Un’alleanza possibile

Un cohousing sociale per giovani nativi e stranieri

Federico Bosis

Ricercatore indipendente

Indice

Introduzione e metodologia della ricerca
L’abitare come pratica di appaesamento
Le condizioni dell’abitare migrante
Crescita e autonomia in un mondo globalizzato
Casa e appartenenza
La questione educativa
Conclusione
Bibliografia

Abstract. Co-housing in Italy is a living arrangement that provides young people with a measure of autonomy in a context marked by increasingly pressing socio-economical circumstances. In particular, this article examines a co-housing project where young Italians live together with unaccompanied underage migrants. This article contextualizes the contemporary experience of young people within the extensive socio-economical and affective-relational changes that affected Italy and the West in the past decades, precarizing life choices, as well as the possibility to plan for the future and adult life. In this context, I trace both the material and the symbolic relevance of housing and habitation as a complex practice, which shapes the subject’s ability to relate to the world and to act in it. Expanding on this, I have looked into the structuring and the development of a specific co-housing project. The results of this study allow me to consider housing and peer co-housing as a particularly fruitful context for the development of an educational project that aims to consider the differences between young locals and young migrants. At the same time, this context reveals a degree of approximation between different experiences of growth in a globalized world. On the other hand, the ethnographic attention applied to the context also allows to point out the risks that such an educational project might entail, thus highlighting the primary role of caring for the particular relationships and feelings which come into being through domestic space, especially in the absence of a sense of belonging/dependency related to a parent or a partner.

Keywords. Applied anthropology; social housing; cohousing; minori stranieri non accompagnati.

Introduzione e metodologia della ricerca

Questo contributo s’inscrive in una più ampia riflessione sul rapporto che sussiste fra l’abitare e le trasformazioni sociali che hanno investito negli ultimi tre-quattro decenni l’Italia, buona parte del mondo occidentale e, in particolar modo, la sua componente giovanile nel processo di divenire adulti. Un rapporto che ho scelto di studiare, adottando un punto di vista marginale rispetto alla generale (‘normale’) esperienza abitativa: quello dell’abitare condiviso e collettivo[1]. A partire da questa prospettiva ho analizzato la possibile interazione fra tali modalità abitative e i processi, a seguito della migrazione, di nuovo radicamento di giovani stranieri. Lo studio si concentra su un progetto di cohousing sociale per giovani provenienti da comunità per minori stranieri non accompagnati e giovani nativi italiani.

I mutamenti sociali cui mi riferisco sono di tipi differenti ma disegnano una traiettoria convergente. Sul piano socio-economico si osserva il radicale mutamento del rapporto tra forme di vita e ruolo del lavoro nel percorso esistenziale degli individui (BIN 2018) a seguito della grande trasformazione post-fordista e della lunga crisi iniziata nel 2008. Un diffuso senso di insicurezza e di rischio, unito alla percezione del futuro come tempo minaccioso costituisce, infatti, il tratto caratteristico del sentire comune nelle società occidentali contemporanee (Beck 2000; Appadurai 2001; Bauman 2002; Augé 2009). La precarizzazione di lunga durata rende sempre più difficoltoso immaginare e poter costruire un progetto di vita che diviene «un bene cui è dato per scontato occorra rinunciare per affrontare la vita quotidiana nel suo accelerato scorrere» (Gambardella, Leccardi 2015: 23). Sul piano socio-affettivo, invece, si riscontra la lunga crisi del modello sociale cosiddetto “familista”, generata da un lato dall’emancipazione femminile, dal mutare dei ruoli di genere, del diritto di famiglia, dall’altro dal diffondersi di un paradigma relazionale più fluido e da un certo individualismo negli affetti (Giddens 1995). L’ipotetica famiglia che vi trarrebbe origine non è più considerata come l’inevitabile compimento di un processo di vita, perché può non costituirsi mai, oppure disgregarsi e dare origine a nuove configurazioni relazionali e abitative che disegnano percorsi e legami plurimi.

Il combinato disposto di questi processi trasformativi genera un andamento libero e imprevisto dei percorsi individuali, dando luogo a società liquide costantemente in trasformazione (Signorelli 2016). Tutto ciò, per i giovani, si traduce nell’ambiguità di sperimentare la libertà (promessa) di un continuo reinventarsi tanto a livello affettivo quanto lavorativo ma, al contempo, di scontare il forte senso di insicurezza economica e relazionale che da questa costante fluidità ed incertezza deriva (Beck, Beck-Gernshein 1998; Bauman 2002, 2003). Concretamente – con la grave responsabilità di un welfare fortemente familistico (Saraceno, Naldini 2013) che fa ricadere esclusivamente sull’economia familiare la ricerca di autonomia da parte dei figli – si verifica una maggiore dipendenza socio-economica dalla famiglia di origine e l’allungamento dei tempi di uscita da essa (e quando avviene, con il realistico rischio di dovervi tornare per periodi transitori).

Percorsi di ricerca etnografica pregressi sull'abitare condiviso[2] mi hanno convinto della possibilità di avere una visione meno pessimistica del quadro fin qui tratteggiato. Questo in virtù del fatto che per le persone, nelle case condivise, alla trasformazione in senso più fluido dei legami non corrisponde una diminuzione della socialità e un conseguente impoverimento affettivo e relazionale (Bauman 2002, 2003). Anzi, le case condivise si rivelano come ambienti particolarmente socializzanti (Sapio 2010), un’eccellente risposta dal basso che permette di soddisfare i bisogni di affetto, cura e indipendenza a soggetti che non sono nelle condizioni (oggettive o soggettive – forzate o scelte) di “farsi una famiglia”[3]. Si osserva dunque una tendenza opposta rispetto ai processi di nuclearizzazione e verticalizzazione della parentela contemporanea (Solinas 2010).

In questa prospettiva ho focalizzato l’attenzione sul caso di studio che è oggetto di questo articolo. Si tratta di un progetto sociale che prende il nome di Castello Bello e nasce nel 2017 a Cantù, comune di 40.000 mila abitanti in provincia di Como, per iniziativa di un’associazione che si occupa da lungo tempo di housing sociale, denominata “Associazione Gruppo Appartamento”. Il progetto ha l’obiettivo sperimentale di conciliare l’educazione all’autonomia per neomaggiorenni provenienti da comunità per Minori Stranieri Non Accompagnati (MSNA) con l’esigenza di indipendenza abitativa di giovani studenti-lavoratori autoctoni, impostando un percorso di crescita condiviso. Delle sette persone coinvolte: due ragazzi di origine straniera sono entrati nel progetto ai diciotto anni compiuti, dopo esser stati selezionati attraverso i contatti dell’associazione con le comunità minorili e le realtà di volontariato del territorio. A questi si aggiungono cinque nativi italiani (tre ragazze e due ragazzi) fra i ventiquattro e i ventisette anni di età, che sono venuti a conoscenza del progetto tramite passaparola. Pur conoscendosi già quasi tutti, hanno avuto modo di incontrarsi prima dell’avvio del progetto per condividere anche con i referenti dell’associazione le proprie idee e aspettative circa la sua realizzazione. L’appartamento è stato scelto e destinato dall’associazione a questo specifico progetto; le sue caratteristiche, fuori mercato, ne hanno assicurato un costo contenuto. Situato in un grosso e vecchio edificio si compone di una cucina e un soggiorno molto grandi, un ampio terrazzo privato e quattro camere che sono state così suddivise: una grande stanza per le tre ragazze, due stanze singole occupate dai due ragazzi stranieri e una stanza doppia abitata dai restanti ragazzi nativi; infine due bagni, divisi nell’utilizzo per genere.

Appreso di questo progetto, ho ragionato su come la condivisione abitativa potesse mettere in atto dinamiche favorevoli, tanto per i nativi quanto per coloro che, essendo stranieri minori non accompagnati, sperimentano la mancanza di riferimenti famigliari in loco e devono pertanto confrontarsi con l’imperativo dell’inclusione in una nuova società. A partire dalle dichiarazioni di intenti del progetto, ho scelto di analizzare le possibili convergenze fra i due target di giovani, per poterne valutare in seguito la realizzazione. Come ho accennato, la ricerca è supportata dai dati raccolti in precedenza su alcune case condivise, situate nella medesima area geografica. A differenza del presente studio, le situazioni abitative che avevo già avuto modo di osservare non nascevano da progetti sociali, bensì da realtà spontaneamente create dagli inquilini stessi; tutti giovani-adulti nativi italiani fra i venticinque e i trentacinque anni di età, già partecipi del mercato del lavoro. Grazie a conoscenze e relazioni create durante le fasi di ricerca ho scoperto l’esistenza del Castello Bello (CB) e ho potuto conoscere direttamente tanto gli inquilini quanto Daniele, uno dei referenti dell’associazione, nonché fondatore del progetto, che mi ha illustrato il suo funzionamento e la sua storia. Non c'è stato dunque nessun rapporto di committenza con l’associazione, perché la scelta di intraprendere questa ricerca è nata dal mio attraversare esperienze abitative condivise e collettive, nonché dalle riflessioni che ne sono scaturite. La presente ricerca, svolta fra luglio 2019 e marzo 2020, è stata condotta mediante interviste in profondità agli inquilini e a un referente dell’associazione, cui si aggiungono osservazioni informali formulate durante alcuni momenti di frequentazione della casa stessa, in occasione di cene e feste, alle quali ho partecipato come ospite.

L’abitare come pratica di appaesamento

Per comprendere la scelta di un focus sulla casa e sull’abitare è utile in primo luogo chiarirne la dimensione di costruzione e pratica sociale complessa. Si consideri che la costruzione di una casa si associa al processo con cui l’umanità ha fatto esperienza di un ambiente su cui poter avere un dominio (Pasquinelli 2004: 104), generando da esso un luogo, ovvero uno spazio che intrattiene un rapporto identitario e storico con dei soggetti (Augé 2005). Intorno alla casa sono stati condotti importanti studi – fra gli altri quelli di Pierre Bourdieu (2003) e Mary Douglas (2011) – in cui le modalità della preparazione dei pasti, il luogo dove svolgere una certa attività o la posizione dell’ingresso sono collocati entro la cornice delle regole e delle convenzioni sociali, nonché della natura simbolica che accompagna le scelte e i comportamenti delle persone (Meloni 2014). Una lettura che rimanda alla centralità dei corpi nella definizione della domesticità. L’abitare evoca, infatti, l’idea di corpi che si stabiliscono in un luogo e lo vivono percorrendolo usualmente, segnandolo con i propri passaggi, utilizzandolo e adattandolo, nella misura del possibile, alle proprie necessità (Rampazi 2002).

Quel che accade nelle case ha poi un significativo ruolo nel rapporto che il soggetto costituisce con il mondo esterno: la casa è il luogo dove si “prendono le misure” per agire nel mondo. In questo senso Douglas (2011) afferma che la casa è la “realizzazione delle idee” rispetto alla propria collocazione nello spazio e nel tempo. Riprendendo il senso di insicurezza e la percezione del futuro come tempo minaccioso quali tratti caratteristici del sentire giovanile contemporaneo, si comprende il ruolo che può avere la casa nel garantire almeno un appiglio di fronte allo spaesamento generale. Aprendo quindi una riflessione spazio-temporale rispetto all’abitare, risultano di particolare aiuto le analisi di due autrici che riprendono il lessico di Ernesto de Martino. Amalia Signorelli riflette sull’ultima crisi economica nei termini di crisi di presenza. Un concetto, quello di “presenza”[4], che spiega la capacità del soggetto di conservare nella coscienza le memorie e le esperienze necessarie per rispondere in modo adeguato ad una determinata situazione storica (de Martino 1948). L’autrice ci ricorda che la presenza non è una cosa data, una condizione statica acquisita una volta per tutte, ma un modo dell’essere che va rinnovato per affrontare il cambiamento e può così scoprirsi inadeguato, producendo nel soggetto una situazione di crisi. Un punto centrale è considerare la coscienza dell’essere-nel-mondo sempre in maniera sociale, collettiva prima che individuale, che quindi deve costruirsi attraverso contenuti culturali condivisi fra gli individui (de Martino 1977; Signorelli 2016). Il discorso dell’antropologa è molto interessante perché inquadra la presenza a livello sia individuale sia sociale come capacità di esprimere, quindi elaborare e condurre, un progetto. Nella sua analisi del presente afferma quindi che essendo «le condizioni in cui il progetto dovrebbe realizzarsi instabili e imprevedibili» (Signorelli 2016: 31) il risultato è una “paralisi progettuale”[5].

Carla Pasquinelli collega, invece, questo discorso con l’abitare, individuando nella casa un fondamentale dispositivo in grado di produrre senso nei confronti del soggetto. Ordinare e plasmare una casa sono cioè considerate pratiche fondamentali di “appaesamento”, concetto che l’autrice riprende sempre da de Martino (1977: 649-650) per indicare il procedimento attraverso il quale il soggetto si radica nel mondo, lo abita, rendendolo qualcosa di familiare tramite una proiezione in esso di una parte di sé (Pasquinelli 2004: 10). La dimensione temporale e spaziale (domestica) diviene un’azione di ancoraggio ontologico per il soggetto. Il tempo connesso alla domesticità, nella misura in cui è vincolato a uno spazio fisico specifico, svolge il ruolo cruciale di sostenere la “dimensione lunga” della temporalità biografica (Rampazi 2002), agendo quale datore di senso, di “presenza”, in direzione del passato, quale senso di radicamento verso un luogo che si è per lungo tempo abitato (Dovey, 1985) e come investimento nel futuro (Jacobson 2009). Tale “temporalità lunga” si àncora non soltanto alla durata implicita nella fisicità della casa e alla memoria incapsulata negli oggetti (Hurdley 2006; Bonalume 2009; Meloni 2011), ma anche alla durata delle relazioni che in essa si svolgono. È così che si produce un’appartenenza, che si generano i sentimenti di prossimità, appartenenza, familiarità, che nasce quella “disposizione emotiva” (Heller 1999) sintetizzata efficacemente nell’affermazione di “sentirsi a casa”.

Ora, rispetto alla specificità del progetto abitativo in oggetto, anche se si ha sempre a che fare con una co-abitazione fra giovani, sorgono altri elementi di identificazione. Innanzitutto alcuni degli inquilini sono stranieri, hanno raggiunto l’Italia da minorenni e hanno vissuto alcuni anni in una comunità educativa. Inoltre, tutti i coinquilini sono coinvolti in un progetto sociale gestito da un’associazione che si pone, essa stessa, come attore fondamentale nel tracciare le condizioni e i limiti di possibilità di questo abitare collettivo. Elementi questi che hanno un forte impatto rispetto al significato che ciascuna persona dà al proprio abitare e condividere quella casa, all’uso che ne viene fatto e al modo di frequentarla, al sentimento di appartenenza che viene – o meno – a crearsi fra le persone e fra ciascuna di esse con lo spazio abitativo in sé.

Le condizioni dell’abitare migrante

Quanto ho affermato sull’importanza della casa e la complessità dell’abitare è quindi da valutare in relazione ai soggetti per i quali la casa è venuta a mancare intraprendendo la migrazione. Leggere l’abitare nei termini di appaesamento appare qui particolarmente calzante, se si riflette su un abitare che è anche il momento culminante (o di interruzione) di un viaggio, che ha visto l’abbandono di altre case (e di altri modi di abitarle) dove fino ad allora era stato costruito un particolare rapporto privilegiato (Boccagni 2017), e ha fatto attraversare al soggetto sistemazioni precarie ed inospitali, segnate spesso da violenza e totale privazione dell’intimità. In tal caso il concetto di appaesamento va a rafforzare la propria efficacia, rendendo esplicito il rapporto fra l’abitare una casa e l’abitare un paese, trattandosi in entrambi i casi di luoghi sconosciuti, nuovi, che richiedono “addomesticamento” (Rampazi, Mandich 2009; Mandich 2010). In questo senso la casa, nella sua accezione più ampia, implica l’incontro dei modelli culturali di riferimento di chi migra, rispetto alle dimensioni della vita intima e sociale con i modelli insediativi che la società di accoglienza offre e predilige (Cordini 2012).

Di contro si assiste, invece, alla difficoltà dei migranti di trovare casa a causa di pregiudizi, precarietà lavorativa, mancanza di reti sociali, nonché per la situazione immobiliare italiana – caratterizzata da un alto tasso di abitazioni in proprietà –, da pochissima edilizia pubblica e dal ruolo centrale della famiglia nella produzione e riproduzione sociale dell’accesso alla casa (Colombo 2019). Si può notare, come segnalano alcuni autori (Ponzo 2010; Fravega 2018), una disattenzione verso l’abitare migrante anche a livello degli studi di settore che si limitano, per lo più, a indagini di natura descrittiva e raramente diacronica con poca considerazione dei processi alla base dei percorsi di insediamento (Ponzo 2010). Al contrario la casa va intesa «solo [come] un possibile punto d’arrivo – anziché uno scontato punto di partenza – per l’insediamento, l’inclusione e il riconoscimento» (Boccagni 2017: 61). Ad essere privilegiate sono le analisi economiche, mentre si tende a trattare la casa come mero oggetto, tralasciando la molteplicità delle forme dell’abitare e la pluralità delle relazioni sociali che vi si svolgono e che non necessariamente combaciano con la dimensione familiare. Questo approccio lascia così in ombra le dimensioni soggettive dell’abitare, quelle culturali e quelle collettive (come i centri di accoglienza e le forme di cohousing come quella in oggetto), relegando in secondo piano l’aspetto processuale dell’abitare (Ralph, Staeheli 2011; Cancellieri 2017; Fravega 2018). Al contrario, «quanto più le persone sono in movimento, tanto più si rende necessario apprezzare la valenza della casa come costruzione e processo, emotivamente connotato, di attribuzione di significato» (Boccagni 2017: 63).

Riguardo alle politiche di sostegno all’abitare e di contrasto al disagio abitativo bisogna riconoscere, invece, un crescente interesse per l’housing sociale da parte soprattutto del Terzo Settore (Ponzo 2010; Lodi Rizzini 2013; Colombo 2019). Nei confronti delle persone straniere esso si concretizza in una serie di servizi ed azioni che vanno dalla diretta gestione di immobili destinati all’accoglienza, all’intermediazione per l'acquisto o l’affitto, al sostegno alle spese di gestione, all’offerta di garanzie economiche, fino al cosiddetto housing leggero, che si dedica maggiormente agli aspetti sociali quali l’accompagnamento all’abitare e la mediazione dei conflitti interni e con il vicinato (Ponzo 2010).

In riferimento all’abitare migrante è utile tenere presente come funziona il sistema di accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati. Il Piano Nazionale di integrazione dei titolari di protezione internazionale, oltre a richiamare all’utilizzo delle risorse e degli strumenti del welfare, sollecita «l’avvio di percorsi volti a favorire iniziative di coabitazione come pure la sperimentazione di pratiche di buon vicinato» (Ministero dell’Interno, 2017) come strumento per la promozione dell’autonomia abitativa. Un impegno che trova poco riscontro nella realtà dei fatti, dato che le politiche di accoglienza poste in essere[6] hanno generato l’effetto di una lunga permanenza di gran parte di questi migranti[7] in strutture che non sono pensate ed organizzate come luoghi da abitare, ma di veloce transito. Negli hotspot, nei centri di prima accoglienza e in misura non troppo dissimile anche in molti CAS[8] è messa a repentaglio, fortemente limitata quando non del tutto annullata la possibilità stessa di abitare quei luoghi. In essi avviene una importante alterazione delle caratteristiche proprie dell’abitare, che limita enormemente le pratiche di appropriazione e addomesticamento degli spazi e quindi la possibilità dell’appaesamento. Si riscontra, poi, una privazione di autonomia nel rapporto dell’ospite con lo spazio abitativo, che si sostanzia nell’interposizione dell’operatore e dell’ente che gestisce il progetto, fra il migrante e il centro. Uno “stare nel mezzo” che agisce a tutti i livelli, fino a raggiungere un vero e proprio controllo e disciplinamento dei corpi riguardo gli orari di accesso, la convivenza forzata, le limitazioni sugli ospiti, ecc.[9] (Fravega 2018). Tutte queste sono indicazioni che servono per valutare ciò da cui un progetto sociale volto all’autonomia deve assolutamente differenziarsi.

Crescita e autonomia in un mondo globalizzato

Il tipo di sostegno abitativo offerto dal progetto di housing sociale in oggetto si concretizza in un contributo sull’affitto e le utenze, nonché nel supporto nella transizione all’autonomia dell'età adulta, sicuramente differenziato in base alle specificità degli ex-MSNA e dei nativi, ma che li riunisce sotto il comune accompagnamento all’abitare che dell’autonomia è parte integrante.

Se si parla di transizione all’età adulta e all’autonomia per i MSNA, bisogna tenere presente la molteplicità di livelli nei quali tale processo deve avvenire: si tratta della “triplice transizione” che include il generale passaggio dall’adolescenza all’età adulta che accomuna ogni essere umano; la transizione legata alla migrazione, quindi il distacco dal proprio contesto di origine verso un contesto socio-culturale diverso; infine, la transizione riguardante il superamento dei traumi vissuti prima, durante o dopo il viaggio compiuto (ISMU 2019). Una complessità di elementi che fa comprendere l’artificiosità di una distinzione netta tra minorenni e maggiorenni, che non tiene debitamente conto del carattere processuale del divenire adulti e delle differenze socio-culturali che lo riguardano[10]. L’ambiguità del concetto di adulto è qui ben evidente, dal momento che si tratta di ragazzi che per molti versi hanno già ampiamente sperimentato comportamenti, ruoli e responsabilità propri dell’adultità, in base alla propria cultura di origine e per le esperienze vissute (ISMU 2019). Dall’altro lato, tali giovani possono incontrare notevoli difficoltà nell’essere considerati (e nel potersi considerare) pienamente adulti, sia perché devono ancora orientarsi nel nuovo contesto di immigrazione, sia perché proprio tale approdo può rappresentare un ostacolo nel completare la triplice transizione suddetta, soprattutto dal punto di vista della costruzione della propria identità e del superamento del trauma. Inoltre, essi soffrono la condizione giuridica dalla quale sono inquadrati, il suo rapido mutare[11] da quella di minori sotto tutela, con tutto l’appoggio ma anche le restrizioni del caso, a quella di adulti – soggetti che si pretende indipendenti e responsabili delle loro azioni – al compimento della maggiore età (Pavese, Caneppele 2011; Anzaldi 2014). Vi sono comunque dei passaggi in alcuni ambiti-chiave che appaiono particolarmente cruciali in tale transizione: lo status giuridico, l’accesso all’educazione e alla formazione, l’ottenimento di un lavoro, l’autonomia abitativa e l’instaurare relazioni significative. Fra questi, l’autonomia abitativa è spesso indicata come il punto dolente del servizio di accompagnamento all’adultità svolto dalle comunità di accoglienza (Anzaldi 2014: 95; ISMU 2019: 100).

Date le attuali condizioni socio-economiche anche per i ragazzi nativi il diventare adulti autonomi non è semplice. Fattori come la fine del percorso di studi, l’entrata nel mercato del lavoro, l’uscita dalla famiglia di origine, la formazione di un’unione, la nascita del primo figlio che segnalano questa dilatata transizione (Rosina 2010), sono pesantemente influenzati dall’odierna strutturale incertezza. È in questo senso che si può trovare una prima importante convergenza fra i due target, che dà significato alla costruzione di un progetto di accompagnamento comune: la transizione all'età adulta è oggi un processo segnato dall’incertezza e dalla scomposizione dei passaggi mediante la quale avviene, per via delle ragioni biografiche connesse alla migrazione o alla situazione socio-economica italiana. Ecco allora che agire per facilitare la realizzazione di uno di questi passaggi – l’indipendenza abitativa –, può avere un impatto notevole. Di grande facilitazione per tutti gli ospiti, come essi stessi dichiarano, è innanzitutto l’usufruire dell’affitto calmierato, uno strumento indispensabile per contrastare le instabili e imprevedibili condizioni in cui si tenta di costruire il progetto di vita. Inoltre, l’esperienza di abitare una nuova casa, diversa da quella in cui si è cresciuti[12], permette di attivare in maniera significativa la riflessività e l’interpretazione dell’esperire la casa, il cambiamento e fare i conti con le proprie capacità di adattamento (Rampazi 2011: 69-70). Non da ultimo, può incentivare la responsabilizzazione rispetto agli spazi, non solo comuni, domestici. Sebbene, infatti, nelle comunità i MSNA hanno avuto in qualche caso l’opportunità di una prima introduzione all’autonomia abitativa, è soltanto nel passaggio dal sottostare a regole calate dall’alto per l’organizzazione del quotidiano all’essere gli autori di quelle stesse regole – frutto di negoziazioni altrettanto fondamentali con i conviventi – che questi ragazzi assumono nuova capacità e consapevolezza riguardo al proprio vivere. Si creano così le condizioni che permettono di riparare a quell’ambivalenza che si vede riflessa nei sentimenti di autonomia e abbandono al momento dell’uscita dalla struttura, generata da uno stato di cura e accudimento invadente (ISMU 2019: 89), sempre in bilico fra infantilizzazione e responsabilizzazione (Di Masi, Defrancisi 2018: 111-113).

Questo fondamentalmente è stato l’obiettivo del progetto “Castello Bello”, in cui il ruolo dell’associazione si limitava a indirizzare e proporre delle regole utili ad un buon funzionamento della convivenza, senza imporle, ma stimolando anzi i ragazzi alla discussione e alla produzione di norme condivise. Nel progetto si è inoltre cercato di rendere la relazione fra ragazzi nativi e stranieri il più possibile orizzontale, per non ricalcare le posizioni e le annesse reazioni tipiche del rapporto educativo operatore/utente del servizio. L’accompagnamento all’abitare è previsto che avvenga naturalmente fra coinquilini-pari, ponendo l’operatore più come riferimento esterno che come presenza costante. Vi è l'idea di una «educazione alla pari» per usare le parole di Daniele, uno degli educatori che hanno ideato il progetto:

Immaginavamo che i ragazzi [...] potessero aiutarsi vicendevolmente perché cercavano insieme delle risposte a delle stesse domande […] in quel momento di vita; parlo di un piano pratico ma anche di un livello più astratto, di come si cresce e si diventa grandi oggi... insieme ovviamente a come fare una spesa fatta bene, sturare un lavandino ecc.[13]

Un «apprendere collaborativo», all’insegna della «reciprocità», come riprende F., una delle ragazze ospiti, che spiega:

Io a casa dei miei ero abituata che mia mamma faceva la lavatrice... quindi non era che io insegno a C. e R. come si fa, ma che un bel pomeriggio ci mettiamo lì e la capiamo insieme perché io ne so quanto loro. […] nell’idea che queste piccole dinamiche della quotidianità cerchiamo di affrontarle insieme, con le abilità che qualcuno può avere in misura maggiore e qualcuno minore, senza che scatti la dinamica del ti insegno io[14].

Un altro aspetto del passaggio all’adultità che viene sostenuto e incoraggiato nel progetto di condivisione abitativa, soprattutto per i ragazzi ex-MSNA ma anche per i nativi, è quello relativo alla costruzione di relazioni significative con i pari. Nelle altre case condivise studiate era emersa una vera e propria centralità della relazione amicale. L’amicizia, infatti, si qualificava come la tipologia relazionale specifica della coabitazione: come amici si identificavano fra loro i conviventi; l’amicizia che li legava era stata la ragione della scelta del convivere ed era ciò che assicurava la possibilità di prosecuzione nel futuro. Quello su cui ho cominciato a ragionare è stato allora come questa centralità si ponesse in rapporto con il declino della famiglia quale esperienza totale nella vita dell’individuo (Beck, Beck-Gernsheim 1998: 67; Roseneil, Budgeon 2004: 140; Sapio 2010). Un tempo al suo interno si nasceva, si cresceva e ci si distaccava pienamente soltanto nel momento in cui si dava origine a una nuova famiglia (Zanatta 2008; Sapio 2010). Essa era il luogo sociale della riproduzione, dell’attività sessuale, della cura e dell’affetto, della crescita dei figli, talvolta anche luogo di lavoro. Nel momento in cui tale percorso viene scomposto, avviene una riconfigurazione delle funzioni non più unitarie nel luogo casa-famiglia, che – c'è da pensare – devono ritrovarsi in una pluralità di altri luoghi relazionali. L’amicizia, da luogo secondario degli affetti, ha la possibilità di tradursi in un impegno maggiore, più evidente o più consapevole, grazie agli spazi lasciati liberi dalla trasformazione famigliare. Si consideri, per esempio, la situazione precedente alla formazione di una famiglia come quella in cui si trovano i ragazzi in questione. L’amicizia rappresenta in questo caso il contesto relazionale che ha assorbito alcune delle funzioni necessarie al proseguimento del percorso individuale di vita, cioè alla crescita. In questo senso sono utili i dati dell'ultima rilevazione ISTAT su “Famiglie e soggetti sociali”[15], in cui il 61,7 percento del campione[16] interpellato dichiara di avere amici su cui poter contare, valore che aumenta fino a superare il 72 percento considerando la sola fascia dei 25-35 anni. È notevole poi considerare come il dato si dimostri circa del 15 percento superiore alle persone che dichiarano di avere parenti su cui contare (46,7 percento): un importante distacco che va a confermare quel processo, in atto già da tempo, per cui «la comunità dei bisogni sta diventando una relazione elettiva» (Beck, Beck-Gershein 1998: 54).

Anche rispetto a questo tema non è difficile cogliere i punti di convergenza. Quello che facilmente si può immaginare, e che bisogna quindi verificare, è se per i ragazzi stranieri l’assenza dei riferimenti parentali apra alla possibilità di una decisiva valorizzazione delle relazioni instaurate con gli amici. Gli studi e le indagini specifiche riscontrano, per coloro che terminano un percorso residenziale in comunità, la difficoltà a trovare «spazi fisici e relazionali rispondenti alla loro necessità di emanciparsi» (ISMU 2019: 89). L’assenza della famiglia si concretizzerebbe proprio nella mancanza «di una persona di fiducia su cui poter contare» (Pavese, Canappele 2011: 57). D’altra parte, però, si registra e si riconosce una particolare rilevanza delle relazioni con i pari, che divengono un supporto fondamentale al processo di integrazione in Italia. Si noti anche l’affermazione per cui in questa fase «le relazioni affettive e amorose vengono invece posticipate» per lasciare spazio agli aspetti definiti più urgenti per questa fase di vita (ISMU 2019: 88). Anche se la disponibilità di dati statistici relativi ai comportamenti sociali dei MSNA in Italia è esigua, può essere utile tuttavia guardare alle rilevazioni disponibili sul più ampio target degli stranieri, che condividono comunque con i primi la rarefazione parentale a seguito della migrazione. In un dettagliato rapporto di alcuni anni fa sul tema (Ambrosini, Bonizzoni 2012) sono state indagate le relazioni di supporto rispetto a una serie di scambi di natura quotidiana che segnalano diversi livelli di fiducia: lasciare a qualcuno le chiavi di casa in caso di assenza; affidare temporaneamente i figli in caso di necessità; chiedere aiuto nella ricerca di un lavoro, di ospitalità, o di un prestito di natura economica. Nel complesso vi è una piena conferma di come le reti amicali giochino un ruolo prioritario, superando in quasi tutti i fattori considerati la rete parentale[17] (Bonizzoni 2012). Si può quindi ipotizzare che per i ragazzi MSNA la rete amicale che sono in grado di sviluppare nel paese di accoglienza sia di vitale importanza.

Nelle esperienze abitative ho ritrovato questo processo di sovrapposizioni, scomposizioni e ricomposizioni che dà luogo a quella trama complessa che è l’odierno percorso di crescita. Attraverso la relazione quotidiana si sperimenta, anche rafforzando sé stessi, un’idea di autonomia che non è individualismo, ma capacità di scegliere le giuste persone di cui fidarsi, e quindi a cui affidarsi. Ciò si concretizza nel prestarsi alcuni oggetti di uso quotidiano, oppure nel supportarsi emotivamente durante periodi stressanti, o ancora nel sostegno concreto durante momenti di difficoltà come la malattia. In questo senso il fatto di lasciare il computer disponibile, mettere in condivisione la bicicletta, offrirsi per dare un passaggio in macchina, fanno della casa nel complesso una risorsa relazionale fondamentale. Come lascia intendere C., uno dei due ex-MSNA presenti nel progetto: «avevo bisogno di qualcuno che mi dava una mano quando mi hanno buttato fuori dalla comunità e... non sapevo dove andare […] con i documenti... mi hanno aiutato tanto, accompagnato in questura a Milano, come una sorella o un fratello»[18]. Questi continua ammettendo di essere stato molto seguito con la preparazione del test per la patente: «da solo non so se ce l'avrei fatta»[19], dice. Un aiuto, questo, che viene descritto nei termini di «una conquista di cui vado fiera»[20] da una delle inquiline che più di altri si era spesa in questo senso. È una reciprocità “addomesticata”, famigliare quella che si offre: «come io chiedo a mio fratello, magari C. mi manda un messaggio»[21] afferma un’altra inquilina, nella consapevolezza che «a differenza nostra hanno meno relazioni, magari vanno a dormire da un amico una volta al mese e per farlo devono organizzarsi coi bus»[22]. Naturalmente abitare in sette implica che si sviluppino affinità con alcune persone e non con altre, ma «quando ti metti in casa con qualcuno che non conosci e le cose vanno bene con alcuni poi il legame che si forma è forte»[23], e i risvolti pratici sono evidenti: un importante «sostegno emotivo nelle situazioni in cui ti prende la solitudine e anche un po’ di depressione magari, perché non sai cosa farai l’anno prossimo»[24], prestarsi soldi in caso di bisogno, condividere le spese e l’uso dell'automobile, fino a «sapersi organizzare per l'uso della stanza quando c'è la fidanzata»[25].

Si può notare che la specificità della relazione amicale implica essa stessa lo sviluppo di un certo grado di autonomia, perché è proprio in questo, nell'essere una relazione fra individui che hanno un certo grado di autonomia che si differenzia dagli altri legami primari di affinità e consanguineità (Bell, Coleman 1999). In questo e nell'aspetto volontaristico, ovvero nella scelta (Alberoni 1984), essa si differenzia anche da tante altre relazioni contingenti quali il rapporto di lavoro, quello di vicinato e di conoscenza. È chiaro dunque come lo sviluppo di relazioni amicali forti agisca da fondamentale meccanismo di emancipazione positiva dalle relazioni di dipendenza che caratterizzano l’infanzia e si riveli quale dispositivo (e contesto) educativo efficace in un progetto volto all’autonomia.

Riprendendo, infine, la capacità di ancoraggio che offre la dimensione domestica si può notare una ulteriore opportunità di convergenza fra giovani nativi e stranieri a proposito delle mutazioni a cui è sottoposto il sentimento del “sentirsi a casa”. Se consideriamo fattori quali la sempre maggiore interdipendenza globale, la migrazione e la circolazione simbolica, la moltiplicazione delle esperienze, nonché la velocità con cui si transita per realtà differenti, risulta evidente come «la tradizione incorporata nello spazio fisico appare sempre meno stabile e definita una volta per tutte», soggetta a «tali e tante contaminazioni da non riuscire a caratterizzare come un unicum tale spazio e comunità che lo abita» (Rampazi 2011: 24). Dunque, il radicamento e la produzione di quella disposizione emotiva che è il “sentimento di casa” (Heller 1999) saranno qualcosa da agire e costruire attivamente, tanto per i nativi quanto per gli ex-MSNA, piuttosto che da considerare come qualcosa di già dato (Rampazi 2011: 29). Lo sradicamento dovuto alla migrazione negli ex-MSNA incontra così la necessità di agire il radicamento quale esperienza oggi sempre più generalizzata a tutti i giovani (Tomlinson 2001). Il risultato sarà un affastellamento di caratterizzazioni culturali sullo stesso luogo da abitare e la dimensione comune e condivisa di questo agire non potrà allora che realizzarsi nello slittamento di “sentirsi a casa” dal “dove” al “come e con chi” (Rampazi 2011: 27).

Casa e appartenenza

Dopo aver evidenziato gli aspetti di maggiore efficacia del progetto nel mettere a frutto le molteplici convergenze fra ragazzi nativi e stranieri, è utile sottolineare anche quelli che appaiono più critici. La mia indagine si è svolta mentre terminava un ciclo per il CB; dopo due anni si è verificato, infatti, il trasloco di tutti gli inquilini in una sistemazione totalmente indipendente. Ho avuto così l’opportunità di cogliere nelle parole degli intervistati anche una sorta di bilancio conclusivo, di un “tirare le fila” dei due anni di progetto che, per citare le parole di alcuni di essi, «non è che sia finita troppo bene»[26]. Nel corso della convivenza, infatti, il clima fra alcuni dei conviventi si è gradualmente deteriorato fino a lasciare, una volta concluso il progetto, strascichi negativi. Analizzare la narrazione di questi problemi è importante per comprendere le tipicità di un progetto sociale di questo tipo, così come individuare gli aspetti più suscettibili e i punti fragili soprattutto se si auspica, com’è nel mio caso, la sua riproducibilità e diffusione. Come già accennato, la complessità del processo abitativo presuppone che, mentre il soggetto agisce nei confronti dello spazio-casa per renderlo accogliente e conforme ai propri gusti e ai propri bisogni, la casa, per via della sua struttura, agisca su chi vi abita in maniera “disciplinare” (Pasquinelli 2004: 92). Si viene a creare un campo relazionale in divenire, in cui ciascun soggetto intrattiene una relazione con gli altri in qualità di soggetto e, al tempo stesso, lo fa attraverso lo spazio-casa, col quale intrattiene a sua volta un rapporto specifico, personale, che ne fa un particolare mezzo di comunicazione (Meloni 2014: 422). Con “cultura domestica” si può far riferimento a tutto il portato culturale che orienta, fra le altre cose, la dinamica di queste interazioni. Si evidenziano due fattori che riguardano il mutare del tipo di relazioni che lega le persone che abitano la casa: da un lato il venir meno dei rapporti di affinità e consanguineità[27] ad informare il loro “stare insieme”, dall’altro il darsi del compito educativo quale funzione primaria dell’abitazione. A proposito del primo fattore si tenga presente che nell’evoluzione storica della cultura domestica occidentale – che ha visto trasformazioni a proposito della significazione degli ambienti, del rapporto tra pubblico e privato, dei ruoli di genere (Cieraad 1999; Rampazi, Mandich 2009; Marrone 2013) – un elemento è rimasto però immutato: lo stretto e primario legame che intercorre fra la casa e la famiglia (almeno a livello di egemonia simbolica/immaginario). La relazione amorosa e quella genitori-figli, e il senso di appartenenza che generano, intervengono in maniera decisiva a plasmare l’abitare, con la specifica attribuzione di ruoli, identità e compiti. Quando la ragione che informa l’abitare è un rapporto amicale vi è una grande ripercussione sulla casa per via dell’autonomia dei soggetti coinvolti.

Le cose si fanno più complicate – afferma L. – [come in] tutti i casi di “coinquilinaggio” tra persone che non hanno un “rapporto/confronto obbligato” (famiglia-amore). Ogni coinquilino ha la sua scala di valutazione per le situazioni, per il giusto e lo sbagliato, per il “questo forse è troppo” e quando li metti insieme se non c'è una comunicazione trasparente qualche rottura si crea per forza[28].

Nell’assenza di legami già dati è quindi fondamentale saper sviluppare una buona comunicazione e una disposizione alla comprensione reciproca per una gestione collaborativa degli spazi. Ecco invece che sono proprio le difficoltà comunicative e la poca apertura, che i diversi inquilini evidenziano come limite di questa esperienza e causa del deteriorarsi del clima di convivenza. Ciò si riflette nella gestione dell’ordine domestico, dove seguendo le linee di demarcazione fra divisione e condivisione degli spazi e dell’uso di oggetti (chi condivide cosa e con chi), si può cogliere il livello di appartenenza e integrazione che si è venuto a creare. Ad esempio, la spesa non era in comune ma ognuno la faceva per sé; i tentativi di acquisto condiviso di un paniere minimo si riducono prima esclusivamente ad alcuni ingredienti base come olio, sale e zucchero, ma anche l’olio verrà poi eliminato. Come chiarisce M.: «le regole della casa ce le siamo date noi e nel corso del tempo le abbiamo aggiornate, e come vedi hanno riflesso l’andamento della convivenza, cioè sono peggiorate»[29]. Divisioni e condivisioni che ritornano nella gestione degli ospiti, altro elemento significativo perché ci parla della capacità di negoziare e stabilire collettivamente il rapporto fra interno ed esterno: la “porosità” (Rampazi, Mandich 2009) della casa e dei suoi muri. Inizialmente la regola, che «nel tempo è stata disattesa»[30], prevedeva di avvisare con un certo preavviso gli altri coinquilini della presenza di eventuali ospiti. Anche così succedeva che «certe volte arrivavi a casa morto e ti trovavi quindici persone e dicevi “ok mi chiudo in camera”»[31]. Il fatto di invitare a casa gli amici o la fidanzata è particolarmente rivelatore della natura intima della casa e l’idea che essa debba riflettere la personalità comporta che la sua apertura esponga chi ci abita al giudizio degli altri. Succede allora che qualcuno affermi di aver invitato il partner, che «si è trovato talmente bene che è rimasto con gli altri anche quando io ho deciso di andare a letto»[32], e qualcun altro invece di averlo invitato/a soltanto quando sapeva che «chi c'era in casa non avrebbe storto il naso»[33]. È importante rilevare che era stato preposto il “pranzo del sabato”, come momento di condivisione collettiva, sia per discutere di decisioni logistiche che per affrontare i problemi di convivenza. Rispetto a questo appuntamento settimanale gli inquilini la raccontavano come un’occasione mancata in cui ci si limitava ad un «piglio polemico, alla frecciatina... quindi senza che si traducesse nel confronto anche conflittuale ma vero»[34]. Così «quando si è capito che era diventato più un obbligo che un piacere...è saltato»[35].

Per quanto riguarda il fattore educativo, invece, si deve considerare per prima cosa il significato stesso di “progetto”. Nelle case condivise sorte spontaneamente e autogestite, l’esistenza di un progetto comune assicurava la buona convivenza. Si trattava di una visione condivisa dal gruppo sulla scelta di convivere, che in qualche modo riusciva a proiettare nel futuro. Nella convivenza del CB invece con “progetto” si intende un’idea sviluppata da un’associazione di promozione sociale che ha selezionato secondo i propri parametri gli inquilini, che li supporta economicamente e che ne stabilisce la conclusione. Questo fatto è stato motivo di ulteriori difficoltà, come appare chiaro dalle parole di L.:

Certi scazzi sono usciti verso la fine: cose non dette, cose non sopportate e tenute dentro e cotte a fuoco lento, fastidi, incompatibilità...tutti problemi di convivenza tra persone che si sono trovate sotto lo stesso tetto, e in questa situazione ognuno cerca di smussare i propri angoli cerca di limare il proprio carattere però alla fine i pezzi del puzzle che non si incastrano non si incastrano[36] [corsivo dell'autore].

Inoltre, la prospettiva temporale limitata – a scadenza – tipica della maggior parte dei progetti sociali muta decisamente l’ottica con cui le persone vivono la convivenza che è intesa, appunto, come una tappa breve e temporanea del proprio percorso di vita e non favorisce l’investimento personale e l’impegno di ciascuno.

È proprio la presenza di un agente esterno alla casa che ha il compito e il potere di intervenire nelle sue dinamiche – in questa mediazione, nel senso semplice dello “stare nel mezzo” – che apre le opportunità dell’intervento educativo. Dove le modalità e scelte d’intervento sono in grado tanto di facilitare e valorizzare l’abitare come contesto favorevole all’autonomia, quanto di agire all’opposto come ostacolo e freno (Di Masi, Defrancisi 2018), perché si ha a che fare, seppur in maniera ridimensionata rispetto alle strutture di accoglienza per migranti, con la limitazione dell’esperienza soggettiva dell’abitare.

La questione educativa

Si può approfondire la dimensione educativa del progetto osservando la stessa terminologia utilizzata. Come mi viene spiegato, tanto dai ragazzi quanto da uno dei referenti del progetto, gli ospiti del Castello Bello sono definiti in maniera diversa tra loro: ci si riferisce ai ragazzi nativi con l’appellativo di “ragazzi risorsa”, e agli ex-MSNA con quello di “ragazzi ospiti”[37]. A fianco di una situazione paritaria, di un apprendimento comune all’insegna della reciprocità fra nativi e stranieri, si riconosce dunque apertamente la presenza di un divario fra i due target di giovani. Questa differenza si riflette peraltro nelle motivazioni dei singoli alla partecipazione al progetto: con un maggiore accento al «bisogno di supporto»[38] da parte dei ragazzi stranieri contro una tensione etica dei nativi espressa, a seconda delle sfumature, come «voglia di condividere un impegno sociale»[39], «sensibilità verso l'accoglienza»[40], «recupero del politico nel privato dello spazio domestico»[41]. Questa disparità, come lasciano intendere i termini utilizzati, pone in essere un compito, per i nativi – per questo individuati come risorsa – verso gli ex-MSNA, gli ospiti[42]. In quest’ottica il referente dell’associazione aggiunge: «abbiamo sempre detto ai ragazzi risorsa che non erano educatori ma che in qualche modo ci aspettavamo che su alcuni aspetti potessero avere anche una funzione educativa»[43]. Oltre al reciproco supporto riguardo la dimensione domestica descritto in precedenza, i compiti in cui si traduceva questa funzione educativa erano tesi ad alcuni specifici obiettivi: l’aiuto linguistico, il districarsi nella burocrazia italiana per l’ottenimento del permesso di soggiorno, il supporto nello studio, un sostegno per il conseguimento della patente di guida. Inoltre entrambi gli ex-MSNA erano seguiti dai Servizi Sociali e l’associazione si poneva quale intermediario per la verifica del percorso di autonomia. Continua il referente:

I ragazzi risorsa ci davano un riscontro su come vedevano il ragazzo [ospite] in casa, rispetto al saper vivere bene gli spazi e le relazioni. Noi facevamo da tramite con il servizio sociale con il quale, se era necessario, intervenivamo anche per correggere il tiro[44].

Il riscontro avveniva tramite la partecipazione a turno di uno dei nativi alle riunioni dell’associazione e mediante una chat di gruppo che includeva i ragazzi nativi e i due referenti dell’associazione. Considerando in generale questi vari livelli di relazione e aiuto, l’impressione avuta ascoltando le parole degli intervistati è che la sovrapposizione dei ruoli che si è venuta a creare – quella di essere coinquilini, amici con un compito educativo – insieme a un’insufficiente presenza dell’associazione nelle dinamiche interne alla casa ha generato col tempo un’insofferenza e un (percepito) sovraccarico di responsabilità che ha minato la convivenza. Lo spiega bene L., cercando di cogliere entrambi i punti di vista in gioco:

Penso che, come per noi non sia stato facile inquadrare il rapporto con loro, anche per loro non sia stato facile inquadrare le nostre figure, figure plastiche, liquide. A volte amici, a volte persone che ti correggono, a volte che ti aiutano, coinquilini sì ma era chiaro che ci fosse una disparità, che il rapporto alla pari, a cui si ambiva, non era proprio la realtà dei fatti. […] Credo che inizialmente ci vedessero un po’ come i nuovi educatori poi il rapporto si è rilassato, hanno imparato a fidarsi[45].

Il fatto di percepirsi ed essere percepiti o meno come educatori è al centro dei discorsi di molti, a testimonianza della difficoltà (o impossibilità?) di sciogliere l’ambivalenza sul ruolo educativo. Così in molti, come F., hanno affermato di sapere bene che «non si doveva essere gli educatori di nessuno»[46], ma al tempo stesso c’è chi ha evidenziato la scarsa presenza dell’associazione. Daniele spiega in merito che c’erano due membri dell’associazione come riferimento, «sia per fare da facilitatori delle dinamiche interne se serviva, sia per questioni più pratiche legate alla casa, infine tenevano i rapporti con gli enti invianti dei ‘ragazzi ospiti’»[47]. Una presenza quantificata da lui stesso «in funzione della situazione, direi circa di un incontro ogni due mesi e contatti telefonici più volte alla settimana»[48], condizionata non solo dal fatto che l’associazione si regge completamente sul contributo volontario dei propri aderenti in termini di disponibilità e tempo, ma anche dall’entrata in maternità dell’operatrice di riferimento durante lo svolgersi del progetto. Come afferma F.: «questa cosa dei ‘passaggi’ era lasciata un po' a se stessa, ce ne sarebbero voluti di più, che un punto di vista esterno sai... e il verbalizzare le cose aiuta»[49]. Altro punto dolente è, infatti, la carenza dell’organizzazione di momenti deputati a trattare esplicitamente dei problemi della convivenza, la cui mancanza è stata sottolineata da tutti gli intervistati. Come già detto l’unico tentativo, quello dei “pranzi del sabato”, è fallito per via delle stesse problematiche che avrebbe dovuto tentare di risolvere. Nonostante alcune fatiche, è da sottolineare la scelta anche coraggiosa di provare ad emanciparsi da una concezione assistenzialistica di un servizio educativo volto all’autonomia, mediante un’interposizione minima dell’associazione fra i coinquilini e la casa, quindi di una presenza leggera nella stessa. Scelta che va salutata positivamente rispetto alle riflessioni fatte precedentemente sulle strutture di accoglienza per migranti. D’altro canto, però, essa richiede una particolare attenzione agli equilibri e alle dinamiche interne alla casa, tanto più che, per la specificità dei soggetti coinvolti, un altro elemento interviene a complicare lo scenario: il generarsi di sentimenti pseudo-famigliari fra nativi e stranieri. Tanto la distanza anagrafica quanto il non avere familiari vicini genera infatti simili atteggiamenti e dichiarazioni: «mi viene voglia di fargli da mamma e preparagli la merenda»[50], oppure «mi è capitato un paio di volte di accompagnarlo dalla fidanzata la sera e tornare a prenderlo» e ancora «sono andato a vederli giocare alla partita di calcio perché mi sembrava che per loro fosse importante, perché loro non avevano i genitori a fare il tifo»[51]. Questi sentimenti del tutto comprensibili riflettono senza dubbio un clima positivo e un senso d’appartenenza al di là delle difficoltà descritte, ma proprio per questo rischiano di aumentare il senso di responsabilità ed il carico emotivo, oltre a stabilire rapporti verticali.

Le considerazioni portate dagli inquilini sono discordi, c'è chi sostiene, come F., che «si è concentrata troppo l’attenzione sui ragazzi stranieri perdendo di vista la casa nella sua interezza»[52], c'è chi, invece, come M., che sembra lamentare proprio una carenza educativa sui ragazzi stranieri:

L’associazione vedendo che le cose funzionavano lo stesso, non interveniva. I ragazzi [ospiti] avrebbero avuto bisogno di una figura educativa che non c’è stata, è stato dato per scontato che c’eravamo noi nativi... […] Certo vivevamo insieme senza disagio né problemi gravi, ma non significa che non avessimo bisogno di sostegno[53].

Dal canto suo C., uno dei due ragazzi stranieri, sebbene sembri non aver dubbi su quanto sia stato prezioso il supporto ricevuto, spendendo quasi solo parole positive per descrivere l’esperienza vissuta, si sofferma però con una certa insofferenza a descrivere l’uscita di casa alla conclusione del progetto. Secondo quanto illustrato dal referente, la conclusione del progetto non era stata fissata in partenza ma sarebbe stata determinata dal raggiungimento di una serie di obiettivi, valutato in itinere anche con i Servizi Sociali: «l’autonomia personale ed economica, quella relativa all’abitare, di crescita nel lavoro/studio»[54]. I problemi si sono manifestati, secondo quanto racconta C., per via delle pressioni esercitate su di lui e R. da parte della referente e di alcuni dei coinquilini a proposito della ricerca della nuova casa:

Loro dicevano sempre voi non volete uscire, siete lì a giocare, a vedere la partita e non vi impegnate a cercare la casa...e allora io mi sono incazzato un po’, ho detto basta: quando la troviamo usciamo subito, ma finché non la troviamo, aiutateci un po'[55].

Sebbene fosse stata comunicata loro con un certo anticipo la fine del progetto e gli sia stata accordata anche una proroga di un mese, il tutto è stato vissuto con una certa sofferenza, tanto che C. afferma che «a quel punto non sarei comunque rimasto lì […], volevo cambiare aria»[56]. Questo è un episodio significativo, perché mostra come l’organizzazione del progetto influisca sui comportamenti e sulle aspettative dei partecipanti. Quello che, delle dichiarazioni di C., può apparire come una resistenza e una fatica a intraprendere il passo decisivo verso l’autonomia è certamente stato condizionato dall’aver identificato fin da subito C. come innanzitutto bisognoso di aiuto, attraverso la netta suddivisione fra “ospiti” e “risorse”, che ha costruito e fatto sperimentare nel corso della convivenza uno sguardo asimmetrico sugli inquilini.

Conclusione

In questo articolo ho cercato di dimostrare come di fronte ai processi di individualizzazione e frammentazione del corpo sociale, di precarizzazione dei percorsi di vita e fluidificazione dei legami la condivisione abitativa può offrirsi quale laboratorio e campo protetto per ricostruire legami e sperimentare nuove forme di convivenza. La casa è considerata un particolare luogo che, con la sua struttura, facilita l’appaesamento a patto, però, che sussistano le condizioni di abitabilità, ossia la possibilità per il soggetto di stabilire con lo spazio domestico un rapporto personale di significazione e auto-riconoscimento. Nell’analisi di un progetto sociale, volto a favorire l’autonomia di giovani nativi e stranieri non accompagnati, ho rilevato come molti elementi che caratterizzano i cambiamenti in atto a livello socio-culturale – rispetto al divenire adulti, alle condizioni del radicamento in un luogo, alle trasformazioni relazionali e parentali – trovino proprio nella co-abitazione una straordinario punto di incontro. La casa può in tal senso essere vista come luogo di alleanze (ISMU 2019: 64, 90) contro i dispositivi di una società inospitale. Diviene però fondamentale un approccio “di sistema” (Colombo 2019: 23), che abbia nella dimensione collettiva e condivisa il focus dell’intervento educativo, andando a rafforzare le condizioni di possibilità di questa alleanza e convergenza. Questo senza ovviamente trascurare le specifiche esigenze di accompagnamento degli ospiti – per gli ex-MSNA di quei passaggi che ne assicurano la permanenza in Italia – che vanno però decentrate, così da poter accrescere in beneficio indiretto di una buona convivenza. Al contrario il rischio è che un divario nelle condizioni di partenza, legato al potere di acquisto, all’accesso a beni come l’automobile o alla differenza di età finisca per essere rafforzato e reiterato a causa dell’impostazione del progetto, che stabilisce dei ruoli diversi, richiedendo ai ragazzi nativi spazi di responsabilità e potere, mentre si relegano i ragazzi stranieri nelle categorie identificative di fragili, ospiti, bisognosi d’aiuto. Problematiche, queste, figlie di un difficile equilibrio prodotto, in questo caso, dalla scelta dell’associazione di alleggerire la presenza educativa esterna, dalla necessità di impostare un’organizzazione della convivenza che sopperisca a tale alleggerimento generando una responsabilizzazione senza un carico emotivo eccessivi e sbilanciato, che è stato invece percepito dagli ospiti. In quest’ottica sono convinto che lo sguardo antropologico si presti efficacemente a illuminare i punti i critici, laddove la tensione fra queste forze è maggiore. Da ultimo, un aspetto fondamentale riguarda la cura delle relazioni che si vengono a creare per mezzo dello spazio domestico, cura necessaria affinché la co-abitazione, per i ragazzi, si traduca in un apprendimento di capacità comunicative, di mediazione e di gestione dei momenti di confronto collettivo. Come è stato notato anche in altri studi sull’argomento (Ponzo 2010) è importante evitare la sottovalutazione dell’aspetto sociale dell’abitare (dall’housing all’homing) ritenendo che la casa in sé agisca come un meccanismo automatico di inclusione.

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[1] Mi riferisco a quella “morfologia variabile” di aggregati abitativo-relazionali che comprende le case condivise, le famiglie allargate, i cohousing, le reti famigliari, le comuni, ecc. (Sapio 2010).

[2] Si veda l’elaborato per il conseguimento della laurea magistrale in Antropologia e Storia del mondo contemporaneo, Università di Modena e Reggio Emilia, 2018, dal titolo: “Qualcosa di familiare”. Amicizia e condivisione abitativa nei mutamenti socio-affettivi contemporanei, https://morethesis.unimore.it/theses/available/etd-03112018-170400/.

[3] La condivisione abitativa permette una valutazione più libera del “progetto di convivenza” qualora sia presente un partner non costringendo alla scelta forzata fra l’abitare da soli o attendere di trovare “la persona giusta”.

[4] Mutuato dal da-sein, l'“esser-ci” heideggeriano (Heidegger 1976).

[5] Paralisi che l'autrice evince da diversi indicatori, a livello famigliare, lavorativo e politico.

[6] Il sistema SIPROIMI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati - ex SPRAR) ha sempre sofferto la mancanza dei finanziamenti necessari a diventare il pilastro del sistema di integrazione italiano, tant'è che dalla loro introduzione nel 2015 sono stati i CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) a sopperire a tale mancanza; inoltre la riforma Salvini (Dl 113/2018) ha limitato l’accesso al SIPROIMI soltanto a chi ha già ricevuto esito positivo dalla richiesta di asilo.

[7] Si parla di circa il 75 percento delle presenze (Open Polis 2019).

[8] A seconda che questi prendano la forma più dell’appartamento (accoglienza diffusa) o più “del campo” (accoglienza collettiva), vista la loro estrema variabilità nella forma e nelle dimensioni. Si consideri che la riforma Salvini, abbassando di quasi il 40 percento le rette pro die capite proprio all'accoglienza diffusa, ha imposto il modello collettivo (dai 20 ai 300 posti) come l’unico economicamente sostenibile (Open Polis 2019).

[9] Si noti la triste ironia di aver utilizzato un acronimo così vicino alla parola ‘casa’ com’è quello di ‘CAS’, come a voler inconsciamente esplicitare l’incompletezza dell’abitare queste strutture, a rimarcarne la differenza e i limiti imposti.

[10] È il motivo per cui lungo tutta la presente trattazione mi sono permesso di utilizzare l’appellativo di “ex Minori Stranieri Non Accompagnati” (ex-MSNA), per ragazzi che sono entrati a far parte del progetto da maggiorenni, è la necessità di fare un discorso che verte anche sugli effetti della condizione dalla quale si apprestano a uscire.

[11] Si consideri che nel 2018 l’85 percento dei MSNA è arrivato in Italia all'età di 16-17 anni (ISMU 2019: 50).

[12] Per la maggior parte degli intervistati l'esperienza abitativa al Castello Bello era infatti la prima (o la prima esperienza ‘seria’) fuori dalla casa di origine.

[13] Intervista al referente dell'associazione, raccolta dall’autore a Cantù in data 23/02/2020.

[14] Intervista a F., raccolta dall’autore a Cantù in data 29/10/2019.

[15] Consultabile all'indirizzo https://www.istat.it/it/archivio/81546, faccio riferimento qui alle tavole 7.1 e 7.3 del rapporto. Ultima consultazione in data 02/08/2020.

[16] Dato generale a prescindere dalle variazioni di età, genere, classe sociale, provenienza geografica.

[17] La ricerca differenzia due livelli di fiducia: negli scambi di primo livello (casa, figli, ospitalità, prestito), vi è un affidamento alle reti amicali per un valore (medio) del 47,7 percento a fronte del 39, 3 percento che si affida alle reti parentali. Nel secondo livello (lavoro, burocrazia, scuola) si vede addirittura un 80,5 percento contro il 6 percento. Nel dettaglio del primo livello, soltanto rispetto al prestito di natura economica si chiede in maggior misura aiuto ai parenti (26,8 contro 48,8 percento) (v. tabelle 2 e 3 alle pp. 115-6).

[18] Intervista a C., raccolta dall’autore a Cantù in data 26/11/2019.

[19] Intervista a C., raccolta dall’autore a Cantù in data 26/11/2019.

[20] Intervista a L., raccolta dall’autore a Cantù in data 06/02/2020.

[21] Intervista a F., raccolta dall’autore a Cantù in data 29/10/2019.

[22] Intervista a F., raccolta dall’autore a Cantù in data 29/10/2019.

[23] Intervista a M., raccolta dall’autore a Cantù in data 18/11/2019.

[24] Intervista a F., raccolta dall’autore a Cantù in data 29/10/2019.

[25] Intervista a P., raccolta dall’autore a Cantù in data 02/02/2020.

[26] Dal diario del giorno 21/10/2019.

[27] Posso qui soltanto accennare al fatto che nella precedente ricerca confluita nella tesi di laurea questa riconfigurazione era stata di stimolo per addentrarmi nel grande dibattito sulla definizione della famiglia, per la quale l’abitazione ha un ruolo centrale. Avevo valutato allora l’opportunità di utilizzare i concetti di famiglia e di imparentamento “post-naturale” per le situazioni abitativo-relazionali prese in esame.

[28] Intervista a L., raccolta dall’autore a Cantù in data 06/02/2020.

[29] Intervista a M., raccolta dall’autore a Cantù in data 18/11/2019.

[30] Dal diario del 03/12/2019.

[31] Dal diario del 03/12/2019.

[32] Intervista a F., raccolta dall’autore a Cantù in data 29/10/2019.

[33] Dal diario del 03/12/2019.

[34] Dal diario del 03/12/2019.

[35] Intervista a M., raccolta dall’autore a Cantù in data 18/11/2019.

[36] Intervista a L., raccolta dall'autore a Cantù in data 06/02/2020.

[37] In alternativa di “ragazzi fragili”, come riportato da alcuni intervistati.

[38] Intervista a C., raccolta dall'autore a Cantù in data 26/11/2019.

[39] Intervista a L., raccolta dall'autore a Cantù in data 06/02/2020.

[40] Intervista a F., raccolta dall'autore a Cantù in data 29/10/2019.

[41] Intervista a P., raccolta dall'autore a Cantù in data 02/02/2020.

[42] Divario che si traduce anche sul costo dell'affitto, minore per i nativi «perché l’associazione intende valorizzare il tempo che mettono a disposizione», mentre la parte degli ex-MSNA è sostenuta in parte dai Servizi Sociali.

[43] Intervista al referente dell'associazione, Cantù in data 23/02/2020.

[44] Intervista al referente dell'associazione, Cantù in data 23/02/2020.

[45] Intervista a L., raccolta dall'autore a Cantù in data 06/02/2020.

[46] Intervista a F., raccolta dall'autore a Cantù in data 29/10/2019.

[47] Intervista al referente dell'associazione, Cantù in data 23/02/2020, corsivo dell'autore.

[48] Intervista al referente dell'associazione, Cantù in data 23/02/2020.

[49] Intervista a F., raccolta dall'autore a Cantù in data 29/10/2019

[50] Intervista a F., raccolta dall'autore a Cantù in data 29/10/2019.

[51] Intervista a M., raccolta dall’autore a Cantù in data 18/11/2019.

[52] Intervista a F., raccolta dall'autore a Cantù in data 29/10/2019.

[53] Intervista a M., raccolta dall’autore a Cantù in data 18/11/2019.

[54] Intervista al referente dell'associazione, Cantù in data 23/02/2020.

[55] Intervista a C., raccolta dall’autore a Cantù in data 26/11/2019.

[56] Intervista a C., raccolta dall’autore a Cantù in data 26/11/2019.