Dall’emergenza abitativa alla precarietà stanziale

Pratiche (e significati) di convivenza tra italiani e migranti in un’occupazione abitativa romana

Chiara Cacciotti

Università di Roma “La Sapienza”

Indice

Cronicizzare l’emergenza
Spazializzare la cultura. Santa Croce
Nessuno si salva da solo. Spin Time Labs
Dall’emergenza alla precarietà stanziale
Bibliografia

Abstract.  The paper begins by analyzing the relationship between the concept of Otherness and low-income housing policies in Rome. It argues that the common trait between the two issues lies in their constantly maintaining a state of emergency: this has led to a paradoxical situation I define as a “stable precariousness”. From the moment Rome’s public housing was born, it was immediately related to the issue of migration. In turn, this has gradually created a cultural configuration of housing as a “social award”; for all those economically and socially disadvantaged categories, housing policies have always been designed in the name of temporariness and with little access to basic urban services. Nonetheless, Rome also has a long counter-history of squatting for housing, which today guarantees a housing solution (however precarious) to all those who are in housing emergency. These movements are now characterized by the coexistence of migrants and Italians: also, for this reason, their coexistence inside the squats is reshaping the historical purposes of the roman struggle over housing, as it tries to transform the individual right to a shelter into a more collective right for everyone to inhabit the city. This paper will focus on these aspects through a case study: a squat called Santa Croce/Spin Time Labs, where squatters are pursuing a “moral economy” (Fassin 2009) based on a shared system of values. This allows us to perceive housing not as an ultimate prize but as a right that must be earned through struggle and internal collaboration.

Keywords. Squatting; Precariousness; Cohabitation; Housing Policies; Moral Economy.

Quando si parla di emergenza abitativa in Italia, Roma viene definita spesso un caso emblematico – se non il caso emblematico. Pur non essendo affatto un fenomeno esclusivo della capitale, già soltanto all’interno del suo spazio urbano è possibile contare e mappare quasi un centinaio di palazzi occupati di varia natura e con gli scopi più diversi (Davoli 2017). Una prima linea di demarcazione “etica” tra le varie attuali forme di occupazione romane, anche se frutto di una eccessiva semplificazione che non tiene conto dell’eterogeneità delle esperienze presenti, vede da una parte gli appartamenti di proprietà pubblica e, dall’altra, gli edifici (pubblici o privati) non originariamente concepiti con finalità abitative, in particolare ex scuole o uffici ormai abbandonati da anni. Dal punto di vista invece di chi occupa, se nel primo caso parliamo per lo più di iniziative individuali – singole famiglie o individui che occupano appartamenti di edilizia residenziale pubblica vuoti, spesso affidandosi alla criminalità organizzata –, nel secondo caso si tratta invece di movimenti di lotta per la casa legati alla sinistra extraparlamentare. Nelle occupazioni dei movimenti sembra essere quindi sempre presente una rivendicazione politica dietro all’atto stesso di occupare, contrariamente ai casi di occupazione giustificati da un esclusivo stato di necessità (Vereni 2016). Il fenomeno, inoltre, è divenuto ormai da alcuni anni anche uno dei topoi per eccellenza quando si parla di spazi multiculturali a Roma, vista la massiccia presenza di migranti al loro interno.

Il presente articolo si basa dunque su una ricerca etnografica svolta all’interno di un’occupazione abitativa e centro socioculturale romano, Santa Croce/Spin Time Labs. Nonostante le mie iniziali intenzioni di condurre un’osservazione partecipante senza trasferirmi all’interno dello stabile (al fine di non sottrarre spazi a chi potesse averne bisogno), una volta entrata nel campo alcuni occupanti mi fecero capire che ci sarebbero stati abitanti più disponibili a rilasciare interviste e altri con cui sarebbe stato del tutto inutile provare, dal momento che «non tutti capiscono il valore che quello che fai ha per noi». Detto altrimenti, capii quasi subito di essere di fronte a una peculiare forma di organizzazione morale e politica dello spazio e di essere stata accolta anche perché la mia futura tesi di dottorato avrebbe potuto costituire secondo molti un mezzo di difesa per l’occupazione – e, di conseguenza, di lotta. Pur non avendo alle spalle alcun riconoscibile trascorso di militanza, in quanto potenziale risorsa in questo senso mi proposero di trasferirmi nel palazzo al fine di osservare più da vicino le pratiche e i significati di convivenza che intendevo osservare e analizzare. Accettai l’invito, cercando di ripagare l’ospitalità durante quei mesi[1] rendendomi utile e supportandoli in alcune attività quotidiane del palazzo, entrando al tempo stesso più in confidenza con l’ambiente circostante e con la loro organizzazione interna. Strumenti etnografici come la serendipità (Merton, Barber 2004; Fabietti 2012) e l’impregnazione (Olivier de Sardan 1995) hanno infatti fatto sì che mi rendessi conto, fin dal principio, che non sarebbe stato possibile impregnarmi davvero se avessi osservato e basta, sapendo già che cosa aspettarmi e che cosa “cercare” nel campo: all’interno del sistema di valori locale, la partecipazione svolgeva un ruolo fondamentale per accedere alla struttura simbolica dietro al loro vivere associato. Occasioni come assemblee, riunioni, consigli e chiacchierate estemporanee in attesa dell’ascensore o nei corridoi si sono rivelate fonti inesauribili di aneddoti, lezioni sul senso dello stare lì e spunti per poter approfondire alcuni temi più specifici. Pur senza abbandonare la pratica delle interviste aperte o semi-strutturate, ho capito che la dimensione del momento e dello spazio predeterminato per farle non fosse la modalità più congeniale per tutti. Ho cercato dunque di afferrare la significatività della loro esperienza abitativa “cogliendo l’attimo”, rientrando in quella definizione di antropologo che Michael Herzfeld una volta ha scherzosamente definito «opportunista benintenzionato». Nonostante le mie iniziali preoccupazioni dovute al rischio di imbattermi in un going native non previsto né intenzionale, ho cercato di mantenere un posizionamento che fosse partecipativo e al tempo stesso critico, nel tentativo costante di restare in uno “space of betweenness” (Katz 1992) che mi impedisse di “diventare un nativo” ma che, al tempo stesso, mi permettesse di avere un ruolo attivo funzionale anche a tornare poi riflessivamente sul processo di apprendimento sul campo stimolato da quella partecipazione. A partire da ciò, ho adottato una politica del campo che mi consentisse da una parte di partecipare e contribuire alle attività interne, ma al tempo stesso di rimanere in una posizione liminare rispetto ai miei interlocutori e all’esterno – rappresentato, in questo caso, principalmente dall’università.

Nelle pagine seguenti cercherò dapprima di fornire un breve quadro storico circa la cronicizzazione nella capitale di ciò che viene definita come ‘emergenza abitativa’, derivante da un più ampio e culturalmente consolidato immaginario che vede la casa esclusivamente come uno spazio privato slegato dal resto dell’esperienza sociale – assieme alle conseguenze che questo immaginario ha provocato tra i ceti più indigenti, in primis i migranti. Nel secondo paragrafo entrerò nel vivo del caso di studio, l’occupazione abitativa romana Santa Croce. Nello specifico, farò riferimento alla sua organizzazione interna, alle sue pratiche di convivenza e a come queste ultime stiano contribuendo alla formazione di una cultura dell’occupazione che vada oltre la mera giustapposizione di culture preesistenti. Nel terzo paragrafo passerò invece alla parte socioculturale del palazzo, meglio nota come Spin Time Labs (o Spin Time). La recente vicenda di cronaca che li ha direttamente coinvolti – il riallaccio della corrente elettrica nell’edificio da parte dell’elemosiniere del pontefice – sarà funzionale a introdurre il tema dell’apertura al territorio e della diffusione del modello di convivenza di Santa Croce come nuova strategia politica all’interno della lotta per la casa. Infine, nel paragrafo conclusivo, tenterò di spiegare perché a mio avviso l’esperienza rappresentata dal caso di studio sia definibile nei termini di una “precarietà stanziale” e come, a partire da ciò, stia contribuendo tanto al ripensamento della questione abitativa romana quanto a un allargamento di ciò che culturalmente si intende quando si parla di abitare. Come scrive Florence Bouillon, a differenza di soluzioni “infantilizzanti” e spesso degradanti come i centri d’accoglienza, le occupazioni abitative dei movimenti danno ai suoi abitanti una sensazione di “padronanza dello spazio” e di appropriazione morale di esso che gli consente oltretutto di metterlo in comune e condividerlo con altri (2011); inoltre, denunciando la scarsità di politiche abitative e l’azione della speculazione privata sugli edifici abbandonati, possono divenire luoghi di vita collettiva favorevoli a creazioni “sperimentali” tanto artistiche quanto sociali e politiche. Al di là del riconoscimento meramente nominale di simili esperienze, forse ciò che chi disegna e amministra la città potrebbe apprendere dalle occupazioni abitative corrisponde alla loro dimensione più immediata: l’individuare negli spazi urbani contrastivi delle occasioni per porsi una serie di domande sull’ordinario, ponendo così i primi in una relazione non sussidiaria, ma dialettica rispetto alle politiche di governance. Di conseguenza, il contributo di una ricerca antropologica potrebbe essere quello di agevolare questo processo di consapevolezza, sperimentando strumenti e dispositivi capaci di “adattare” la sensibilità etnografica a potenziali campi di intervento, conducendo osservazioni partecipanti che non si limitino a “osservare”, ma intraprendano quella direzione da alcuni definita come polymorphous engagement (Gusterson 1997; Markowitz 2001) e che, come in questo caso, potrebbero essere finalizzate a restituire quella che è la complessità della compagine sociale in emergenza abitativa, che richiederebbe una maggiore presa in carico degli individui nonché un ampliamento e diversificazione delle soluzioni possibili.

Cronicizzare l’emergenza

In gran parte dell’Europa Meridionale, in epoca moderna, le risposte alla domanda e al fabbisogno abitativo sono state per lo più costruite non tanto a partire dalla composizione sociale del paese di riferimento, quanto attorno al modo in cui viene culturalmente concepita la relazione tra unità abitativa e unità familiare e, di conseguenza, al primato dell’accesso alla proprietà immobiliare (Allen et al. 2004: 6). Parlare di convivenza ha significato quindi per molto tempo parlare di politiche abitative modellate su questa unità sociale di riferimento, con il risultato che la principale forma di coabitazione di cui è stato tenuto conto per la loro costruzione e implementazione è stata per molto tempo quella associata al matrimonio e alla composizione di un nucleo monogamico, così come alla possibilità di accedere alla proprietà da parte di quest’ultimo. Detto altrimenti, paesi come l’Italia, la Spagna e il Portogallo sono anche paesi in cui si è tendenzialmente risposto al fabbisogno abitativo non tanto rafforzando il settore degli affitti sociali, quanto piuttosto prediligendo strumenti come cash benefits al maschio adulto che formalmente lavora (l’elemento considerato ‘produttivo’ del nucleo familiare) senza favorire un’accessibilità allargata alla casa, che continua a essere legata alla particolare struttura della famiglia in questi paesi – e che spesso e volentieri ha un ruolo del tutto sussidiario rispetto al welfare state. In Italia, in particolare, come conseguenza di tutto ciò anche l’edilizia sociale non ha avuto come principali destinatari i più poveri o i più bisognosi di case quanto piuttosto i lavoratori inseriti in un nucleo monogamico, vale a dire coloro dai quali ci si poteva aspettare, nel medio-lungo termine, una qualche forma di stabilità economica (Vereni 2015) e, di conseguenza, di fuoriuscita dal circuito delle politiche sociali. Per i più indigenti si è invece fatta largo la strada delle strutture cosiddette “straordinarie”: dormitori, centri d’accoglienza, istituti, campi e così via, che spesso ha comportato anche l’annosa pratica della separazione dei nuclei familiari.

L’attuale estensione del disagio abitativo è quindi considerata da molti studiosi come la conseguenza di questo atteggiamento, che ha aperto la strada all’avvento di politiche neoliberali in particolare a seguito della crisi del welfare state (Tosi 2009) all’interno di un processo che male ha saputo interpretare le trasformazioni della domanda abitativa a seguito dei nuovi processi di impoverimento, di atomizzazione della famiglia e di crescita della vulnerabilità sociale per vaste componenti della società, a partire da settori precedentemente garantiti e negli ultimi decenni più in difficoltà come la piccola borghesia. Questa accresciuta complessità nella domanda sociale di casa ha quindi visto da una parte nuovi richiedenti, come i cosiddetti ceti medi impoveriti (Tosi 2009: 38), e dall’altra le vecchie figure della marginalità abitativa, alle quali difficilmente spettano soluzioni alloggiative prive del carattere della temporaneità – a conferma del primato dell’edilizia (il tetto) rispetto al sociale (i servizi). Secondo Antonio Tosi, infatti, molti housing regimes, tra cui il nostro, indipendentemente dalle politiche di welfare adottate da un certo momento in poi sono stati caratterizzati da «grossi limiti di socialità» (Tosi 2009: 38-39). Questi elementi e questi limiti sarebbero dovuti a una consolidata tradizione nel rappresentare la cosiddetta emergenza abitativa nei termini di un indifferenziato ed “esteso” corpo sociale, che il più delle volte si è tradotta nella dotazione di un tetto senza intervenire congiuntamente ad altri soggetti nella complessità dell’esperienza di vita di chi versa in una situazione di emergenza o disagio alloggiativo, rendendo così quello stesso tetto una soluzione del tutto momentanea. Lungi dal garantire un diritto a tutti, un tale approccio avrebbe dunque cronicizzato quella stessa condizione emergenziale per tutta una fetta di popolazione urbana, producendo preferenze ed esclusioni sistematiche che si sarebbero poi formalizzate in politiche destinate perlopiù agli strati sociali intermedi e, in particolare, ai lavoratori come destinatari privilegiati dell’edilizia sociale.

Questo modello ha poi assunto nella sua applicazione come piano discorsivo e prassi politica alla storia recente della questione abitativa a Roma delle sfumature morali e sociali particolarmente interessanti, dal momento che ha posto le basi per quella che successivamente è divenuta la “contro-storia” dei movimenti romani per il diritto alla casa (Vereni 2015). Parlare di soluzioni abitative cronicamente temporanee e del conseguente mancato riconoscimento di una stanzialità per i più indigenti, in una città come Roma, significa infatti parlare di quegli interventi sul fronte istituzionale rivolti alle fasce più “altre” della popolazione romana: ieri i cosiddetti baraccati, originari soprattutto dal Meridione d’Italia, oggi principalmente italiani e migranti in difficoltà economica e precarietà abitativa. Due alterità abitative certamente tutt’altro che omogenee in termini di caratteristiche e bisogni, verso le quali comunque sono sempre state applicate soluzioni alloggiative di carattere emergenziale e con uno scarso riconoscimento della loro legittima volontà di costruzione di una sfera privata domestica – costruzione che viene socialmente “accettata” per lo più se si realizza attraverso l’intermediazione del mercato. A questo proposito, secondo lo storico Luciano Villani, già nelle prime borgate costruite dal fascismo l’emergenzialità – anche rispetto alla scarsa qualità edilizia – era destinata principalmente a “immigrati e sbaraccati” (Villani 2012: 14). Dopo il cosiddetto sventramento del centro storico a opera del regime, contrariamente a quel “mito di fondazione” secondo il quale tutti gli sfrattati andarono a vivere nelle cosiddette borgate ufficiali, in realtà la maggior parte di loro trovò una nuova sistemazione nel mercato privato, oppure nelle più centrali e pregevoli “case economiche”, destinate al ceto medio, e nelle “case popolari” normali, assegnate a famiglie operaie dal reddito sicuro. Tutte queste famiglie, scrive sempre Villani, andarono a incrementare la popolazione nei quartieri periferici, mentre le borgate “peggiori” (quelle governatoriali) rimasero per lo più abitate da immigrati e disoccupati, in larga misura provenienti da baraccamenti spontanei o dai ricoveri collettivi allestiti tra gli anni Venti e Trenta (Villani 2012: 17). Pur con le dovute differenze, lo stesso Comune di Roma sembrerebbe proseguire oggi lungo una direttrice emergenziale, prediligendo per di più strumenti come il contributo all’affitto o il bonus casa (che difficilmente viene rinnovato oltre i quattro anni) o i costosi (e precari) residence e centri d’accoglienza, minimizzando in questo modo le aspirazioni di sedentarietà che pure molti dei diretti interessati possono avere.

Questo processo ha però dovuto fare i conti con due fenomeni, che da un certo momento storico in poi si sono sovrapposti. Da una parte ha fatto sì che l’emergenza abitativa, sempre più relegata a problema amministrativo e di “decoro”, venisse politicamente adottata negli anni Sessanta dalla sinistra parlamentare prima e da quella extraparlamentare poi, contribuendo alla creazione di una contro-storia del diritto alla casa e del sistema delle occupazioni a scopo abitativo finalizzata a renderla una lotta para-rivoluzionaria (Mudu 2014); dall’altra, che i soggetti in questione (divenuti negli anni Novanta i movimenti di lotta per la casa) si autoproclamassero portavoce dell’alterità abitativa e sociale rimasta esclusa da questo regime di premialità e sopperissero alla loro mancata stanzialità attraverso le occupazioni, all’atto pratico, e la presa in carico della loro presenza politica, sul versante discorsivo. Il (relativamente) recente arrivo dei migranti non rappresenta dunque una novità in senso lato, ma ha comunque segnato una nuova fase per gli stessi movimenti, che hanno visto gradualmente aumentare la presenza dei non autoctoni all’interno delle occupazioni, iniziando così ad affrontare la questione anche dal punto di vista politico. Il risultato odierno è una compagine sociale varia, complessa, diversificata e numerosa. Compagine che nelle attuali graduatorie dell’edilizia pubblica romana – anche a causa delle vecchie e ampie metrature degli appartamenti – continua a non figurare, dando precedenza per quei pochi posti a disposizione ai nuclei familiari numerosi e trascurando così soprattutto single, divorziati, giovani coppie e anziani. Non è un caso se all’interno delle occupazioni abitative romane, oltre alle famiglie migranti, spiccano queste categorie.

Spazializzare la cultura. Santa Croce

Con l’arrivo dei migranti internazionali all’interno delle occupazioni romane, in particolare a partire dagli anni Novanta, la pratica di occupare è entrata in una nuova fase – pur tuttavia collocabile all’interno di una consolidata processualità abitativa locale, inquieta e ambigua, che affonda le sue radici nella “storia nascosta” dell’autocostruito (Portelli 2017: 160) e delle borgate, dunque in quella dialettica tra formale e informale che da sempre caratterizza la storia dell’urbanistica romana. Un fenomeno che quindi, lungi dall’essere nato con l’arrivo dei migranti, era dotato di una profondità storica e di una relativa progettualità già a partire dal secondo dopoguerra[2]. In quest’ultimo trentennio sono però nate e si sono consolidate le principali sigle romane: il Coordinamento cittadino di lotta per la casa, nato nel 1988; Action, attiva dal 2002 ma nata già nel 1999 sotto il nome di Diritto alla Casa; Blocchi Precari Metropolitani, attivi dal 2007.

Rispetto alle esperienze del dopoguerra e degli anni Settanta, a Roma oggi sono riscontrabili almeno tre novità. La prima sta nel cambiamento spaziale avvenuto nella scelta del locus occupandi, che ora corrisponde a spazi pubblici o privati dismessi non originariamente concepiti con finalità abitative e non necessariamente localizzati nelle cosiddette borgate o nelle periferie, a differenza delle fasi precedenti in cui si occupavano per lo più appartamenti pubblici non ancora assegnati. La seconda è nella demografia interna di questi contesti, all’interno dei quali come abbiamo visto è presente un significativo numero di migranti e in generale individui e famiglie appartenenti alla cosiddetta classe media o ceti medi impoveriti, tanto italiani quanto stranieri, dunque non necessariamente disoccupati o in condizioni di povertà assoluta, ma semplicemente in difficoltà nel pagare un affitto nella capitale. La terza coincide con la formalizzazione di un processo di autorganizzazione finalizzato a gestire la coabitazione interna e al tempo stesso a organizzare le battaglie politiche esterne, anche se all’insegna di modalità differenti a seconda dei movimenti di lotta.

Il palazzo che ospita il caso di studio si trova a Roma in via Santa Croce in Gerusalemme, nel I municipio e nel centralissimo quartiere Esquilino. Su questo specifico aspetto sembra essere presente una linea di continuità rispetto ad altri contesti internazionali come Marsiglia, Parigi e Madrid, dove a partire dai primi anni del Duemila molte di queste esperienze si sono concentrate nel centro della città, in quanto luogo di maggiori opportunità e risorse (Aguilera, Bouillon 2013: 139). Al fine di rendere più agevole per gli occupanti il godimento dei servizi che offre il quartiere, Santa Croce/Spin Time Labs fa parte della RES (Rete Esquilino Sociale) assieme ad altre realtà attive sul territorio, in primis l’Associazione Genitori Di Donato – una scuola materna e primaria particolarmente nota per il suo approccio positivo verso l’intercultura, dove la stragrande maggioranza dei minori dell’occupazione è iscritta. Fino al 2010 i suoi sette piani hanno ospitato gli uffici INPDAP; a seguito di quell’anno, l’ente si è trasferito in un altro quartiere della città e il palazzo è rimasto letteralmente abbandonato. Successivamente ha subìto un processo di cartolarizzazione ed è stato acquisito da un fondo chiuso di investimenti immobiliari dal nome Investire SGR, che gestisce il FIP (Fondo Immobili Pubblici), appartiene al Gruppo Banca Finnat Euramerica S.p.A. e “possiede” nel suo portfolio di potenziali investimenti diverse attuali occupazioni abitative romane. Anche a seguito dell’operazione finanziaria in questione, tuttavia, lo stato di abbandono non è venuto meno.

Il 12 ottobre 2013, il palazzo è stato occupato dal movimento Action. Nel corso degli anni gli occupanti hanno effettuato dei lavori e adattato quelli che erano vecchi uffici in piccole stanze, con almeno due cucine e due bagni in condivisione su ogni piano. Oggi i nuclei familiari ammontano a circa 143 e il numero delle nazionalità presenti è arrivato a 25 (i nigeriani rimangono la collettività numericamente più consistente), configurandosi come una comunità piuttosto stanziale. Dal primo al settimo piano si può parlare di Santa Croce, ovvero della parte abitativa; i piani 0, -1 e -2 corrispondono invece a Spin Time, centro culturale e sociale.

L’edificio è piuttosto noto nel quartiere e viene spesso citato come esempio virtuoso di occupazione “aperta” alla cittadinanza, assieme ad altre come Metropoliz-MAAM (Boni, De Finis 2016) e Porto Fluviale. A partire da ciò, ho deciso di selezionarlo come caso di studio poiché ho ipotizzato che al suo interno gli occupanti volessero cercare di andare oltre una certa idea di occupazione esclusivamente come risposta a una deprivazione materiale e tentare di offrire anche una rete di servizi sociali e culturali per la città che allargassero la stessa definizione di che cosa si intende per abitare. Molte di queste occupazioni “aperte”, infatti, cercano di sopperire a due delle mancanze precedentemente analizzate: da una parte sfidano i «grossi limiti di socialità» delle politiche abitative a cui faceva riferimento Tosi, dal momento che non si limitano a dare un tetto ma cercano di tessere una serie di relazioni con realtà esterne che possano fornire agli occupanti alcuni beni essenziali (come pacchi alimentari, sportelli legali o attività socio-culturali) e al resto della città un luogo di ritrovo e una rete di servizi su cui poter far riferimento; dall’altra, grazie soprattutto alla messa in condivisione di spazi comuni a beneficio di famiglie migranti, single italiani, famiglie autoctone o studenti stranieri, arricchiscono e risignificano attraverso le pratiche quotidiane di questi ultimi la stessa idea di convivenza, sottraendola al primato della famiglia come unità sociale di base.

Le parole che una occupante pronuncerà molti mesi dopo il mio ingresso, a questo proposito, credo siano abbastanza esemplificative di quanto i miei “dubbi” interpretativi sul senso del luogo fossero fondati e rispecchiassero diverse interpretazioni emiche di quell’esperienza:

Hai presente il logo di Action? Che c’è scritto sotto? «Diritti in movimento».

Non è solo la casa. Noi ci siamo rivolti allo sportello perché ci mancavano tanti altri diritti: la salute, il lavoro… anche la cultura, anche il teatro che si fa qui, cioè, a noi non manca solo la casa. Noi qui non ci siamo presi solo la casa, ci siamo ripresi i diritti negati[3].

Rendere in poche righe la complessità dell’organizzazione interna è un’impresa ardua, ma volendo tentare una schematizzazione emergerebbe il seguente quadro: in prima battuta il comitato[4], ovvero il gruppo di occupanti che si occupa della gestione ordinaria dell’edificio e della risoluzione delle controversie interne; ogni mercoledì si riunisce invece il consiglio, definito “il parlamentino di Action”, ovvero l’appuntamento settimanale in cui tutti i comitati delle occupazioni del movimento si riuniscono per fare il punto politico della lotta per la casa e discutere delle questioni più delicate interne alle singole occupazioni; infine l’assemblea, composta da tutti gli occupanti del palazzo che si riunisce sempre settimanalmente per discutere di problematiche interne e opportunità esterne. A “complicare il quadro” ulteriormente ci sono anche l’assemblea di Spin Time, composta sia da occupanti che da volontari e collaboratori esterni, che si riunisce ogni lunedì per la programmazione delle attività del centro socioculturale e lo sportello di tutela sociale, che ogni mercoledì apre al pubblico e offre a esterni e interni supporto e consulenza su controversie e problematiche abitative. Tra tutti questi strumenti, è sicuramente l’assemblea – definita “sovrana” nello statuto di Action – ad avere un ruolo chiave. Così come accade anche in altri contesti internazionali, l’assemblea rappresenta uno spazio di deliberazione collettiva e al tempo stesso di conflitto che non solo guida la vita quotidiana, ma si occupa di definire le modalità di attuazione delle decisioni prese (Aguilera, Bouillon 2013: 135-136).

Nonostante i cancelli siano aperti ventiquattr’ore su ventiquattro, con una turnazione che vede tutti gli occupanti alternarsi ogni tre ore per il cosiddetto picchetto, entrare “definitivamente” nello stabile e divenire un occupante a tutti gli effetti non è così semplice. Laddove un tempo era l’atto stesso di occupare uno spazio vuoto e “rompere i sigilli” a qualificarti e legittimarti come tale, dal 2014 con il cosiddetto decreto Lupi[5] si è interrotta la consolidata pratica di occupare nuovi spazi a Roma da parte dei movimenti, vista l’impossibilità di ottenere la residenza e tutti i diritti annessi. In altre parole, lo spazio a disposizione per nuove persone dentro le occupazioni è divenuto a disponibilità limitata e l’atto di occupare non è più identificabile esclusivamente come un singolo e “simbolico” atto iniziale, condotto da gruppi di individui in attesa di una casa popolare, ma diviene un processo continuo a medio-lungo termine attuato da diversi nuclei che segmentano lo spazio per farne una sequenza interconnessa di unità abitative riconoscibili e distinte, anche al fine di rifunzionalizzare e ridare vita a uno spazio dismesso.

Questo ha comportato, tra le altre cose, la sperimentazione di nuove modalità di gestione della convivenza interna per quella che è divenuta ormai una comunità precaria e stanziale allo stesso tempo: in mancanza di soluzioni alternative sul fronte istituzionale, infatti, per accedere o continuare a “meritarsi” quel bene sempre più scarso non basta più essere “semplicemente” in emergenza abitativa. Per vivere in un’occupazione diventa quindi necessario condividere una serie di principi e valori di base che riflettono non solo la necessità individuale di ottenere un giorno l’agognata casa popolare, ma anche la consapevolezza della necessità di dover “lottare”, con la propria presenza e con la partecipazione a manifestazioni, cortei e iniziative, per la costruzione di una comunità aperta, accogliente e solidale. Come ha avuto modo di osservare anche Laura Mugnani (2017: 189) all’interno di un’occupazione appartenente a un altro movimento romano, il percorso per entrare prevede delle “tappe di inserimento” finalizzate a “mettere alla prova” i potenziali nuovi occupanti, al fine di valutare il loro grado di partecipazione alle attività legate alla lotta per la casa e stabilire infine se siano “poco motivati” o meno rispetto all’idea di partecipazione promossa dal movimento, dunque se siano disposti a lottare per un diritto collettivo e non soltanto per il soddisfacimento di un bisogno individuale. La casa, in questo modo, si configura come inserita in un sistema di economia morale, secondo l’interpretazione di Didier Fassin che la definisce come la «produzione, distribuzione, circolazione e uso dei sentimenti morali, delle emozioni, dei valori, delle norme e dei doveri nello spazio sociale» (Fassin 2009: 12). Si produce così un sistema di valori locale basato su principi in parte diversi rispetto ai comportamenti di tipo individualista tipici dei meccanismi competitivi e di mercato anche se, al tempo stesso, ne vengono mutuati alcuni aspetti come l’idea di doversi “meritare” uno spazio – questo anche perché, come ricorda lo stesso Fassin (2015), l’economia morale riguarda anche le istituzioni, politiche o economiche che siano, e non vi è mai un’opposizione netta tra economie morali o tra il “mercato” e “l’economia morale”. Ciononostante, il sistema di premialità al suo interno è basato non sul potere d’acquisto (dunque sulla possibilità o meno di poter pagare un affitto), quanto sul grado di partecipazione alla lotta per la casa e alla vita in occupazione, che diviene così una sorta di moneta-merce. Internamente, questi valori prendono anche la forma di regole di condotta vere e proprie che prevedono, ad esempio, il rispetto della diversità culturale, il rifiuto della violenza e di qualsiasi comportamento criminoso all’interno degli stabili (pena l’allontanamento o l’espulsione), l’importanza e la necessità di provvedere a turnazioni per le pulizie degli spazi e la partecipazione a iniziative politiche su temi di interesse comune. Una declinazione locale di economia morale che racchiude connessioni tra mondi morali diversi – in particolare con la “premialità” caratteristica anche delle politiche abitative, come abbiamo visto – ma dialoganti, all’interno di un’arena sociale complessa in cui interagiscono, si ispirano, si oppongono. Tale complessità, tuttavia, non sempre viene interpretata in questi termini all’esterno, al punto tale che diverse testate giornalistiche cittadine e nazionali spesso la descrivono nei termini di una organizzazione criminale. Una rappresentazione dalla quale gli stessi occupanti si difendono principalmente nel seguente modo:

Bisogna spiegarlo, devi spiegare la forma delle regole che ti dai qui dentro per convivere insieme. Perché sennò tante persone insieme se non c’è nessuna regola va a fini’ che non è un’occupazione gestita, ma un posto dove vince il più forte, di solito. Qui non vince il sopruso, vince il fatto che se non fai le cose che fanno tutti, ci fai il piacere di allontanarti per una settimana. Cioè, in tutti i condomini ti fanno lo sfratto per morosità se non paghi, mo’ noi non potemo di’ a uno così? È anche poco difficile la difesa de ‘sta roba: in questi posti si vive bene quando sono gestiti e regolamentati, non quando so’ lasciati all’arbitrio di chiunque[6].

Contrariamente alle finalità di un’organizzazione criminale, che il più delle volte persegue la massimizzazione di profitti individuali attraverso l’uso della violenza, nelle occupazioni il ricorso a regole e divieti viene sancito collettivamente attraverso strumenti come l’assemblea ed è finalizzato a una gestione il più possibile equa e pacifica dello spazio occupato, al fine di scongiurare eventuali soprusi o prevaricazioni – nonostante possano comunque verificarsi conflitti e contraddizioni in questo senso. Questa consapevolezza viene raggiunta anche e soprattutto a partire dalle stesse pratiche quotidiane di convivenza “forzata”, che portano gli occupanti a condividere una serie di spazi e doveri e, al tempo stesso, a ribadire discorsivamente agli esterni quanto quella condivisione vada vista e interiorizzata come un valore aggiunto. Secondo un abitante senegalese, tutto questo comporta molte difficoltà così come diversi vantaggi:

Non è facile vivere qui. Io sto a casa mia, poi devo scendere a fare il picchetto, uscire alle manifestazioni… io lo posso fare tranquillamente, però sempre perché cerco di fare qualcosa per il movimento, perché non puoi essere uno pigro che dici «sto a casa mia e non faccio niente»[7] … no. Sto cercando di fare qualcosa, ma ha senso se lo fanno tutti. Però devi capire che non è sempre facile, perché alcune comunità non conoscono questa cosa degli scambi, il fatto di andare a casa loro, alcuni non conoscono questo tipo di vita… però poi lo imparano stando qui. Perché non per tutti era facile uscire dalla propria stanza e andare nella stanza di un altro a prendere un caffè.

E ti dico un’altra cosa: l’esperienza che vivi qui, quando stai fuori, ti manca sempre. Perché qua, per esempio, se ti manca qualcosa ed è chiuso il supermercato, vai a casa di qualcuno, bussi e chiedi «hai lo zucchero?». Tutto questo fa parte del lato positivo e umano che trovi qui, che è molto importante. Perché se tu vieni a bussarmi a certe ore e mi chiedi qualcosa, domani posso fare la stessa cosa con te, nel senso che c’è uno scambio, di tutto. È una cosa di abitudine, perché non è facile che qualcuno va nell’appartamento di un altro e chiede lo zucchero. E qui vedi la gente che lo fa, però senza nessun problema. Perché tutto parte nel momento in cui siamo sempre insieme. Perché qua, purtroppo, tutto è in prima cosa uno spazio comune. Ti spiego: dovunque la gente scende, qualunque cosa che fa esce dalla stanza… è da lì che inizia questo rapporto, questa comunione inizia nel momento in cui siamo all’assemblea, per esempio, o siamo vicini di casa e ci ritroviamo al bagno, perché alla fine tra di noi non ci vergogniamo più. Perché vedi, una persona che ha un problema lo porta all’assemblea… e da lì mano mano c’è questa comunione, questo rapporto che ti fa arrivare anche ad andare a chiedere a qualcuno lo zucchero senza vergognarsi. Ci sono dei passaggi che bisogna superare per arrivare a quel punto, non è facile. Però piano piano, con il tempo, vivendo qui, con l’esperienza, hai la possibilità di farlo[8].

Emerge così un’interpretazione locale di quella convivenza come una pedagogia dello (e allo) spazio, nella misura in cui porta gli occupanti ad adottare gradualmente nuove pratiche di condivisione di spazi, beni materiali e doveri a prescindere dal background culturale di provenienza. Un processo di apprendimento che, già dopo qualche settimana di osservazione, notai e che mi fece capire l’importanza del poter sperimentare io stessa quella convivenza, al fine di cogliere ciò che un membro del comitato mi ha una volta definito come «l’esperienza di qua»:

Le persone a volte cercano di cavalcare la situazione, ti dicono che non possono venire alla manifestazione ma poi tu sai che non hanno niente da fare… purtroppo con il tempo capisci chi sono le persone e che capacità hanno, se ti dicono la verità o no. Per esempio, sui litigi nel corridoio o sui piani, se tu non sei una persona con questa capacità di affrontare i problemi, ci caschi… arriva uno e ti dice «quello m’ha menato», senza nessuna prova eh … se tu senti questa parola e lo mandi via, hai fatto un grosso danno. Bisogna avere la capacità e il livello di esperienza di qua per capire se ti sta dicendo il vero, sapere cosa quella persona è capace di fare… perché ogni persona è diversa, ha problemi diversi, religione diverse… il peruviano è diverso dal senegalese[9], e così via…[10]

Quell’organizzazione morale e politica dello spazio si è resa sempre più evidente ai miei occhi con il passare delle settimane. Tuttavia, alle mie domande iniziali su se e come la convivenza con tante nazionalità differenti avesse contribuito a modificare alcune abitudini quotidiane individuali, la maggior parte degli intervistati negava o rispondeva in maniera disinteressata, considerando la convivenza un fattore né positivo né negativo quanto semplicemente un dato di fatto. I conflitti ci sono, simpatie e antipatie (anche su base nazionale) sono all’ordine del giorno, la diversità interna all’occupazione è ormai considerata una componente politicamente pregnante nei discorsi del movimento verso l’esterno, ma per gli occupanti la questione era o naturalizzata o semplicemente priva di una particolare rilevanza. Ciò che più emergeva nei racconti era piuttosto il prodotto finale che questa diversità produceva vivendo insieme, intesa non come sommatoria di tanti diversi individui ma come “occupazione di Action”:

Più che modificato abitudini forse mi ha abituato a vivere in un contesto multiculturale, dove uno impara a conoscere le altre culture e quindi anche a rispettarle, in un certo senso. Ed è bello vedere come queste cose si uniscono assieme. Per esempio, mia madre è cristiana però quando è il giorno di Natale qua sul piano tutti i musulmani festeggiano insieme a lei. E quindi si creano tutte queste occasioni belle di integrazione che non è la favoletta spot che vedi in giro, ma veramente è un esempio di come mettere assieme le culture e farle funzionare, nel rispetto ognuno della propria.

E guardandola con gli occhi miei cresciuti, specialmente dopo aver studiato per un periodo all’estero, mi ha molto colpito in realtà come si sia creata questa dimensione che secondo me è quasi una novità rispetto al tipo di società che abbiamo adesso… che invece si basa su un modello molto individualista, no? Dove c’è attenzione molto alla sfera personale e poco a questi legami. Qua forse è una comunità forzata, quello è vero. Però è una comunità[11].

A parlare è una ragazza letteralmente cresciuta nel palazzo, dal momento che quando fu occupato non era ancora maggiorenne. Quello che mi descrisse come un sentimento di vergogna provato durante gli anni del liceo per la sua situazione abitativa, come un iniziale desiderio di ottenere il “privilegio dell’invisibilità” (Appadurai 2003: 50), con il tempo aveva ceduto il posto a una consapevolezza piuttosto diversa circa il contesto in cui vive tuttora, e che soltanto negli ultimi anni ha iniziato a chiamare “casa”. Più che sui fattori che li distinguevano, ho cercato quindi di focalizzare l’attenzione su ciò che li univa in un comune senso di appartenenza a quella occupazione e a quel movimento. Mi sono così resa conto che, ai fini della mia ricerca, non avesse molto senso parlare delle “culture” nell’occupazione, poiché il rischio era che quest’ultima passasse come il risultato una mera giustapposizione di differenze preesistenti e autonome; mi sembrava piuttosto che si dovesse parlare di una cultura dell’occupazione e di come questa venisse costruita e spazializzata a partire da regole interne, mutuazioni dall’esterno, resistenze e adattamenti, assieme a come fosse intenzionalmente finalizzata alla costruzione di un orizzonte e progetto politico. Questa cultura, che si produce attraverso la convivenza, altrove è stata descritta riprendendo la nozione di société à maison di Claude Lévi-Strauss, dal momento che in un’occupazione le persone costruiscono legami a partire da un’esperienza di proprietà condivisa e da una storia comune: contrariamente a quell’accezione di parentela che vede le famiglie come costruite esclusivamente attraverso vincoli di sangue o matrimoniali, anche mangiare, lavorare e vivere insieme in modo sostenibile può produrre legami sociali (Starechesky, 2017). Questa “parentela”, grazie anche alla spinta propulsiva della parte socioculturale Spin Time, è continuamente oggetto di discussione, contestazione e “promozione” tanto durante assemblee e riunioni interne quanto in occasione di iniziative esterne. Gradualmente, nel corso dei sette anni di vita del palazzo, il movimento ha rafforzato la propria consapevolezza circa la necessità di rovesciare la narrazione “alterizzante” e criminalizzante nei confronti degli occupanti e ha cercato di utilizzare quella stessa cultura interna anche per la lotta per la casa: detto altrimenti, ha tentato di non limitarsi a mezzi di rivendicazione più convenzionali come la manifestazione, il corteo o il sit-in, ma di praticare come strumento di difesa e azione politica anche la strada dell’apertura al territorio e del rapporto con associazioni, istituzioni, Università e – soprattutto – con la Chiesa Cattolica.

Nessuno si salva da solo. Spin Time Labs

A seguito del decreto Lupi, la consolidata pratica dei movimenti romani di occupare nuovi spazi si è interrotta, come abbiamo visto. Un cambiamento normativo che ha contribuito a ridefinire le strategie di lotta delle principali sigle, ben consapevoli di dover trovare un nuovo ruolo nello scenario politico della città che non si limitasse a una mera difesa dell’esistente. Per questi motivi, non è raro sentir parlare di “rigenerazione urbana” all’interno delle attuali occupazioni romane, come termine onnicomprensivo finalizzato a definire tanto il riutilizzo virtuoso di spazi dismessi quanto il modello di società portato avanti dagli esempi di convivenza interni alle occupazioni abitative. Spin Time in particolare si autodefinisce “cantiere di rigenerazione urbana”, intendendo quest’ultima non come provvedimento top-down che contribuisce a fenomeni di gentrificazione ed espulsione (Bridge et al. 2011) quanto in un’accezione più propriamente sociale e politica. Una mutuazione funzionale a praticare l’apertura nei confronti del resto del quartiere e della città e, di conseguenza, anche a legittimare socialmente e culturalmente l’esperienza portata avanti nel palazzo: il passaggio che la lotta per la casa sta provando a fare consiste infatti proprio nel far uscire la cultura dell’occupazione dai confini dell’edificio, accompagnando a tutto ciò servizi culturali e sociali aperti anche all’esterno, mostrandosi come risorsa per tutta la cittadinanza. In questo modo, da luoghi prima “chiusi” e inaccessibili si trasformano in spazi che si aprono ad accogliere attività e servizi anche per gli abitanti del quartiere e per un pubblico “ideologicamente” differente, anche al fine di screditare accuse criminalizzanti e allargare la base del consenso territoriale.

Un’apertura che naturalmente non vale per tutte le occupazioni e che, soprattutto, non è ben accolta da tutti gli occupanti, molti dei quali la ritengono un arretramento rispetto alla vecchia lotta per la casa; eppure, emicamente parlando, al momento da molti altri viene parimenti considerata uno strumento di lotta, difesa e legittimazione così come di consapevolezza del trovarsi di fronte a un momento storico che richiede un cambiamento anche nelle modalità di azione nella città. Secondo Elena Ostanel, viene infatti prodotta rigenerazione urbana laddove «sono moltiplicati i diritti di uso di uno spazio per pubblici differenti e se lo spazio (pubblico e non) diventa risorsa disponibile, capace di ancorare processi di empowerment e attivazione politica» (Ostanel 2017: 7). Tuttavia, affinché ciò sia possibile, «è necessario che si produca apprendimento sia nelle istituzioni sia nei diversi attori sociali che vi hanno preso parte» (ibid.). Cavalcando (inconsapevolmente) questa definizione, realtà come Spin Time stanno cercando di “aprirsi” al territorio sia come strategia difensiva che per accogliere le diverse istanze presenti e rendere lo spazio occupato una risorsa veramente a disposizione della cittadinanza.

Tra i primi “alleati” e promotori di questa apertura vi è anche la Chiesa Cattolica, nonostante le pur molte resistenze iniziali. Già nel primo anno di vita dell’occupazione, una suora laica, che distribuiva gratuitamente la colazione ai più indigenti nella vicina basilica di Santa Croce in Gerusalemme, iniziò a interessarsi agli occupanti e ai loro bisogni:

Sono arrivate una marea di persone: mamme, bambini… allora ho iniziato a chiedere: «ragazzi da dove venite?» «Santa Croce, dall’occupazione». Dico, ma dove sta st’occupazione? «Qui». Ma piangevano eh. Cioè, piangevano sofferenti. E allora ho detto al parroco «senti un po’… ma sai niente di questa occupazione?». Era il primo mese che esisteva… e allora dico «posso andare a vedere?» e mi rispondono «ah, se c’hai il coraggio…». Perché lì in chiesa avevano sentito che c’era qualcosa, però sai… «brutti sporchi e cattivi», no? Era arrivata la polizia varie volte… dico vabbè, e sono entrata la prima volta con una ragazza rumena… quella che stava al quinto piano, non mi viene mai il nome. Entro e non mi dimenticherò mai… madonna santa, quanto ho sudato. Tu sei arrivata poi, quando ormai… cioè non hai visto come stavano. Piano piano arrivavo, mettevo le cose, insomma, un anno e mezzo così, facevo arrivare le cose, quanti furgoni sono arrivati… tutto, di tutto. Poi è arrivato Spin Time. Però nel frattempo io avevo già pensato di aprire al pubblico, perché cioè, state in questa condizione drammatica! Io venivo di nascosto all’inizio, tanti non mi volevano[12].

A seguito di quelle prime incursioni, la suora in questione riuscì a organizzare diverse feste e iniziative con i bambini dell’occupazione, assieme a laboratori di sartoria, restauro di opere antiche e grafica per gli adulti. Vescovi, parroci e associazioni cattoliche iniziarono così a frequentare abitualmente il posto, fornendo aiuti alimentari e di ogni altro genere; assieme agli occupanti e alle attività di Spin Time – tra le quali figurano anche iniziative musicali e culturali della comunità LGBT – hanno dunque creato quell’humus che ha permesso il verificarsi di ciò che molti occupanti e attivisti definiscono come uno spartiacque nella loro storia. L’11 maggio 2019, dopo una settimana in cui l’intero palazzo era stato privato della corrente elettrica per via di un distacco per morosità, il cardinale ed elemosiniere del papa Konrad Krajewski si è letteralmente “calato” nel tombino dove era presente il quadro elettrico dell’edificio prendendosi la responsabilità legale del riallaccio abusivo. Il gesto è stato mediaticamente interpretato fin da subito come una forte presa di posizione da parte dello stesso papa Francesco verso l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, anche se in realtà rappresentava piuttosto il frutto della collaborazione di lunga data tra l’occupazione in questione e alcune frange dell’attivismo cattolico. Ciò nonostante, da locale e circostanziato è divenuto nell’arco di pochissimi giorni un caso mediatico internazionale, entrando a tutti gli effetti nel dibattito pubblico in vista delle imminenti elezioni europee. Di conseguenza, Spin Time ha colto l’occasione per lanciare una serie di iniziative tra cui la campagna Facciamo Luce! finalizzata alla deroga da parte di tutti i sindaci italiani dell’articolo 5 del decreto Lupi. Ribaltare la narrazione criminalizzante e sfruttare la visibilità mediatica ottenuta, costruendo un modello inclusivo di abitare la città che partisse da quella stessa esperienza, è quindi divenuto l’obiettivo principale dei mesi successivi, nonché la principale strategia politica del movimento in questione.

Dall’emergenza alla precarietà stanziale

In fondo al corridoio del settimo piano, campeggia una scritta piuttosto esemplificativa: «Qui è tutto abitato». Nonostante la sua iniziale funzione di invitare al silenzio e al rispetto degli orari di riposo pomeridiano, con il tempo ha finito per rappresentare lo slogan perfetto di quello che è il modello di convivenza interno e, di conseguenza, l’orizzonte politico. Prima del gesto dell’elemosiniere, durante i giorni del buio, quell’idea di “abitare diffuso” si è ulteriormente espansa in zone del palazzo prima di allora soltanto attraversate e mai vissute appieno, come ad esempio l’androne subito dopo l’ingresso principale. In quella settimana, molti occupanti hanno utilizzato fino a tarda notte quello spazio per ricaricare il proprio cellulare nei pressi di un generatore e, con l’occasione, creare un vero e proprio salotto fatto di chiacchiere, condivisione di pensieri e preoccupazioni sulla situazione. Una novità all’interno della mia esperienza etnografica, ma che per alcuni occupanti rappresentava piuttosto un felice ritorno al passato:

In questa casa mancava il salone. Sai, il salone è uno spazio importante: è dove ti incontri con la tua famiglia, guardi la televisione, mangi insieme a loro… questi anni eravamo diventati tutti egoisti. La gente entra e va diretta a casa sua, mentre io i primi tempi entravo a casa delle persone a farmi il caffè, adesso non succede più.

Con il distacco della luce, è tornato il salone. Prima era lì all’ingresso, dove i primi giorni facevamo la fila per andare in bagno. Adesso si è spostato qui[13].

Più che un riferimento a una cosmologia locale tesa a valori borghesi (pure presente), esemplificata dal desiderio di “possedere” un salone, in questo caso, a mio avviso, mi trovavo invece di fronte al riconoscimento da parte dell’interlocutore della costruzione – seppure temporanea e dettata dall’emergenza del distacco della corrente – di uno spazio comune intermedio tra quello domestico e quello più propriamente collettivo di Spin Time aperto anche agli esterni (un “salone”, per l’appunto), che in quei giorni si era rivelato cruciale ai fini tanto della convivialità tra gli occupanti quanto della condivisione di pensieri e preoccupazioni sull’evento in corso. Il fatto di aver utilizzato il termine “salone”, in questo senso, più che una proiezione dell’ideale borghese di domesticità e di relativa suddivisione degli spazi, rappresenta piuttosto una mutuazione intesa in termini per l’appunto conviviali e politici, all’insegna di una concezione di casa su scala più ampia che non si limita soltanto allo spazio domestico assegnato al nucleo familiare, ma che prevede momenti di incontro e confronto anche tra individui non accomunati da legami di sangue o matrimoniali (Starechesky 2017). La costruzione di questo salone ha di fatto reso ancora più porosi i confini tra spazio domestico e spazio collettivo interni al palazzo, contrariamente a quanto avviene in un condominio “borghese” in cui la separazione tra i due è molto più netta e lo spazio del salone è socialmente posseduto esclusivamente dal nucleo familiare: al suo interno, durante quei giorni, gli occupanti appartenenti a diversi nuclei hanno potuto condividere impressioni e declinazioni personali di quell’esperienza, in uno spazio di raccordo tra le loro “abitazioni” e Spin Time, esattamente come accadeva – stando a quanto mi hanno raccontato – nei primi giorni di vita di Santa Croce, quando gli appartamenti non erano ancora stati sistemati e assegnati e si viveva tutti sullo stesso piano. Questo anche perché, in un’occupazione legata ai movimenti, uscire dalla propria stanza comporta l’imbattersi continuamente nella gestione collettiva di spazi comuni e, al tempo stesso, le persone vivono un’esperienza di casa e della sfera domestica che è in parte slegata dalla proprietà privata: gli “appartamenti” ricavati non sono mai free zones in cui gli individui possono fare ciò che vogliono, sul modello individualista tipico del libero mercato, e anche i comportamenti dentro quella sfera devono essere coerenti con le politiche portate avanti dal movimento (Caciagli 2019). Anche le cosiddette aree interpersonali, come i corridoi o gli androni, laddove in un condominio hanno principalmente una funzione delimitante rispetto alla proprietà, nelle occupazioni abitative rappresentano invece spesso e volentieri delle estensioni della sfera personale che inevitabilmente si intersecano con quelle altrui, obbligando le persone a entrare in relazione e socializzare, anche soltanto per definire e organizzare assieme la migliore gestione possibile di quello spazio. È il caso, ad esempio, delle lavatrici o dei bagni e delle cucine in condivisione sui piani, che in molte occupazioni abitative rappresentano una realtà e, spesso, anche un motivo di accesa conflittualità.

È soprattutto a partire da ciò, dal punto di vista socio-spaziale, che vivere in un’occupazione comporta l’apertura di quello spazio grigio che non è legato né esclusivamente agli affetti (dunque al nucleo monogamico) né al mercato quanto, piuttosto, alla politica. Le specificità di una simile situazione si intrecciano così con le problematiche generali sulla realtà abitativa urbana e sulla valorizzazione della produzione quotidiana di spazio. Piero Vereni (2013) ha introdotto a questo proposito la porta di casa come unità di analisi, attraverso la quale delinea tre tipologie di occupazione differenti sulla base di dove la porta è posizionata e del tipo di vicinato che sollecita. Laddove è sicuramente vero che le città occidentali hanno costruito il loro modello abitativo sulla separazione tra pubblico e privato, poca attenzione è stata data al relativo livello di permeabilità della porta di casa e all’esistenza, tra questi due estremi, di un contesto socio-spaziale peculiare che Vereni definisce vicinato, ovvero «uno spazio in cui la casa non è vissuta come individualità domestica, ma come spazio di raccordo assieme ad altre case» (Vereni 2013:: 314). Si tratta insomma di uno spazio fisico e sociale intermedio (“un salone”, direbbe l’occupante) tra il privato domestico e lo spazio pubblico, all’interno del quale possono certamente essere presenti forme di reciprocità così come di conflitto e tensione, ma resta «il semplice riconoscimento funzionale di un ambito sociale per nulla istituzionalizzato, ma chiaramente riconoscibile» (Vereni 2013: 315). In occupazioni abitative come Santa Croce sembra essere presente una qualche forma di vicinato o come obiettivo esplicitamente perseguito o come spazio che viene a formarsi a partire dalle relazioni che lo costituiscono. Di conseguenza, le porte di casa non preesistono né rappresentano dei muri potenzialmente insormontabili o i confini entro cui si svolge la vita degli individui, come avviene nei normali condomini, ma al contrario vengono letteralmente costruite. Si crea così un ambiente sociale in cui la porta di casa permane ma non come spartiacque impermeabile, in cui l’interno non è l’unico spazio veramente posseduto in termini di rapporti sociali e rigidamente separato dalla sfera della vita pubblica, ma che si arricchisce di nuove sfaccettature e livelli di permeabilità tanto potenzialmente innovativi quanto conflittuali.

Questo complesso processo di costruzione della porta di casa, sia fisico che sociale, incarna anche a mio avviso il tentativo da parte degli occupanti di costruirsi da soli quella stanzialità che le politiche abitative di fatto gli negano. Di fronte a un approccio storicamente consolidato, che si traduce nel destinare alla categoria sociale in questione soluzioni perennemente temporanee, la cronicizzazione dell’emergenza abitativa produce anche una cronicizzazione della loro precarietà che, pur divenendo un fatto strutturale, rimane tale in quanto il rischio dello sgombero rimane una possibilità concreta. Per questi motivi ritengo si possa parlare di “precarietà stanziale” in riferimento alla condizione abitativa esperita da chi vive nelle occupazioni legate ai movimenti romani. Tale termine va visto in una duplice accezione: la prima, di ordine più prettamente morale e culturale, è composta da quell’insieme di pratiche quotidiane e discorsi generati internamente a partire dalla volontà degli occupanti di risignificare il paradigma abitativo neoliberale e, quindi, di conquistarsi una stanzialità estranea alle logiche di mercato che trasformi la precarietà della loro situazione in una condizione il più possibile dignitosa e legittima; la seconda vede invece in quella precarietà cronicizzata anche un motivo per rivendicare politicamente verso l’esterno la legittimità della loro esperienza di convivenza e di riutilizzo di spazi abbandonati, consci del fatto che quella stessa condizione potrebbe terminare da un momento all’altro per cause esogene. Parlare di precarietà stanziale significa dunque parlare dei tentativi degli occupanti di “fare casa” all’interno di edifici abbandonati e dismessi, cercando al tempo stesso di mantenere viva la consapevolezza che quell’esperienza potrebbe improvvisamente concludersi con uno sgombero.

Facendo dunque inconsapevolmente tesoro dell’analisi di Çağlar e Glick Schiller (2018), occupazioni come Spin Time contestano quel luogo comune secondo cui i migranti esistono ed eventualmente agiscono solo ed esclusivamente ai margini della società, così come minacciano la coesione sociale e necessitano di un’integrazione sempre e soltanto eterodiretta. Attraverso la quotidiana costruzione di un’esperienza di convivenza – fatta, esattamente come tutte le esperienze, di luci e di ombre, di pro e di contro – emerge il ruolo poliedrico che assumono assieme agli occupanti italiani come city-makers (Çağlar, Glick Schiller 2018.), così come le loro relazioni con le istituzioni municipali, i leader politici, le associazioni del territorio e gli altri movimenti che operano per la giustizia sociale nella città. Il tutto al fine di mostrare come, nonostante le inevitabili conseguenze dettate dalla convivenza “forzata”, molti di questi spazi forniscano innumerevoli spunti su come vada gestito quell’inevitabile disagio che la convivenza può comportare e ci lascino intravedere come potrebbe essere (o forse già è) la società di domani.

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[1] Il periodo in questione va dal 1° marzo al 30 novembre 2019. Ho tuttavia iniziato a frequentare le attività del palazzo già a partire da dicembre 2018, continuando a farlo anche dopo la fine del campo.

[2] Come sottolinea Stefano Portelli, diversi autori (Tozzetti 1989; Della Seta, Della Seta 1988) hanno celebrato come simbolico lieto fine della battaglia per la casa eventi come la demolizione dei borghetti e il trasferimento degli abitanti in quartieri di edilizia pubblica, all’insegna di un’idea di integrazione definitiva degli abitanti “spontanei” nella città legale (Portelli 2017: 160). In realtà, come dimostrano gli sviluppi e la nascita successiva dei movimenti, la questione abitativa fu tutt’altro che risolta.

[3] Intervista a un’occupante italiana raccolta dall’autrice nel palazzo in data 3 luglio 2019.

[4] Il Comitato viene eletto più o meno ogni anno da parte di tutti gli abitanti del palazzo, attraverso una votazione assembleare durante la quale ognuno esprime anonimamente due preferenze su un foglio di carta. Al termine della votazione e dello scrutinio, le dodici persone che hanno ottenuto più voti vincono le elezioni. Non è possibile candidarsi per più di due mandati consecutivi, anche se non mancano eccezioni a questa regola – soprattutto nell’eventualità di pochi nuovi candidati.

[5] Decreto-legge n. 47 del 28 marzo 2014 (poi convertito con modificazioni dalla legge n. 80 del 23 maggio 2014), interno al Piano Casa del governo Renzi e meglio conosciuto come decreto Lupi. Al suo interno viene di fatto negata la possibilità di richiedere la residenza per chiunque occupi abusivamente, a prescindere dalla condizione di bisogno alla base.

[6] Intervista a un “leader” del movimento Action raccolta dall’autrice nel palazzo in data 3 aprile 2019.

[7] L’intervistato faceva e fa tuttora parte del comitato di Santa Croce. Motivo per cui, anche in occasione di altri scambi informali che abbiamo avuto, si è sempre premurato di descrivermi la sua presenza all’interno dell’edificio come attiva e propositiva.

[8] Intervista a un occupante senegalese raccolta dall’autrice nel palazzo in data 21 marzo 2019.

[9] Molto spesso, durante interviste e scambi informali, ho avuto modo di assistere a simili suddivisioni su base etnica della popolazione interna al palazzo con relativo comportamento associato. Il più delle volte, tale suddivisione rispecchiava secondo i miei interlocutori la presenza di due progettualità abitative interne al palazzo: nonostante la pur presente eterogeneità di queste ultime, nelle parole di molti di loro (soprattutto gli italiani) è emersa una netta differenziazione tra chi “veramente” ha bisogno perché non ha alternative e chi sta semplicemente approfittando della situazione, perseguendo così il sogno di un decoro borghese a costo zero. Tale bipartizione prende spesso le forme di una suddivisione su base etnica, in virtù di un presupposto generalizzante secondo il quale le comunità migranti, in quanto tali, avrebbero già delle reti di supporto a cui affidarsi in caso di sgombero e vivrebbero in occupazione esclusivamente in un’ottica di risparmio economico, contrariamente a molti occupanti italiani che se sono stati costretti a occupare è perché non avevano più nessuno su cui poter contare. Una narrazione talmente consolidata da essere stata interiorizzata anche da molti occupanti migranti, come in questo caso, e che naturalmente soffre di una visione pregiudizievole e semplificante della complessità delle progettualità abitative presenti, ma che rappresenta comunque a mio avviso un dato interessante al fine di cogliere anche le contraddizioni e la varietà interna alla compagine degli individui in emergenza abitativa.

[10] Intervista a un membro del comitato raccolta dall’autrice nel palazzo in data 21 marzo 2019.

[11] Intervista a un’occupante italo-eritrea raccolta dall’autrice nel palazzo in data 21 giugno 2019.

[12] Intervista alla suora laica raccolta dall’autrice nel palazzo in data 11 ottobre 2019.

[13] Intervista a un occupante senegalese raccolta dall’autrice nel palazzo in data 7 maggio 2019.