L’antropologia in condominio

Pratiche di convivialità attorno a un cortile di Porta Palazzo a Torino

Francesco Vietti

Università di Milano Bicocca

Indice

Corso Giulio Cesare 6, Torino, giugno 2019
Introduzione
Un antropologo in cortile
Biografia di una casa di ringhiera
Cosa può offrire l’antropologia agli amministratori di condominio?
Conclusioni
Bibliografia

Abstract. The article moves from an auto-ethnographic approach to reflect on spaces and practices of conviviality in a tenement house located in Porta Palazzo, a neighbourhood of Turin characterized by longstanding immigration and cultural diversity. The “biography” of the building mirrors the story of the surrounding area: in the last century, it experienced multiple forms of mobility, hosting internal immigrants from southern Italy, then international immigrants from all over the world and finally a growing number of tourists attracted by its cosmopolitan atmosphere. Today the flats are therefore inhabited by a remarkably diverse population, among whom everyday conflicts, strategic alliances, exchanges and misunderstandings arise about the various dimensions of shared living. Recently, the tenants were engaged by the author in a participative project to collect stories and memories of the house which resulted in the decision to carry out a series of convivial activities in the large courtyard of the building. Analysing the process of (re)generation of social relations observed in this specific context, the article argues that anthropologists should consider the apartment buildings to be a field where they can apply their knowledge to realize initiatives that support inclusion, interaction and solidarity among residents. This is a challenge made even more urgent by the recent lockdown resulting from the Covid-19 epidemic.

Keywords. Conviviality; house; mobility; Turin; applied anthropology.

Corso Giulio Cesare 6, Torino, giugno 2019

Il cortile pian piano va riempiendosi. C’è chi arriva da fuori, entrando dal portone del palazzo da solo o in piccoli gruppi. Chi scende dagli appartamenti del condominio, portando con sé la sedia della cucina per sistemarsi più comodamente. C’è anche chi non scende, ma si affaccia dal ballatoio per vedere quel che sta succedendo. Sono le 16, l’orario che abbiamo indicato sui volantini per l’inizio della prima “Festa di Corso Giulio Cesare 6”. Le persone prendono posto, i bambini sono seduti sui grandi tappeti che la Moschea della Pace ha messo a disposizione: normalmente il venerdì, e nel mese di Ramadan, su quei tappeti si inginocchiano i fedeli musulmani che vengono in questo stesso cortile a pregare. Oggi tocca invece ai più piccoli, musulmani e non, utilizzarli per assistere allo spettacolo del “Circo Famiglia Show”. Anche loro sono abitanti della casa: due adulti e quattro giovani, tre figli maschi e una figlia femmina, tutti artisti di strada, una famiglia circense che sembra uscita direttamente dal romanzo “César Cascabel” di Jules Verne. Acrobazie, numeri di trasformismo, giocoleria, equilibrismo e sketch comici strappano risate e applausi al centinaio di persone che affolla il cortile. Terminata l’esibizione, è il momento della caccia al tesoro: si dividono le squadre, si distribuiscono gli indizi… e si parte. Domande e indovinelli riguardano la storia dell’edificio e per risolverli occorre parlare con i negozianti della panetteria marocchina e della macelleria halal che si trovano accanto all’ingresso, o intervistare alcuni dei condòmini che vi abitano da decenni e che conservano memoria di com’era il palazzo e di come si vivesse qui negli anni Sessanta del secolo scorso, all’epoca della grande migrazione dal Meridione d’Italia. Alla fine, un premio per tutti: una bella merenda a base di pasticcini di pasta di mandorle e sciroppo di rose e fiori d’arancia offerta direttamente all’interno della sala di preghiera islamica. Alcuni degli abitanti del condominio si tolgono le scarpe e ci entrano per la prima volta, con curiosità. Il signor Antonio[1], pugliese, sessantacinque anni, mi avvicina e mi dice: «Era veramente da tanti anni che non c’era tutta questa gente in cortile… sembra quando facevano le feste di compleanno tutti insieme, quand’ero piccolo. Allora c’erano anche le panchine, qui sotto, per sedersi. Dovremmo farle più spesso cose del genere, per far rivivere un po’ la casa».

Figura 1. Un momento della festa nel cortile del condominio (Foto di Francesco Vietti)

Introduzione

Il bozzetto (auto)etnografico con cui ho iniziato questo contributo rappresenta quello che all’epoca ritenevo l’esito finale di un percorso partecipativo che nel corso del 2019 ho intrapreso con i condòmini del palazzo dove risiedo. Se la storia fosse finita in quel sabato di giugno probabilmente sarebbe stato opportuno archiviarla nel cassetto dei bei ricordi e non farne l’oggetto di un articolo di antropologia pubblica. In effetti, ciò che motiva la decisione di scriverne in questa sede è quanto è successo nei mesi seguenti, che mi ha permesso di rileggere l’esperienza vissuta sotto una nuova luce: quella di una pratica d’intervento che può essere trasferita e replicata in altri contesti (altre case, altre città) suggerendo una possibile, nuova collaborazione tra antropologi e i vari soggetti che ruotano attorno alla realtà sociale del condominio (residenti, amministratori e, in alcuni casi, custodi e portieri). Una collaborazione che, forse, può assumere una particolare rilevanza anche in relazione alle diverse forme di socialità e convivenza innescate dall’inedito periodo di lockdown dovuto all’epidemia di coronavirus.

La mia riflessione intende contribuire al dibattito analitico e applicativo che negli ultimi anni l’antropologia ha sviluppato attorno al tema della convivialità. Accanto ad altri concetti in qualche modo interconnessi, come “super-diversità”, “cosmopolitismo”, “multiculturalismo quotidiano” e “razzismo quotidiano”, la convivialità si è affermata come uno dei paradigmi interpretativi per esplorare le dinamiche socioculturali legate alle migrazioni nell’ambito urbano (Wise, Noble 2016: 427). Gli autori che hanno provato ad esplorare etnograficamente le potenzialità e le ambivalenze di questa categoria, hanno messo in luce come il riferimento alla convivialità non debba essere inteso come una semplicista celebrazione della “gioia per le differenze”, ma come un invito ad approfondire la nostra conoscenza delle pratiche concrete, degli sforzi, delle negoziazioni, dei conflitti che attraversano il tentativo di vivere insieme cercando di capirsi attraverso le differenze (Hemer et al. 2020).

“Stare con” è un processo, sempre situato in uno specifico spazio e tempo, che richiede un lavoro di costruzione di connessioni, relazioni e significati. Il medesimo approccio processuale va necessariamente applicato anche quando guardiamo alla “comunità” che si crea attraverso le pratiche di convivialità. Una comunità che possiamo appunto definire “di pratica”, priva di confini definiti e stabili (determinati da differenze etniche o d’altro tipo), ma piuttosto prodotta e riprodotta attraverso continue attività di interazione, coabitazione, condivisione (Neal et al. 2019).

Nei prossimi paragrafi proverò ad analizzare da questa prospettiva la peculiare comunità che in una casa di ringhiera di Torino si è costruita, con tutta la sua instabilità e incertezza, attorno allo spazio di convivialità del grande cortile condominiale e delle storie e attività che qui si sono intrecciate.

Un antropologo in cortile

Corso Giulio Cesare 6 è un condominio che si trova nel quartiere torinese di Porta Palazzo. Si tratta di un grande edificio ottocentesco, suddiviso in quattro scale, che ospita oggi circa cento nuclei famigliari. Vivo in questo edificio da una dozzina d’anni, insieme alla mia compagna e alle nostre figlie, e volendo seguire l’invito di Schlichtman e Patch (2014) a guardarsi allo specchio e non disgiungere la propria vita dal proprio oggetto di studio, inizierò col riconoscere che la nostra famiglia appartiene senz’altro al gruppo dei “pionieri” della gentrificazione in atto in quest’area della città. Le ragioni che ci hanno spinto a scegliere di abitare qui corrispondono perfettamente all’elenco dei “fattori di spinta” che i due sociologi urbani includono nel loro “strumento diagnostico” per individuare i “gentrificatori” (Schlichtman, Patch 2014: 1493): il basso costo degli alloggi, l’apprezzamento estetico dell’atmosfera del quartiere e la fascinazione per la sua storia, l’interesse per la socialità e l’interazione con persone di provenienze e classi sociali differenti, la flessibilità nell’accettare i disagi e gli inconvenienti legati alla zona (microcriminalità, sporcizia). È da questo specifico posizionamento, dunque, che nel corso dell’ultimo decennio ho potuto osservare le tensioni e i profondi cambiamenti che hanno attraversato il territorio di Porta Palazzo. Il quartiere, e in particolare le dimensioni culturali, politiche ed economiche che ruotano attorno al suo grande mercato all’aperto, sono state oggetto di innumerevoli ricerche socio-antropologiche, che hanno inteso esplorare anche dal punto di vista etnografico i vari aspetti del “multiculturalismo quotidiano” che lo anima (Semi 2004, Black 2012). Per mutuare la fortuna espressione coniata da James Clifford (2008), la storia di Porta Palazzo appare quella di un luogo “stanziato nella mobilità”. Fin dalla sua edificazione, nella seconda metà del XIX secolo, il quartiere è stato meta di flussi di persone e merci che ne hanno costituito il peculiare immaginario di area di confine. Porta della città, zona centrale eppure già periferica, simbolo dell’identità torinese ma al tempo stesso spazio altro, alieno, straniero. Località costruita nella e dalla mobilità: prima quella dei contadini e dei commercianti che venivano dalle campagne per vendere e comprare i propri prodotti nel grande mercato, poi quella degli immigrati del sud d’Italia che qui si trasferirono nei decenni del boom economico del secondo dopoguerra, seguita da quella dei migranti provenienti da ogni parte d’Europa e del mondo che qui sono approdati per vivere e lavorare negli ultimi trent’anni. Per giungere infine alla recente turisticizzazione del quartiere, segnata dall’arrivo di un numero crescente di visitatori e studenti attirati dalla sua peculiare atmosfera esotica, ad un tempo familiare ed estranea[2].

Non mi soffermo oltre sul contesto territoriale poiché il mio intento è di darne una lettura originale attraverso le vicende del condominio di corso Giulio Cesare 6. L’origine del progetto partecipativo che intendo illustrare è stata infatti proprio la considerazione della particolare interconnessione tra la storia dello spazio esterno, pubblico di Porta Palazzo e quella dello spazio interno, privato dell’edificio in cui abito. Una relazione stretta, di cui mi accorsi il giorno stesso in cui mi trasferii nella nuova casa, parlando con il titolare dell’agenzia immobiliare italo-cinese da cui avevo comprato l’appartamento. Nel consegnarmi le chiavi del portone del palazzo, mi fu detto che non si trattava in effetti di chiavi particolarmente utili: «La porta, tanto, è sempre aperta». Il condominio in effetti si apre alla città a qualunque ora del giorno e della notte, e la città entra dentro il condominio, come una sua estensione. Quella che nella maggior parte dei palazzi si presenta come una porta chiusa, che delimita e separa due spazi di diversa qualità, nel caso di corso Giulio Cesare 6 è una soglia sempre attraversabile, accessibile.

Questa caratteristica del condominio ha delle sue ragioni, come cercherò di spiegare più avanti, e naturalmente ha delle conseguenze. In ogni caso, proprio la porosità del suo cortile rispetto alla città è al tempo stesso il punto di partenza e il punto di arrivo dell’iniziativa che ho realizzato insieme ai condòmini tra il 2018 e il 2019.

La situazione che mi ha stimolato a proporre ai miei vicini di casa di fare qualcosa insieme per il palazzo è stata un’esperienza comune a tutti coloro i quali vivono in un condominio: l’assemblea. Non mi sono mai proposto di utilizzare le numerose assemblee condominiali cui ho preso parte in questi anni come un oggetto di un’indagine etnografica. Vi ho partecipato come residente, arrabbiandomi, votando, cercando di far valere i miei diritti, esasperandomi, imparando a districarmi tra spese ordinarie e straordinarie, morosità e quant’altro. Come tutti. Non ho però mai potuto, né voluto, evitare anche di osservare come antropologo quanto avveniva in quelle assemblee. Come sa chiunque abbia partecipato a un’assemblea di condominio, la maggior parte delle questioni di cui si discute in tali circostanze riguardano la convivenza. Cosa rende difficile vivere insieme, cosa si deve fare per vivere meglio insieme. Certamente si parla molto, moltissimo di soldi. Quanto versare per le quote dell’acqua, l’ascensore, la pulizia delle scale. Si viene contati e si conta in base ai millesimi, ma in definitiva si tratta di un gruppo di persone che deve trovare il modo di vivere insieme. C’è un amministratore che officia il rito, ci sono punizioni da stabilire per chi non rispetta le regole, alleanze, conflitti, negoziazioni, tradimenti, un equilibrio di forze più o meno consolidato che viene messo in discussione quando nuovi attori entrano in campo. Il che rende in effetti le assemblee di condominio un contesto di estremo interesse etnografico per un’analisi antropologica.

Tuttavia, come detto, non era e non è questo il mio intento. Qui mi preme solo ricordare come, dopo aver partecipato a numerose e affollate assemblee del mio condomino, un paio di anni fa notai come uno dei problemi ricorrenti fosse la difficoltà di comunicazione tra le diverse popolazioni che abitano il palazzo. Come è stato illustrato da studi comparativi ben più ampi del mio (Pastore, Ponzo 2012), nei quartieri d’immigrazione i gruppi si definiscono in base all’intersezione tra diverse categorie distintive. Dunque, non tanto e non solo secondo i confini dell’etnicità, come emerge solitamente nel dibattito pubblico, ma anche seguendo altre faglie di rottura: tra queste, l’età e l’anzianità di residenza. Nelle assemblee condominiali di corso Giulio Cesare 6, gli esiti della combinazione tra queste diverse variabili si concretizzano di volta in volta nei posizionamenti individuali e collettivi rispetto ai temi di discussione. Qualora la questione da affrontare sia il diritto della Moschea della Pace di utilizzare il cortile per la preghiera, la divisione tra residenti italiani e marocchini può mostrarsi rilevante. Ma in molti altri casi, il confronto avviene tra gruppi identificati da un altro fattore: l’abitare nel condominio “da prima” oppure “dopo” il Piano di Recupero Obbligatorio.

La “grande ristrutturazione”, come viene spesso evocata dagli abitanti del palazzo, è stata voluta dalla Città di Torino con una progettazione avviata nel 2001 e implementata nell’arco del decennio successivo attraverso il Comitato The Gate. Un intervento particolarmente complesso, su cui tornerò più avanti, e che va inquadrato nel più amplio contesto dell’opera di “rigenerazione urbana” del quartiere di Porta Palazzo realizzata dal Comune a partire dai primi anni Duemila e tuttora in atto. Nel microcosmo di corso Giulio Cesare 6, la lotta contro il “degrado abitativo” ha comportato la sostituzione di una significativa quota di residenti e ha sancito il consolidarsi di due identità contrapposte: quella dei “vecchi” residenti, ossia coloro i quali hanno vissuto la durezza della condizione abitativa precedente la ristrutturazione e ne hanno sostenuto i costi, e i “nuovi” residenti, che sono arrivati più recentemente, beneficiando delle nuove condizioni dello stabile.

Nel corso degli anni, durante le assemblee condominiali ho assistito a numerose circostanze in cui le difficoltà di traduzione di desideri, necessità, paure, aspettative tra i “vecchi” e i “nuovi” si sono rivelate insormontabili. Sono così giunto alla conclusione che il mio compito di “antropologo residente” del condominio potesse consistere proprio nell’applicare la consueta vocazione alla traduzione culturale della nostra disciplina alla casa dove avevo scelto di abitare e dove, tra l’altro, mi trovavo particolarmente a mio agio. Facendo riferimento alla categoria analitica proposta da Wise (2009), potrei dunque dire di essermi proposto ai miei condòmini nella veste transversal enabler, un «facilitatore di trasversalità», intendendo con questo concetto la pratica di relazioni di conoscenza e scambio significativo attraverso le differenze (Wise 2009: 23).

La mia iniziativa prese dunque avvio nell’autunno del 2018. Composi un semplice volantino in cui proponevo a tutti i condòmini di realizzare una raccolta di storie di corso Giulio Cesare 6, condividendo ricordi, fotografie, narrazioni relative alla vita nel palazzo. Ottenuta l’autorizzazione dall’amministratore del condominio, il volantino fu imbucato nelle cassette della posta di tutti i residenti e affisso in cortile. Nelle mie intenzioni le testimonianze sarebbero state raccolte dal sottoscritto nell’arco dei mesi seguenti, a titolo gratuito, e restituite nel corso di una serata di presentazione da tenersi nella primavera seguente. Avevo inoltre previsto di poter riunire i materiali raccolti in un libretto da distribuire a tutti i residenti e da affidare all’amministratore del condominio affinché anche in futuro provvedesse a darne una copia ai nuovi arrivati nel palazzo. Infine, proponevo di stampare una selezione delle storie e delle immagini su un pannello da esporre in modo permanente nel cortile condominiale. Il mio obiettivo era evidentemente innescare un processo di costruzione di una memoria il più possibile condivisa della storia della casa, considerandola la base per aprire un canale di comunicazione e collaborazione tra le diverse generazioni e i diversi gruppi di residenti[3].

Le prime settimane dopo la diffusione del volantino mi portarono una novità che non avevo previsto: oltre a ricevere la disponibilità di alcuni condòmini a raccontarmi ciò che sapevano e ricordavano del palazzo, fui contattato da diversi altri che si offrivano di aiutarmi, candidandosi come intervistatori dei propri vicini di casa. Accolsi dunque con molto piacere la loro collaborazione, potendo in questo modo aumentare il numero di persone coinvolte nell’iniziativa e ricavando del tempo per poter arricchire le testimonianze dei residenti con una ricerca presso l’Archivio Storico della Città di Torino volta a ricostruire le fasi più antiche della storia del palazzo. La raccolta delle “Storie di corso Giulio Cesare 6” proseguì per tutta la primavera del 2019: nel paragrafo seguente darò brevemente conto dell’esito di tale lavoro.

Biografia di una casa di ringhiera

La casa è stata per lungo tempo lo sfondo di molte ricerche antropologiche, emergendo raramente come oggetto di analisi in sé. Nonostante la sua centralità nella vita delle persone, la sua posizione nel panorama delle scienze sociali è rimasta periferica (Samanani, Lenhard 2019). Alcuni autori hanno tuttavia mostrato quanto proficuo possa essere un approccio attento a “pensare attraverso le case” le diverse dimensioni della vita sociale in cui si intrecciano le vicende biografiche individuali, le dinamiche delle relazioni famigliari e il più ampio contesto economico e politico a livello locale e generale. Nell’acuta riflessione di Janet Carsten (2018), un’antropologia della casa così intesa deve muovere da tre assunti:

The first is the temporal flow of houses. This may be a material continuity, but also suffers breaches and discontinuities, and it also has immaterial aspects. (…) The importance of memory to what houses are – and particularly the memories of houses occupied in childhood. (…) The third point is the idea that houses could be analysed as ‘biographical objects’ (…) in the sense that houses have biographies that are inextricably entwined with those of their inhabitants (Carsten 2018: 107).

Adottando un approccio simile a quello descritto da Carsten, vorrei qui analizzare il condominio di corso Giulio Cesare 6 intendendolo come un “oggetto (auto)biografico”, provandone a ricostruire il “flusso temporale” fatto di continuità e rotture dal punto di vista materiale e immateriale attraverso le tracce che esse hanno lasciato nella memoria dei residenti, incluso il sottoscritto. Le “Storie” raccolte insieme ai miei condòmini possono in questa prospettiva essere lette come testimonianze che mettono in luce la reciprocità e mutualità della relazione tra la biografia dell’edificio e quelle dei suoi abitanti (Martínez 2018: 124)[4].

La storia di mobilità in cui è situato il condominio, al pari del quartiere che lo circonda, può in qualche modo far accostare questo palazzo ad altri edifici che sono apparsi ai ricercatori che li hanno osservati dal punto di vista etnografico come dei veri e propri “hub della globalizzazione dal basso”: snodi di flussi globali di persone, beni, idee, denaro capaci di connettere diversi luoghi del pianeta. Penso, a livello internazionale, al grattacielo Chungking Mansions di Hong Kong, studiato dall’antropologo Gordon Mathews (2011) ed efficacemente definito “a ghetto at the center of the world”, luogo di marginalità ed esclusione eppure al tempo stesso centro di una fitta rete di mobilità globale incarnata dalle migliaia di migranti, businessman, imprenditori, turisti, rifugiati che vi abitano e lavorano ogni giorno tessendo legami transnazionali tra l’edificio e altri luoghi sparsi nel pianeta, da Calcutta a Lagos, da Kampala a Dar es Salaam, Nairobi, Kathmandu o Bangkok. Oppure, in chiave storica, alla tenement house posta al numero 97 di Orchard street a New York, che dopo aver ospitato generazioni di immigrati tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, è stata oggi trasformata in un museo dell’immigrazione nel Lower East Side di Manhattan (Dolkart 2006). Su scala italiana, vi è poi il significativo esempio dell’Hotel House di Porto Recanati, ex albergo progettato negli anni Sessanta del secolo scorso per i vacanzieri italiani e divenuto in seguito, come ha ben illustrato il sociologo Adriano Cancellieri (2013), “condominio multietnico” dove persone provenienti da quaranta diversi paesi del mondo vivono ed esperiscono quotidianamente la differenza lottando contro i processi di ghettizzazione e stigmatizzazione di cui sono vittime.

Se è vero, per evocare ancora una volta James Clifford (2008), che l’hotel è il più emblematico cronotopo della modernità, non stupirà che anche le vicende di corso Giulio Cesare 6 inizino nel segno di un albergo. Questa fu infatti l’originale destinazione d’uso di un’ala dell’edificio di tre piani (in seguito rialzato con l’aggiunta di un quarto) fatto costruire nel 1836 da Giuseppe Artusio e Andrea Crida. Il palazzo fu il primo ad essere edificato, insieme al “gemello” che si trova dirimpetto, seguendo l’originale progetto urbanistico dell’ingegner Carlo Mosca, artefice della sistemazione, avviata nel decennio precedente, di tutta l’area di collegamento tra il centro cittadino e il fiume Dora[5]. A quell’epoca, e per diversi decenni come si evince da una mappa datata 1879, il palazzo rappresentò di fatto la porta d’ingresso della città per coloro i quali provenivano da nord, ossia dalla direzione di Milano. Attorno al palazzo si aprivano i campi e gli orti che si estendevano fino al fiume e che davano il nome alla via sterrata che delimitava l’isolato dell’edificio (Balocco 2014).

La presenza, appena dopo la prima schiera di edifici, del mercato di Porta Palazzo, il più grande della città, stabilito a partire dal 1835 in piazza Emanuele Filiberto (oggi piazza della Repubblica), spiega la ragione per la quale la maggior parte degli edifici della zona ospitassero alberghi e locande destinate ai commercianti e ai clienti del mercato. All’imbocco di corso Ponte Mosca (oggi corso Giulio Cesare), si trovavano, tra gli altri, l’Albergo Ristorante San Giors (tuttora esistente), l’Albergo Italia (nell’edificio sul lato opposto del corso) e appunto l’Albergo Berretta, ospitato dal palazzo che oggi è il condominio di corso Giulio Cesare 6 e che all’epoca presentava due ingressi separati, il civico 4 e il civico 6 di corso Ponte Mosca. La vocazione del palazzo nel dare riposo e ristoro alle persone che arrivavano in città sarebbe durata per molti decenni: il Berretta sarebbe infatti diventato a partire dal 1920 l’Albergo-Ristorante Ala e infine, dal 1950 al 1975, l’Albergo Gran Colombo, in cui alcuni dei condòmini che ancora oggi vivono nel palazzo lavorarono in gioventù (il signor Giuseppe come custode notturno e la signora Lucia come cuoca).

Durante gli anni della Seconda guerra mondiale, la struttura del palazzo registrò un cambiamento connesso ad un’altra dimensione di mobilità urbana che riguardò il quartiere, in modo particolarmente drammatico: Porta Palazzo subì infatti gravi danni a causa dei bombardamenti che nel luglio del 1943 devastarono l’area. Bombe dirompenti sganciate dalle forze Alleate distrussero la vicina Chiesa di San Gioacchino, la prospicente stazione ferroviaria Torino-Ciriè-Lanzo e numerosi altri stabili a pochi metri dall’edificio. Spezzoni incendiari colpirono anche la facciata di corso Giulio Cesare 6: come ricordano alcuni dei condòmini, nei buchi lasciati dalle schegge per molti anni dopo la guerra nidificarono le rondini. Una buona parte del tetto andò distrutta, ma il fatto che l’edificio non fosse stato gravemente danneggiato lo rese un rifugio per gli abitanti del quartiere che avevano invece perso le loro abitazioni. Fu in questo contesto che l’androne dell’ingresso del civico 4 fu trasformato in infermeria della Croce Rossa e poi in un locale per dare ricovero ad alcune famiglie sfollate a causa dei bombardamenti (ATC 2004). Tale ingresso non è mai più stato ripristinato, e lo spazio che ne è stato ricavato ospita oggi una gastronomia gestita da una famiglia marocchina, molto frequentata per le colazioni e i pasti dagli abitanti del quartiere di origine maghrebina.

Terminato il conflitto, per il palazzo iniziò una nuova fase di cambiamento: nel 1949 diventò infatti un condominio. Il regolamento condominiale fu approvato ufficialmente il 24 maggio di quell’anno e, pur con qualche modifica, è tuttora in vigore. Rileggerne oggi la prima stesura significa immergersi nella vita quotidiana di una casa di ringhiera torinese dell’immediato dopoguerra: per la tranquillità dello stabile è fatto divieto di “battere i tappeti prima delle ore otto” e “dare feste da ballo”, nonché “spaccare legna, rompere carbone negli alloggi e sui balconi”. L’originaria tabella dei millesimi di proprietà permette di ricostruire l’esistenza delle numerose attività che aprivano le proprie porte al pianterreno dello stabile, affacciandosi sul corso e sul cortile interno: la Portineria, il Caffè Asti, l’Ufficio Postale, la Latteria, la Macelleria e persino il Commissariato di Polizia.

Due delle famiglie piemontesi che si stabilirono nel condominio in quel lontano 1949 sono ancora residenti nello stabile. Stefano, figlio di una delle coppie che arrivò allora, ricorda come i locali commerciali abbiano più volte cambiato uso nel corso degli anni:

All’interno del cortile, dove oggi c’è la moschea, all’inizio degli anni ’60 c’era una fabbrica di ombrelli, a fianco il magazzino di un formaggiaio e poi una tipografia che faceva cartelloni e stampava volantini per il PCI… insomma, era un ritrovo dei comunisti! Ma il negozio più particolare che c’è mai stato qui nel palazzo è stato quello di animali. È rimasto molti anni e occupava metà del cortile con il suo spazio per gli animali esotici, era pieno di pappagalli e tartarughe e a noi bambini del palazzo piaceva moltissimo, puoi immaginare[6]!

Ai primi residenti piemontesi cominciarono ad aggiungersi ben presto nuovi condòmini provenienti da altre regioni italiane, in particolare dal Veneto e dal Meridione. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta Torino attirò centinaia di migliaia di lavoratori da Puglia, Campania, Basilicata, Calabria e Sicilia che, giungendo in città, si stabilivano spesso proprio nel quartiere di Porta Palazzo e delle aree limitrofe. Numerose testimonianze dell’epoca, dalle inchieste giornalistiche della stampa locale alle prime ricerche di tipo etnografico sull’immigrazione a Torino, hanno messo in luce i gravissimi problemi di sovraffollamento e di disagio abitativo che si verificarono in quegli anni a Porta Palazzo e in tutto il centro storico cittadino, in particolare nella zona del cosiddetto Quadrilatero Romano. Impressiona leggere come venissero descritte le condizioni di vita nel quartiere all’inizio degli anni Settanta in un articolo di cronaca sul quotidiano “La Stampa”, in cui si denunciava la miseria, la sporcizia e lo stato di abbandono in cui si trovavano le famiglie immigrate e in particolare i loro bambini, costretti a vagare in cortili infestati da topi e insetti e pieni di immondizia (Stampa Sera 1973: 4). I ricordi di quegli anni di chi trascorse l’infanzia in corso Giulio Cesare 6 sono meno drammatici, ma mettono comunque in luce le difficoltà del vivere quotidiano. Non manca tuttavia l’evocazione di una certa nostalgia per le dimensioni legate alla socialità e convivialità tra gli inquilini sperimentate in quell’epoca. Ricorda Antonio:

Sono arrivato a Torino dalla Puglia, con i miei genitori, nel 1958. Sono stati anni difficili quelli, c’era povertà, si viveva in tanti in una stanza e ci si scaldava con la stufa, ma sono stati anche anni belli, c’era solidarietà, ci si arrangiava e ci si aiutava. Mio padre lavorava per quella che oggi si chiama AMIAT, cioè raccoglieva l’immondizia per le strade, a quel tempo si faceva ancora con i forconi e le ceste. Nel palazzo c’erano tanti di quei bambini, tutti di famiglie meridionali, e io passavo tutto il tempo in cortile a giocare con loro con i trucioli che prendevamo dal falegname che lavorava al pian terreno. Quando diventai un po’ più grande, ma ero sempre un ragazzino eh, cominciai anche a fare dei lavoretti, tipo che sbucciavo le patate nelle cucine del Gran Colombo o davo una mano al Bar che c’era all’angolo del palazzo[7].

Risale a questo periodo anche il consolidarsi di una certa “mitologia del malaffare” legato alle attività più o meno illecite che ruotavano attorno al palazzo o si svolgevano direttamente al suo interno. Parlo di “mito” poiché, in assenza di precise fonti storiche, si tratta di rappresentazioni trasmesse tra diverse generazioni di inquilini tramite racconti più o meno fantasiosi, leggende, storielle che alcuni dei residenti assicurano essere veritiere, e altri rifiutano come del tutto inverosimili. Uno dei capitoli più ricorrenti di questo “lato oscuro” della storia del palazzo riguarda il contrabbando delle sigarette. Questa diffusa pratica illegale contraddistinse in effetti per molti anni il quartiere di Porta Palazzo, e la memoria popolare ricorda altri edifici in zona noti per essere “i palazzi dei contrabbandieri”. Tuttavia, anche corso Giulio Cesare 6 entra a far parte del mito criminale dell’area soprattutto per le vicende legate al suo Bar, noto per essere appunto un locale di ritrovo dei suddetti contrabbandieri. Le cronache cittadine dell’epoca riportano varie vicende incresciose aventi per teatro il famoso Bar, tra i quali una «che potrebbe essere accaduta nella Chicago degli anni ’20. In pieno giorno, il 19 ottobre 1969, davanti al bar di corso Giulio Cesare 6, i catanesi Giuseppe Ferrera, 24 anni e Salvatore Mingiardi, detto “Turi”, 32 anni, si affrontarono in un duello alla pistola». Sette colpi esplosi, feriti, ma per fortuna nessun morto (La Stampa 1970: 5).

Un’altra dimensione della memoria divisa del palazzo relativa alla attività illecite di cui sarebbe stato protagonista è quella della prostituzione. Alcuni dei residenti raccontano storie colorite di donne e uomini che “facevano la vita” in alcuni degli appartamenti e delle soffitte del condominio accogliendo qui anche gli immancabili rampolli della famiglia Agnelli, altri parlano di un vero e proprio “bordello” ospitato in uno dei piani dell’edificio. Tuttavia, altri condòmini smentiscono che tutto ciò sia mai avvenuto, e che queste dicerie abbiamo purtroppo contributo a diffondere la “cattiva fama” del palazzo.

È con questa complessa storia alle spalle che corso Giulio Cesare 6 nel corso degli anni ’80 e poi in maniera molto maggiore a partire dagli anni ’90 del secolo scorso si è affacciato su una nuova fase della storia torinese: l’epoca della migrazione internazionale. Il quartiere di insediamento dei pionieri delle diverse collettività immigrate fu il quartiere di Porta Palazzo e il condominio registrò fedelmente sulla sua grande campanelliera la stratificazione di cognomi marocchini, cinesi, nigeriani, senegalesi, egiziani, bengalesi, tunisini, peruviani, albanesi, romeni. L’ampia ricerca condotta e pubblicata dal CICSENE nel 1997 sui rioni di Porta Palazzo certificò l’eccezionalità della situazione tanto nel quartiere, quanto nel condominio:

Negli ultimi cinque anni, la popolazione straniera residente a Porta Palazzo-Borgo Dora appare essersi stabilizzata intorno al 9,8%, ciò che rappresenta la più importante concentrazione cittadina (…). L’isolato n° 493 su corso Giulio Cesare è invece probabilmente l’unico in città dove la popolazione straniera è maggioritaria (51,9%) (CICSENE 1997: 31).

L’isolato in questione è costituito in buona parte proprio dal condominio di corso Giulio Cesare 6 ed è facilmente riconoscibile su tutte le mappe che corredano la ricerca del CICSENE poiché invariabilmente colorato in modo diverso da quelli circostanti: in particolare, l’isolato n° 493 deteneva al 31 dicembre 1995 un altro record molto significativo, essendo il più sovraffollato della città (con una densità pari a 1.026 abitanti per ettaro, rispetto ai 250 abitanti per ettaro dell’area di Porta Palazzo e a una media cittadina ancora più bassa).

Evidentemente l’alta densità abitativa e l’elevata incidenza di residenti stranieri erano due fenomeni correlati: gli abitanti del palazzo ricordano infatti come in quel periodo il condominio fungesse da ricovero per moltissimi immigrati appena giunti in città, quasi esclusivamente giovani uomini, che si trovavano a convivere in condizioni estremamente precarie con un gran numero di connazionali. Come denuncia Fabrizio, un inquilino che vive nel palazzo da una trentina d’anni e che è da sempre molto attivo nei movimenti antri-sfratto che animano il quartiere, soprattutto nel caso delle soffitte, piccole e in condizioni deteriorate, si verificarono casi di grave sfruttamento da parte dei proprietari degli appartamenti, che per lucro non esitarono ad affittare i pochi metri quadri a disposizione ad un numero eccessivo di persone.

Pur in mezzo a tali difficoltà, durante gli anni Novanta il condominio si affermò come un punto di riferimento per i nuovi abitanti del quartiere, in particolare per i fedeli musulmani che presero a identificare il palazzo con la presenza della sala di preghiera islamica che qui si stabilì nel 1995. Nelle parole di Hassan, oggi responsabile dell’Associazione Afaq che gestisce gli spazi e le attività della Moschea della Pace:

Aprimmo qui la sala di preghiera sicuramente perché l’affitto degli spazi era più basso che altrove, ma soprattutto perché qui era il centro della nostra comunità e sapevamo che qui vivevano tanti nostri fratelli in difficoltà, che avevano bisogno del sostegno della moschea. Ogni settimana centinaia di persone vengono qui per pregare, ma anche per chiedere informazioni e aiuto, oggi come venticinque anni fa. Abbiamo sempre organizzato moltissime attività, come la scuola di italiano per le donne o la scuola di arabo per i bambini della seconda generazione. Collaboriamo con le scuole del quartiere, con l’Università e da tanti anni apriamo con piacere le nostre porte anche agli amici italiani per iniziative di scambio e di conoscenza, come per la giornata delle Moschee Aperte[8].

La Moschea della Pace è una delle più grandi e frequentate sale di preghiera della città e tra gli anni Novanta e Duemila è stata il crocevia di storie e personaggi che hanno segnato la complessa relazione tra le comunità musulmane e l’opinione pubblica italiana. Le retoriche della cronaca locale e nazionale ne hanno fatto l’arena del presunto scontro tra islam “radicale”, rappresentato dall’autoproclamato “imam di Porta Palazzo” Bouriqui Bouchta, che finì per essere espulso dall’Italia nel 2006 con l’accusa di terrorismo, e islam “moderato”, incarnato da Abdulaziz Khounati, l’imam partito da corso Giulio Cesare 6 per fondare nel 2007 l’Unione Musulmani d’Italia, federando una cinquantina di centri di preghiera in tutto il paese. Per gli abitanti del palazzo, la presenza della moschea ha però da sempre voluto dire soprattutto un particolare rapporto con gli spazi del cortile e del quartiere. Per garantire l’accesso al luogo di culto il portone d’ingresso al condominio rimane infatti sempre aperto e, in ragione della limitatezza degli spazi interni, la preghiera del venerdì e durante il mese del Ramadan si tiene nel cortile, che viene per l’occasione ricoperto di tappeti ad accezione di uno corridoio riservato all’accesso alle scale. In tali giornate, la porta della moschea rimane anch’essa aperta e il richiamo alla preghiera e il sermone di chi la officia vengono amplificati con apposite casse che diffondono le parole in lingua araba in tutto il condominio. L’afflusso dei fedeli attira inoltre altre presenze nell’ampio androne del palazzo: venditori di menta e yogurt, venditrici di msemmen e pane arabo fatto in casa, donne e bambini rom che chiedono l’elemosina. Subito davanti al portone del palazzo inoltre, durante i mesi estivi, stazionano due o tre furgoni di commercianti marocchini che vendono angurie e altra frutta.

Nel corso degli anni, l’assemblea condominiale ha mantenuto un atteggiamento ambivalente nei confronti della moschea: da un lato, ha più volte deliberato in merito alla necessità di imporre la chiusura del portone in orari diversi da quelli del culto, di prospettare un accesso diretto dalla strada alla sala di preghiera senza l’attraversamento del cortile, di far rimuovere tutti gli elementi esterni (nomi, targhe e quant’altro) che connotino la presenza del luogo di culto; dall’altro lato, ha sempre mostrato una sostanziale consapevolezza relativa alla necessità della sua esistenza, criticando piuttosto le istituzioni cittadine per non aver trovato una soluzione più adeguata per ospitare la sala di preghiera. In diverse assemblee cui ho preso parte, i condòmini che abitavano qui già negli anni Novanta hanno inoltre riconosciuto come la moschea nel corso del tempo abbia giocato un ruolo importante nell’allontanare dal palazzo, o almeno nel limitare, l’annoso problema dello spaccio.

Come indicava la citata ricerca del CICSENE, le vie che circondano il palazzo attorno alla metà degli anni Novanta erano segnate da un diffuso «consumo di droga» il cui spaccio, si scriveva nel 1996, da «circa quattro anni» era «passato dalle mani delle famiglie autoctone a quelle di magrebini» (CICSENE 1997: 51). Se è vero, a distanza di oltre vent’anni, che la «presenza sui marciapiedi di gruppi di uomini stranieri» inseriti «nel giro dello spaccio» (ivi: 52) è riscontrabile tutt’oggi nei dintorni del condominio, all’interno dell’edificio la situazione è decisamente cambiata per l’azione di controllo sociale che, secondo quanto testimoniano gli inquilini, è stata attuata dai responsabili della sala di preghiera.

La più evidente trasformazione nella storia recente del palazzo è in ogni caso da collegarsi alla totale ristrutturazione dello stabile attuata in base al Piano di Recupero Obbligatorio imposto dall’amministrazione comunale nel 2001 e realizzato attraverso un lungo e difficile processo durato oltre un decennio. Nel momento in cui il Piano fu stilato, il sovraffollamento del condominio era leggermente diminuito rispetto a dieci anni prima, ma la sua connotazione di “palazzo di immigrati” si era acuita: la rilevazione del 2003 relativa all’isolato n° 493, che come detto in precedenza è costituito quasi interamente dal condominio di corso Giulio Cesare 6, certificava come la presenza di “cittadini non italiani” si attestasse attorno al 75% dei residenti totali (182 su 244). Secondo i documenti progettuali (ATC 2004), l’intervento sullo stabile era reso necessario dall’avanzato stato di degrado della struttura, tanto da metterne a rischio la stabilità, e dalle numerose segnalazioni in merito a problemi di igiene e sicurezza, quali la mancanza di servizi igienici interni e di impianti di riscaldamento in un significativo numero di appartamenti. La delibera comunale del 23 marzo 2005, stanziò un ammontare di circa 7 milioni di euro con l’obiettivo di realizzare un intervento di “risanamento e ricostruzione” dell’intero isolato n° 493. Tuttavia, gli ingenti costi che furono imputati per vari anni ai condòmini come “spese eccezionali” innescarono l’allontanamento dei residenti a più basso reddito e l’arrivo di nuovi proprietari interessati alle possibilità di investimento nello stabile “riqualificato”. I lavori proseguirono fino al 2012, accompagnati da un’azione di coordinamento affidata al Comitato The Gate, l’ufficio della Città di Torino responsabile in quegli stessi anni di numerosi altri interventi di “rilancio” dell’area di Porta Palazzo. Alla luce del significato più ampio che la “nuova immagine” del condominio veniva ad assumere nel quadro della rinnovata identità del quartiere e della città, non stupisce che durante il lungo processo di ristrutturazione non siano mancate le occasioni in cui Ilda Curti, Assessore alle Politiche per l’Integrazione, Rigenerazione Urbana e Arredo Urbano nella seconda Giunta del Sindaco Sergio Chiamparino, abbia fatto visita al palazzo e partecipato alle assemblee condominiali. Nel 2006, corso Giulio Cesare 6 fu addirittura visitato dal Presidente della Repubblica allora in carica, Carlo Azeglio Ciampi, in occasione dell’inaugurazione della nuova sede della Fondazione Rosselli[9], centro di ricerca che in quell’anno si trasferì nel condominio negli spazi che un tempo furono dell’Albergo Gran Colombo.

Terminata la ristrutturazione, in effetti, nuove popolazioni residenti, per lo più per periodi di breve e media durata, sono entrati a far parte della vita del condominio. Il trasferimento, nella vicina area di Borgo Dora, della Scuola Holden dello scrittore Alessandro Baricco e la relativa prossimità al nuovo Campus Einaudi dell’Università di Torino hanno reso il palazzo particolarmente appetibile per gli studenti. Giovani che ancora una volta hanno portato nel palazzo storie legate alla mobilità, come racconta Cristina:

Io e il mio ragazzo stiamo facendo tutti e due il dottorato qui a Torino. Io sono originaria di Roma e lui di Palermo. Siamo qui in affitto e il nostro proprietario di casa, Luca, è un medico che ha più o meno la nostra stessa età, che si trova all’estero, a Londra, per un corso di specializzazione. Siamo qui da un anno e ci resteremo ancora per un altro anno, poi lui tornerà qui e noi dovremo trovare un’altra sistemazione. Penso che cercheremo comunque casa qui vicino, perché a me il quartiere piace tanto, e anche il condominio. Non so come dire, mi fa proprio sentire a mio agio, tipo che posso anche scendere giù in panetteria in ciabatte e non devo preoccuparmi, sono rilassata, proprio come fossi a casa mia, anche se in fondo siamo qui solo di passaggio[10].

Negli ultimissimi anni, inoltre, il palazzo è tornato in qualche modo ad assolvere alla sua originaria funzione di ricettività alberghiera, anche se in diversa forma. Diversi inquilini hanno inserito i propri alloggi sul sito di Airbnb, divenendo dunque host per il noto portale dedicato agli “affitti brevi”. Tra i vari appartamenti, ve n’è anche uno situato in quella che, un decennio orsono, era una soffitta sovraffollata e che oggi si presenta invece come una “mansarda di charme”. I commenti lasciati dai turisti sul sito di Airbnb come recensione del loro soggiorno permettono di avere un quadro abbastanza chiaro delle aspettative e delle impressioni relative alla breve permanenza nel condominio e nel quartiere. La maggior parte scrive di aver apprezzato l’atmosfera “multiculturale” del posto, definendo Porta Palazzo un’area che «vale la pena di visitare» e con «molti locali dove mangiare bene» (Matteo, aprile 2019), un «luogo speciale, davvero unico, un crocevia di sapori e tradizioni di tutto il mondo» (Valentina, marzo 2019). Non manca tuttavia chi dimostra di non aver gradito le peculiarità del condominio, lamentando il fatto che «la presenza di una moschea nel cortile fa sì che vi sia un continuo via vai e porte aperte» e il rischio di imbattersi «in qualche tunisino che ti aspetta per prendere l’ascensore» essendo sprovvisto del telecomando per chiamarlo (Agostino, marzo 2019).

Commenti che, pur in chiave aneddotica, colgono in effetti la complessa realtà odierna del condominio. Un palazzo in cui, guardando anche solo al frammento del ballatoio su cui si affaccia l’appartamento dove abito, si susseguono alloggi dove vivono una famiglia calabrese giunta nel palazzo cinquant’anni fa; un gruppo di quattro uomini bengalesi che lavorano come venditori ambulanti di rose (le cui biciclette con cui compiono il giro dei ristoranti della città sono allineate giù in cortile); un’anziana di origine veneta rientrata a Torino dopo quarant’anni di emigrazione in Germania; due donne nigeriane che vendono prodotti estetici sul marciapiede davanti a un minimarket cinese; la famiglia cinese proprietaria del suddetto negozio, specializzato in prodotti asiatici e africani, i cui figli piccoli giocano spesso in cortile a volano e la cui figlia maggiore ha imparato il wolof per parlare con i clienti senegalesi; un giovane architetto italiano che si è da poco trasferito nel palazzo insieme alla moglie designer; un’aspirante scrittrice studentessa della Scuola Holden.

Cosa può offrire l’antropologia agli amministratori di condominio?

Il condominio di corso Giulio Cesare 6 si trova dunque oggi ad attraversare una fase molto particolare della sua storia, in cui da un lato certamente si fanno sempre più evidenti gli effetti della gentrificazione e turistificazione del quartiere che lo circonda, ma dall’altro resistono voci e dimensioni che contestano i cambiamenti in atto, assumendo in alcuni casi posizioni di critica radicale (come nel caso dei collettivi anarchici attivi in zona), e in altri un atteggiamento più “dialogante” che mira a limitare gli effetti deleteri delle operazioni di trasformazione attuate “dall’alto”[11] bilanciandole con micro-operazioni di ricucitura del tessuto sociale del quartiere “dal basso” (come nel caso delle varie associazioni e gruppi formali e informali di residenti che si sono costituiti negli ultimi anni attorno alle idee di partecipazione, buon vicinato e cittadinanza attiva).

La raccolta delle “Storie di corso Giulio Cesare 6” ha assunto simbolicamente la funzione di una “zona di contatto”, capace di generare un’occasione di scambio significativo tra gli inquilini del condominio. La memoria, e in molti casi la nostalgia provata dai “vecchi” abitanti del palazzo a proposito della perduta socialità un tempo praticata nel cortile condominiale e il desiderio, espresso da diversi “nuovi” condòmini, di sentirsi maggiormente parte della vita del palazzo sono state dunque le ragioni che ci hanno portato a immaginare e a costruire insieme, senza fondi e in modo del tutto volontario, la festa del palazzo cui ho accennato nel bozzetto etnografico posto come introduzione di questo contributo. Un “rituale di trasversalità”, per riprendere il concetto di Wise (2009), il cui significato più generale in termini di opportunità per un’antropologia pubblica e applicata mi si è però palesato, per altro in maniera del tutto fortuita, solo alcune settimane dopo quel bel sabato pomeriggio del giugno 2019.

Alla festa partecipò infatti anche un giornalista di cronaca del quotidiano “La Stampa”, invitato dallo zio, residente nel condominio da diversi anni. Il nipote apprezzò l’iniziativa e ci chiese di poterne scrivere per il giornale, corredando l’articolo con alcune brevi interviste al sottoscritto, ad altri inquilini e ai responsabili della Moschea della Pace. Il pezzo fu pubblicato e alcuni giorni più tardi fui contattato via e-mail da una persona che l’aveva letto e trovato di suo interesse: si trattava del responsabile dell’Associazione della Proprietà Edilizia (APE) di Torino, parte di Confedilizia, il quale mi propose di riflettere su una possibile collaborazione in termini di opera di sensibilizzazione e formazione dei proprietari di casa e degli amministratori sul tema dei “condominii multiculturali”. Vorrei dunque ora soffermarmi su alcuni punti del dialogo che ho potuto così aprire con una realtà ben più ampia e variegata del singolo stabile di corso Giulio Cesare 6.

Innanzitutto, alcuni dati di contesto per inquadrare questo possibile campo di applicazione dei saperi dell’antropologia: in Italia i condomìni sono circa 1 milione e 200 mila. Con una media di 30 unità immobiliari per ciascun condominio, sono ben 14 milioni le famiglie italiane che vivono in questa tipologia abitativa, ossia il 60% dell’intera popolazione nazionale. Per quanto riguarda il ruolo dell’amministratore di condominio, occorre invece notare come le competenze e l’inquadramento di tale figura siano profondamente cambiati nel corso degli ultimi anni, soprattutto in seguito al processo di professionalizzazione richiesto dalla riforma del 2012. Se nel periodo pre-riforma in Italia operavano circa 300 mila amministratori, tra i quali però oltre 240 mila amministravano un solo condominio (non trattandosi dunque di persone che svolgevano la mansione per lavoro, ma di inquilini che assolvevano alla funzione di “capo scala” per lo stabile dove risiedevano), dopo l’entrata in vigore della Legge 220/12 questo settore professionale si è riconfigurato in modo decisamente più strutturato. I circa 60 mila amministratori professionisti attivi in Italia, in assenza di un albo professionale, sono riuniti in una ventina di associazioni di categoria che ne garantiscono la qualifica e la formazione. E qui giungo al primo punto che ho avuto modo di discutere con l’APE di Torino. Queste decine di migliaia di amministratori, e attraverso di loro milioni di condòmini, rappresentano una nuova, e incredibilmente vasta, platea cui l’antropologia potrebbe rivolgersi, avviando una collaborazione declinata su più livelli.

Un primo ambito può essere rappresentato dalla formazione. Tutti gli aspiranti amministratori di condominio devono infatti seguire un corso per l’acquisizione della preparazione all’attività professionale organizzato sulla base dei moduli previsti dal regolamento approvato dal Decreto del 13 agosto 2014. Il medesimo Decreto stabilisce altresì l’obbligatorietà di appositi corsi di aggiornamento per gli amministratori già formati. Nel primo caso si tratta di un corso di 80 ore, nel secondo di moduli da 18 ore. Andando a vedere nel dettaglio il Decreto in questione, scopriamo poi che l’Articolo 5, nello stabilire i contenuti dell’attività di formazione e aggiornamento, indica tra le materie di interesse “le tecniche di risoluzione dei conflitti”. Proprio partendo da questo punto, l’antropologia potrebbe assolvere alla sua vocazione pubblica traducendo le proprie conoscenze in strumenti analitici e operativi che mettano gli amministratori di condominio in condizione non solo di gestire eventuali conflitti, ma di immaginare pratiche che accompagnino e sostengano la convivenza e la socialità tra gli inquilini[12]. La crescente attenzione dell’antropologia per il tema della convivialità potrebbe in questa prospettiva offrire a questa categoria professionale l’occasione di affrontare il tema delle differenze culturali non solo in termini di rischio, ma anche di opportunità per lavorare a favore dell’inclusione e della coesione tra tutti i condòmini. Nel caso dell’APE, l’associazione ha sperimentato negli ultimi anni alcune azioni che denotano un interesse in tale direzione: ha provveduto ad esempio a realizzare e mettere a disposizione degli amministratori la traduzione in diverse lingue (albanese, arabo, cinese, francese, inglese, romeno, spagnolo e tedesco) di un modello di regolamento condominiale che ne faciliti la comprensione nei contesti caratterizzati da una forte componente di inquilini non italofoni. Oppure, ha valorizzato tramite un apposito premio il contributo che alcuni custodi di condominio di origine immigrata hanno dato nel risolvere problemi tra inquilini o nel promuovere particolari attività negli stabili dove lavorano. Carlos Fernando Mesa Garzon, portiere colombiano di uno stabile romano, è stato ad esempio premiato nel 2014 per aver organizzato “colazioni condominiali, partite del cuore con pizza serale e la festa dei condòmini: eventi che hanno contribuito a creare un buon clima di convivenza e collaborazione nel condominio”.

E qui sia apre un secondo, possibile livello di applicazione dell’antropologia al condominio. Si potrebbe infatti pensare a un concreto lavoro di consulenza professionale configurato, simbolicamente, nella creazione di una “portineria antropologica” che interagisca non tanto con gli amministratori, ma direttamente con i condòmini. In questo caso non si tratterebbe di un’azione formativa, ma di un accompagnamento alla progettazione di iniziative concrete da sviluppare in modo condiviso e partecipato con gli inquilini attraverso l’applicazione di conoscenze e riflessioni di tipo antropologico. In tale prospettiva, non si tratterebbe di fare dei condomìni un luogo di sperimentazione di interventi di “riqualificazione” che vedano coinvolti antropologi, con il concreto rischio di produrre involontariamente ulteriore gentrificazione ed esclusione[13], ma di avere nei condomìni antropologi che si pongano in una condizione di ascolto e servizio a beneficio della comunità degli inquilini, con l’obiettivo di tradurre in pratiche di convivenza le istanze che emergano da residenti nel tempo ordinario della convivenza quotidiana e in quello straordinario delle assemblee che scandiscono il calendario della vita condominiale. Un ruolo di consulente che potrebbe giungere per incarico degli stessi proprietari di casa, dell’amministrazione del condominio o di realtà associative con l’APE, come emerso dallo scambio di idee che ho avuto negli scorsi mesi.

A fronte del comprensibile scetticismo che, posso immaginare, susciti l’idea che qualcuno voglia davvero pagare un antropologo per un lavoro di questo tipo (in fin dei conti, l’iniziativa che ho presentato con riferimento al condominio di corso Giulio Cesare 6 è stata realizzata a titolo volontario e gratuito), posso onestamente rispondere che, al di là dello specifico interesse che mi è stato espresso dall’associazione da cui sono stato contattato, vi sono altri segnali che “là fuori” possa concretamente esistere un campo di lavoro, forse al di là delle aspettative. A tal proposito, vorrei fornire due brevi riferimenti.

Sul versante degli amministratori di condominio, ad esempio, già un paio di anni fa, sulle pagine della rubrica “Il Condominio” del quotidiano economico Il Sole 24 Ore, il presidente di ARCO (associazione degli Amministratori e Revisori Contabili Condominiali), scriveva:

Il condominio rappresenta, di fatto, la seconda cellula sociale della nostra società moderna dopo la famiglia. Un mondo in cui si consumano rapporti umani dai risvolti a volte lieti ma, spesso, anche poco edificanti. La conflittualità tende a calare sul piano meramente formale (forse si fanno meno cause semplicemente per ragioni economiche) ma la litigiosità concreta e quotidiana che non finisce nelle aule di giustizia continua a permeare i condominii italiani di astio, rancore e talvolta anche odio. Esistono due fronti di relazione che meritano attenzione e possibili suggerimenti per la soluzione: il primo è quello tra i condòmini e il loro amministratore, il secondo è quello tra gli stessi condòmini. Si tratta di una questione annosa e, evidentemente, di carattere culturale e antropologico (…). Insomma, penso che sia proprio il caso di innescare un processo culturale nuovo che investa i proprietari di una coscienza civile adeguata ai tempi che viviamo (…). Ecco, allora, la necessità di inaugurare una stagione nuova: una nuova alleanza non solo tra la categoria degli amministratori e la rappresentanza della proprietà ma che coinvolga anche le istituzioni come la scuola (Schena 2017).

Nell’evocazione della dimensione “culturale e antropologica” della questione della convivenza nei condominii e nell’esplicita richiesta di “possibili suggerimenti per la soluzione” dei conflitti rivolta alla scuola e alla sua capacità formativa mi sembra di poter cogliere un invito neppure tanto velato agli antropologi a farsi avanti con proposte concrete di collaborazione. In tal senso, soggetti collettivi come SIAA e ANPIA potrebbero forse proporsi come catalizzatori di idee e iniziative aprendo un canale di comunicazione strutturata e ufficiale con le diverse realtà associative che operano nel settore del condominio in Italia.

L’opinione del presidente di ARCO sopra riportata, che esprime l’esigenza di occuparsi del tema della “convivenza” senza necessariamente fare riferimento al tema delle migrazioni e della diversità culturale, mi offre lo spunto per passare all’altro versante, quello dei proprietari di casa e dei residenti nei condominii. Possiamo immaginare un interesse da parte di questi soggetti nei confronti dell’antropologia e a possibili consulenze o “portinerie” antropologiche? Io ritengo che la recente, o per meglio dire, attuale crisi legata all’epidemia di Covid-19 e al relativo, prolungato lockdown ci indichi con tutta chiarezza una risposta affermativa. Nei due mesi di isolamento forzato della primavera del 2020 milioni di cittadini sono stati costretti a rimanere a casa il che, in molti casi, ha significato “rimanere nel condominio” e scoprire, o riscoprire, l’importanza degli spazi comuni degli edifici e dei rapporti di conoscenza e solidarietà con i propri vicini. Per gli adulti, e soprattutto per i bambini, i cortili condominiali sono stati per lungo tempo l’unico spazio all’aperto frequentabile per fare movimento e giocare. Nelle parole di Claudio, residente in un condominio di via Priocca, a Porta Palazzo:

Prima di febbraio, a dire la verità, quasi non ricordavo che il nostro palazzo avesse un cortile, non ci andavo mai, se non per legare la bicicletta. Ma avendo due bambini di 5 e 9 anni, ti assicuro che a marzo e aprile è diventata la parte più importante della nostra casa! Siamo scesi giù tutti i giorni, con il sole o con la pioggia, a prendere una boccata d’aria, a giocare a nascondino e a palla, persino per andare un po’ in bicicletta, girando in torno. Spesso i bambini stavano sotto, e noi genitori da sopra ci parlavano da un balcone all’altro. Poi alle 6 della sera c’era sempre chi metteva la musica e i bambini sotto che la ballavano… insomma, anche adesso che si può uscire, i miei figli finisce che mi chiedono di stare in cortile a giocare con gli altri bimbi del condominio[14]!

Questa ritrovata centralità degli incontri e degli scambi condominiali, per lo più informale e spontanea, è stata immediatamente colta da quelle associazioni di residenti che cercano di valorizzare proprio le relazioni di buon vicinato e la solidarietà tra residenti in un determinato territorio[15]. Per rimanere nell’area di Porta Palazzo e al condominio di corso Giulio Cesare 6, nei mesi scorsi si è organizzato un “Coordinamento per emergenza Covid-19” che ha riunito una ventina di soggetti collettivi nel quartiere tra associazioni, comitati e gruppi di cittadini. Tra questi, un ruolo centrale è stato svolto da “Fuori di Palazzo – Associazione di vicinato” che da molti anni organizza nel quartiere la “Cena dei vicini” e altre iniziative legate alla gestione di “spazi di vicinato”, tra cui un orto urbano. A inizio maggio, partendo da quanto sperimentato durante il lockdown, Fuori di Palazzo ha lanciato l’iniziativa “Antenne sotto il tetto – Segnali di vicinato” per rendere strutturale la collaborazione tra “reti” di vicini di casa che si sono instaurate all’interno e tra i condominii della zona. Secondo Cecilia, presidente dell’associazione, tra le prime azioni da realizzare:

(…) in vista dell’estate e dell’attuale situazione sarà utile una mappatura dei cortili dove i bambini potrebbero ritrovarsi a socializzare e giocare in piccoli gruppi. Un altro strumento interessante che abbiamo lanciato per stimolare le relazioni è quello delle ‘chat di cartone’, ossia delle lavagne temporanee da installare negli androni dei palazzi che funzionino come bacheche di condivisione[16].

Ritengo che associazioni di residenti e iniziative di questo genere esprimono, in modo più o meno esplicito, un interesse per gli strumenti, le conoscenze e la riflessività antropologica sui temi dell’abitare, del condividere, del farsi comunità di pratiche e di intenti (Favole et al. 2015).

Conclusioni

In questo contributo ho inteso mostrare il processo di costruzione partecipata di una pratica di convivialità in un palazzo situato in un quartiere caratterizzato da una lunga storia di immigrazione e suggerire alcune possibili vie di sviluppo di una più generale applicazione dei saperi dell’antropologia al “mondo del condominio”.

Nella mia analisi, il cortile dell’edificio di corso Giulio Cesare 6 è emerso come uno “spazio di trasversalità” (Wise 2009) dove è stato possibile realizzare una pratica di interazione, scambio e apprendimento reciproco. Il contatto, come sottolinea Wise (ivi: 37), offre opportunità in termini di mutua comprensione e di solidarietà, ma presenta anche dei rischi legati al disagio e ai conflitti che possono generarsi dagli incontri mancati o falliti. Per questa ragione occorre che i “facilitatori di trasversalità” si adoperino nel creare “spazi di cura interculturale” ponendo attenzione alle differenze di potere e alle diseguaglianze che continuano a manifestarsi nella convivialità (Wise, Noble 2016).

Riflettendo criticamente sulla mia esperienza autobiografica, questo mi sembra il ruolo che gli antropologi potrebbero giocare in tanti altri contesti abitativi, anche là dove la gerarchia delle differenze non sia strettamente connessa alle migrazioni. Una prospettiva non dissimile da quella che Piero Vereni (2020) ha recentemente proposto discutendo gli effetti dell’epidemia di Covid-19 sull’antropologia e indicando come “il nostro fare” dovrebbe in questa nuova fase assumere una “dimensione terapeutica”. Un lavoro collettivo di cura delle relazioni sociali, generato dall’impegno morale di “vivere assieme” con le persone con cui studiamo. Scrive Vereni:

Soprattutto, vedrei gli antropologi e le antropologhe lavorare alla ricucitura del ritmo spezzato del tempo rituale (…). Perché non pensare all’antropologo di quartiere che verifica e sanifica lo stato ritmico del territorio sotto il suo controllo? Perché non pensare a lavori in parallelo con le chiese delle diverse denominazioni, le moschee e le sinagoghe, con le scuole e le palestre, per rieducare insieme le comunità locali ai ritmi della vita associata tramite piccoli “corsi di rituali quotidiani” e altri momenti in cui imparare, ad esempio, che il distanziamento sociale non è una pedagogia del sospetto ma un esercizio per imparare a prendersi cura dell’altro? Certo, ci vuole impegno, ci vuole fantasia, e ci vogliono amministrazioni che comprendano che bisogna investire in progetti di questo tipo, che servono a rinsaldare o spesso a costituire un tessuto sociale sano (Vereni 2020).

Una sfida che l’antropologia pubblica e applicata “post-coronavirus” a mio avviso è chiamata a cogliere, traendo così dall’esperienza dell’incertezza di questo “presente pandemico” un orientamento verso scenari futuri in cui la convivenza e la convivialità potranno svolgere un importante ruolo di contrasto, o almeno di mitigazione, delle nuove forme di povertà, esclusione e marginalità che inevitabilmente la crisi economica e sociale in atto sta generando (Bargna et al. 2020).

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[1] In tutto l’articolo i nomi e alcuni dettagli anagrafici degli interlocutori della mia ricerca sono stati modificati a tutela del loro diritto alla riservatezza. Colgo qui l’occasione per ringraziare i condòmini di corso Giulio Cesare 6 e l’Amministrazione del condominio per la collaborazione alla raccolta di storie e alla realizzazione delle iniziative su cui si basa la riflessione che propongo in questo contributo.

[2] Per una riflessione critica sulla turisticizzazione dei quartieri d’immigrazione, a partire da Porta Palazzo, si veda la discussione sviluppata sulle pagine di Antropologia Pubblica a partire dall’analisi del progetto “Migrantour” (Vietti 2018), e in particolare i contributi di Mellino e Vietti (2019), Pozzi e Ceschi (2019), Lo Re (2020) e Falconieri (2020).

[3] L’idea di una raccolta di storie tra gli abitanti di un condominio in sé non è di certo inedita. Vorrei anzi qui ringraziare l’amica e collega antropologa Lucia Portis che, ormai molti anni fa, mi raccontò di un intervento di comunità da lei condotto a Torino attraverso il metodo autobiografico che diede come esito la pubblicazione “Storie dell’abitare. Gli abitanti di via Parenzo si raccontano” (Portis, Ronconi 2006).

[4] Negli anni precedenti il “ritorno a casa” cui è dedicato il presente articolo, mi sono occupato dell’interconnessione tra le vite dei migranti e le loro case in due contesti post-socialisti comparabili con quello dell’Estonia post-sovietica studiata da Martínez. In particolare, vorrei qui rimandare all’analisi delle “ristrutturazioni in stile europeo” delle famiglie e delle case delle donne moldave impegnate nel lavoro di cura (Vietti 2012a) e alla riflessione sull’edificazione e distruzione delle vite e delle abitazioni “informali” dei migranti transfrontalieri nell’Albania meridionale (Vietti 2012b).

[5] Le informazioni riportate qui e in seguito a proposito dei primi decenni di vita del palazzo sono tratte da una serie di documenti conservati presso l’Archivio Storico della Città di Torino, e in particolare dai Progetti Edilizi catalogati con i seguenti numeri di pratica: PE1836_0037, PE1891_0022, PE1893_0104, PE1895_0032.

[6] Intervista a Stefano raccolta dall’autore a Torino in data 22/02/2019.

[7] Intervista ad Antonio raccolta dall’autore a Torino in data 09/04/2019.

[8] Intervista a Hassan raccolta dall’autore a Torino in data 02/03/2019.

[9] Le contraddizioni del progetto di “riqualificazione” del condominio e del quartiere sono ben rappresentate dal destino di tale Fondazione, che nel 2015 è stata messa in liquidazione lasciando ai condòmini e all’Amministrazione di corso Giulio Cesare 6 la difficile gestione del pagamento delle spese ordinarie e straordinarie legate alla sua ampia sede.

[10] Intervista a Cristina raccolta dall’autore a Torino in data 13/01/2019.

[11] Giovanni Semi, attento osservatore dei processi di gentrificazione a Porta Palazzo fin dai suoi esordi (Semi 2004), in una serie di recenti interventi pubblici ha indicato con chiarezza come le azioni di place-making e di branding urbano che nel corso degli ultimi anni hanno trasformato il quartiere abbiano fortemente penalizzato le fasce più deboli di popolazione residente causando l’aumento del costo medio degli affitti, la sostituzione di una parte significativa delle attività commerciali che proponevano cibi e prodotti a prezzi più economici a favore di negozi e ristoranti che si rivolgono a consumatori con maggiori possibilità di spesa, l’eliminazione di possibilità di reddito derivanti da lavori occasionali o informali come la vendita di merce usata nell’area di “libero scambio” del mercato del Balon (Semi 2019).

[12] Vorrei qui sottolineare come, attorno alla formazione e aggiornamento degli amministratori condominiali, ruoti un vasto ventaglio di proposte editoriali (libri, manuali, riviste, ecc.) che potrebbero accogliere contributi e interventi di antropologi interessati a dialogare con il “mondo del condominio”. Importante è anche l’ambito della fieristica che, come nel caso della Fiera del Condominio Sostenibile di Verona, organizza workshop e convegni a cui gli antropologi potrebbero intervenire in qualità di relatori.

[13] A poche decine dal condominio di corso Giulio Cesare 6, nella parallela via La Salle, si trova uno stabile dove, a partire dal 2016, è in corso di realizzazione un progetto di “riqualificazione artistica” di un edificio in cui studenti di antropologia (e sociologia) dell’Università di Torino sono stati coinvolti come facilitatori dell’iniziativa, mediando tra i residenti e gli artisti e insediandosi proprio in quella che un tempo era stata la portineria dell’edificio (per una presentazione del progetto da parte degli ideatori si veda il sito web: https://viadellafucina16.kaninchenhaus.org). Una discussione dell’impatto ambivalente del progetto in questione, denominato “Via della Fucina 6”, e del significato del condominio-museo nel quadro più ampio degli interventi di “rigenerazione” di Porta Palazzo, si trova nella bella tesi di laurea di Silvia La Torre (2018).

[14] Intervista a Claudio raccolta dall’autore a Torino in data 06/06/2020.

[15] Faccio qui riferimento, come del resto in tutto il contributo, a realtà che operano in condomìni “ordinari”, e non in stabili dove le dimensioni della condivisione e della solidarietà tra inquilini siano il frutto di una specifica progettuali e intenzionalità: non tratto dunque in questa sede le opportunità di intervento dell’antropologia in contesti quali i numerosi social housing e “condomìni solidali” che negli ultimi anni si sono diffusi in molteplici città italiane ed europee (Gili et al. 2017).

[16] Stralcio del messaggio inviato da Cecilia sul gruppo WhatsApp “Residenti resistenti”, di cui l’autore è membro, in data 16/05/2020.