubblico e azione nella società e nel mondo del lavoro, ma anche per sondare le opportunità pratiche di un rafforzamento professionale dell’antropologia nelle seguenti aree di intervento: città e migrazioni, educazione, cooperazione internazionale e salute pubblica. Ampio lo spettro delle tematiche trattate, quasi tutte riguardanti i rapporti con il territorio e la ricerca policy oriented: politiche migratorie e del lavoro, integrazione sociale e co-sviluppo, asilo politico, sostegno medico-terapeutico, protezione ambientale, servizi alla persona, trattamento delle dipendenze, scuola e formazione, ricerca in ambito urbano, salute e inquinamento. Le ho volute menzionare perché, in risposta al comune contesto di precarizzazione e contrazione del mercato del lavoro, mi pare costituissero il versante critico-propositivo-applicativo dei complessi snodi politici, economici e sociali che dettavano il passo della cronaca di quei giorni.

Qualche mese dopo sarebbe uscito il libro di Francesco Remotti (2014) Per un’antropologia inattuale, destinato a diventare un punto di riferimento garbatamente polemico per quanti – tra le fila della SIAA e oltre – riconoscevano l’urgenza di rispondere alle sfide del proprio tempo, immaginando soluzioni antropologiche a “misura del presente”. Per quanto non fosse nelle intenzioni di Remotti perorare un’«antropologia dell’evasione» (Remotti 2014: 8), rintanata nella bolla culturale di un altrove lontano anni luce dalla contemporaneità, «un paradiso etnologico per sciocchi, tanto falso a livello teorico quanto sterile a livello pratico» avrebbe detto Malinowski (2020: 123), l’opposizione attuale/inattuale ha continuato ad accompagnare il dibattito intorno all’applicazione dei saperi antropologici in Italia e ai modi per colmare il divario tra formazione universitaria e qualifiche necessarie a un impiego extra-accademico. La SIAA nasceva con lo scopo di «promuovere un uso sociale dei saperi e delle pratiche antropologiche nella sfera pubblica, nel mondo del lavoro, nei processi decisionali e di democrazia partecipata», per favorire «un’antropologia indirizzata al cambiamento» e «capace di rispondere alle sfide attuali fuori da ogni banalizzazione ed esotizzazione dei saperi disciplinari, dando pieno vigore alla profondità etnografica e storico-sociale delle scienze antropologiche oggi»[1]. Che i segni della crisi del settore universitario in Italia, e del nostro campo disciplinare in modo particolare, avessero contribuito a radunare intorno al tema dell’applicazione un significativo numero di antropologi e antropologhe che – in condizioni diverse – sarebbero restati nei lori atenei, non può essere escluso. A renderlo anzi probabile era la grande presenza al convegno di Lecce non solo di giovani ormai instradati in percorsi dottorali e post-dottorali all’estero, ma soprattutto di relatori con affiliazioni non accademiche, provenienti sia da enti istituzionali che del privato sociale: dai centri di ricerca agli organismi internazionali, fino alle numerose associazioni territoriali, onlus e cooperative sparse in tutto il territorio. Una caratteristica, questa, che continua a contraddistinguere tutti i convegni e le occasioni formative organizzate dalla SIAA.

Qualche settimana prima dell’inizio del convegno uno scambio epistolare tra i soci fondatori della SIAA e Tullio Seppilli aveva animato il dibattitto all’interno della nascitura associazione. All’origine dello scambio una lettera dell’antropologo perugino. Declinando l’invito ricevuto da Antonio Palmisano a partecipare alle giornate salentine, con la correttezza e lo stile interlocutorio che lo caratterizzavano Seppilli manifestava alcune perplessità rispetto alla fondazione di una società che facesse esplicito riferimento alla nozione di antropologia applicata: la «specifica sciagura nazionale» (infra) di non riuscire ad avere una associazione «unitaria» (ibidem) di tutti gli antropologi italiani; la ben nota contrarietà di Seppilli rispetto al temine applicazione; le insidie presenti nella fondazione di un’associazione per lui «avulsa dall’insieme del lavoro antropologico, il quale non può non essere, insieme, empirico, teoretico e anche operativo» (ibidem). Alla lettera di Seppilli era seguita una altrettanto garbata risposta del Presidente onorario della SIAA, Antonino Colajanni, che ripercorreva i punti sollevati da Seppilli uno alla volta.

A distanza di vari anni da quel momento fondativo, in questo numero della rivista abbiamo scelto di pubblicare il carteggio per renderlo oggetto di un Forum sul senso dell’antropologia applicata oggi, sulle criticità e opportunità di ripensare la relazione tra teoria e pratica nella ricerca antropologica, sulla specificità della nostra tradizione di studi nel declinare la «professione antropologo» (Clemente 1991) in questo scorcio di inizio secolo. Riteniamo che lo scambio epistolare tra Seppilli e Colajanni permetta di entrare nel vivo di una querelle sull’applicazione che ha accompagnato gli sviluppi dell’antropologia italiana fin dalla seconda metà del Novecento, argomento di scontro e confronto tra diverse genealogie accademiche. Nel ritracciare le fila di un percorso che si è espresso in modo intermittente e «a macchia di leopardo», in un recente articolo apparso su Voci (Benadusi 2020), ho analizzato alcuni momenti nella storia delle discipline demo-ento-antropologiche in cui il dibattito in tema di applicazione – intesa anche come apertura verso i legami con il territorio e le istituzioni – ha avuto un peso importante nel nostro panorama nazionale, contribuendo alla formazione di tradizioni di impegno durature. In particolare, in quello scritto ho tentato di ripercorrere alcune iniziative degli anni ’50 e ’60 del XX secolo fondamentali ai fini di una riflessione critica sull’applicazione in antropologia. Non c’è bisogno di ricordare che si tratta degli anni in cui si è assistito alla prima fondazione di un’antropologia italiana impegnata in azioni di pianificazione e intervento sociale, secondo il programma stilato dagli autori del Memorandum (AAVV 1958). Se nell’articolo di Voci il mio intento è prevalentemente storiografico, in questa sede l’idea è invece di aprire un confronto sul carteggio Seppilli-Colajanni come incipit per dipanare il qui e ora di un possibile uso dei saperi e delle pratiche antropologiche in Italia, tenendo conto dell’attuale spazio accademico e professionale in cui come antropologi e antropologhe operiamo.

Mi sembra evidente che si stia oggi assistendo a un rilancio non tanto del termine “applicazione” in in sé e per sé ma di una riflessione (non necessariamente coesa e organica, ma comunque fertile e allargata) sulla valenza sociale dell’antropologia nello spazio pubblico, in campo professionale, nella ricerca consulenziale, nel mondo del lavoro, negli spazi della cura. L’antropologia dello sviluppo e l’antropologia medica – ben rappresentate dai protagonisti del carteggio che qui pubblichiamo – sono senz’altro due tra i settori in cui l’interesse verso l’uso dei nostri saperi ha mostrato maggior tenuta nel tempo. Lo dimostra proprio la duratura ed efficace azione della Società Italiana di Antropologia Medica (SIAM), fondata da Tullio Seppilli nel lontano 1988. Esperienze di indagine su committenza o comunque con finalità di intervento sono maturate in forma pioneristica anche nell’antropologia museale, poi confluite nel 2001 nella Società Italiana per la Museografia e i Beni Demo-Etno-Antropologici (SIMBDEA). La pressante domanda di percorsi formativi e di strumenti analitici per rispondere alle sfide legate alla professionalizzazione del mestiere antropologico in Italia si evincono altresì dal lavoro messo in campo, in questi anni, da realtà associative legate ai territori, come il Centro Ricerche Etno-Antropologiche (CREA), fondato nel 2002 a Siena e oggi con sede a Firenze, e il Centro di Ricerche Etnografiche e di Antropologia Applicata “Francesca Cappelletto” a Verona, che abbracciano vari campi di intervento: l’educazione, le minoranze, il lavoro, lo spazio urbano, le migrazioni. La pulsione verso la risoluzione di problematiche sociali e l’impegno a rendere spendibili i propri saperi nella società e nel mondo del lavoro sono, inoltre, attestati dal ruolo strategico assunto dall’Associazione Nazionale Professionale Italiana di Antropologia (ANPIA), costituitasi nel 2016 e oggi accreditata al Ministero dello Sviluppo Economico come ente che rilascia ai suoi iscritti la qualifica di antropologo/a professionista. Anche la fusione tra l’Associazione Italiana per la Scienze Etno-Antropologiche (AISEA) e l’Associazione Nazionale Universitaria degli Antropologi Culturali (ANUAC), avvenuta nel 2017 con la fondazione della Società Italiana di Antropologia Culturale (SIAC), potrebbe essere letta come un percorso di auspicata integrazione tra ricerca universitaria e attività extra-accademica, considerato che nel 1997 l’AISEA era diventata una onlus proprio per perseguire finalità di solidarietà sociale nei territori.

In questa ultima decade, comunque, in concomitanza con la progressiva, accelerata contrazione del settore scientifico disciplinare e le sempre più ridotte possibilità di quanti escono dai percorsi dottorali di entrare nell’università (Palumbo 2018), abbiamo assistito a una vera e propria accelerazione non solo del dibattito ma anche delle iniziative applicative messe in campo a livello nazionale. Corsi che riportano esplicitamente la dicitura antropologia applicata sono insegnati in vari atenei: a Verona, Venezia, Padova, Foggia, Lecce, Torino, Bologna, presso l’Università della Basilicata. Con lo stesso nome sono stati attivati master e percorsi di perfezionamento. Anche le pubblicazioni in tema di applicazione sono ormai numerose[2]. Dopo l’importante rassegna del 2001 di Roberto Malighetti (nuova edizione 2020), dedicata a una rivisitazione critica delle matrici pratico-applicative dell’antropologia britannica[3], ai problemi etici legati all’applicazione e ai più recenti dibattiti in chiave post-moderna sulla nozione di “sviluppo”, sono usciti vari lavori di taglio critico-riflessivo (Zanotelli, Lenzi Grilli 2008; Benadusi 2010; Declich 2012)[4] in cui il ruolo dell’applicazione e della consulenza antropologica è stato trattato da colleghi e colleghe italiani che si sono spesi in diversi ambiti professionali. Nel mentre, gli atti del primo Convegno nazionale della SIAA hanno dato vita a due volumi dedicati al tema dell’applicazione (Palmisano 2014a, 2014b) e l’attività editoriale della rivista Antropologia pubblica (che afferisce alla SIAA) va anch’essa consolidandosi. Il lavoro manualistico di Ivan Severi (2018) e il contributo di carattere metodologico curato dallo stesso autore con Federica Tarabusi (Severi, Tarabusi 2019) sono probabilmente gli ultimi, significativi tasselli di questa recente attività editoriale sui temi dell’applicazione e della professionalizzazione in antropologia.

A lungo considerata una componente marginale della nostra tradizione di studi, di là dalle diverse terminologie impiegate per definirne contorni e fini (pubblica, applicata, professionale, pratica, finalizzata all’uso sociale), il vasto campo dell’antropologia “per” la società sta vivendo una fase di rivitalizzazione che per essere opportunamente valorizzata richiede uno sforzo di comprensione in grado di sottrarla al ruolo sussidiario spesso attribuitole in Italia.

È con un simile intento che in questo Forum abbiamo scelto di concentrare l’attenzione sullo snodo di questioni (politiche, culturali e accademiche) che il carteggio tra Seppilli e Colajanni può sollevare, nella speranza che una riflessione “fuori dai denti” sull’antropologia applicata oggi contribuisca al rafforzamento della disciplina nel quadro delle scienze sociali in Italia.

Ringraziamo i colleghi che sono fin qui intervenuti nel dibattito, Leonardo Piasere, Giovanni Pizza e Alessandro Simonicca, soci fondatori della SIAA, e Ferdinando Mirizzi, attuale Presidente della SIAC. Pubblichiamo i loro commenti nell’augurio che altri ne seguiranno nel prossimo numero della rivista.

Tullio Seppilli, novembre 2013

[Riportiamo il testo integrale della lettera[5] scritta da Tullio Seppilli in risposta all’invito ricevuto dai soci fondatori della Società Italiana di Antropologia Applicata nel novembre 2013. L’invito gli era stato avanzato per voce del collega Antonio Palmisano, organizzatore del primo Convegno Nazionale dell’associazione, tenutosi a Lecce nel dicembre del 2013]

Caro Palmisano,

mi preme innanzitutto ringraziarTi per la Tua cortesissima telefonata e per l’invito a partecipare al Vostro convegno, a Lecce, nei giorni 13-14 dicembre prossimi.

Purtroppo non mi è possibile venire perché in questo scorcio di anno ho già troppi precedenti impegni (uno anche a Lecce) e soprattutto obblighi a concludere testi.

Questo è un impedimento oggettivo ma non voglio esimermi, per la stima che ho di Te e di molti di coloro che si sono impegnati nella costituzione della Società italiana di antropologia applicata, non voglio esimermi, dicevo, da una doverosa chiarezza sulla mia posizione (e nel pieno rispetto ovvio di tutte le altre).

Da quando ho avuto notizia del processo costitutivo della SIAA ho manifestato un mio dissenso sulla iniziativa, per alcune ragioni che, proprio in ragione della mia stima ti esplicito qui (e ti autorizzo ovviamente a far conoscere se lo ritieni opportuno). Ti prego anzi di scusarmi per un discorso che può sembrare un po’ pedante proprio perché cerco di essere chiaro e privo di equivoci e riferimenti personali.

Prima ragione

Credo che sia una nostra specifica sciagura nazionale la reiterata evidente impossibilità di avere una nostra comune unitaria e aperta associazione professionale di tutti gli antropologi italiani. In questa prospettiva la Siam conta poco perché è una struttura disciplinare settoriale che è nata peraltro già anni prima della stessa Aisea. Ma posso dirti che ricordo bene che l’Aisea era appena nata e già alcuni cattedratici dichiaravano che mai vi avrebbero aderito fino a che il presidente sarebbe stato X o fino a quando l’associazione non avesse modificato la sua denominazione (“etno-antropologiche”). E dunque sin dal suo inizio una parte degli antropologi è rimasta fuori. Poi, dentro l’Aisea ci fu la scissione dei “museali”, la Simbdea. Poi ci fu la scissione Anuac, degli universitari “incardinati”. Ma è mai possibile che mentre, ad esempio, negli Stati Uniti – dove lavorano migliaia di antropologi mentre da noi siamo quattro gatti – nessuno mette in discussione la unicità dell’AAA[6] (la quale, certo, ma al suo interno, istituisce anche “sezioni” e “periodici” specialistici). Da noi, ognuno deve fare la sua associazione, non può arricchire quella che c’è già, contribuendo magari a cambiarla. Credo che questo potrebbe essere il tema di una affascinante indagine antropologica sul nostro “carattere nazionale” o su qualcos’altro.

Seconda ragione

Sono contrario al termine stesso di “antropologia applicata”, che ritengo teoreticamente errato e politicamente ambiguo, di fatto “conservatore”. Non lo dico ora, per contrastare una nuova società di colleghi, ma saranno almeno quarant’anni che a Perugia abbiamo polemicamente optato per un termine diverso, quello di uso sociale dell’antropologia. Non riteniamo infatti che dalla antropologia come impresa conoscitiva possa derivare, per applicazione, una qualunque strategia o una qualunque pratica di intervento. Fra le “conoscenze antropologiche” e le pratiche di intervento stanno, in mezzo, precise opzioni tra varie scelte possibili, che non derivano dal sapere antropologico ma da scelte prodotte da interessi in gioco o anche da opzioni etiche, che non hanno mai (e non possono avere) un fondamento scientifico proprio perché nascono, appunto, da una scelta etico-politica (fra tante possibili compresa la scelta di non intervenire). Solo compiuta questa preliminare opzione etico-politica, che non ha nulla di scientifico, è possibile avviare operativamente una concreta strategia e una concreta pratica di intervento, che modifica la realtà e quindi gioca a favore di qualcuno e a sfavore di qualcun altro. E solo allora, a valle di questa opzione (che, appunto, non ha nulla di scientifico) le conoscenze raggiunte dall’antropologia consentono “tecnicamente” di dare all’intervento nella direzione prescelta una maggiore efficacia di risultati. Per questo abbiamo sempre ritenuto che il termine di “antropologia applicata” copra in realtà la questione niente affatto ovvia delle ragioni e delle scelte che stanno dietro qualsiasi progetto operativo a cui viene chiamato a collaborare l’antropologo (se condivide la direzione scelta). Il che, naturalmente, apre la grossa questione della ineludibile “scelta di impegno” che sta a monte di ogni uso sociale dell’antropologia.

Terza ragione

In ogni caso, anche chiarite le ragioni del mio “rigetto” del termine “antropologia applicata”, mi rimane un’ultima obiezione. Mi pare cioè che non sia opportuno pensare a un’associazione “di antropologi che operano nella realtà sociale”, un’associazione cioè distaccata dal resto dell’universo associativo, quasi che “operare” sia una specializzazione in qualche modo avulsa dall’insieme del lavoro antropologico, il quale non può non essere, insieme, empirico, teoretico e anche operativo. In questa direzione di una “specializzazione operativa” mi parrebbe semmai opportuno qualcosa come una associazione sindacale, diretta in particolare a proteggere quegli antropologi che lavorano “per” enti o istituzioni pubbliche o private impegnate a gestire realtà sociali.

Vorrei che questo piccolo intervento, effettivamente un po’ pedante, sia interpretato come un omaggio, del tutto amichevole, al lavoro che state facendo.

A te e a questo vostro lavoro, pur nel mio dissenso, auguro i maggiori successi.

Tullio Seppilli

Antonino Colajanni, novembre 2013

[Riportiamo il testo integrale[7] della risposta alla missiva di Tullio Seppilli scritta – per i soci fondatori della Società Italiana di Antropologia Applicata – da Antonino Colajanni, Presidente onorario dell’associazione]

La lettera di Seppilli merita un’attenzione particolare e un grande rispetto; sia perché è molto cortese e rispettosa delle posizioni altrui, sia perché usa in dettaglio molti argomenti e si impegna a motivare la propria posizione critica nei confronti della fondazione della nuova “Società Italiana di Antropologia Applicata”. E infine, si tratta di un autorevole accademico che si è sforzato, in tutta la sua carriera, di superare i limiti dell’“accademismo” ed ha militato a favore di un “uso sociale della conoscenza antropologica”. Quindi, una risposta a questa lettera non potrà che essere altrettanto rispettosa e cortese, e soprattutto ben argomentata nei punti di dissenso, che sono tanti.

La prima ragione della “contrarietà” di Seppilli alla creazione della nuova Associazione può essere rubricata nella categoria della “critica al frazionismo”. Egli sostiene che in Italia si sono create un certo numero di Associazioni frammentate, il che rivela una vocazione diffusa a “farsi ciascuno la sua Associazione”. In realtà, c’è da obiettare che il possibile “frazionismo” si potrebbe limitare all’AISEA e all’ANUAC, che sono effettivamente associazioni concorrenti (anche se possono distinguersi per essere la seconda una Associazione Universitaria e la prima una Associazione libera che comprende anche i simpatizzanti, non necessariamente esperti e qualificati in maniera professionale). E l’ANUAC nacque da una esplicita critica a certe caratteristiche dell’AISEA (nella gestione delle Assemblee, nella struttura gerarchica di tipo accademico, nella limitata libertà di opinione, e così via). Le altre Associazioni oggi esistenti hanno tutte un profilo settoriale ben identificato e identificabile (la SIMBDEA riunisce gli specialisti di attività museali, la SIAM gli specialisti di Antropologia Medica). Nulla rende difficile comprendere l’opportunità e la fondatezza della creazione di una nuova Associazione che intende riunire tutti gli antropologi che hanno propensioni, interessi, esperienze di tipo applicativo. Del resto, appare ben curioso che si lamenti di questo “frazionismo” proprio colui che è stato il fondatore della SIAM, la quale – è vero – esisteva già prima della fondazione dell’AISEA, ma nulla avrebbe impedito a questa Associazione di fondersi con l’Associazione più generale e costituirsi al suo interno come una “Sezione specialistica”.

Citare il sistema americano appare qui fuorviante, perché negli Stati Uniti esistono numerose e diverse Associazioni settoriali delle discipline antropologiche, ognuna delle quali ha la propria autonomia, che poi sono “coordinate” e “federate” all’interno della più generale ed onnicomprensiva “American Anthropological Association”. E infine, va detto che se un consistente gruppo di ricercatori trova conveniente, opportuno, utile, creare una Associazione specialistica di settore, non vedo perché e come li si possa criticare. È assolutamente ovvio che da questa nuova Associazione possa essere potenziato lo scambio e la coordinazione tra metodi, posizioni teoriche e ricerche-consulenze specifiche, se esso può svolgersi all’interno di un numero ristretto di ricercatori che hanno una formazione e degli interessi comuni.

La seconda ragione di contrarietà presentata da Seppilli è molto più complessa, e si basa sostanzialmente sulla mancata accettazione del termine di “Antropologia Applicata”, che viene ritenuto “teoricamente errato, politicamente ambiguo e di fatto conservatore”. Viene subito aggiunto che, proprio per questo, negli ultimi quarant’anni a Perugia si è polemicamente optato per il termine di uso sociale dell’antropologia. Come se bastasse cambiare una etichetta che, con tutta evidenza, ha un valore indicativo. Il dissenso da questa espressione approssimativa ed allusiva, che richiamerebbe un lungo e accidentato discorso epistemologico e politico, deve essere – a mio parere – netto. A parte il fatto che Seppilli si guarda bene dal chiarire quale fondamento possa avere un’espressione come “teoricamente errato” (in realtà nel termine “Antropologia Applicata” non c’è nulla di ambiziosamente teorico, e comunque una teoria – se vi fosse – non potrebbe essere di per sé “errata”, ma solo accettabile o discutibile), c’è da aggiungere che l’espressione “politicamente ambiguo” richiama linguaggi arcaici e obsoleti, rivelando – come si chiarisce subito dopo - una “scelta” precisa da parte del nostro interlocutore; una scelta che tende a privilegiare gli aspetti “politici” dell’attività di ricerca connessa con opzioni applicative, rispetto a quelli conoscitivi e sociali – e sono tanti – di tipo diverso. Non è da escludere che questo ostracismo contro la espressione “Antropologia Applicata” derivi dal disagio nei confronti di certi aspetti ed esperienze dell’applicazione dell’antropologia nell’età coloniale, e in tempi più recenti in certe imprese spionistico-militari degli Stati Uniti. Ma, come tutti sanno, in epoche più recenti, e formalmente “post-coloniali”, si è cercato di stabilire con precisione i caratteri di una “Nuova Antropologia Applicata”, che poco o nulla ha a che vedere con alcune delle peggiori di quelle lontane esperienze.

Bisogna inoltre intendersi sull’espressione “applicazione”. Nessuno ha mai seriamente pensato che l’antropologia possieda un sapere stabile e stabilizzato, con aspetti “tecnici” ben identificabili, che come tale possa essere semplicemente “utilizzato” in contesti di azione, ossia banalmente “incorporato” in sequenze di azione sociale-politica. Come l’estesissima letteratura esistente sostiene, il sapere antropologico può essere destinato solo a dialogare con altri saperi, o anche e soprattutto a dialogare con forme diverse del “fare”. In questo secondo caso, si tratterà di produrre conoscenza antropologica in grado di esercitare influenza sul fare, di aiutare l’impostazione e anche la soluzione di problemi che hanno natura antropologica e che nascono nel contesto del fare, di prevedere le possibili conseguenze delle azioni e delle “politiche”, e così via. C’è poco di “meccanico” in tutto ciò e molto di “dinamico”.

Quindi, è abbastanza ovvio che “dall’antropologia come impresa conoscitiva non possa derivare, per applicazione, una qualunque strategia o una qualunque pratica di intervento”, come dice il testo di Seppilli. Nessuno lo ha mai sostenuto esplicitamente. In verità l’antropologia di tipo applicativo ha costantemente sostenuto che le pratiche di intervento possano e debbano essere studiate e analizzate come azioni dell’uomo in società che mirano alla trasformazione di altri uomini, e quindi valutate, criticate nei loro possibili effetti e nelle loro ispirazioni teorico-ideologiche, nonché integrate con previsioni di ulteriori effetti, suggerimenti e consigli per evitare o contrastare errori. Ma corre l’obbligo anche di notare che è cosa ben risaputa che le politiche sociali, i piani di intervento e di trasformazione identificati, programmati e gestiti dalla società politica, sono per solito basati su poche, scarse e approssimative, quando non fatalmente erronee e infondate, conoscenze sociali. Quindi, una antropologia applicativa che mirasse soprattutto a sostituire la cattiva e approssimativa conoscenza con una conoscenza affidabile, professionale e accurata, dovrebbe essere di per sé la benvenuta. Il successivo ragionamento di Seppilli manifesta ancor più esplicitamente l’opzione di “priorità del politico”, quando sostiene che il cuore del problema sta in “precise opzioni tra varie scelte possibili, che non derivano dal sapere antropologico ma da scelte prodotte da interessi in gioco o anche da opzioni etiche che non hanno mai (e non possono avere) un fondamento scientifico proprio perché nascono, appunto, da una scelta etico-politica.

Ora, è evidente che lo studioso, il quale scelga di occuparsi dell’homo moderator rerum (per usare la felice espressione di Roger Bastide), si muove sulla base di scelte ed opzioni etico-politiche; ma pensare che queste, e solo queste, siano il motore e il cuore dinamico della ricerca scientifica e dell’attitudine all’azione sociale fondata su una conoscenza adeguata, mi sembra una evidente esagerazione. Il problema sta proprio, invece, nella capacità di produrre una conoscenza solida, ben documentata e teoricamente raffinata, che sia in grado di analizzare, correggere ed anche orientare (ri-orientare), possibili future linee di azione, che possano anche contrastare gli interessi in gioco.

È dunque a mio parere assai discutibile che “il termine ‘antropologia applicata’ copra in realtà la questione niente affatto ovvia delle ragioni e delle scelte che stanno dietro qualsiasi progetto operativo a cui viene chiamato a collaborare l’antropologo (se condivide la direzione scelta)”. Infatti, chi dice che l’antropologo debba “condividere la direzione scelta” da chi decide le politiche o le azioni sociali? Da un’antropologia applicata di tipo critico dobbiamo dunque aspettarci una preliminare “messa in discussione” proprio di quelle “scelte ed opzioni” che stanno alla base di qualunque progetto di azione. Non vedo insomma perché non possa esistere un’antropologia applicativa che metta in discussione criticamente le ragioni profonde delle motivazioni all’azione, e che si possa impegnare in una “antropologia delle politiche”, che deve essere a mio parere alla base di ogni impegno di tipo applicativo.

E infine, va osservato che il mutamento terminologico (“uso sociale dell’antropologia” anziché “antropologia applicata”) di per sé non garantisce nulla. Dipende da ciò che concretamente fa sul campo l’antropologo, e di come produce nuova conoscenza sui processi di cambiamento pianificato. È altresì del tutto evidente che l’espressione “antropologia applicata” non va presa assolutamente alla lettera, e questo campo di attività andrebbe distinto da quello delle scienze tecnicamente “applicative” nelle quali è effettivamente diretto ed esplicito il processo di utilizzazione tecnica (senza discussioni teorico-metodologiche e di messa in discussione) di un sapere standardizzato, stabile. Ma oggi in tutto il mondo questa espressione viene usata senza imbarazzo. Esiste una letteratura specialistica di un paio di migliaia di saggi. Vi sono più di un centinaio di Associazioni professionali di Antropologia Applicata e una ventina di riviste dedicate esclusivamente a questo tema. E del resto la “domanda di antropologia” da parte di diverse istituzioni è crescente, in questi anni. Il problema è quindi quello della qualità di questi interventi, della capacità di identificare ed affrontare problemi che come tali siano riconoscibili dall’intero mondo conoscitivo dell’antropologia, di produrre nuova conoscenza che possa arricchire l’ambito complessivo delle discipline antropologiche, infine di produrre una modificazione della realtà sociale che – anche – possa rispondere ad alcuni principi generali dell’antropologia ai quali tutti dovremmo essere legati (il rispetto per le differenze culturali, la salvaguardia delle minoranze, la tutela dei diritti umani e della giustizia, il contributo alla eliminazione o riduzione delle diseguaglianze, e così via).

Infine, la terza ragione di contrarietà presentata da Seppilli mi sembra la meno consistente. Nessuno infatti pensa che un’Associazione di antropologi orientati verso i contesti applicativi si concepisca come distaccata dal resto dell’universo associativo, come antropologi che agiscano in modo avulso dall’insieme del lavoro antropologico. Si tratta, in poche parole, di un sottoinsieme dell’intero universo dell’antropologia che è identificato in modo assai preciso da almeno un secolo e – come è stato detto prima – da una enorme letteratura di appoggio, che non distingue nettamente gli aspetti teorici e dell’insieme concettuale ed esperienziale dal campo applicativo, anzi mantiene – o cerca di mantenere – il pieno e completo contatto con l’insieme più ampio dell’antropologia. Tuttavia fa del rapporto tra il sapere e il fare il fulcro della sua attenzione. E identifica d’altro canto i settori nei quali è più frequente la possibilità di incontro e reciproca interferenza tra il sapere antropologico e i contesti di azione sociale: la cooperazione internazionale allo sviluppo, la salute e la medicina sociale, la complessa e difficile pianificazione e organizzazione sociale della città, il campo delle migrazioni, la scuola e le sue necessarie riforme, e così via.

Né vale limitare gli aspetti della “specializzazione operativa” ad una “associazione sindacale”, diretta a proteggere quegli antropologi che lavorano “per” enti o istituzioni pubbliche e private impegnate a gestire realtà sociali. Così facendo si impoverirebbe definitivamente il senso di ogni intenzione di costruire una solida tradizione di Antropologia applicativa.

In conclusione, l’antropologia applicativa rivendica il fatto di essere parte integrante e costitutiva dell’antropologia generale (stessi principi teoretici e stesso patrimonio storico-concettuale, analoghi metodi di produzione di conoscenza attraverso la lunga ed accurata ricerca sul campo che privilegi il “punto di vista” degli attori sociali), ma al tempo stesso enfatizza il fatto di essere specializzata nello studio e nell’analisi dei problemi del cambiamento sociale e culturale (in specie di quello pianificato), e di ritenere costitutiva della sua specifica natura l’analisi critica e osservazionale delle istituzioni del cambiamento e delle politiche gestite dalle istituzioni pubbliche e private, ma anche l’attitudine a fornire pareri, suggerimenti, valutazioni su tutte quelle attività, sulla base di ricerche empiriche accurate e svolte con assoluta libertà di scelta.

Sono queste le prime possibili risposte alla lettera di Tullio Seppilli. Va detto in conclusione che il suo dissenso è assai stimolante per chi ha fatto la scelta di considerare pertinente, importante e necessaria un’antropologia applicativa. Lo sforzo di rispondere ragionevolmente alle sue critiche è parte della continua elaborazione di una “Carta fondativa” di questa specializzazione del sapere e del fare antropologico. Si può sperare che il Seppilli continui a esercitare il suo spirito critico e a stimolare i più giovani colleghi a fare i conti con un autorevole dissenso, al quale si industrieranno di rispondere.

Antonino Colajanni

Bibliografia

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[1] Dal sito web dell’associazione: www.antropologiapplicata.com.

[2] Mi riferisco qui alle pubblicazioni uscite nell’ultimo ventennio. L’attività di scambio scientifico ed editoriale precedente, per quanto meno continuativa, ha dato vita a lavori interessanti. Penso ad esempio alle riflessioni ospitate sulla rivista “L’Uomo” intorno all’antropologia dello sviluppo (Pavanello 1987) e al convegno Professione antropologo organizzato da Pietro Clemente a Siena negli anni ‘90 (Clemente 1991).

[3] Sui temi del cambiamento sociale e sull’affermazione di un’antropologia applicata nella tradizione britannica si veda anche il contributo di Antonino Colajanni (2012).

[4] Sull’antropologia applicata nelle politiche di cooperazione internazionale allo sviluppo segnalo i lavori di Massimo Tommasoli (2003, 2013).

[5] Le lettere che Tullio Seppilli e Antonino Colajanni si sono scambiati in occasione del Convegno di Lecce nel 2013 sono conservate nell’archivio privato del prof. Colajanni a Roma e sono state da lui gentilmente messe a disposizione per questa pubblicazione.

[6] American Anthropological Association.

[7] Si veda nota precedente.