Conversazione con Saverio Krätli

Stefania Pontrandolfo

Università degli Studi di Verona

Bruno Riccio

Università degli Studi di Bologna

Saverio Krätli è editor di Nomadic Peoples, rivista storica della Commission on Nomadic Peoples della International Union of Anthropological and Ethnological Sciences (IUAES). Ha studiato Filosofia presso l'Università di Bologna e Antropologia dello sviluppo presso la Sussex University, nel Regno Unito, dove ha cominciato a interessarsi ai pastori nomadi sotto la guida del prof. Jeremy J. Swift. Ha poi continuato gli studi con un dottorato di ricerca presso l'Institute of Development Studies (IDS), sempre presso la Sussex University, grazie a una borsa di studio dell'Economic and Social Research Council (ESRC) britannico. Dal 2008 lavora come consulente/ricercatore freelance nel contesto dello sviluppo internazionale, nell'interfaccia fra pastori, scienza e politiche dello sviluppo nell'Africa subsahariana. Ha lavorato per agenzie delle Nazioni Unite come UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente), IFAD (Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo) e FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura), e con istituti di ricerca, università, organizzazioni non governative e associazioni di pastori in diversi paesi africani. Al momento lavora in Etiopia per Misereor (Germania) e in Sudan per la Tufts University (Stati Uniti), e sta preparando una ricerca in Niger per l'Institut de Recherche pour le Développement (IRD, Francia) e un Massive Online Open Course (MOOC) su pastorizia e sviluppo.

Stefania Pontrandolfo e Bruno Riccio: - A partire dalla tua esperienza di lunga durata come consulente nella cooperazione allo sviluppo, ricercatore freelance ed editor di una rivista storica di antropologia, hai lavorato e continui a lavorare molto sulle questioni di metodo, sottolineando l'importanza di modificare e aggiornare col tempo non solo i paradigmi teorico-interpretativi ma anche "l'infrastruttura metodologica" nella cooperazione allo sviluppo: quanto sono ancora attuali le questioni che ponevate in un lavoro come A House Full of Trap Doors[1]?

Saverio Krätli: - Penso che siano più che mai attuali. Trap Doors nacque sull’onda della riflessione sulle "narrazioni" [narratives] intorno a cui sono costruite le politiche di sviluppo e di come i presupposti e le concatenazioni causali mobilitate in queste narrazioni si ritrovino poi non solo nel discorso politico, ma anche in quello tecnico e in quello scientifico. Come ha spiegato Emery Roe[2], queste narrazioni sono semplificazioni credibili intorno a cui assicurare consenso per facilitare decisioni e investimenti. Quindi non possono andare troppo per il sottile, né possono essere scalzate dall’evidenza che la realtà è più complessa, perché le narrazioni sono appunto vie d’uscita dalla gabbia paralizzante della complessità. Ma c’è di più. Per svolgere la loro funzione, le narrazioni devono essere convincenti, devono parlare a qualcosa di pre-esistente, essere riconoscibilmente sensate sebbene non necessariamente vere. Qui, il lavoro di George Lakoff sugli schemi mentali e concettuali, o "cornici cognitive" [frames] che strutturano la comunicazione è illuminante[3]. Per Lakoff, questi frames sono resistenti al cambiamento (come le narrazioni di cui parla Roe), e tuttavia possono essere costruiti e modificati. Più questi schemi cognitivi vengono attivati e confermati dall’uso, più essi vengono rinforzati. Un po’ come la valuta. Ho sentito in un seminario a Chattham House, a Londra, qualche anno fa, che l'ISIS compra le armi in dollari. Se è vero, ogni pallottola che esce dai loro fucili rinforza l’economia americana… Vale anche per i frames.

Bisogna fare attenzione non solo agli obbiettivi, ma anche al linguaggio che si usa nel perseguirli. Il mantra che si sente a volte nel mondo accademico, secondo cui per farsi ascoltare per informare le politiche di sviluppo bisogna usare il linguaggio di quelli che decidono, è incompleto. Prima bisogna "piantare" il linguaggio adatto, cioè gli schemi cognitivi capaci di ricevere l’informazione che si vuole comunicare. Parlare di x con il linguaggio creato per comunicare y, non fa altro che attivare e quindi rinforzare y. Questo vale non solo per il quadro teorico ma anche, e forse soprattutto, per l’infrastruttura metodologica da cui inevitabilmente si dipende per metterlo in pratica.

Ritornando a Trap Doors, siamo partiti dall’idea che sia necessario interrogarsi sulla natura dell’infrastruttura metodologica usata nel contesto di pastorizia e sviluppo. Prima di tutto sull’eredità di definizioni e classificazioni, ma anche sui parametri e sugli indicatori impiegati nell’analisi quantitativa. L’infrastruttura però è anche non-verbale, fatta di pratiche convenzionali come quelle che riguardano il modo in cui sono raccolti i dati statistici, o la scala di osservazione (geografica o temporale), o la procedura di analisi e i criteri di standardizzazione. Tutto il bagaglio degli "abbiamo sempre fatto così" e dei "dato per scontato" [what goes without saying]. Gli esempi non mancano. Pensate alla stagionalità dei censimenti in buona parte dell’Africa subsahariana, dove si deve evitare la stagione delle piogge perché le strade sono impraticabili, e l’effetto di questo pregiudizio metodologico sulla visibilità della mobilità pastorale, che è di solito molto più pronunciata durante le piogge. O il modo di definire il nucleo familiare nei censimenti, che presume di solito sedentarietà e monogamia. O il fatto che la quantità di utensili posseduti, o l’avere una casa con il tetto di latta invece che di paglia siano considerati indicatori standard di benessere economico o di sviluppo.

Oggi aggiungerei alla lista anche le metafore esplicative. Per esempio parlare della sedentarizzazione o dell’abbandono del pastoralismo in termini di "transizione", come se si trattasse di un viaggio o, in effetti, di un processo evolutivo. Oppure parlare della mobilità dei pastori come "coping strategy", implicando reattività invece che proattività, vulnerabilità di fronte a un problema (la natura ostile) invece che specializzazione e competenza nell'approfittare delle particolari opportunità offerte proprio dalla variabilità dell’ambiente naturale[4].

Guadagnare consapevolezza sull’infrastruttura metodologica, e chiedersi da dove viene e in che modo influenza il lavoro nello sviluppo, inclusa la ricerca, è indispensabile sia per poterla migliorare che per analizzare i problemi sul terreno, e soprattutto distinguere quelli inerenti da quelli indotti da presupposti erronei nelle pratiche di intervento.

S.P. e B.R.:- Secondo te come si possono combinare in maniera efficace approccio critico e logica di pianificazione dei progetti di sviluppo? A tuo avviso l'antropologia riesce a offrire un contributo importante nella fase di progettazione della cooperazione allo sviluppo, che oggi tende a seguire procedure standardizzate ("il ciclo del progetto") e a uniformarsi al linguaggio tecnico-burocratico delle istituzioni committenti? Se sì, puoi fare alcuni esempi in cui l'antropologia ha contribuito attivamente a costruire la pianificazione del progetto e non solo a inserirsi nella realizzazione di una delle fasi successive del progetto?

S.K.:- Mi sembra che il problema qui sia la relazione fra la conoscenza scientifica, di cui l’antropologia è parte, e lo sviluppo. Né l’una né l’altro sono realtà omogenee. Il contesto della conoscenza scientifica relativa alla pastorizia mobile è particolarmente controverso anche all’interno degli stessi campi disciplinari che se ne occupano. Le istituzioni committenti sono fatte di persone con idee e valori diversi; molti non sono poi così favorevoli al linguaggio tecnico-burocratico. Gli errori, sebbene numerosi, credo che siano in gran parte non intenzionali. Più il risultato di inconsapevolezza e di fretta.

Uniformarsi al linguaggio tecnico-burocratico è una scelta, non una necessità. Bisogna farsi capire, ma anche assicurarsi di non perdere quel che si ha da dire nello sforzo di farsi capire. Soprattutto, quando il quadro di riferimento adottato dai committenti è inadeguato, si può segnalare. Il committente desidera e suggerisce, ma né quello che suggerisce né la formulazione del desiderio sono necessariamente corretti. Per esempio, il committente può desiderare di migliorare le condizioni di vita delle popolazioni che vivono di pastorizia mobile, e proporre soluzioni per favorire la sedentarizzazione e anche l’abbandono della pastorizia. Un caso frequente. Se l’obbiettivo dichiarato è genuino, e spesso lo è, si può mettere in questione l’adeguatezza delle soluzioni proposte e suggerire delle alternative. Se i bandi di finanziamento sono costruiti intorno ad analisi incomplete o anche sbagliate, lo si può sempre far presente nella proposta. Quelli che scrivono i bandi di finanziamento sono di solito specialisti nella scrittura di bandi. Mi pare perfettamente legittimo, anzi doveroso, che gli specialisti della materia che rispondono ai bandi alzino il livello di analisi. E questo include l’uso del linguaggio. Ripeto, uniformarsi è una scelta più che una necessità. La prima politica sulla pastorizia dell’Unione Africana, nel 2010[5], è un buon esempio di collaborazione positiva fra burocrati e specialisti, antropologi inclusi. Anche se largamente ignorata, è un precedente importante e una spina nel fianco per quelli che vedono la pastorizia e il pastoralismo come un problema.

S.P. e B.R.:- Avendo lavorato sempre con comunità nomadi, comunità che sono globalmente soggette a discriminazioni, innanzitutto istituzionali (Gilbert[6] parla di comunità "perseguitate"), ti sei ritrovato ad affrontare particolari questioni etiche relative a possibili usi "impropri" dei risultati delle tue ricerche sul campo da parte di altri soggetti politici? Se sì, quali?

S.K.:- Nel mio contesto di lavoro è assai difficile identificare una chiara linea di demarcazione fra ricerca e uso, dove si possa anche tracciare un confine etico. La ricerca è possibile grazie a programmi di finanziamento orientato, a loro volta l’espressione di programmi politici e interessi privati. Ancora una volta, un terreno su cui si manifesta l’incontro di queste realtà è il linguaggio. Pensate al modo in cui è cresciuto l’uso di termini come "sostenibilità", "cambiamento climatico", "resilienza" o "risorse naturali" nei programmi di ricerca. O come è diminuito l’uso di termini come "inquinamento", "effetto serra" o "materie prime".

L’uso improprio della ricerca poi, non è soltanto malevolo. Il modo in cui comprensione parziale e fraintendimento dominano questo territorio — o in effetti la comunicazione — non è sufficientemente riconosciuto. La domanda "come è probabile che venga frainteso" riceve molta meno attenzione della domanda "come comunicare questo pensiero con chiarezza". La chiarezza è immaginata come una linea dritta fra comunicante e comunicato, ma che accade quando ci sono ostacoli lungo il cammino, o quando la strada stessa è compromessa e fuorviante? Nel caso dello sviluppo della pastorizia mobile l’eredità di malintesi e presupposti erronei pervade lo spazio della produzione e comunicazione di conoscenza. Non solo la strada è naturalmente in salita, ma anche sconnessa, piena di buche e fossati.

In salita, perché la conoscenza che è rilevante in questo caso va spesso contro le aspettative più comuni e le preferenze istituzionali. E anche quando si sa esattamente dove si vuole andare, bisogna fare molta attenzione a non essere dirottati "dal terreno". Nel 1999, due antropologi inglesi pubblicarono un libro sulla relazioni fra società, stato e ambiente in Mongolia intitolato La fine del nomadismo? Nella prima pagina gli autori si diedero la pena di spiegare che il titolo si riferiva a "nomadismo" come categoria analitica non come pratica, e descrissero chiaramente la pratica della pastorizia mobile come perfettamente attuale e compatibile con l’avanzamento tecnologico e l’economia di mercato. Non so dirvi quante volte ho trovato riferimenti a questo studio — evidentemente da persone che non ebbero il tempo di aprirlo — presentati come prova che "anche gli antropologi trovano che la pastorizia non ha futuro".

Ritornando alla questione del linguaggio e dell'infrastruttura metodologica, quando il contesto non è neutro, le solite regole di neutralità non sono sufficienti per essere effettivamente neutrali. Quando la corrente tira di lato, per andar dritti bisogna andare verso il lato opposto. Se tieni il braccio fuori dal finestrino sull’autostrada, un piccolo movimento della mano può risultare in un grande movimento del braccio a causa della pressione dell’aria. Quando quasi un secolo di interventi hanno promosso la sedentarizzazione come sviluppo (sebbene non solo e non senza dissenso), parlare di "tendenza dei pastori alla sedentarizzazione" o della sedentarizzazione come di una "nuova tendenza" non è neutro. Quando lo sviluppo ha operato per decenni con il presupposto che i pastori si dibattano con una natura ostile, parlare di vulnerabilità della pastorizia rispetto alla siccità o al cambiamento climatico, o della mobilità come adattamento necessario, non è neutro. Così come non è neutro parlare dei benefici potenziali del mercato dopo quarant’anni di istituzionalizzazione dei principi neoliberisti.

Tutto questo mi pare una dimensione importante della questione etica quando si lavora in contesti cognitivi compromessi. Imparare a riconoscere ed evitare buche e fossati. Tener conto che nell’era informatica la audience è sia indefinita che imprevedibile, e che quindi non è sufficiente farsi capire dai colleghi ma si ha anche la responsabilità di limitare il rischio di uso improprio o di fraintendimento in un contesto dinamico e dove gli standard operativi non sono garantiti. E infine, evitare di generare "fuoco amico" [friendly fire]. Per esempio mi riferisco a quando una critica è montata in modo sommario e contingente, senza una conoscenza adeguata del territorio e degli attori in gioco (cioè sparando a raffica nel mucchio). Oppure quando per enfatizzare l’originalità del proprio argomento lo si contrasta con altri simili, dimenticando il quadro generale, rendendo in quel modo un servizio agli argomenti opposti. O come quando si rappresenta il proprio argomento come "giusto mezzo" nel dibattito, implicitamente tingendo di radicalismo l’argomento (spesso assai simile) del vicino. Insomma, dove il contesto generale è controverso, come nel caso di pastorizia e sviluppo, o della ricerca sulle popolazioni nomadi, è necessario tenerne conto per evitare di regalare munizioni a posizioni opposte od ostili nel complesso.

S.P. e B.R.:- A proposito dei rapporti con altre professionalità nella cooperazione, come usi definire la tua identità professionale: antropologo, consulente, esperto, ricercatore? Perché?

S.K.:- Consulente e ricercatore freelance. Quando dico che lavoro con pastori in Africa, vengo spesso identificato come antropologo. Allora devo spiegare che in realtà ho studiato antropologia solo per un master, fra una laurea in filosofia e un dottorato sull’allevamento delle vacche fra i Wodaabe in Niger. Sia per formazione ibrida che per il lavoro che faccio, io mi identifico soprattutto con un approccio transdisciplinare, sebbene più prossimo alle scienze sociali. Questo conta anche per la rivista che dirigo, Nomadic Peoples, che negli anni si è sempre più interessata all’interfaccia fra popolazioni e "sviluppo" (come trait d'union per l’insieme delle relazioni con le realtà nazionali e la globalizzazione), cioè un territorio che è inevitabilmente transdisciplinare. Questo tipo di approccio mi permette di tenere il mio centro di gravità sulla pastorizia, anzi sui pastori. Più che un antropologo che studia i pastori, sono probabilmente un "pastorofilo" che ha la sfrontatezza (o forse l’ingenuità) di inseguire le questioni rilevanti anche all’interno di domini disciplinari poco familiari.

Mentre ne parlo mi viene in mente che forse proprio in termini antropologici il mio punto di osservazione si potrebbe descrivere come "emico", ma in senso piuttosto vago, come di imperniare sulla mia esperienza con i pastori la rilevanza di quello che faccio. Mi pare che, in generale, le questioni dello sviluppo trascendano i confini disciplinari. E se considerate anche su una scala globale, inevitabilmente trascendono anche confini epistemologici e ontologici. Qui l’antropologia è più di casa di altre discipline, e questo può aiutare. Ma credo che sia essenziale ancorare la riflessione nell’esperienza pratica, produrre "senso" che sia ancorato all’esperienza quotidiana, non soltanto alla struttura concettuale della disciplina. Il lavoro per rendere questa rilevanza manifesta fa parte delle responsabilità del ricercatore. Per esempio, nuove correnti dell’antropologia, come "mobility turn", e "ontology turn" toccano questioni di estrema rilevanza per la riflessione critica sullo sviluppo, ma questa rilevanza per il momento mi sembra intrappolata in un linguaggio poco accessibile, e non sufficientemente in dialogo con i numerosi sforzi simili, presenti e passati, in altri contesti disciplinari.

S.P. e B.R.:- Quindi quali sono secondo te le competenze specifiche che l'antropologia può offrire al mondo della cooperazione internazionale? Cosa potrebbe rafforzare la formazione universitaria offrendo la possibilità di acquisire competenze utili in contesti di cooperazione?

S.K.:- Il mondo della cooperazione internazionale va dall’attivismo nella società civile al lavoro negli organi dello stato e nelle istituzioni come le Nazioni Unite o la Banca Mondiale. Quel che costituisce "competenze utili" cambia di conseguenza. In tutti i contesti però, la cooperazione internazionale fa fronte a quel che viene normalmente inteso come un problema di "traduzione" o trasferimento (di conoscenze, tecnologie, obbiettivi economico-politici), ma che in realtà è l’incontro, sebbene spesso inconsapevole, con i limiti della propria realtà: dove il "dato per scontato" [what goes without saying] diventa immediatamente percepibile nella sorpresa o nella contraddizione. Un territorio che l’antropologia ha esplorato a lungo e su cui ha parecchio da dire. Per un programma totale come lo "sviluppo", si tratta di una lezione fondamentale che non può più essere rimandata.

In termini strettamente pragmatici, credo che gli antropologi possano lavorare al meglio nella cooperazione da una posizione critica e analitica, apportando competenze che rafforzino la capacità di analisi (per esempio del discorso politico), la propensione alla transdisciplinarità, e naturalmente la capacità di vedere i limiti della propria realtà e di comunicare con chi ne sta al di fuori.



[1] Krätli S., Kaufmann B., Roba H., Hiernaux P., Li W., Easdale M. and Hülsebusch C. 2015. A House Full of Trap Doors: Identifying Barriers to Resilient Drylands inthe Toolbox of Pastoral Development. IIED discussion paper, International Institute for Environment and Development. London and Edinburgh. http://pubs.iied.org/10112IIED

[2] Roe E. 1991. Development Narratives, Or Making the Best of Blueprint Development. World Development, 19 (4): 287-300.

[3] Lakoff G. and Johnson M. 1980. Metaphors We Live By. Chicago, London. The University of Chicago Press. Lakoff G. 2014. The All New Don't Think of an Elephant! Know your values and frame the debate. White River Junction, Vermont. Chelsea Green Publishing.

[4] Ho avuto l’opportunità di discutere di alcuni di questi punti in un recente seminario all’Agropolis di Montpellier: Le pastoralisme sahélien à l’agenda politique : opportunité ou risque pour la recherche et le développement dans les milieux arides?, Agropolis International, 29 Octobre 2019, Montpellier (France).

[5] African Union 2010. Policy Framework for Pastoralism in Africa: Securing, Protecting and Improving the Lives, Livelihoods and Rights of Pastoralist Communities, Department of Rural Economy and Agriculture, African Union, Addis Ababa, Ethiopia.

[6] Gilbert J, 2014. Nomadic Peoples and Human Rights. Oxon and New York. Routledge.