Sulla genesi SIAA: scissione o differenziazione?

Alessandro Simonicca

Università degli Studi di Roma “La Sapienza”

Indice

Elementi di storiografia delle associazioni antropologiche
Periodizzazioni nazionali
Cosa vuole dire ‘applicato’?
Ancora cultura egemonica e classi subalterne?
Il conoscere organizzativo e la scissione
Bibliografia

Elementi di storiografia delle associazioni antropologiche

Per inquadrare in dimensione storico-sociale la nascita della Società Italiana di Antropologia Applicata – in acronimo, e d’ora in poi, SIAA – in maniera efficacemente giornalistica Mara Benadusi (infra) traccia un quadro degli anni che stanno a cavallo, per la storia della Repubblica, fra la fine del quarto governo Berlusconi (novembre 2011), il governo Monti (aprile 2013) e la fine del breve governo Letta (marzo 2014), un passo prima dell’orticante governo Renzi. Al centro di questo conflittuale quinquennio stava una ennesima grave situazione nazionale, che culminava in una forte crisi dei partiti e nell’avanzare plebiscitario di movimenti, i cui effetti si fanno ancora sentire con potenti strascichi. Di fatto, la SIAA nasce fra la XVI e la XVII legislatura, a cavallo fra la “austerità” alla maniera della Luiss e la “rottamazione” della Leopolda fiorentina; dubito, però, che tale cronologia non dica di più che l’allocazione di un evento entro un quadro di processi più generalmente storico-politici.

La Società, quando sorge, nasce per motivi di ordine tanto sociologico quanto critico-epistemologico e tale nascita – anche per chi vi partecipò, e a ripensarla a ritroso – mette in moto un normale dispositivo di ricerca non dico dei fattori causali (compito alquanto complicato), quanto per lo meno delle condizioni entro cui l’occorrenza ebbe luogo e in qualche modo apportò mutamenti entro un certo tipo di mondo professionale. Quali sono però i criteri storiografici e le periodizzazioni che risultano utili, se non necessari, per individuare ed esplicare un processo di formazione associativa che è pur sempre un fatto antropologico?

Esiste oramai numerosa letteratura critica che ha tematizzato la storiografia antropologica, da quella che periodizza l’antropologia (qui intendo con tale termine in modo sommario il treppiede italiano di antropologia DEA: demologia, antropologia culturale/sociale, etnologia) a partire dalla storia delle scuole nazionali (inglese, francese, americana/statunitense…), ai paradigmi storici della disciplina (funzionalismo, strutturalismo…) o dai programmi di ricerca di autori influenti (geertzismo, demartinismo…), sino alla definizione di aree etnografiche (pianura amazzonica o cachegna, Maghreb o Mashrek, sciamanismo siberiano o tibetano, aborigeni australiani o nativi americani, caste indiane, agricoltura a terrazze, ma anche antropologia dell’Italia, etnologia della Francia etc., ovviamente poi da riarticolare) oppure alle storie di vita degli antropologi stessi (penso qui all’opera di George W. Stocking jr. etc.); e potremmo continuare senza completare l’elencazione.

Qui si tratta di storiografia dell’associazionismo scientifico e, al riguardo, è d’uopo partire dalla differenza fra la storia interna e la storia esterna di una disciplina. La distinzione è una buona politica di esercizio critico, cui urge fare seguire la rigorosa prassi del dare senso alle cose, alle persone, ai processi. Va da sé che a chi abbia a cura il formarsi della conoscenza quale processo dinamico le partizioni concettuali a seguire possono apparire eccessivamente fissative, tuttavia l’analisi esige un livello iniziale di astrazione utile per circoscrivere sino in fondo le operazioni intellettuali in campo.

Come è noto, in specie dopo la diaspora positivistica delle scienze e nel generale movimento di emancipazione da altre sia pure residuali auctoritates, ogni campo del sapere ha sempre più teso a darsi un ‘disciplinare’ e ha incrementato la volontà di fornirsi di una propria autonomia teoretica, sì che al processo della ricerca possano corrispondere le forme di autorappresentazione, con cui un sapere specialistico identifica ed esibisce la propria architettura conoscitiva. Ogni disciplina ha quindi una storia con la quale essa stessa e il suo esosistema fanno continuamente i conti.

Periodizzazioni nazionali

In quale periodizzazione inserire le faccende italiane e della SIAA in particolare? Quest’ultima associazione nasce circa ottanta anni dopo la Society for Applied Anthropology (SfAA), ne contiene gli elementi fondamentali, se ne differenzia in parte. Se guardiamo alla storia delle associazioni antropologiche italiane, dal 1975, vediamo diverse entries: la SIAM (Società Italiana di Antropologia Medica) nasce nel 1988, l’AISEA (Associazione Italiana Studi Etnoantropologici) nel 1990, la Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici (SIMBDEA) nel 2001, l’ANUAC (Associazione Nazionale Universitaria degli Antropologi Culturali) nel 2006, la SIAA appunto nel 2013, l’ANPIA (Associazione Nazionale Professionale Italiana di Antropologia) nel 2016, e infine la (ri?)unificazione di AISEA e ANUAC nel 2017 che dà vita all’ultima compagine, la SIAC (Società Italiana di Antropologia Culturale).

L’avvento di tale esuberanza procreativa richiede qualche notazione a conforto. A quale storia appartiene la SIAA? La chiave per comprendere la storia delle associazioni antropologiche italiane risiede probabilmente nella posizione e nel ruolo rivestiti dalla prima associazione generale nazionale, l’AISEA, che nasce dopo una lunga gestazione di contatti fra le scuole italiane di antropologia, preparata in qualche modo da numerosi convegni (Siena, Ravello, Taormina etc.) nonché da diversi accordi fra gli antropologi allora maggiormente influenti. Non mi soffermo sul lavorio negoziale per arrivare all’esito finale, quanto sulle caratteristiche fondamentali. L’associazione nasceva dall’idea di potere rappresentare l’intero arco disponibile del capitale umano e istituzionale attinente ai fatti antropologici italiani, allora trattati dalle tre principali materie universitarie (demologia, antropologia culturale/sociale, etnologia): la formazione antropologica su tutto l’arco educativo, le competenze operative, la definizione degli stili e dei profili professionali e la loro tutela, la rappresentanza di tutte le figure che svolgessero compiti di tipo antropologico (i museologi, gli operatori culturali, gli operatori della scuola, gli aggiornatori, i cooperatori allo sviluppo, le figure legate all’immigrazione, la mediazione letteraria dell’antropologia, l’analisi culturale delle imprese, la dimensione del patrimonio culturale…). L’accorpamento di funzioni così molteplici e diversificate quali la ricerca, la comunicazione, l’applicazione nonché la rappresentanza, indusse ad aprire commissioni di lavoro per progredire nella ricerca scientifica, teorica e di campo (paradigmi, migrazioni, educazione, letteratura, musei …), il sistema alla lunga però non resse. La gestione si sviluppò soprattutto per linee politiche di rappresentanza per scuole di appartenenza, svuotando via via la sostanza del piano associativo, che peccava nel volere coordinare (senza un piano organico) in un unico organismo associativo le due anime principali dell’antropologia, la ricerca e l’uso di essa, unificando – per così dire – la American Anthropological Association (AAA) con la SfAA; ma la distanza fra il collega accademico e il collega professionista – al di là delle civili relazioni personali – rimase fondamentalmente tale.

L’impegno delle varie commissioni, che avrebbero dovuto rappresentare l’anima della ricerca, fu iniziato; nessuna di esse, però, sortì un effetto visibile o dette vita ad autonome filiere di produzione intellettuale, salvo la commissione su musei e beni culturali, che dette vita a SIMBDEA, dopo qualche anno di dissidi, come associazione dedicata allo specialismo museale e poi patrimoniale. Persino la scuola, ambito di sicuro interesse e studio antropologico, non riuscì mai – e pure fu spesa grande energia da parte di non pochi! – a emanciparsi e distinguersi dalle altre discipline concorrenti (sociologia, pedagogia…).

L’AISEA, da questo punto di vista, si colloca in linea diretta con la datazione classica, che fissa al 1975 (con prosecuzione nelle successive riforme legislative del 1980-82) l’inizio dell’antropologia italiana contemporanea, grazie all’istituzionalizzazione delle tre cattedre universitarie, che in qualche modo svolgono il doppio ruolo di creare la comunità collegata da un lavoro scientifico comune e, insieme, di istituire lo spazio istituzionale idoneo all’organizzazione del consenso e alla cooptazione accademica.

La nascita dell’ANUAC rappresentò da una parte la risposta alla gestione politica dell’AISEA e alla crisi dei rapporti fra le varie scuole antropologiche italiane, e dall’altra un nuovo interesse per il rilancio degli specialismi antropologici, intesi come ricerca universitaria; il mondo accademico nonostante tutto si divise e aumentò il dissidio interno.

Bisogna attendere il 2008, con il IV Governo Berlusconi, Giulio Tremonti Ministro di Economia e Finanze e Mariastella Gelmini Ministro di Istruzione Università e Ricerca, quando nel novembre, con le nuove disposizioni governative che bloccavano i concorsi universitari quasi attivati, inizia una nuova epoca per l’università, con un massiccio ingresso di meccanismi valutativi riguardo a reclutamento, risorse, processi e prodotti, con un consiglio di amministrazione di ateneo collegato all’esterno, la nascita della ‘terza missione’ e la convinzione del doversi procacciare denari e finanziamenti esterni agli Atenei. L’idea che la cultura vada monitorata, analizzata e valutata in termini di profittabilità sociale e/o economica faceva parte di una tendenza allora maggioritaria (oggi non so più), che predicava l’applicazione del liberismo non solo alle operazioni di mercato, ma anche alle strategie della politica e della programmazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni tanto quanto nei processi culturali (audit culture).

L’associazionismo può essere considerato una buona pratica e una buona risposta alla crisi dovuta tanto ai guai endemici dello stato sociale o assistenziale, quanto al liberismo di destra che vorrebbe sussumere anche le relazioni istituzionali al calcolo dell’ottimo economico. È una risposta che è riconducibile alla corrente del liberalismo di sinistra, che non vuole sottoporre a valutazione economica la profittabilità culturale, quanto validare la congruenza delle competenze ai compiti assegnati o ai bisogni da soddisfare, pianificando percorsi di eccellenza. A modo suo, è una sorta di esaltazione (avrebbe detto l’ultimo Foucault) della prosecuzione del percorso del passaggio dal sapere-potere al lavoro finalizzato alla ‘cura del sé’, e quindi all’‘impresa del sé’.

Ora, è importante capire qual è l’impresa del sé sensata in ambito antropologico e come posizionarla rispetto alle finalità disciplinari.

Possiamo indicare, generalmente, tre generali orizzonti di possibilità: nel primo, si pratica una sostanziale e formale differenza fra la ricerca e l’applicazione (non facciamoci ingannare dal galateo, ché tale posizione non è affatto minoritaria); nel secondo, si sostiene la sostanziale genesi applicativa di ogni ricerca antropologica, ossia che quest’ultima sia solo una selezione unilaterale di aspetti concreti di una vita umana, ricostruiti in forma di modello astratto; nel terzo, si ritiene che la ricerca e l’applicazione siano momenti interrelati ma diversi, per tempi e per funzioni, all’interno della prassi antropologica complessiva.

Non credo esistano risposte uniche o esaustive. Il problema, come sempre, è sapere a quali valori comuni ci si debba riferire; al centro della questione sta proprio la possibilità che il ruolo della ricerca e il ruolo della applicazione trovino una equilibrata collocazione; ed era questo il primo inevaso impegno dell’AISEA. Il ravvicinamento fra le due attività invece permette di cercare una nuova interfaccia fra lo studio delle cose e l’uso delle conoscenze.

Tale idea è ancora buona da pensare e da attuare. Per procedere avanti in questa direzione, sarebbe però probabilmente necessario cessare di tessere le lodi della teoria mielosa e pietosa che l’antropologo sia un etnografo, a favore della tesi che l’antropologo sia un ricercatore che assomma in sé le competenze dell’etnografo e dell’antropologo culturale/sociale. Una delineazione più ampia del suo ruolo è prioritaria per affrontare le questioni sul tappeto e la storia delle associazioni aiuta a centrare alcuni di questi temi, così come la SIAA, a suo modo, fu un tentativo di rispondervi.

Cosa vuole dire ‘applicato’?

Ritorniamo quindi al significato di ‘applicato’. Nel 1941, ai tempi della SfAA, con tale termine si significava, sostanzialmente, l’operazione, tipica delle scienze nomotetiche e ipotetico-deduttive, con cui, in presenza di dati, usiamo gli strumenti idonei per individuare le relazioni e (possibilmente) i futuri comportamenti di un oggetto di studio, da classificare e ricondurre a schemi esplicativi. In tale azione acclariamo le strutture oppure le logiche dei processi e insieme validiamo lo schema (legge, principio, generalizzazione) che le ha esplicate; con tale sussunzione, verifichiamo la validità del frame di riferimento e al contempo la ridefinizione del dato; se non funziona, andiamo alla ricerca di altri schemi che avranno verosimilmente bisogno di altri dati.

La procedura appartiene di sicuro alle strumentazioni empiristiche e (neo)positivistiche rivolte alla ricerca di generalizzazioni e leggi; e di fatto in quegli anni la ricerca di teorie generali (si pensi alla psicologia comportamentistica, alla sociologia, ma anche al lasco Malinowski della “teoria scientifica della cultura”) era ancora viva, e forte la tensione per l’espulsione della dimensione soggettiva dal campo di una ricerca che si auspicava fare così diventare rigorosa e verificabile.

Sappiamo che tale modello esplicativistico non ha molto funzionato nelle discipline umane e sociali, ha invece continuato a valere (ed essere usato) il termine ‘applicato’ quasi in opposizione al termine ‘puro’, con il secondo intendendo la ricerca che dai dati va ai concetti e lì rimane a formulare enunciati teorici generali in autonoma e rigorosa congruenza logico-sintattica, e con il primo la tecnologia pianificata delle regole dell’agire sul mondo dedotte dagli schemi teorico-enunciativi; con l’indubbio corollario di generare una profonda asimmetria, anche in termini di status symbol, fra il conoscere e l’applicare, a favore del primo. L’esempio più noto è il rapporto fra le scienze quantificate (fisica, ingegneria, biologia etc.) e le relative tecnologie operative; le discipline sociali ed umane fanno fatica a recepire tale lascito, che tra l’altro è divenuto un po’ pesante anche nelle hard sciences.

L’opposizione fra puro e applicato in campo antropologico ha, in realtà, gambe corte e respiro affannato. Non esistendo né leggi né principi – e qui ovviamente si semplifica – nel campo umano e sociale, è difficile capire che cosa si applica a che cosa. Esiste un uso blando del termine, con cui si intende l’operazione dell’utilizzare uno strumento adeguato a comprendere un oggetto; il significato è interessante, qui troppo lasco. Esiste, poi, un altro significato, che indica la sussunzione di un dato ad uno schema esplicativo, ed è invece troppo forte.

La via antropologica per la costruzione dei dati e per la formazione dei concetti è più impervia. La logica epistemologica dell’antropologia non accredita la disciplina nel novero delle scienze teoretiche, quanto delle discipline ‘pratiche’. Queste ultime, a loro volta, non sono da intendere nel senso ingegneristico di reiterazione di catene operative e neppure di sequenze ergologiche, quanto quel campo del sapere che si rivolge all’individuazione e all’analisi delle ‘morali’, e le morali sono quei possibili mondi umani che riusciamo a estrarre da un dato gruppo di effettuali comportamenti umani, più o meno standardizzati.

Un mondo morale è un mondo applicato, in quanto esso è l’insieme dei diversi elementi possibili che si ‘condensano’, qualora trovino una specifica loro modalità di co-attuazione, divenendo uno stato reale del mondo.

Se tale è la sua natura logico-concettuale, ne discende che il termine ‘applicato’ non significa affatto concreto o verificabile, tanto meno conclusione o risultanza pratica di un ragionamento, quanto l’insieme di plurimi elementi costitutivi che si convertono in cose ed eventi. Non è un termine descrittivo, piuttosto è una nozione sintattica, che esprime l’individuazione della chiusura del cluster degli elementi che – come nel kula – fanno ‘catenaccio’ nel trovare un incastro stringente che dona logica complessiva al tutto. L’espressione malinowskiana del clinching gift è pertinente: il “dono che chiude, a mo’ di catenaccio, la transazione” è anche l’ultimo elemento che chiude il circuito e lo insieme (ri)crea. Applicato, quindi, è “quel qualcosa di più” che la ricerca trova, espone e propone ogni volta che si mette in moto e giunge a compimento. Ciò avviene anche quando è detta “pura”, perché scopre nuovi aspetti della realtà su cui si può sempre operare.

Questo “qualcosa di più” è la dimensione che l’antropologia individua, sotto la veste della liberazione di aspetti non immediatamente visibili della realtà, nella fattispecie di prodotto conoscitivo tout court (ed è la ricerca cosiddetta pura) oppure come aspetti della realtà che la ‘commissione’ porta l’antropologo a scoprire (ed è la ricerca finalizzata ab initio all’azione).

L’antonimo di applicato, in antropologia, non è quindi ‘puro’, bensì ‘analitico’. L’antonimo o, se si vuole, il contrario di applicato in antropologia non è un opposto, bensì è un termine ‘converso’ o ‘trasformato’. Analitico, a sua volta, vuol dire dimensione (o aspetto) unilaterale di un dato contesto; e il suo rapporto con l’applicato non è né inferenziale né deduttivo, bensì costruttivo e configurativo.

Il problema, di certo, è come si arrivi a individuare e controllare i possibili dell’analitico. Il primo passo lo conosciamo, giacché i possibili sono gli elementi di un contesto che monitoriamo, il secondo passo è la problematizzazione di cose, eventi o processi. La problematizzazione -- ciò è cruciale -- rappresenta un momento costitutivo dell’etnografia, non una conseguenza né un a priori da cui partire.

E torniamo alle ‘associazioni’ antropologiche.

Ancora cultura egemonica e classi subalterne?

Osservando ex post, noto di essere stato in posizione solitaria tra gli antropologi italiani ad avere perseverato a partecipare alla nascita e (in parte allo) sviluppo di tutte le compagini associative antropologiche nazionali cui abbiamo fatto ultimamente cenno, ad esclusione della prima. Sono state imprese che mi sono sembrate ogni volta pertinenti, perché a modo loro e pur in maniera non di rado contorta, hanno tentato di legare la mente alla società; caso mai, ho poi sviluppato sensi di annoiamento per vari a volte (per me) non secondari dettagli, pur tuttavia esse mi sono sempre apparse uno stimolo per andare oltre l’esistente, un avvio per affrontare un futuro più interessante, una sfida al mondo dell’esistente, un contributo a superare la logica dello scontato, obiettivi tutti essenziali all’etica conoscitiva di un antropologo. Impegni per tentare nuove unità di pensiero e di azione, insomma, per dirla con un antico ancora utilizzabile linguaggio.

L’interesse iniziale nasceva da due condizioni che risalivano agli anni Ottanta: da un lato la collaborazione alle iniziative di ricerca delle cattedre di antropologia dell’Università di Siena; dall’altra una folta partecipazione a progetti di ricerca territoriale avanzata (scuola, infanzia, sviluppo locale, ambiente, economia sostenibile). Nel merito, l’iniziativa più interessante – la cito per tutte le altre – fu il convegno su Professione antropologo, del 1989, all’Università di Siena, cui seguirono molti altri (Messina, Salerno…). Il tema si ripetette ricorsivamente, ma al fondo il nodo era sempre lo stesso: quale il ruolo dell’Università e quale il suo ruolo di azione istituzionale nella vita moderna.

A Siena si andò oltre e iniziò un lungo percorso di riflessione e di attività istituzionali che ebbe come ciclo di seminari itineranti l’iniziativa di Antropologia e dintorni e poi, in maniera continuativa, la fondazione di Ossimori (1992-1998), una rivista destinata a divenire uno strumento decisamente costruttivo per capire e al tempo stesso rilanciare l’antropologia dell’Università e l’antropologia fatta da coloro che non sono nell’Università.

Ad una considerazione più generale, del resto, non si può non porre all’attenzione che sono stati soprattutto gli studi legati all’analisi territoriale (cultura locale, demologia, culture popolari, formazione e istruzione…) ad avere accolto le maggiori sollecitazioni a istituire un diverso confronto fra dentro e fuori l’accademia.

Rimanendo a tali studi, senza affrontare il tema molto più spinoso dell’etnologia, non v’è chi non veda la complessa e intricata rete di nessi, azioni e relazioni che legano gli antropologi al campo di ricerca e a tutti coloro che, in varia maniera e in base a qualche legittimazione, parlano e agiscono in nome del territorio e con gli antropologi instaurano legami significativi e di lunga durata, tanto per i luoghi stessi quanto per lo stesso avanzamento conoscitivo a livello etnografico (al di là della consapevolezza o del riconoscimento pubblico da parte degli antropologi stessi).

Circa la questione della priorità cognitiva generalmente attribuita all’analisi e ai risultati dell’antropologo rispetto al sapere locale appare del resto abbastanza assodato che il criterio di scientificità degli enunciati su un mondo rappresentato non passi più per il fatto che le rappresentazioni più corrette siano quelle che avrebbero teorie più forti alle spalle, oppure quelle che superino la (supposta) non conformità a validità degli enunciati ‘emici’. Tra i due mondi, dell’indagante e dell’indagato, si sono oramai sviluppati complessi ponti di collaborazione e correlazione (responsabilità conoscitive congiunte, comprese), su cui si è talmente scritto che non è il caso di soffermarsi. Sta di fatto che tutto ciò è una dimensione importante, di applicazione, nel pieno senso del termine di compartecipazione e condivisione a sfere sociali di vita come un elemento, come un ‘possibile’ della ricerca stessa.

Ritengo che l’intervento di Tullio Seppilli sulla genesi della SIAA, su cui in questo forum si sta dibattendo, vada collocato entro questo quadro.

La SIAA nacque per una serie di ragioni di cui, in questa sede, ho trascritto qualche brano; una cosa, tuttavia, era certa sin dall’inizio, e cioè che si trattava di un’antropologia applicata in senso critico-concettuale nonché critico-politico. All’interno del gruppo promotore v’erano diverse idee su dove collocare o fare intervenire l’applicazione. V’era chi riteneva che la (possibilità dell’) applicazione fosse già dentro il corpo teorico del problema da analizzare, chi nell’utilizzo della ricerca, chi nell’attuazione progettuale, chi nella co-progettazione con gli interlocutori sulla progettazione, chi nella compartecipazione locale alle pratiche di ricerca e alla loro valutazione e altro ancora. In diverse parole, l’idea che l’agire fosse una dimensione propria già nel pensare e riflettere su una data documentazione, e non una coordinata proveniente da un sistema esterno di orientamento di valore, era una convinzione comune.

Un punto pertanto era certo e condiviso. Era la convinzione che non si dovesse applicare nulla dall’esterno, era l’idea che in ogni momento della ricerca fosse già dentro – in modi e tempi e visioni da monitorare – la possibilità dell’azione e che dal punto di vista della storia dell’antropologia l’arroccarsi sulla difesa della ricerca pura fosse una sorta di attardamento ‘patrimonialista’ (nel peggiore dei casi: reificativo del reale), pari a quello di chi fa ricerca antropologica in progetti incurante dello status valoriale che sta a monte di un piano di lavoro.

Seppilli coglie questa idea di antropologia applicata ‘matura’, ma, paradossalmente, capovolge i poli e la attribuisce a se stesso, imputando a demerito della proposta-SIAA addirittura il suo disconoscimento. Il dissenso per un’associazione di antropologia applicata si esplica in una obiezione, la terza, che ha a che fare proprio con il rapporto fra teoria e prassi:

Mi pare… che non sia opportuno pensare a un’associazione “di antropologi che operano nella realtà sociale”, un’associazione cioè distaccata dal resto dell’universo associativo, quasi che “operare” sia una specializzazione in qualche modo avulsa dall’insieme del lavoro antropologico, il quale non può non essere, insieme, empirico, teoretico e anche operativo.

Non si comprende bene quanto sia differenziata la semantica dell’applicare e dell’operare cui Seppilli, nel colloquio con Antonio Palmisano, allude; assumo pertanto la frase nel suo complesso. Gli antropologi non appartengono al gruppo degli operatori specializzati che delegano ad altri l’onere della teorizzazione o della esplicazione dei fatti del mondo; sono invece intellettuali che insieme indagano, scoprono aspetti della realtà e sanno come intervenire. Si può immaginare l’ipotesi alla Gramsci di un antropologo come intellettuale ‘esperto’ e ‘rosso’, ove ‘esperto’ vale per il lavoro specifico e ‘rosso’ per la capacità di affrontare ogni problema nel suo contesto più generale, in maniera critica, separando fra processi ideologici e processi reali. E se di specializzazione operativa si deve parlare, lo stesso Seppilli delega a un sindacato di categoria il campo delle rivendicazioni lavorative e assicurative: «In questa direzione di una “specializzazione operativa” mi parrebbe semmai opportuno qualcosa come una associazione sindacale, diretta in particolare a proteggere quegli antropologi che lavorano “per” enti o istituzioni pubbliche o private impegnate a gestire realtà sociali».

L’unitarietà del rapporto fra teoria e prassi, che fa indubbiamente parte del patrimonio marxista e qui è alla fonte della posizione, implica appunto che l’orizzonte della visibilità dei problemi del mondo sia – come diceva l’ultimo Engels – la sua materialità, oltre cui non si può andare. E materialità del mondo per l’indagine significa agire in modo critico sulle condizioni di un mondo attraversato da conflitti e contraddizioni. L’analisi antropologica diviene così analisi sociale critico-emancipativa dai vincoli del potere, sulla base di una scelta valoriale. Tale è il nucleo della seconda ragione per cui Seppilli è contrario alla proposta associativa:

Sono contrario al termine stesso di ‘antropologia applicata’ (perché)… fra le “conoscenze antropologiche” e le pratiche di intervento stanno, in mezzo, … opzioni etiche, che non hanno mai (e non possono avere) un fondamento scientificoproprio perché nascono, appunto, da una scelta etico-politica…”

L’antropologia applicata sarebbe appunto una strategia conservatrice, perché alienerebbe ad altri (al committente o al donor) la responsabilità dei fini della ricerca e dei progetti, ossia l’opzione etica, confermando così l’esistente; ciò significa che non può esistere un pensiero critico non schierato, né un pensiero critico imparziale, e quindi non vi può essere una scienza sociale, ma solo una critica del reale, attenta alla coniugazione (fondativa) fra militare e conoscere.

La risposta di Seppilli è che l’opzione etica rimanda di necessità a un atteggiamento di ricerca privo di qualsiasi fondamento scientifico. Le conoscenze e le pratiche che Seppilli presuppone come scientifiche implicano che esista una differenza fra la sfera dei valori e la sfera fattuale, generativa di una scissione fra piano etico-valutativo e piano concreto-analitico. In questa separazione fra piano delle idee (politico-ideologiche) e regno dei fatti (empirici) si concreta la convinzione che le idee (le opzioni etiche) non abbiano un fondamento scientifico, e tale impostazione è riconducibile a una sorta di mixage di weberismo di sinistra e di positivismo liberalizzato novecentesco.

Che le discipline umane e sociali debbano essere libere da giudizi di valore (wertfrei) è un caposaldo dell’idea maxweberiana che il criterio di scientificità dell’intellettuale e dello studioso sia la ‘avalutatività’. Tale nesso si incarna nel raggiungimento della validità enunciativa tramite la formulazione e l’enunciazione di ‘giudizio di fatto’ sui fenomeni indagati. La critica marxista classica ha sempre avversato il pensiero di Max Weber, in base all’assunto che qualsiasi indagine scientifica è condizionata dagli interessi di classe, e indirizzato l’attenzione dello studioso all’analisi critica delle teorie e dei progetti in termini di loro demistificazione critica. Non ha però mai sostenuto che la sfera delle opzioni etiche non abbia fondamento scientifico, o per lo meno non ha mai avuto una nozione così forte di ‘scientifico’.

In Seppilli persiste, invece, un’ambiguità epistemologica (talora adduttrice di novità, talaltra di rigidità) che attraversa del resto altri segmenti del marxismo nostrano e non: egli sostiene tesi antipositivistiche, quando è critico delle teorie generalizzanti del sociale e fautore del metodo della critica dell’ideologia; ed è al contempo cripto-positivistico, quando scinde fra mondo dei valori e dei fatti, siano essi i valori (ideologici) delle classi dominanti oppure i valori emancipativi o critico-sociali di chi resiste al potere o alla norma.

Ciò che va rivisto appunto è la dimensione del valore e dell’etico.

Il conoscere organizzativo e la scissione

È opportuno riprendere l’analisi del rapporto fra relazione al valore e giudizio di valore. Entro una complessa genealogia intellettuale che distingue fra scienze nomotetiche e scienze ideografiche, Weber sottolinea la differenza essenziale che esiste fra i due termini, per cui mentre il giudizio di valore appartiene all’ideologia valutativa e all’interesse di una classe o di un gruppo sociale, la relazione al valore è una condizione necessaria da cui parte lo studioso. Di più, la relazione al valore definisce l’umano e precede l’analisi delle classi: un punto di partenza, una finestra, una strategia intellettuale, chiarita ed esibita, che informa la problematica, guida nel lavoro e rende trasparente il percorso di ricerca e di pensiero.

Weber riconosce che lo scienziato sociale, nella scelta degli argomenti oggetto delle sue indagini, è influenzato dai propri orientamenti di valore. Pur tuttavia, tale orientamento non va in alcun modo confuso con il “giudizio di valore” che abbiamo sui medesimi argomenti, perché quest’ultimo implica giudizi morali che esulano dal discorso scientifico. È assai importante distinguere e separare le due nozioni, anche se talora non se ne coglie il rilievo, come mostra l’elaborazione posteriore sulle latenti contraddittorietà fra le due dimensioni, che porta a considerare una duplice uscita:

  1. ritenere che il supposto criterio dell’avalutatività del pensiero sociale sia ideologico e meramente funzionale alla copertura di diseguaglianze sociali ed economiche, e quindi da decostruire, indicando l’ambito critico-ideologico quale unica possibilità di comprensione profonda del sociale;

  2. inserire la nozione di avalutatività, come accade nel positivismo liberalizzato oppure in un certo post-positivismo novecentesco, all’interno della strategia dei “programma di ricerca”, distinguendo il contesto della scoperta dal contesto della giustificazione.

Nella rivalorizzazione del valutativo, il contesto della scoperta garantirebbe la legittimità degli aspetti ideali o valoriali (se si vuole, metafisici) della ricerca, mentre il contesto della giustificazione individuerebbe il luogo in cui la logica delle procedure e la determinazione dei fatti trovino la loro propria validità.

Le posizioni di Seppilli sotto-determinano la differenza fra orientamento al valore e giudizio di valore, talora anzi nelle obiezioni egli sembra adoperare ora una ora l’altra lettura del termine ‘opzione etica’, mescolando le due vie. Che al fondo sussista la questione del come identificare il livello della critica dell’ideologia, non v’è dubbio; ma non si tratta di ridurre la questione dell’antropologia applicata a mero confronto conoscitivo e al tema della validità degli asserti. Piuttosto vale la pena capire in che modo declinare il confronto in termini di soggettività, se dare voce e fare parlare i subalterni o mettersi al servizio della loro crescita e autonomia, tematizzando di nuovo il ruolo dell’opposizione fra cultura egemonica e classi subalterne, di matrice gramsciana e poi ciresiana.

Epperò, è possibile che il – sia pur duttile e sofisticato – insieme delle discipline antropologiche sottostia a questo impegnativo fardello di perspezione del mondo? È possibile, insomma, che l’antropologia, ogni volta che si dà il caso che intervenga, sia in grado di portare con sé, bene alta in vista e splendente, la fiaccola rifulgente dell’emancipazione e del sole dell’avvenire?

Prima di tutto, bisognerebbe, probabilmente, sgombrare il campo da antichi e nuovi pregiudizi, disinnescare il corto circuito fra antropologia applicata e suo uso politico anti-emancipativo, cessando di ritenere che l’antropologia applicata sia esemplata sull’utilizzo di storici impegni di antropologi (statunitensi per lo più) a fini contro-insurrezionali in vari scenari politici e bellici in Vietnam, in Chile, in Iraq, in Afghanistan. E poi passare alla bontà di un pensare e di un normare associativo in maniera organizzata.

L’auspicio di «avere una nostra comune unitaria e aperta associazione professionale di tutti gli antropologi italiani» per Seppilli significa avere il potere di autodeterminarsi e quindi di passare all’esercizio normato e all’uso delle competenze professionali nella realtà sociale ed istituzionale, oltre che teorica. Questa esigenza però si scontra con «una nostra specifica sciagura nazionale»:

da noi, ognuno deve fare la sua associazione, non può arricchire quella che c’è già, contribuendo magari a cambiarla. Credo che questo potrebbe essere il tema di una affascinante indagine antropologica sul nostro “carattere nazionale” o su qualcos’altro, e cioè la scissione, come la scissione dei museali e poi degli universitari incardinati.

L’accusa di scissionismo è una pagina pesante del carteggio. È termine infelice. Non descrive affatto differenziazioni scientifiche, anzi presuppone uno status di omogeneità della ricerca da garantire a livello istituzionale di rappresentanza; è una schietta categoria politica che definisce un campo politico ove la collocazione istituzionale dipende dal peso dell’organizzazione e dalla sua influenza; rimanda ad attori principali, che sono – nel nostro caso e per riprendere recenti definizioni – capitribù e tribù accademiche, alle prese con continue scissioni e fusioni. Il tutto sino all’accusa di scissionismo come fardello di un presunto ‘carattere nazionale’, scivolone culturalistico (ben strano in uno degli autori del Memorandum del 1958, e assai vicino allo stereotipo dell’‘italiano traditore’) su cui non vale la pena soffermarsi.

Nel testo di Seppilli non si parla di paradigmi scientifici ma di organizzazioni politiche, non si parla di specialismi ma di tribalismi. Lo specialismo in verità da Seppilli stesso viene una sola volta tratto innanzi e si tratta della creazione della SIAM, dallo stesso autore fondata, la cui presenza imbarazzante nel fraseggio viene sbrigativamente assolta con un «ma conta poco perché è una struttura disciplinare settoriale che è nata peraltro già anni prima della stessa AISEA».Il problema invece è proprio qui, se l’antropologia applicata agevoli, rilanci, motivi la moltiplicazione delle ricerche oppure tolga spazio politico ad altre organizzazioni preesistenti.

Esiste la vulgata diffusa, in aule di convegno o in discussioni più o meno animate, che vi sia grande richiesta di antropologia da parte della società civile, di enti, organizzazioni, ministeri, imprese e così via; ma che manchi ancora un’offerta adeguata. È una posizione non profondissima, forse più palliativo mentale per diminuire la dissonanza cognitiva fra posizionamento dell’antropologia a livello mondiale e in Italia, che risposta ai processi attuali. La famosa domanda di antropologia e l’impegno per una nuova visibilità passa attraverso una questione ancora più impegnativa (che in qualche modo Seppilli intravedeva ma non focalizzava a pieno): quale antropologia? E, per riconnettere, se il tema è la politica della rappresentanza, si tratta di rappresentare competenze antropologiche oppure profili professionali?

Le competenze, si sa, possono essere etero- oppure auto-derivate, provenire da altre formazioni disciplinari oppure da curricula antropologici. V’è un abisso fra le due ‘domande’ di capitale umano o cognitivo sul mercato della forza lavoro intellettuale, nonché sulla sua ‘applicazione’, appunto. La giusta battaglia è per l’istituzione di figure professionali che controllino l’intero assetto antropologico che lega la ricerca all’azione.

Le professioni vanno avanti con il procedere degli specialismi, la cui dinamica non è eterea ma si sviluppa per progressiva differenziazione dei risultati, in base al campo di forze e controforze fra centri disciplinari forti e periferie deboli (più facilmente colonizzabili da altri paradigmi di ricerca). Se in politica la scissione ha il significato specifico di separazione per divergenze ideologiche o per linee di strategia e di azione, nella storia della scienza non esiste nessuna scissione ma solo riformulazione di paradigmi o nuove soluzioni per oggetti anomali. Sulla base di queste caratteristiche, sono spesso le discipline minoritarie a essere rissose e a volere maggiore autonomia, in termini di identità disciplinare, come si manifesta in certi screzi che negli anni hanno visto opporsi sociologi qualitativi a sociologi dell’organizzazione, etnometodologi ad antropologi, oppure antropologi a storici orali. Non fa parte della storia nazionale lo ‘scissionismo’, è piuttosto un processo di differenziazione e ricollocazione infra- ed extra-disciplinare, ubiquo, diffuso, che coinvolge tutte le discipline, e a cui anzi si deve non poco della molla innovativa nei processi conoscitivi.

La SIAA partiva dal tentativo di monitorare i vari specialismi, comprenderne la logica, valorizzare la discussione e l’eventuale loro uso pubblico, al fine di una gestione plurale dei saperi, senza una subordinazione meccanica della metodologia della ricerca alla politica. Si trattava di moltiplicare le visuali etiche interne ai contesti e fare i conti con la pluralità dei soggetti che rende sempre più affaticato e complesso analizzare e problematizzare processi e gruppi sociali. Ovviamente ci saranno anche altri tempi di bilancio e conviene fermarsi qui.

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