Quick description

Berardino Palumbo

Università di Messina

Indice

Business class
Volete fare un’etnografica? ….
Field engineer
Nel paese dei balocchi
Berretti verdi e cacciatori d’orsi
Il bastone di Bohr
Contesti
Ibrido
Bibliografia

“Ethnography is art, science, and craft rolled into one” (S.P. Bate 1997: 1153).

Business class

Uno degli effetti[1] del fare etnografia fuori dalle ristrettezze dell’accademia è stato aver potuto volare in business class. Ricordo che era il 20 aprile 2010 (lo ricordo perché nella VIP lounge dell’aeroporto di Toronto riuscii a vedere le reti di Inter vs Barcellona di Coppa Campioni giocata nella notte italiana). Al mio fianco un ragazzo dal fisico atletico che più tardi riconobbi essere il tennista Novak Đoković, già allora ai vertici del ranking mondiale. Questo, insieme alla qualità e alla quantità del cibo, oltre che ai servizi vari a disposizione, mi dava la sensazione, non del tutto piacevole, di essere capitato in una realtà parallela, forse simile a quella nella quale dovevano vivere alcune delle star del mondo accademico transnazionale che talvolta avevo provato a contattare. Il leggero senso di fastidio per quello che a me sembrava uno spreco, scomparve immediatamente, però, dopo essere salito in aereo e aver sperimentato la comodità della poltrona-letto. In realtà il “merito” di quel tour nell’aldilà del lusso era tutto del vulcano islandese Eyjafjöll che aveva preso ad eruttare il 20 marzo, aveva ripreso il 14 di aprile e avrebbe smesso a maggio, bloccando per oltre un mese il traffico aereo nord-atlantico. Il viaggio di rientro del piccolo team incaricato da una multinazionale statunitense di svolgere una ricerca etnografica in Nord America era incappato in quella perturbazione e, nello spazio/tempo della sospensione, non dopo una serrata contrattazione con i vertici dell’azienda, si materializzò la possibilità della business class, l’unica per la quale vi erano posti disponibili sui rarissimi voli per l’Italia[2].

Ma cosa ci facevo lì?[3]

Volete fare un’etnografica? ….

«… e allora prendete un antropologo», disse il mio amico e compagno dei seminari di storia e antropologia all’École Française di Roma, sul finire degli anni ’80 del secolo precedente. Bocconiano, ma con laurea in storia, disciplina nella quale tentò di conseguire un dottorato (dopo aver vinto due concorsi in due diverse università), ma con una tesi su Ferrante Gonzaga, condottiero al servizio di Carlo V nella prima metà del XVI secolo, che avrebbe voluto collocarsi tra storiografia, biografia e narrazione (tesi che i suoi docenti, ingessati in una storiografia molto istituzionale, non accettarono), Vito frequentava all’epoca il mondo delle indagini di mercato, al cui interno aveva conosciuto Ambrogio, un eclettico, colto e simpatico ingegnere milanese, con il quale aveva collaborato per un’indagine. Ambrogio lavorava per un’azienda statunitense che svolgeva consulenze ingegneristiche di implementazione e di valutazione dell’efficienza di macchine e componenti industriali. Questa company aveva in corso un importante progetto di ricerca per conto di una multinazionale euro-americana, teso a comprendere la funzionalità di alcune macchine da cantiere nel campo delle construction in Nord America. Nella discussione tra i due era emersa l’esigenza di un approccio (anche) qualitativo al problema dell’utilizzo delle macchine da parte di concreti operatori e quindi la possibilità di utilizzare quella che, con un termine entrato oramai da qualche tempo nel mondo delle indagini di mercato, veniva chiamata (ricerca) etnografica[4]. «… E allora prendete un antropologo», disse Vito, «io ne conosco uno»[5]. Venni così coinvolto nel progetto che avrebbe dovuto indagare l’adattabilità di una macchina pensata per cantieri italiani ed europei, nei construction sites nord americani. Dopo alcuni colloqui preliminari, volti essenzialmente a fare reciproca conoscenza, nell’autunno del 2009 Vito, Ambrogio e io ci recammo in una città per incontrare alcuni dirigenti della multinazionale committente e proporre le idee che avevamo sviluppato.

Prima di partire avevamo iniziato a cercare in rete notizie su macchine (quella da cantiere) e un mondo (quello delle costruzioni) che, sia a me che a Vito, erano estranee almeno quanto le pratiche fondiarie di abitanti di villaggi costieri del Ghana. Pur lavorando a distanza, entrambi fummo colpiti da alcuni video nei quali operatori, sempre maschi, dai fisici ben strutturati, di solito vestiti in t-shirt e jeans, talvolta con cappelli da cowboy, in specifici rodei si confrontavano con le loro macchine da cantiere in gare di agilità, forza e precisione. L’idea che vi fossero dei rodei (soprattutto, ma non esclusivamente negli USA) e che in essi delle macchine potessero competere tra di loro ci apriva ad universi di senso inattesi; soprattutto, almeno per quel che mi riguarda, diminuiva il timore di non riuscire a dire qualcosa di utile agli ingegneri di un’importante multinazionale con i quali avrei dovuto interagire, da esperto di etnografia, nei mesi successivi. Il lavoro, infatti, era commissionato non dal marketing aziendale – come invece accade normalmente per indagini simili alla nostra – ma direttamente dalla progettazione e dall’engineering. Insomma mi sembrava che quei tornei tra operatori-cawboy che cavalcavano le loro macchine-cavalli in esibizioni collettive potesse aprire dei varchi di senso all’interno di un mondo che in prima istanza e dall’esterno immaginavo centrato su una razionalità matematica e tecnica[6].

L’incontro con il dirigente responsabile del progetto per la parte committente avvenne, come detto, in una città del Sud Italia, non lontana dalla sede di uno degli stabilimenti in cui si producevano alcune delle macchine. Ambrogio, Vito e io lo raggiungemmo in un elegante albergo del centro dove, poco dopo, ci raggiunse Valentino, altro ingegnere dell’azienda, più giovane e dall’accento emiliano, per andare insieme a cena in un vicino locale. Fin da quel primo incontro mi colpì un aspetto relazionale che, da un lato, accomunava il campo accademico dal quale provenivo a quello managerial-industriale al quale mi accostavo, e che dall’altro avrei imparato a cogliere nella sua specificità più tardi, quando la ricerca volgeva alla fine. Nell’interazione a tavola era chiaro chi “comandava”, direttamente sul più giovane ingegnere, indirettamente su di noi, che eravamo coloro che, pagati, avrebbero dovuto fornire “dati” concreti e utili. L’alto dirigente, un ingegnere di antica esperienza, dalle convinzioni politiche esibite e “di sinistra”, con una passione per l’arte rinascimentale, non lontano dalla pensione, guidava l’interazione, controllandola e fungendo da punto di riferimento conversazionale per Ambrogio, il “nostro ingegnere”. Vito aveva trovato un punto di contatto attraverso le sue competenze storico-artistiche, Valentino, l’altro ingegnere si limitava a supportare le affermazioni “del capo”. Io osservavo in silenzio. Ad un certo punto provammo ad introdurre l’argomento “rodei”, dicendo che ci interessava molto perché, forse, apriva degli spiragli interpretativi sul mondo degli operatori, i veri utilizzatori delle macchine da cantiere e, come avremmo visto, spesso anche i loro proprietari. La reazione fu interessante. Sia il dirigente, sia l’ingegnere più giovane quasi insorsero contro quell’insinuazione, sostenendo che loro non c’entravano nulla con quelle esibizioni, visto che si occupavano di ingegneria e di macchine. Ebbi subito l’impressione che avessimo toccato una delle molte soglie dell’“intimità culturale” delle quali sono pavimentate le vie dell’etnografia (Herzfeld 1997)[7]. D’altro canto avevo notato che molti di quei rodei erano organizzati proprio da alcune grandi aziende produttrici di quelle stesse macchine che si esibivano. In ogni caso quale che fosse stata l’impressione che suscitammo con le nostre “invasive” domande, il “team” dovette nel suo complesso apparire credibile se, al termine della cena, ci fu dato l’ok per partire. Valentino, il più giovane degli ingegneri si sarebbe unito a noi.

Field engineer

Eravamo in Romagna, al secondo dei nostri brevi soggiorni etnografici in Italia, preparatori a quelli, più lunghi, che avremmo dovuto fare negli Stati Uniti. Ci spostavamo dall’albergo in un paese vicino, dove avremmo dovuto assistere ad una macchina al lavoro in una strada del centro per spalare la neve e il ghiaccio accumulatisi nei giorni precedenti. Per ragioni logistiche eravamo con due auto: in una viaggiavamo Ambrogio ed io, nell’altra Vito e, alla guida, Valentino. Ad un certo punto Ambrogio dallo specchietto retrovisore dell’auto che guidava nota qualcosa di strano: «guarda, guarda dietro» mi dice con un gran sorriso. Mi volto e vedo che, nella rotonda appena passata, l’auto di Valentino continuava a girare in derapata, tre, quattro volte. Poi riprende la strada e torna a seguirci. All’arrivo Vito, divertito dice con il sorriso scanzonato che gli conosco: «bravo il ragazzo, eh?». Più tardi ci spiega che ha parlato con Valentino che gli ha rivelato la sua attività di corridore motociclista («ha corso con Rossi e Biagi»), sport del resto molto comune dalle sue parti, che ha poi lasciato diventasse solo un hobby man mano che avanzava negli studi di ingegneria effettuati da dipendente dell’azienda. Gli aveva anche detto che qualche volta ai rodei ci andava anche lui, proprio per conto dell’azienda[8]. Nella multinazionale, Valentino ricopriva la posizione di field engineer (ingegnere di campo): era incaricato, cioè, di seguire le macchine e i problemi meccanici che eventualmente si manifestavano presso i clienti. Con il sostegno e la mediazione dei concessionari veniva mandato in ogni angolo del mondo a verificare e risolvere sul campo le situazioni problematiche. In quanto field engineer era stato aggregato al nostro gruppo che, appunto, stava partendo per il campo.

La strategia che avevamo pianificato prevedeva una serie di brevi sondaggi etnografici in contesti italiani nei quali veniva concretamente utilizzata una delle macchine da cantiere la cui adattabilità ai contesti lavorativi nord-americani avremmo dovuto vagliare. Tra queste, in primo luogo, la terna, che è una macchina per il movimento terra caratterizzata dalla presenza della pala sulla parte anteriore e del braccio escavatore sulla parte posteriore. Si tratta di una macchina che ha nella multifunzionalità e nella duttilità la sua caratteristica principale, visto che combina le funzioni lavorative di macchine più specializzate (la pala gommata) e l’escavatore, macchine queste ultime che possono essere sia più grandi, sia più piccole della terna. Il primo contatto era avvenuto proprio con la terna, in un piccolo centro del Salento dove potemmo vederla all’opera in una strada del centro storico. Lo spazio di lavoro, il cantiere, era piuttosto ristretto (circa 20 x 20 metri), ma la macchina vi si muoveva con una certa agilità, essendo la strada stata preventivamente bloccata al traffico. L’operatore era un giovane operaio specializzato che lavorava per una ditta e, dunque, conduceva una terna non di sua proprietà. Gli ponemmo delle domande sulla macchia, sulle sue capacità operative, sulle sue qualità e i suoi difetti. Ricordo che parlai molto poco (non controllavo il lessico tecnico, cosa che invece faceva bene Ambrogio; né riuscivo a seguire una qualche concatenazione logica che fosse sensata, per me e soprattutto per l’operaio, come invece provava a fare Vito (sulla base della sua esperienza nell'analisi di mercato). Mi limitavo ad osservare l’operatore nella sua interazione con la macchina, prima, quando la manovrava da dentro la cabina di guida, poi quando, sceso a terra, provava a spiegare a parole i suoi modi di fare. Valentino, che aveva procurato il contatto tramite il rivenditore d’area, ci osservava messo di lato. Ciò che più mi colpì fu il modo in cui l’operatore provò a spiegare i suoi movimenti di guida della terna, una volta sceso dalla cabina di guida. In piedi tra le grandi ruote anteriori e posteriori, l’uomo, guardandoci, aprì entrambe le braccia, con la destra che puntava verso la pala e la sinistra direzionata verso lo scavatore, muovendo la testa e lo sguardo alternativamente da una parte e dall’altra. Ebbi la sensazione che stesse replicando, incorporandoli, i movimenti della macchina lungo un doppio asse direzionale: “destra – sinistra” e, non potendo ruotare la testa a 180 gradi, come invece può fare il seggiolino del guidatore nella cabina, “avanti – dietro – avanti”. Un simile processo di incorporazione uomo-macchia, centrale negli studi di diversa prospettiva che si occupano di questi temi, fu, in qualche modo, un primo esito del mio sguardo etnografico, destinato a diventare un’utile pista d’indagine[9].

La prima fase della ricerca, tutta italiana, aveva un duplice obiettivo: da un lato doveva fungere da specchio comparativo, dall’altro doveva consentirci di mettere a punto e di tarare il gruppo di lavoro. In effetti, man mano che la ricerca andava avanti le procedure e i ruoli andarono definendosi. Ce ne rendemmo conto grazie a Valentino, il “nostro” field engineer, il quale in una discussione ci disse di aver compreso come operavamo: (più o meno) inizia Ambrogio con le domande più tecniche e così fate capire che sapete qualcosa di meccanica e ingegneria, poi intervengono Vito e Dino che fanno le domande diverse, quelle che portano verso altri problemi. Evidentemente Valentino aveva osservato con attenzione il nostro operare e, del resto, anche lui sarebbe entrato poco dopo nel gioco etnografico. I passi successivi alla prima sperimentazione salentina ci portarono in Romagna, come detto, poi vicino Como, da un rivenditore di macchine da cantiere e in Sicilia. Quest’ultima soluzione mi vide coinvolto in maniera diretta, visto che la base della settimana di ricerca in Sicilia fu proprio il paese nel quale avevo svolto negli anni precedenti una lunga ricerca etnografica. Per quel che riguarda le modalità d’utilizzo nel cantiere, il rapporto uomo-macchina e altri aspetti più tecnici, non ritengo che il lavoro siciliano abbia portato conoscenze particolarmente interessanti. In maniera abbastanza comprensibile, la grande familiarità con il contesto locale – dove, grazie alla mediazione di alcuni amici, parlammo con il titolare di una ditta di movimento terra – e la conoscenza dell’area – dove incontrammo un’altra analoga ditta – furono utili, invece, per acquisire informazioni su un tipo di acquirenti/utilizzatori della terna. Sia nel paese della mia etnografia, sia nella vicina Caltagirone i suoi utilizzatori erano i proprietari della stessa e, almeno nel secondo caso, questa era l’unica macchina da cantiere a disposizione della ditta. Dai colloqui con i proprietari emergeva con chiarezza sia che, in ditte di piccole dimensioni, la terna manifestava tutto il suo carattere polifunzionale, sia che la sua disponibilità (possesso) costituiva (insieme ad un mezzo di trasporto) una sorta di soglia per accedere alla possibilità di metter su un’impresa. Le due imprese calatine, inoltre, operavano in contesti socio-economici in cui il movimento terra, nel corso dei decenni precedenti il nostro stage etnografico e, in parte, ancora nel primo decennio del nuovo millennio, aveva spesso rappresentato uno dei punti di contatto tra interessi della criminalità organizzata, mondo del lavoro e sistema politico. In questo senso mi pare che il momento siciliano mostrò al team anche quello che si potrebbe definire il carattere “impuro” e coinvolto di quella particolare macchina multitasking.

Nel paese dei balocchi

Al di là della messa a punto dei modi di operare del gruppo di ricerca e della possibilità di familiarizzarsi con il mondo degli operatori di/su macchine da movimento terra, il momento per me più interessante dell’intera prima parte del progetto fu la visita ad uno degli stabilimenti italiani nei quali alcune di quelle macchine venivano prodotte. Nonostante sapessi della tendenziale scomparsa della catena di montaggio e dello sviluppo di concezioni diverse dell’organizzazione produttiva, devo confessare che, non avendo mai messo fisicamente piede in una fabbrica, le mie idee erano plasmate da stereotipate immagini televisive[10]. Non avrei mai pensato di imbattermi in uno spazio produttivo impostato a partire dai principi della lean production (produzione snella) importati dal Giappone[11] e basati sulla cosiddetta tecnica delle 5S: ridurre il numero di oggetti e strumenti presenti nello spazio produttivo, eliminare gli elementi di distrazione, liberare gli spazi della produzione da oggetti e macchinari non utili, incrementare la sicurezza, posizionare gli strumenti lavorativi nelle postazioni in cui risultano più facilmente utilizzabili, portare al massimo il livello di pulizia e quindi facilitare il controllo degli impianti e delle macchine, definire preliminari standard produttivi e auto disciplina degli operatori. Avrei appreso in seguito che una simile organizzazione postfordista e integrata degli spazi produttivi si inscrive, a sua volta, in una successiva e più generale cultura organizzativa e, quindi, in una strategia industriale, la World Class Manufacturing (WCM), anch’essa di derivazione giapponese, che, al di là del mettere in atto un più facile controllo visivo degli spazi della produzione e del diminuire i costi produttivi, aumentando la qualità, dichiara di avere come obiettivi, sia la responsabilizzazione e il coinvolgimento degli operai negli obiettivi dell’impresa, sia l’eliminazione, a tutti i livelli del sistema, degli ostacoli alla produzione[12].

Entrando nella fabbrica l’effetto fu spiazzante. Visivamente: spazi molto ampi, poche macchine dalle grandi ruote gommate in diversi momenti del loro assemblaggio, poste a distanza all’interno di quegli spazi, con piccoli gruppi di operai che gravitavano intorno, muovendosi con una certa lentezza[13]. Acusticamente: silenzio, voci ovattate. Olfattivamente: nessuno degli odori che ero abituato ad associare ad un’officina, tutto asettizzato. Cromaticamente: un verde di fondo, con intense macchie di colore che erano poi le macchine in assemblaggio, gialle, rosse, in contrasto con il nero intenso delle grandi, nuove e lucide ruote gommate. La sensazione che ebbi sul momento fu quella di essere entrato in una fabbrica di giocattoli, grandi e grossi, ma belli e colorati proprio come giocattoli. Sensazione che venne confermata un attimo dopo, quando ci portarono in un piazzale esterno – una sorta di circuito di prova – e Valentino ci disse che avremmo potuto provare a condurre noi la terna fiammante che era ferma vicino ad un grosso cumulo di terra. Confermata solo in parte, però, o meglio fino al momento in cui non toccò a me salire sulla macchina. Ne percepii allora tutta la grandezza e l’altezza dal suolo (come quando monti la prima volta un cavallo) e iniziai a constatare come il mio corpo-mente fosse inabile a muoversi nel ristretto spazio della cabina, incapace di coordinare i propri movimenti e armonizzarli con quelli che avrei voluto far compiere alla macchina. E dunque ebbi una percezione fenomenologicamente concreta di quanto incorporati dovessero essere la stessa macchina, i suoi strumenti di comando (un joystick, un volante, alcune leve, qualche pulsante, un seggiolino girevole, vari specchi retrovisori) e i suoi movimenti per coloro che la utilizzavano con quotidiana maestria.

I due ingegneri erano evidentemente a loro agio con la macchina: Valentino, che era di casa e, da un certo punto di vista, del mestiere, ma anche Ambrogio, entusiasta della messa alla prova, che aveva a lungo lavorato nella costruzione di trattori agricoli. Guardavano divertiti le mie goffe performance – con uno sguardo che mi ricordò quello dei miei amici siciliani di fronte allo sparo della mia prima bumma (Palumbo 2009). Diversamente da Vito, evidentemente più a suo agio, non riuscii che al terzo tentativo a prendere un po’ di terra dal mucchio con la pala e a spostarla di lato. Mi parve, però, che quella prova potesse considerarsi come una sorta di rituale di passaggio: in qualche modo da lì cominciava il campo.

Berretti verdi e cacciatori d’orsi

Nonostante la lunga fase preparatoria, non avevo idea di dove stessimo andando di cosa avremmo fatto una volta arrivati. La prima tappa del tour statunitense aveva un nome in qualche modo familiare: Corpus Christi, una piccola città del sud del Texas, sul golfo del Messico che, stando alle informazioni disponibili in rete, era nota per aver dato i natali a due attrici, Farrah Fawcett (Charlie’s Angels) ed Eva Longoria (Desperate Housewives), e per le raffinerie di petrolio. Lo sguardo di un’anziana signora alla quale, nel transito dell’aeroporto di Atlanta, dove eravamo arrivati con un clamoroso ritardo, correndo avevamo chiesto dove fosse il gate di imbarco per Corpus Christi, mi fece intuire che quel posto doveva esser peggio di quanto immaginassi: «Are you going to Còoorpus ?» chiese guardando con stupore quei quattro Italiani che correvano verso quello che con tutta evidenza doveva sembrarle un posto improbabile. E poi indicò con una mano l’uscita più vicina. All’arrivo una nebbiolina mista al fumo e all’odore acre delle raffinerie, versione a stelle e strisce dell’originale sanseverino, velava il Corpo del Cristo.

L’indomani due psicologhe canadesi si aggregarono al team. Avrebbero dovuto lavorare sugli operatori delle macchine con un loro strumento di eye tracking (un’attrezzatura che serve a comprendere dove si posiziona lo sguardo dell’operatore durante la conduzione del mezzo). Immediatamente dopo ci raggiunse il rappresentante del punto vendita locale della multinazionale che, senza indugiare, ci condusse in quello che era una sorta di campo di prova e di “allenamento” nel quale venivano testate le macchine da cantiere. Qui ci aspettava un uomo, non molto alto, carnagione scura e baffetti, in jeans e camicia cachi. Ci presentammo e gli dicemmo (in realtà parlò solo Ambrogio) che eravamo interessati a vedere il modo in cui lavorava con la terna. Non sembrava particolarmente colpito dalla richiesta, quasi fosse abituato a quel tipo di prestazioni. Si chiamava Juan e, come una parte significativa della popolazione locale, era di origini messicane, arrivato in Texas da bambino con i genitori, si era sposato due volte e lavorava già da alcuni anni nelle construction. Le psicologhe gli dissero che l’indomani avrebbero voluto provare con lui il macchinario per il tracciamento oculare. Non fece obiezioni. Salì sulla macchina e iniziò ad operare. La macchina, sotto la sua guida, si muoveva veloce e precisa sul playground, spostando con rapidità ed efficacia mucchi di terra da una parte all’altra, appianandoli con la parte inferiore della benna, scavando buche più o meno profonde con lo scavatore, tracciando addirittura canalette diritte e lunghe decine di metri adoperando i denti dello stesso scavatore. Ripeté due o tre volte le stesse operazioni, andando sempre più veloce, come se stesse performando un’esibizione. Terminata la prestazione scese piuttosto compiaciuto, accettando di buon grado i complimenti che il rappresentante della ditta produttrice della macchina e gli ingegneri gli rivolsero. Vito ed io rimanemmo invece colpiti, più che dalla innegabile abilità di Juan, dall’assenza di evidenti sbavature nella performance, dalla sua efficacia e da quella che appariva come una perfetta simbiosi tra uomo alla guida e macchina, perfezione che sembrava addirittura seguire un proprio ritmo e una propria eleganza. Osservando Juan al lavoro mi sembrò si potesse cogliere uno stile d’azione, una cifra connotante la sua performance diversi da quelle degli operatori che avevamo potuto vedere all’opera nei ristretti cantieri italiani. Al di là dell’idea di lavorare su degli idioletti performativi degli operatori, questa constatazione faceva intuire l’importanza dello spazio all’interno del quale l’interazione lavorativa uomo-macchina prendeva la sua forma, ossia la centralità del cantiere, con la sua conformazione spaziale e le sue articolazioni interne. Nel caso texano il cantiere era il grande assente, sostituito da un campo da rodeo, parato per degli osservatori venuti da fuori, nel quale far esibire quello che era probabilmente il migliore dei machine-boys locali. La sensazione di aver assistito ad una sorta di esibizione e la super-maestria del performer e della sua macchina sembravano confermare l’intuizione dell’esistenza di un qualche legame tra le macchine da movimento terra e l’immaginario di super-mascolinità che emergeva dai filmati sui rodei di macchine visionati prima di iniziare la ricerca, così decisamente negato dalla committenza ingegneristica. Riuscimmo dopo l’esibizione e, in parte, nella movimentata giornata successiva, a sapere da Juan che aveva servito la Nazione nei Green Berets (i Berretti Verdi), le forze speciali dell’esercito degli Stati Uniti, resi famosi al grande pubblico internazionale dall’omonimo film (1968) interpretato da John Wayne. Uno sguardo complice e la sottile risatina di Vito bastarono a commentare quella non inattesa “scoperta”.

Due giorni più tardi, alle 4 del mattino, lasciammo il Golfo del Messico. Anche questa volta la città era avvolta dai fumi del petrolio, con le fiamme delle raffinerie che fendevano la nebbia e il buio, colorando di arancione pallido una pioggia acre e sottile. Dai finestrini del taxi che ci conduceva in aeroporto, Corpus Christi ricordava una delle scene finali del film The Passion di Mel Gibson, visto al cinema pochi anni prima.

Attraverso uno scalo a Dallas – con il suo aeroporto che esibiva ricchezza ad ogni suo angolo e soldati, legionari dell’Impero di ritorno a casa o in partenza per uno dei vari scenari di guerra – volammo verso il Wisconsin, destinazione La Crosse. Scherzavamo con Vito e Ambrogio su quel passaggio da Corpus Christi a La Crosse, che ci piaceva immaginare interno ad un familiare universo cristiano. In realtà il nome della cittadina sull’Upper Missisipi derivava da una più complessa opera di traduzione culturale, che aveva identificato il bastone pastorale dei Vescovi cattolici (la crosse, in francese) con il bastone con il quale i nativi americani (Menominee, sottogruppo Ojbwa del gruppo Algonchino) praticavano un proprio gioco con la palla. La parrocchia La Crosse, sorta dopo l’arrivo dei primi missionari e commercianti di pellicce europei, aveva poi compattato e santificato la traduzione. Un cielo limpido, una luce quasi accecante, esaltata dalla neve, e un freddo intenso ci accolsero all’arrivo nel piccolo aeroporto locale.

In Wisconsin eravamo attesi da due uomini della multinazionale, il proprietario del salone di vendita delle macchine e un ingegnere, giunto dalla sede statunitense per vederci all’opera. Al di là di discussioni tecniche, che videro coinvolti Ambrogio e gli esponenti commerciali e tecnici della committenza, sottolineammo l’importanza di poter osservare la terna all’opera in un vero cantiere. La richiesta venne accettata e il giorno dopo ci recammo presso la sede di una ditta edile locale, a conduzione familiare, tra i clienti più affezionati del salone di vendita. Conoscemmo così i due fratelli Meyer, proprietari dell’azienda edile e il figlio/nipote Bill. In uno dei trasferimenti in pickup dalla sede aziendale in un cantiere, Frank Meyer, fondatore della ditta, un uomo tra i 45 e i 50 anni, fisico asciutto e atletico, occhi azzurri (la famiglia era di origini tedesche si affrettò a segnalarmi) mi spiegò che la buona reputazione era fondamentale nella loro attività ed era quella che aveva consentito loro di realizzare molte opere importanti nei trent’anni trascorsi dalla fondazione, indicandomene alcune durante il tragitto in pickup. Lui si occupava dei cantieri, mentre suo fratello della contabilità. Il figlio Bill, invece, aveva preso il suo posto nel lavoro con le macchine da cantiere ed era divenuto veramente bravo, al punto che l’anno precedente era stato premiato in una delle esibizioni (i rodei, appunto) che la ditta produttrice di macchine da cantiere di solito organizza per fidelizzare i clienti e far loro testare nuove macchine e innovazioni. Nel cantiere potemmo osservare Bill finalmente all’opera con la sua terna. Anche lui era molto abile, ma con uno stile diverso da quello di Juan. Il ritmo che imponeva alla macchina non era agile e rapido come quello visto in Texas, ma preciso e mirato. Del resto stava scavando con l’escavatore le buche per le fondamenta di una grande casa monofamiliare, mentre la terna era ancorata al suolo e leggermente inclinata sul bordo di una piccola scarpata. Lo vedevo nella cabina di guida manovrare il braccio dell’escavatore e la sua benna con piccoli precisi movimenti del joystick, quasi fosse di fronte lo schermo di un videogioco. Con Vito e Ambrogio riuscimmo a trovare alcuni momenti per parlargli, prima che divenisse preda delle due psicologhe e di due esperti di robotica informatica giunti da Boston per lavorare con loro al tracciamento visuale del suo sguardo. Ci disse che, in effetti, la familiarità con il joystick attraverso il quale muoveva la terna gli derivava dalla costante pratica dei videogiochi. Alle nostre domande sulle sue percezioni mentre adoperava la macchina e, quindi, su come avrebbe voluto fosse una terna del futuro ci fornì una risposta spiazzante: sognava una macchina completamente automatizzata, da guidare da fuori attraverso una console esterna. Questa idea dava da pensare, visto che in un certo senso portava all’estremo, fino, ad una vera e propria escorporazione, quel meccanismo di incorporazione che ci era sembrato importante per comprendere l’agire degli operatori con/nella macchina[14].

Bill ci raccontò tutto ciò in un giro a bordo del SUV nei dintorni, molto belli, della città: il Mississipi e il lago Onalaska, ghiacciati, le colline ricoperte di boschi, nei quali, ad un certo punto, tre grossi cervi ci attraversano la strada. Per noi era uno spettacolo inusuale, ma non per Bill che, proprio in quel frangente, così, quasi per caso, ricordandoci la forza della natura selvaggia in quei territori, ci raccontò di come ogni anno, con il padre, partissero verso Nord con le loro motoslitte per andare a caccia di orsi, con arco e frecce.

Il bastone di Bohr

A La Crosse, con le psicologhe avevamo diviso rigidamente tempi e modi di intervento. Loro avrebbero applicato a Bill gli strumenti per tracciare il movimento oculare solo il terzo giorno, noi il giorno prima avremmo potuto girare con lui e parlargli. Si era deciso di fare così dopo l’esperienza texana e la mia dura reazione alle loro metodologie. A Corpus Christi avevamo infatti provato a lavorare insieme e loro, dopo una prima giornata di comune osservazione delle performance di Juan, erano passate all’azione. Avevano applicato intorno alla testa dell’ex Berretto Verde una serie di elettrodi, collegati con dei cavi ad un PC al quale trasmettevano dati sui movimenti oculari dell’operatore nel momento in cui svolgeva, con la terna, determinati compiti. La cosa, preparativi inclusi, durò un paio di ore al termine delle quali Juan mi apparve leggermente provato. Gli proponemmo di andare insieme a bere qualcosa per fare due chiacchiere. Non avevamo intenzione di rivolgergli domande specifiche o direttamente legate alla ricerca, semplicemente volevamo creare un qualche contesto dialogico comune, informale e non preordinato. Arrivati in un locale tex-mex nel quale Juan sembrava essere di casa, le due psicologhe canadesi ci chiesero di fargli alcune domande per pochi minuti e, per quanto non fosse nostra intenzione lavorare e, almeno io, trovassi quella richiesta decisamente maleducata, acconsentimmo. Trattennero il malcapitato per quasi un’ora, somministrandogli a velocità incalzante e programmata, tutta una batteria di domande strutturate. Quando Juan ritornò al tavolo era molto provato e si vedeva con chiarezza che non ne poteva più. Dopo una birra e qualche ulteriore chiacchiera ci salutammo.

La vista degli strumenti di tracciamento dei movimenti oculari applicati sul corpo di un essere umano, i cavi che connettevano ad una macchina quel soggetto che conduceva una macchina, mi avevano profondamente turbato. Mi chiedevo che scienza umana potesse essere quella che inevitabilmente annullava la distinzione tra uomo e macchina, non umanizzando la macchina (incorporandola, come facevano gli operatori che avevamo osservato), bensì trasformando (à la La Mettrie) in macchina l’uomo. E riflettevo su cosa quegli esperimenti dicessero non tanto sui movimenti oculari di Juan, quanto piuttosto sulle pulsioni intime che forse animavano le due ricercatrici. Pulsioni che dovevano agire incontrollate se, dopo quell’esperimento, le due giovani colleghe non esitarono ad infierire sul loro “informatore” con la sequenza delle loro domande, immobilizzandolo con la rigidità dei loro apparati conoscitivi nella sua condizione di “oggetto”. Vito ed io – e istintivamente anche Ambrogio – che provavamo a ricostruire uno spazio di condivisione intersoggettiva – non avremmo mai potuto, in quello scenario, ridargli una qualche umanità. Sulla base della critica epistemologica rivolta già sul finire degli anni ’60 del secolo scorso da George Devereux (1967) al comportamentismo, non avevo non potuto associare il tipo di setting conoscitivo costruito dalle due giovani psicologhe a quegli esperimenti che lo studioso delle perversioni sedang, ispirandosi a Nils Bohr, chiamava a “bastone rigido”, e tesi a immobilizzare la demarcazione tra soggetto e oggetto della conoscenza. L’etnografia, come scriveva Devereux, come pensavo allora, deve contrattare continuamente la linea di demarcazione, sapendo che questa non è e non deve essere mai fissa e, in più, essendo consapevole che solo le reciproche perturbazioni tra co-osservanti producono conoscenze umane. Mi sentii obbligato, dunque, a reagire e la prima sera di permanenza in Wisconsin misi le cose in chiaro, con una durezza che riallocava sulle due colleghe la “violenza gnoseologica” che, dal punto di vista antropologico, loro avevano proiettato su Juan. Da quel momento non avremmo mai più lavorato insieme e, come detto, già a La Crosse ci dividemmo i giorni di lavoro.

Chi invece sembrò accettare di buon grado le intrusive manipolazioni cognitive della porzione psicologica del team fu Bill. Si sottopose pazientemente all’applicazione degli elettrodi e, una volta settato, sembrò muoversi con naturalezza tra il joystick con il quale manovrava la sua terna e i cavi che lo connettevano al computer portatile. Vedendolo all’opera speculavo sul fatto che in quella situazione potesse immaginarsi come una sorta di Cyborg (Haraway 1995; Downey 1998), qualcosa di simile ad uno dei Transformers della saga cinematografica, lui che il giorno prima ci aveva detto che avrebbe desiderato guidare da remoto la sua macchina-terna. Speculazioni, pensai, del tipo “come penserei se fossi un cavallo?”, del tutto improprie per chi fa etnografia. Stimoli più concreti alla sua disponibilità, e percepibili anche da osservatori esterni, dovevano venire dalla giovane e avvenente bostoniana che, salita con lui nella cabina di guida, mediava i rapporti tra i suoi movimenti, i cavi e il PC. La sera, in una cena collettiva organizzata per ricambiare la disponibilità dei nostri ospiti, nonostante la presenza della moglie di Bill, con Valentino, Vito e Ambrogio notammo alcuni segnali che correvano lungo quei fili che evidentemente ancora connettevano l’informatica di Boston e l’atletico cacciatore di orsi. Segnali che nel rientrare in hotel sembrarono poter dar corpo a un più coerente e concreto messaggio. Il giorno dopo scherzammo sulla plasticità e la resilienza degli esseri umani, capaci di riprodurre socialità e piacere anche all’interno delle più rigide e costrittive gabbie cognitive.

Contesti

Ci era ben chiaro, dopo questo primo periodo di ricerca, che per quanto svolte in scenari molto diversi, le attività alla quali avevamo assistito avevano visto come protagonisti due operatori altamente performanti, ben noti all’azienda produttrice delle macchine, che a partire da queste qualità erano stati scelti per esibirsi di fronte al nostro team. Bill, a differenza di Juan, aveva operato in un vero spazio di cantiere – e questo era stato molto utile per comprendere alcuni aspetti del concreto utilizzo della terna – ma il suo stile e i suoi ritmi lavorativi erano pur sempre parte del suo rappresentarsi come uno dei migliori operatori di macchine da cantiere dello Stato. E il suo cantiere, nel giorno in cui avevamo potuto osservarlo all’opera, prevedeva l’utilizzo di una sola macchina e l’assenza, nel momento in cui Bill operava, di altri operai al lavoro. Era necessario, quindi, potersi muovere in maniera e in contesti indipendenti dal mondo di tecnici, venditori e operatori gravitante intorno alla nostra committenza. Proponemmo quindi di estendere la ricerca a Montreal e a Toronto, città nord americane nelle quali alcuni parenti di Vito operavano da anni nell’edilizia. In questo modo avremmo potuto operare in spazi relazionali meno asettici rispetto a quelli messi a disposizione dalla multinazionale committente e in contesti lavorativi più usuali. La dirigenza della multinazionale volle conoscere gli esiti di quella prima fase e comprendere le ragioni della richiesta. Mi recai, quindi, insieme ad Ambrogio e Vito, nella principale sede italiana della multinazionale a sostenere una presentazione. Non mi interessa qui soffermarmi sui dettagli tecnici di quella discussione, ma riflettere su alcuni aspetti contestuali. Ricordo che arrivammo nell’area industriale in cui si trovava la sede dell’azienda con l’auto di Ambrogio. Giunti all’ingresso, invece di entrare nel grande parcheggio interno, lasciammo l’auto nel piazzale antistante: «non possiamo entrare – disse Ambrogio – si può solo se hai una macchina dello stesso marchio dell’azienda». Fui molto colpito dall’esistenza di un tabu anticontaminazione nel cuore tecnologico-ingegneristico dell’Occidente tardo-capitalista e mi rafforzai nell’idea che una etnografia di lunga durata di quel mondo sarebbe stato utile e interessante, prima o poi, tentarla[15]. Il dirigente che avevamo conosciuto fin dal primo incontro ci aspettava in una stanza a vetri, austera, con una lavagna, un grande tavolo da riunione. La discussione ruotò intorno alla dialettica tra il management tecnico, che insisteva per conoscere e riflettere sugli aspetti ingegneristici e funzional-operativi delle macchine osservate, da un lato, e la parte “sociale” del team che proponeva l’idea di una contestualizzazione delle azioni e dei movimenti di quelle macchine, dall’altro. Al di là di questo, furono altri gli aspetti dell’interazione che mi colpirono. Mentre si discuteva, il dirigente venne chiamato da un collaboratore che gli ricordò di una riunione. Si scusò con noi della necessità di interrompere la nostra e, restando fermo sul posto, attraverso il suo portatile entrò in conference call con suoi sottoposti collegati da varie parti del mondo. Non seguivo i contenuti della discussione, ma ad un certo punto fu chiaro che qualcuno dei partecipanti aveva preso decisioni non condivise dal dirigente. Mi colpì il modo diretto, privo di fronzoli in cui questi ricordò al suo interlocutore lontano le diverse posizioni nella gerarchia aziendale e segnalò che, nel caso si fosse verificato nuovamente lo stesso problema, non vi sarebbe più stata alcuna occasione per discuterne. Pensai inevitabilmente al diverso modo di esprimere la gerarchia e i rapporti di potere tra il contesto d’impresa e quello, a me familiare, dell’accademia, nel quale non è facile che le gerarchie siano dichiarate con analoga immediatezza, essendo preferiti stili meno diretti e più soft per ribadire non meno nette gerarchie. Pensai a quanto distonica quella esplicita dichiarazione di una cultura gerarchica fosse rispetto all’idea di derivazione “giapponese” — circolante ad un certo punto in quel mondo — che la cultura d’impresa, per quanto verticisticamente impostata, dovesse essere condivisa e pensai anche a come le sottigliezze e i dettagli della nostra “quasi etnografia” potessero mai essere trasmesse in una simile organizzazione dei rapporti e dei ruoli sociali, influenzata, forse, da una qualche versione del paradigma “KISS” (Keep it simple stupid) (Bale 1997: 1153)[16].

Le nostre idee e gli stili della presentazione non dovettero però sembrare troppo lontane da quel modello, o così improbabili se, al termine della discussione, il dirigente responsabile del progetto accettò la proposta e, quindi, nella primavera il team, definitivamente epurato della presenza di perturbanti strumenti cognitivi e preceduto da un sondaggio iniziale realizzato dal solo Vito, poté ritrovarsi in Canada[17]. Sia a Montreal che a Toronto venimmo accolti nella densa trama di relazioni parentali di Vito, i cui parenti (zii/e e cugini/e paterni/e) erano parte integrante della numerosa comunità di immigrati calabresi. Molti di loro, arrivati in Canada da ragazzi, lavoravano nelle constructions, dove avevano iniziato come semplici muratori, per poi gradualmente affermarsi come ditte autonome, di piccole dimensioni e a conduzione familiare, impegnate in lavori di ristrutturazione di appartamenti e di costruzione di edifici ad uso abitativo. In entrambe le città riuscimmo ad osservare varie macchine (dalla terna ai mini scavatori e alle mini pale) al lavoro in cantieri, prevalentemente privati, di medie o piccole dimensioni. Quello che mi colpiva in queste situazioni di “normale” lavoro era l’assenza di ogni “ansia da prestazione”, il loro adeguarsi ai ritmi lavorativi di un’intera squadra di operai e, soprattutto, la sincronizzazione dei movimenti della macchina con le diverse altre operazioni svolte dagli altri operai presenti in cantiere. La mobilità e la funzionalità di una macchina di movimento terra non apparivano legate alla mascolina esibizione delle super capacità di un singolo operatore – come, in un modo o nell’altro, era stato il caso nei due scenari parati dalla committenza – quanto piuttosto all’operatività coordinata nello spazio sociale del lavoro in cantiere. Queste considerazioni spostarono gradualmente la nostra attenzione dalla singola macchina e dal rapporto operatore-macchina, problemi dai quali avevamo dovuto inevitabilmente partire, al dialogo macchina-macchina nella scena del cantiere. Cantiere che quindi, in quanto spazio sociale, con le sue articolazioni funzionali, la sua grandezza e la sua durata, divenne la lente attraverso la quale guardare all’agency di ogni singola macchina.

Ripercorrendo a posteriori quell’esperienza, mi pare si possa provare a mettere in relazione la “scoperta” della centralità dello spazio della produzione e del coordinamento sociale tra macchine con l’essere riusciti a ricreare un contesto relazionale – quello della trama delle relazioni parentali di Vito. Questo mi pare plausibile su un piano immediato, concreto, perché era a tavola, in cene che potevano essere ambientate tranquillamente a Simbarìo, nelle Serre calabresi, se non fosse stato per l’ampiezza delle case e la modernità di mobili ed elettrodomestici, insieme a due o tre altri Vito Calabretta (che, come me, ha più cugini dallo stesso nome e cognome), o chiacchierando in uno dei bar per italiani di Toronto, che i discorsi sul lavoro facevano emergere spaccati sui contesti nei quali questo veniva realizzato. Su un piano più generale, da un lato, era evidente che il carattere ibrido di quell’esperienza etnografica non potesse non conferire ai nostri tentativi di comprensione il carattere incompleto e scalare che alcune contemporanee riflessioni sui mutamenti nella configurazione del fieldwork e dei problemi analitici attribuivano alla nozione di “campo” (Marcus 2012: 434-435). Dall’altro, però, in assenza di un progetto di ricerca autonomamente pensato e all’interno di esigenze applicative, la scelta canadese rappresentava la necessità di appoggiarsi su una concezione classica dell’olismo etnografico, in base alla quale la riflessione antropologica, per poter fornire interpretazioni dotate di senso, ha comunque bisogno della socialità, nella quale il significato culturale è prodotto e giocato: tra un riduzionismo psicocognitivo, che trasforma l’uomo in un cervello-occhio-macchina, e un tecnologismo ingegneristico, cui piace immaginare macchine adattate a super-lavoratori efficienti e produttivi, insieme a due “nostri” ingegneri, noi del team scegliemmo un’idea piuttosto tradizionale di “società”.

Ibrido

Rispetto, però, ad etnografie di impianto “classico” da me svolte in altri contesti e in precedenti momenti (Palumbo 2020), come definire il lavoro svolto tra Italia e Nord America sulle macchine da cantiere? Credo si possa immaginare quest’ultima esperienza come un tentativo di assemblare uno sguardo reticolare, capace, da un lato, di cogliere il carattere ibrido dei fenomeni che avrei (avremmo) dovuto osservare e, dall’altro, di consentire una loro rappresentazione utile, o quantomeno plausibile, per una committenza così fortemente ancorata nel cuore tecnico-meccanico della nostra supposta modernità: insomma un ibrido metodologico essa stessa[18].

Da un certo punto di vista ho svolto quella che può intendersi come una consulenza, anche se, ad uno sguardo più attento, vi sono una serie di elementi che differenziano questa esperienza da una “classica” opera di consulenza[19]. La mia azione, infatti, si è svolta in un regime – per così dire – di sub appalto, visto che la multinazionale committente si era rivolta ad una compagnia specializzata, appunto, in consulenze ingegneristiche per avere risposte a specifici problemi legati ad alcuni tipi di macchine da cantiere. Questa company aveva a sua volta chiamato un analista di mercato che aveva coinvolto me, un antropologo. Sia Vito che io avevamo firmato un contratto di consulenza e il relativo disclaimer con tale compagnia e, dunque, se le nostre responsabilità erano nei suoi confronti, non avevamo invece un rapporto diretto con la committenza della ricerca. Eppure, nell’interazione con le persone che si muovevano nei concreti contesti esaminati, noi tutti eravamo identificati con la multinazionale committente e, dunque, eravamo immaginati tutti come dei “field engineer”. Così dovevano vederci sia i concessionari locali della multinazionale che, allertati dal centro (e quasi sicuramente dal marketing aziendale) facevano di tutto – dal loro punto di vista – per mostrarci il meglio della funzionalità delle macchine che mettevano sul mercato; sia gli operatori iper-specializzati che venivano messi a nostra disposizione[20]. La scelta di uscir fuori da un simile circuito rispondeva all’aver maturato una certa consapevolezza di tale scenario. Come accennato, la decisione della committenza di accettare la nostra richiesta di campo-indipendenza fu probabilmente legata ad una divergenza tra le politiche dell’ingegneristica e quelle del marketing aziendale; così come dovette esservi anche una qualche tensione tra la parte statunitense della corporation (di recente assorbita da quella europea), alcuni rappresentanti della quale mi pareva di intuire fossero preoccupati di una qualche volontà di sorveglianza centrale, operata anche attraverso il nostro team, e la casa madre (che non mi pareva affatto avesse una simile disposizione investigativa). Si tratta con tutta evidenza di semplici percezioni, ben lontane da una qualsiasi possibilità di costituirsi come etnografia dell’impresa, e del tutto insufficienti per far fuoriuscire il nostro lavoro dai vincoli di una semplice attività di consulenza, sia pure indiretta. L’effetto concreto della nostra scelta fu quello di lavorare in un contesto (quello delle ditte italo-canadesi di construction) sotto la veste di italiani, amici di parenti e, dunque, di cambiare decisamente, insieme al posizionamento, l’angolo visuale.

Ciò detto, la mia attività di consulenza potrebbe anche configurarsi come un caso di antropologia applicata[21]. Indubbiamente alle competenze etnografiche di un antropologo veniva chiesto di applicarsi su specifici problemi (in particolare l’utilizzabilità e l’utilità in altri mercati del lavoro di alcune macchine da cantiere tradizionalmente operative in Europa) definiti a priori dalla committenza. Diversamente dai contesti in cui più è consolidata l’applicazione della disciplina e della sua metodologia (ad esempio la “cooperazione allo sviluppo”, la consulenza su situazioni di crisi umanitaria o quella sulle varie questioni patrimoniali), non credo che nel mio (nostro) caso vi fossero né una aspettativa specifica da parte della multinazionale committente, né un qualche pregiudizio sulle competenze antropologiche maturato in precedenti esperienze. Semplicemente la composizione del gruppo di ricerca era responsabilità della compagnia di consulenza alla quale si erano rivolti. Per quest’ultima la presenza dell’antropologo, al di là dell’assonanza etnografia-antropologia, era dovuta a canali personalistici e non certo a conoscenze pregresse o alla ricerca di competenze puntuali. Come nell’antropologia applicata, la ricerca oltre ad un report finale elaborato dal team (e steso da Vito e Ambrogio) e presentato alla multinazionale committente, ha previsto periodi di ricerca brevi (dalla singola giornata ad una settimana per “luogo”) che pongono problemi particolari ad una metodologia, quella etnografica, che ha nella lunga durata e nella descrizione densa sue qualità distintive (Colajanni 2012: 38; Declich 2012a).

Districarsi nelle strettoie dei tempi ristretti e delle inevitabili difficoltà a costruire un qualche plausibile contesto interpretativo non è (stato) semplice e, in conclusione, proverò a indicare una o due vie di fuga. Ora invece vorrei precisare che, al di là della brevità dei singoli “terreni locali”, la ricerca multi situata è durata più di un anno, ha attraversato l’Italia, gli Stati Uniti e il Canada, ha consentito di osservare contesti lavorativi molto diversi tra di loro e di gettare sguardi, certo molto fugaci, anche sui vertici di una multinazionale. Da un simile punto di vista si potrebbe avvicinare questa esperienza alle etnografie, appunto, “multisituate”, definite oramai oltre vent’anni fa da George Marcus (1995) e quindi divenute correnti nel panorama della ricerca antropologica[22]. Anche qui, però, i vincoli posti dal carattere “applicato” e di consulenza della ricerca hanno reso difficile sviluppare le potenzialità della metafora della multi-localizzazione. Per quanto, infatti, la nostra ricerca fosse di fatto pluri-situata e, quindi, non definibile a partire da una concezione “classica” della località, l’estrema specificità dei problemi da affrontare impediva di fatto di analizzare in spazi plurimi e diffusi “la circolazione di significati culturali, oggetti e identità” (Marcus 1995: 96); così come le predeterminazione istituzionale dei ruoli rendeva difficile contrattare e praticare un posizionamento strategicamente situato e contestualmente impegnato del ricercatore (id.: 110-114). Insomma: “follow the backhoe loader” non rientrava tra le forme di costruzione della pratica e della narrazione etnografica previste da Marcus (1995: 105-110).

In qualche modo, infine, l’esperienza etnografica descritta in questo capitolo sembrerebbe aver sfiorato alcuni problemi centrali di un’antropologia della scienza e della tecnica[23]. In fondo quello che mi veniva chiesto di indagare, attraverso il caso della terna, non era molto distante dal rapporto tra “tool using” (come adoperano la macchina diversi tipi di operatori in contesti differenti) e “tool making” (come progettiamo una macchina pensata per certi contesti lavorativi e per certi operatori quando immaginiamo di portarla in contesti differenti e darla in mano ad altri operatori?) che, secondo Tim Ingold (1997: 108) costituisce una delle questioni chiave di un’analisi antropologica della tecnologia. Su un piano diverso, ma in qualche modo connesso, il contrasto, più volte evocato, tra la ripartizione ingegneristica e quella del marketing della multinazionale, sembrerebbe poter rinviare, oltre che a contraddizioni in qualche modo strutturali (ingegneristica, management, Fischer 2007: 540; e marketing) anche ad una più sottile differenziazione delle prospettive culturali soggiacenti, con l’ingegneristica, la nostra committenza, partecipe di una attitudine realista, volta alla ricerca di una “obiettività razionale” (Stirrat 2000: 37) da un lato; e il mondo del marketing (con il quale credo venissimo almeno in parte associati) immaginato capace di qualsiasi sotterfugio (come i rodei e le esibizioni) pur di accaparrarsi quote di mercato, dall’altro. L’evocazione dei rodei come mossa di ingresso nel campo, oltre a costituire la violazione di un segreto interno, al quale reagire ribadendo le articolazioni strutturali dello scenario, ci inquadrava o almeno così inquadrava Vito e me, se non i due ingegneri del team sul versante non tecnico-meccanico-razional-realistico della cosmologia aziendale. La richiesta di separarci dallo spazio delle “esibizioni” programmate dai concessionari statunitensi per degli osservatori esterni servì probabilmente a ricollocarci (Vito e me, non i due ingegneri, che lì erano restati) in uno spazio intermedio tra le coordinate esatte della meccanica razionale e le oscure trame del marketing.

Le ipotesi interpretative emerse dalla fase canadese, liberata dalle paratie stagne costruite(ci) intorno dai venditori aziendali, non ci spinsero, però, nella direzione delle aspettative dell’ingegneristica. La centralità attribuita al cantiere in quanto contesto di interazioni uomo-macchina macchina-uomo, all’interno del quale collocare le questioni di carattere meccanico-ingegneristico finiva per dare forma ad uno di quei:

sistemi socio-tecnici nei quali strutture sociali complesse, sistemi di attività non verbali, una comunicazione linguistica avanzata, il coordinamento rituale del lavoro, la manifattura di artefatti avanzati, la messa in connessione di più attori sociali e non sociali fenomeno logicamente differenti e l’utilizzo sociale di artefatti diversi, sono tutti considerati come parti di un singolo complesso che è allo stesso tempo adattivo ed espressivo (Pfaffenberger 1992: 513),

dei quali aveva da tempo parlato la letteratura antropologica. In maniera complementare l’aver immaginato connessioni tra piani diversi e, da altri punti di vista, apparentemente non coniugabili dell’“universo” da indagare, inscriveva il nostro sguardo in una classica capacità d’analisi di tipo antropologico, per la quale la cultura «consiste nel modo in cui le persone tracciano analogie tra sfere differenti dei propri mondi» (Strathern 1992: 47).

Più difficile, quasi impossibile, invece, pensare di poter riconfigurare la ricerca lungo qualcuno dei percorsi innovativi e sperimentali che una parte della letteratura antropologica immaginava, in quegli stessi anni, come centrali per i successivi sviluppi dell’intera disciplina. Per quanto, infatti, si trattasse di un progetto: «coinvolto e di solito finanziato e programmato all’interno di uno spazio definito da progetti più potenti, spesso internazionali e trans-istituzionali» (Marcus 2012: 440, traduzione mia), le condizioni di lavoro, i vincoli contrattuali e di discrezione hanno impedito che si creassero le condizioni: «per il tipo di sperimentazione con le forme, come l’atelier, il laboratorio, l’azione performata o programmata o la cura di un archivio, che sto discutendo» (Ibid. traduzione mia).

Per quanto non sempre esplicitamente dichiarato in riflessioni di questo tipo le concrete possibilità di immaginare scenari sperimentalmente innovativi per la progettualità etnografica sembrerebbe essere connessa alla libertà strutturale che l’istituzione universitaria ancora conferisce alla ricerca; o comunque parrebbe essere decisamente limitata quando ci si muove in spazi predefiniti da istituzioni come quelle con le quali avevamo avuto a che fare.

Bibliografia

Boellstorff, T. 2008. Coming of Age in Second lIfe. An anthropologist Explores the Virtually Human. Princeton. Princeton University Press.

Bogani, F. 2013. Una comunità su gomma. Un’indagine etnografica del mestiere di camionista. Lares, 79 (2-3): 225-240.

Bougleux, E. 2006. Costruzioni dello spaziotempo. Etnografia in un centro di ricerca sulla fisica gravitazionale. Bergamo. Bergamo University Press.

Bougleux, E. 2012. Soggetti egemoni e saperi subalterni. Etnografia in una multinazionale del settore energia. Firenze. Nardini.

Bougleux, E. 2017. Antropologia nella corporation. Roma. CISU.

Cefkin, M. 2009a, «Introduction. Business, Anthropology, and the Growth of Corporate Ethnography», in Ethnography and the Corporate Encounter. Reflections on Research in and of Corporations. Id. (ed). New York – Oxford. Berghahn: 1-37.

Cefkin, M. 2009b (ed). Ethnography and the Corporate Encounter. Reflections on Research in and of Corporations. New York – Oxford. Berghahn.

Colajanni, A. 2012. Gli usignoli dell’imperatore. Lo studio dei mutamenti sociali e l’antropologia applicata nella tradizione britannica del contesto coloniale dagli anni ’30 agli anni ’50. Roma. CISU.

D’Aloisio, F. 2003. Donne in tuta amaranto. Milano. Guerini e Associati.

Declich, F. 2012a «Introduzione. La consulenza antropologica tra istituzioni internazionali e organizzazioni non governative», in Il mestiere dell’antropologo. Esperienze di consulenza tra istituzioni e cooperazione allo sviluppo. Id. (a cura di). Roma. Carocci: 7-35.

Declich, F. 2012b (a cura di). Il mestiere dell’antropologo. Esperienze di consulenza tra istituzioni e cooperazione allo sviluppo. Roma. Carocci.

Downey, G. 1998. The Machine in Me: An Anthropologist Sits Among Computer Engineers. London and New York. Routledge.

Falcone, D., De Felice, F., Petrillo, A. 2014. Il World Class Manufacturing: origine, sviluppo e strumenti. Milano. McGraw-Hill.

Falzon, M.A. (ed.) 2009. Multi-sited ethnography. Theory, Praxis and Locality in Contemporary Research. Farnham. Ashgate.

Ferguson, J. 1990. The Anti-Politics Machine: “Development”, Depoliticization and Bureaucratic Power in Lesotho. Cambridge. Cambridge University Press.

Fischer, M.J. 2007. Four Genealogies For a Recombinant Anthropology of Science and Technology. Cultural Anthropology, 22 (4): 539-615.

Ghezzi, S. 2007. Etnografia storica dell’imprenditorialità in Brianza. Antropologia di un’economia regionale. Milano. Franco Angeli.

Ghorashi, A., Wels, H. 2009. «Beyond complicity: A plea for engaged ethnography», in Organizational Ethnography. Studying the Complexities of Everiday Life. Ybema, S. Yanow, D. Wels, H., Kamsteeg, F. (eds). London. Sage: 231-253.

Guyer, J. 2011. Blueprints, Judgment, and Perseverance in a Corporate Context. Current Anthropology, 52, Supplement 3: 17-27.

Haraway, D. 1995 [1991]. Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo. Milano. Feltrinelli.

Helmreich, S. 2001. After Culture: Reflections on the Apparition of Anthropology in Artificial Life, a Science of Simulation. Cultural Anthropology 16 (4): 6l2-627.

Helmreich, S. 2014. Waves. An anthropology of scientific things. HAU: Journal of Ethnographic Theory, 4 (3): 265-284.

Herzfeld, M., 1997. Cultural Intimacy: Social Poetics in the Nation-State. New York, NY. Routledge.

Ingold, T. 1997. Eight Themes in The Anthropology of Technology. Social Analysis: The International Journal of Social and Cultural Practice, 41 (1): 106-138.

Latour, B. 1998 [1987]. La scienza in azione. Introduzione alla sociologia della scienza. Torino. Edizioni di Comunità.

Latour, B. 2009 [1991]. Non siamo mai stati moderni. Saggio d'antropologia simmetrica. Milano. Elèuthera.

Marcus, G. 1995. Ethnography in/of the World System: The Emergence of Multi- Sited Ethnography. Annual Review of Anthropology, 24: 95-117.

Marcus, G. 2012. The Legacies of Writing Culture and the Near Future of the Ethnographic Form: A Sketch. Cultural Anthropology, 27 (3): 427-445.

Martin, E. 1998. Anthropology and the Cultural Study of Science. Science, Technology, & Human Values, 23 (1): 24-44.

Mosse, D. 2004. Cultivating Development: An Ethnography of Aid Policy and Practice. London. Pluto Press.

Neyland, D. 2008. Organizational Ethnography. Los Angeles. Sage.

Palumbo, B. 2020. Lo sguardo inquieto. Etnografia tra scienza e narrazione. Bologna. Marietti.

Papa, C. 1999. Antropologia dell’impresa. Milano. Guerini.

Pfaffenberger, B. 1992. Social Anthropology of Technology. Annuual Review of Anthropology, 21: 491-516.

Redini, V. 2008. Frontiere del “made in Italy”. Delocalizzazione produttiva e identità delle merci. Verona. Ombre corte.

Revelli, M. 1992. «FIAT, la via italiana al post-fordismo», in Il nuovo macchinismo. Lavoro e qualità totale. I casi FIAT , Zanussi e Italtel. AA.VV. Roma. Datanews: 27-38.

Rizzo, A., Marti, P., Bagnara, S. 2001. «Interazione Uomo-Macchina», in Intelligenza Artificiale. Manuale per le discipline della comunicazione. Burattini, E., Cordeschi, R. (a cura di). Roma. Carocci: 312-338.

Rose, D. 1996. «Narrative Ethnography, Elite Culture, and the Language of the Market», in Culture/Contexture. Explorations in Anthropology and Literary Studies. Daniel, E.V., Peck, J.M. (eds). Berkeley. University of California Press: 105-131.

Severi, I. 2019. Quick and dirty. Antropologia pubblica, applicata e professionale. Firenze - Pisa. EditPress.

Sillitoe, P. 2006. The Search for relevance: A brief History of Aplied Anthropology. History and Anthropology, 17 (1): 1-19.

Sillitoe, P. 2007. Anthropologist only need apply: challenges of applied anthropology. Journal of the Royal Anthropological Institute (n.s.), 13 (1): 147-165.

Siniscalchi, V. 2002, «ʻSan Marco produce’. Retoriche dell’economia e dinamiche politiche nel Sannio», in Frammenti di economie. Ricerche di antropologia economica in Italia. Id. (a cura di). Cosenza. Luigi Pellegrini Editore: 313-345.

Stirrat, R.L. 2000. Cultures of Consultancy. Critique of Anthropology, 21 (1): 31-46.

Strathern, A., Stewart, P. 2001. Introduction: Anthropology and Consultancy: Ethnographic Dilemmas and Opportunities. Social Analysis, 45 (2): 3-22.

Strathern, M. 1992. Reproducing the Future: Anthropology, Kinship, and the New Reproductive Technologies. New York. Routledge.

Tommasoli, M. 2014. Nel nome dello sviluppo. Politiche di re insediamento e conflitti in Africa orientale. Carocci. Roma.

Trupiano, V. 2009. Geni, popolazioni e culture. Le ricerche genetiche tra scienza e politica. Roma. CISU.

Vignato, S. 2007. Docile ouvriéres: quelques pratiques et idées du travail salarié en malesie. Autrepart, 47: 89-101.

Vignato, S. (a cura di). 2010. Soggetti al lavoro. Un’etnografia della vita attiva nel mondo globalizzato. Torino. UTET

Ybema, S., Yanow, D., Wels, H., Kamsteeg, F. (eds.) 2009. Organizational Ethnography. Studying the Complexities of Everiday Life. London. Sage.

Welker, M., Partridge, D.J., Hardin, R. 2011. Corporate Lives: New Perspectives on the Social Life of the Corporate Form. An Introduction to Supplement 3. Current Anthropology, 52, Supplement 3: 3-16.

Wolcott, H. 1995. «Making a study ‘more’ ethnographic», in Representation in ethnography. Van Maanen J. (ed). London. Sage: 57-73.

Womack, J., Jones, D.T., Ross, D. 1991. The Machine That Changed the World: The Story of Lean Production. New York. Harper-Collins.

Womack, J.P, Jones, D.T., Ross, D. 1996. Lean Thinking: Banish Waste and Create Wealth in Your Coporation. London. Simon & Schuster.

Zanotelli, F. 2013. Per un'antropologia storica della genesi di un distretto industriale. Le fonti orali, i post-mezzadri e la piccola impresa a Poggibonsi. Lares, LXXVII (1-2): 59-88.



[1] L’espressione "Quick description" è di Wolcott 1995.

[2] Sulle tentazioni derivanti dall’essere pagati meglio rispetto ad un normale lavoro accademico, cfr. Ybema et al. 2009: 4.

[3] Questa domanda si pone Melissa Cefkin all’interno di una complessa analisi della presenza etnografica e antropologica nel campo degli studi sull’industria (Cefkin 2009a: 17-23).

[4] Per una presentazione ragionata dei rapporti tra etnografia, antropologia e mondo dell’impresa si vedano almeno Bate 1997; Cefkin 2009b; Ybema et al. 2009b; Werker et al. 2011. Cefkin (2009ba: 4-6) segnala il sempre più frequente impiego di antropologi con PhD nel mondo industriale e delle Corporazioni. Un manuale di etnografia delle/nelle organizzazioni è Neyland 2008. Per una bibliografia ragionata delle ricerche antropologiche sulle corporations, cfr. Geuijen 2009. Nel contesto italiano, cfr. Papa 1999; Siniscalchi 2002; Ghezzi 2007; Vignato 2007, 2010; Redini 2008; Bougleux 2012a, b, c, 2017; Zanotelli 2013.

[5] Come mi fece notare Michael Herzfeld, all’epoca in Italia, la proposta aveva delle importanti implicazioni etiche. Le osservazioni e i risultati che avrei prodotto lavorando per una multinazionale potevano, ad esempio, danneggiare operai e dipendenti? Devo dire che il fatto di non lavorare per il marketing o per il personale dell’azienda, ma per la progettazione e l’ingegneristica, in vista di una possibile espansione delle quote in nuove aree di mercato, fu una delle ragioni che mi convinsero ad accettare. Per una riflessione sulle problematiche etiche del lavorare in/per una corporation cfr. Ghorashi, Wels 2009; Guyer 2011. Più in generale con attenzione al contesto italiano Declick 2012a.

[6] Per avere un’idea di questi eventi si possono consultare i link seguenti: https://www.youtube.com/watch?v=YIivqONjFuM; https://www.youtube.com/watch?v=9RN-QG9sGx8; https://www.youtube.com/watch?v=EypuAm6sxZE; https://www.youtube.com/watch?v=jwUCQWJx0bc.

[7] Del ruolo di competizioni organizzate all’interno di una “logica di competizione”, da una multinazionale statunitense in India, scrive Elena Bougleux (2012a: 139-146).

[8] Riflettendo a posteriori su questa contraddizione e sulla reazione iniziale degli ingegneri, mi viene da pensare che dietro potesse esserci stata la contrapposizione, emersa più volte nel corso della ricerca, tra il marketing (che si occupa anche delle esibizioni – rodei) e l’ingegneristica (che è incaricata della progettazione, della realizzazione e della funzionalità delle macchine).

[9] Ad esempio Rizzo et al. 2001; Nicolosi 2011. Da una prospettiva antropologica importanti le riflessioni di Gary Lee Downey (1998). In contesto italiano interessanti considerazioni sul rapporto corpo dell’autista – camion sono in Bogani 2013.

[10] L’amico Ambrogio mi segnala – e per questo lo ringrazio – che questo «non è vero in assoluto per l’auto o per i prodotti con volumi di produzione in serie superiori a una certa soglia, dove la produzione è ancora in catena di montaggio, spesso con ritmi molto veloci e stressanti».

[11] Womack et al. 1991, 1996.

[12] Dal punto di vista antropologico ed etnografico un’attenta, per quanto indiretta, analisi degli spazi produttivi e sociali nella fabbrica integrata è stata condotta da Fulvia D’Aloisio (2003, in particolare il terzo capitolo) nello stabilimento (allora) FIAT di Melfi. In tale volume, pionieristico in Italia, D’Aloisio ricostruisce con efficacia anche il processo interno all’organizzazione della produzione che ha portato a tale tipo di fabbrica (id.: 25-39) e, pur non entrando fisicamente negli spazi produttivi, li osserva attraverso le narrazioni delle operaie che vi lavorano. Su un piano generale, esterno all’antropologia, cfr. Revelli 1992; Falcone et. al. 2014; Cerruti, Pedaci 2012.

[13] Si trattava delle Unità Tecnologiche Elementari (UTE) che costituiscono, nella loro composizione femminile, il perno etnografico del lavoro di D’Aloisio (2003: 32-34, 80 e sgg.) per lo stabilimento di Melfi.

[14] Per un’analisi dell’“immaginazione tecnologica” nelle sue connessioni con l’emergere di forme culturali nuovi nei mondi virtuali, si veda Boellstorff 2008 (in particolare pp. 57-59 e cap. 4). Per i processi di incorporazione/scorporazione uomo-macchina, Downey 1998. Da un punto di vista teorico cfr. anche Strathern 1992.

[15] Un progetto etnografico che, pur assumendo come problema il carattere ritualizzato dell’appartenenza all’azienda, si mostrasse però capace di muoversi «in scapes or flows, reinventing the concept of the field, reproblematizing the traditional object of study, and exploring new ones» (Marcus 2012: 431). Ambrogio mi segnala che il tabu è di origine statunitense, essendo poi stato importato in Europa solo agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso.

[16] Un’interessante e sperimentale, in quanto a forma narrativa, (rap)presentazione di una figura di top manager del mondo dell’industria meccanica statunitense, volta a rendere il posizionamento etnografico il più vicino possibile all’esperienza culturale e linguistica dei protagonisti del mondo industriale, è fornita da Dan Rose (1996).

[17] D’altro canto è evidente che le scelte di operatori come Bill o Juan rientravano anche nelle strategie di fidelizzazione della clientela messe in atto dal marketing della multinazionale. Forse è qui una delle ragioni per le quali la progettazione aveva compreso e accettato la nostra richiesta di uscir fuori dal circuito dei super-operatori. Sulle varie articolazioni della cultura industriale all’interno di una multinazionale, cfr. Bougleux 2012b.

[18] Pur nella consapevolezza dell’assolutamente sproporzionata consistenza delle competenze e delle energie messe in campo, l’utilizzo dei concetti di “ibrido” e di “reti” vuole essere un richiamo alle tesi di Latour (2009).

[19] Sui rapporti tra ricerca antropologica e consulenza, cfr. Stirrat 2000; Strathern e Stewart 2001; Declich 2012, anche se la consulenza cui questi lavori fanno riferimento riguarda per lo più istituzioni e contesti legati alle politiche di sviluppo.

[20] Sulla percezione che i “soggetti” all’indagine hanno dei consulenti chiamati a farla, si veda ad esempio Strathern e Stewart 2001: 9.

[21] In antropologia le riflessioni e le discussioni sull’applicazione della disciplina vanno avanti fin dai primi decenni del secolo scorso e attraversano le sue diverse faglie teoriche. La letteratura è, di conseguenza, estremamente ampia. Per una ampia e attenta riflessione sugli anni ’30 e ’50 del secolo scorso nella tradizione britannica in italiano si rinvia a Colajanni (2012 a). Sempre in italiano è disponibile un’aggiornata riflessione sui rapporti tra le diverse forme assunte dall’antropologia nella scena pubblica e in quella accademica nel corso degli ultimi decenni: Severi 2019. Insieme al volume curato da Declich (2012b), Antropologia Pubblica, Rivista della Società Italiana di Antropologia Applicata (SIAA), può essere utile per avere un panorama delle correnti ricerche italiane. Per un’attenta analisi antropologica elaborata dall’interno delle grandi agenzie internazionali dello sviluppo, cfr. Tommasoli 2014. Per una efficace e sintetica presentazione storica e problematica di area anglofona si veda Sillitoe 2006, 2007. Per una riflessione critica sulla cooperazione allo sviluppo e sul ruolo dell’antropologia, cfr. i classici Ferguson 1990; Escobar 1995; Mosse 2004.

[22] Cfr. ad esempio Falzon 2009

[23] Per una presentazione insieme storica e critica delle antropologie della scienza e delle tecnologie si veda Fisher 2007; si vedano anche, dislocati in momenti e costruiti intorno a prospettive teoriche differenti, Ingold 1997; Helmreich, 2001, 2014. Centrali, per quanto a volte critiche circa la possibilità per gli antropologi di studiare la scienza, sono le riflessioni e la prospettiva teorica di Latour 1998, 2009. Per una critica antropologico-culturale a Latour, Martin 1998: 26-28. Per due esempi italiani di ricerche etnografiche sul mondo della scienza si vedano Bougleux 2006 e Trupiano 2009.