Spazi di convivialità?

Convivere e co-abitare con migranti in Italia. Introduzione

Selenia Marabello

Università di Bologna

Bruno Riccio

Università di Bologna

“In un mondo di tanti esili coabitare significa condividere

la prossimità spaziale in una convergenza temporale dove

il passato di ciascuno possa articolarsi nel presente comune

in vista di un comune futuro” (Di Cesare 2017: 255).

Sin dagli esordi negli studi sulle migrazioni l’attenzione degli antropologi è stata posta sui quartieri, sugli abitanti, autoctoni e migranti, così come sui processi di appropriazione e conferimento di significato degli spazi urbani da parte di gruppi minoritari (Harney 2006; Signorelli 2006). L’interesse si è poi allargato verso un’analisi comparata e multi-scalare (Glick Schiller, Caglar 2011; Caglar in apertura di questo numero di AP) delle città come luoghi distintivi per l’analisi dei processi migratori e di globalizzazione economica.

Gli studi sui contesti urbani, da una parte, hanno individuato alcune figure tipologiche della città investita dai cambiamenti socio-economici e migratori, con riflessioni sul vagabondaggio, sulle gang, sulle forme di devianza e le pratiche di lavoro informali (Capello et al. 2014). Dall’altra, hanno permesso di riflettere sui confini interni alla città abitata dai gruppi migranti in quartieri divenuti aree di contatto e ri-produzione dell’etnicità, tema che ha impegnato gli studiosi sino a tempi piuttosto recenti e di cui vi è risonanza anche in alcuni dei contributi qui raccolti (Vietti e Sossich Infra).

Le caratteristiche d’insediamento e segregazione urbana dei migranti sono state indagate dagli antropologi osservando storicamente i processi di costruzione socio-simbolica dei confini, i processi di place-making e le infrastrutture che hanno contribuito a marginalizzare o escludere parte della popolazione (Simone 2015). Das e Randeria (2015), introducendo il numero monografico di Current Anthropology sulle politiche della povertà in ambito urbano, sollevano una questione teorico-metodologica inerente i modi e le attività con cui costruiamo “il nostro abitare particolare nel mondo” (Das, Randeria 2015: 6). In riferimento al caso di Mumbai, poi, evidenziano come un elemento da portare in primo piano siano le azioni e relazioni tra poveri e non-poveri, osservando il prodursi dei diritti nelle azioni e routine quotidiane.

Nel solco di queste riflessioni, spostando l’attenzione su migranti e non-migranti, grazie alla capacità dell’etnografia di cogliere i modi e le rappresentazioni particolari di “abitare nel mondo”, gli articoli di questa sezione monografica provano a sollecitare l’attenzione sulle pratiche di convivenza e/o rigenerazione sociale (Caglar, Glick Schiller 2018) che coinvolgono singoli, famiglie e gruppi migranti[1]. L’analisi delle pratiche, spesso silenti, di convivenza in co-housing, case private e palazzi occupati prova a far dialogare esperienze – non soltanto istituzionali – volte a rafforzare legami tra autoctoni e migranti tessendo relazioni sociali e inter-generazionali che vengono espresse attraverso l’idioma delle relazioni familiari e ri-disegnano i significati dell’abitare. Attraverso lo snodo biografico e della migrazione le case e le città divengono, in diversa misura, luogo di convivenza e spazio politico (Carsten 2018).

Questa discussione di ricerche etnografiche su pratiche e significati di convivenza in ambito urbano o sulle diverse tipologie abitative dell’accoglienza, non tratta l’ampio tema “dell’abitare contemporaneo” (Pitzalis, Pozzi, Rimoldi 2017) bensì interroga le eventuali forme di convivenza poco note, invisibili, talvolta collaterali o, eventualmente, tralasciate negli studi sulle migrazioni contemporanee. Mettendo a fuoco alcune esperienze di associazioni ed enti gestori dell’accoglienza nelle città di Como, Parma e Bologna, non ci si limita a osservare l’intervento ma si prova a rileggere, nei fatti minuti, questioni più ampie che caratterizzano la ricerca antropologica fondamentale (Eriksen 1995), come le relazioni familiari, le pratiche dell’appaesamento e le condizioni di precarietà economica o, piuttosto, gli spazi fisici e simbolici per pensare di convivere con l’alterità. Raccolti in questa sezione, attraverso la storia di alcuni palazzi e dei loro cambi di destinazione d’uso in spazi urbani dissimili come Torino e Roma, l’analisi delle relazioni migranti e non-migranti permette di osservare il prodursi dell’idea di casa, di spazio domestico/non domestico (cfr. articolo di Privitera in questo numero di AP) e le plurime rappresentazioni dei confini sociali di appartenenza, così come le forme di co-abitazione e convivialità.

In questa breve introduzione i saggi, eterogenei per approcci e metodologie di ricerca, verranno posti in dialogo proprio con le teorie sulla convivialità[2], allo scopo di analizzare i molteplici significati che gli attori sociali coinvolti hanno elaborato e attribuito al vivere insieme – avviando contemporaneamente una riflessione più ampia in relazione al dibattito internazionale su questi temi. Il recente interesse antropologico nei confronti della prospettiva sulla convivialità è stato notevole in particolare nello studio della vita urbana, dei processi migratori e della complessità della vita sociale. Etimologicamente proveniente dal termine spagnolo convivencia per nominare il “vivere assieme” in un contesto multiculturale e multiconfessionale, il termine convivialità ha visto estendere il suo significato da una valenza normativa e morale – volta a individuare strumenti (idee, tecnologie e istituzioni) per la promozione di un’idea di socialità (Illich 1973) – ad una più prospettica e analitica. In questo processo, ha avuto un ruolo cruciale il recupero del termine da parte di Paul Gilroy (2006) per analizzare la Gran Bretagna post-imperiale animata da tensioni sociali, etniche e religiose; oltre che da una più complessiva messa in discussione del multiculturalismo degli anni Novanta (Grillo 2005; Vertovec, Wessendorf 2009). La nozione di convivialità comincia ad assumere valore analitico ponendosi come alternativa ai discorsi pubblici sulle società multiculturali. Gilroy (2006), infatti, pone il concetto di convivialità, capace di evocare un’accettazione o addirittura affermazione della diversità, in antitesi al multiculturalismo che, invece, implicherebbe la giustapposizione e gerarchizzazione tra gruppi sulla base di differenze etniche, razziali o, in generale, comunitarie.

Questo approccio è stato successivamente affinato per fornire uno strumento analitico attraverso cui esplorare le modalità con cui le persone, nelle condizioni di vita in cui si trovano, elaborano modi di pensarsi e di vivere insieme. Convivialità ha assunto una nuova connotazione semantica: leggere, nella contemporaneità, i modi di “vita in comune” (Nowicka, Vertovec 2013: 2). Gli studi antropologici sul tema (Laurier, Philo 2006) ne hanno stemperato il carattere normativo osservando le pratiche concrete e i processi di accomodamento dei conflitti, nonché di ridefinizione dei confini tra gruppi. Gli stessi significati del vivere insieme possono essere estremamente variabili, tanto nel contesto di origine, quanto in quello di immigrazione, come mostra lo studio comparativo di Tillmann Heil tra le aree della Casamance e della Catalogna (Heil 2020). Proprio Heil, in particolare, studia la convivialità come un processo di interazione, negoziazione e traduzione da cui emergono forme minime e fragili di socialità. Più recentemente, e da un punto di vista squisitamente teorico, il concetto è stato analizzato comparativamente con quello di “creolizzazione” e “cosmopolitismo” (Hemer et al. 2020) per discuterne divergenze e similitudini. Anche in Italia si è accentuato negli ultimi anni un interesse socio-antropologico sull’analisi delle convivenze: attraverso studi teorici sulle “somiglianze” (Remotti 2018), grazie a seminari dedicati al tema da diversi punti di vista[3], oltre che ricerche etnografiche che rileggono le relazioni formali e informali che attraversano le strutture di accoglienza migranti (Marabello 2020a, 2020b; 2021). In accordo con Weise, Velayutham (2013) ed Hemer e colleghi (Hemer et al. 2020), il dibattito internazionale sulle forme di convivialità fornisce sia una prospettiva analitica da testare, sia un fenomeno empirico che si dispiega negli “incontri quotidiani”. Con quest’approccio i saggi qui raccolti esplorano le relazioni tra migranti e non-migranti all’interno di palazzi, negli spazi intimi delle case, e nel farsi casa di spazi occupati, così come in quartieri in cui le migrazioni, interne ai confini italiani e internazionali, permettono di rileggere la storia delle città – come nel caso di Torino – e i processi di “gentrificazione” (Semi 2015), rigenerazione e re-branding urbano (Caglar, Glick Schiller 2018).

Più precisamente, Francesco Vietti, attraverso un approccio auto-etnografico, discute criticamente gli esiti di una pratica di intervento in una grande casa di ringhiera con un centinaio di appartamenti nel quartiere di Porta Palazzo di Torino. Interessato anche da piani di ristrutturazione e riqualificazione urbana, il condominio in questione ha storicamente accolto il frutto di diverse forme di mobilità (Riccio 2019a, 2019b): dalle migrazioni interne a quelle internazionali, fino ai più recenti insediamenti di studenti e flussi di turisti, andando a configurarsi come una stratificazione di gruppi diversi per classe sociale, generazione e background culturale. Tra questi si sviluppano sia occasionali tensioni, sia esperienze di condivisione e confronto sui significati del vivere insieme e sul modo di immaginare il futuro del palazzo e del quartiere. Più precisamente, l’articolo discute un progetto di raccolta di storie di vita e di esplorazione delle memorie della casa che ha avuto come esito la graduale scelta dei condomini di realizzare attività nelle quali fosse possibile riunirsi, fisicamente e simbolicamente, nel grande cortile dell’edificio. Attraverso questa esperienza di (ri)generazione di relazioni sociali attorno al micro-contesto del cortile condominiale, Vietti riflette sulle possibilità dell’antropologia sociale di contribuire ad aprire una conversazione tra “vicini di casa” mediando conflitti, relazioni e rappresentazioni dell’abitare al fine di facilitarne la percezione di appartenenza a una “comunità inclusiva e interculturale”.

Diversamente, Martina Giuffrè e Chiara Marchetti ci conducono all’interno di quel “mondo di mondi” (Piasere 1999) costituito dai progetti sperimentali all’interno del sistema di accoglienza di Parma, mostrando come i contesti di condivisione della quotidianità e le esperienze più intime dell’abitare assieme tra cittadini italiani e di origine straniera costituiscano un’importante occasione per costruire nuove pratiche significative di convivenza nello spazio urbano. Più precisamente, l’articolo analizza le convivenze che caratterizzano due progetti promossi dall’associazione Ciac: “Rifugiati in famiglia” e “Tandem”. Il primo riguarda l’ospitalità di rifugiati in case di nuclei familiari del territorio, mentre il secondo comporta il co-housing tra giovani italiani e rifugiati. Attraverso una metodologia di peer research che coinvolge i protagonisti dei due progetti, lo studio esplora la loro riflessività sulle forme dell’accoglienza e dell’abitare con lo scopo di interrogare più ampi concetti del dibattito socio-antropologico come quelli di intimità, famiglia, casa, relazioni interculturali. In altre parole, la dimensione intima delle pratiche quotidiane, come mangiare e cucinare insieme, diventa una lente attraverso cui indagare anche gli spazi della città e la relazione tra spazi privati e pubblici.

Proprio su una specifica esperienza di co-housing a Como è dedicato il contributo di Federico Bosis. Si tratta di un progetto sperimentale finalizzato a conciliare l’accompagnamento all’autonomia abitativa per neo-maggiorenni provenienti da comunità per MSNA con l’esigenza di indipendenza abitativa di giovani studenti lavoratori autoctoni. Attraverso l’osservazione partecipante e le interviste ad inquilini e ai coordinatori del progetto, la ricerca ha esplorato questa forma dell’abitare contemporaneo che tenta di sfidare i processi di individualizzazione e precarizzazione dei legami familiari e sociali. L’articolo focalizza l’attenzione sull’abitare condiviso come luogo di apprendimento della convivenza nelle differenze oltre che di “appaesamento” per le persone di origine straniera (Signorelli 2006). Attraverso la lente di un altro progetto di accoglienza di MSNA e neo-maggiorenni nella città di Bologna anche Selenia Marabello e Maria Luisa Parisi esplorano le molteplici rappresentazioni del vivere insieme, in questo caso nell’era della pandemia. Dopo aver indagato le scelte e le pratiche di condivisione degli spazi abitativi, le autrici hanno infatti posto l’attenzione sul contingente evento pandemico e, in particolare, sulle misure di contenimento del COVID-19 per cogliere con una lanterna etnografica (Biehl 2016) come il lockdown abbia segnato le relazioni tra famiglie autoctone e giovani migranti. In particolare, l’analisi verte sulla percezione dell’alterità, del rischio di contagio e i processi materiali e simbolici di costruzione dello spazio di convivenza. L’evento pandemico diviene, dunque, l’elemento per ricostruire l’esperienza di accoglienza abitativa e le ragioni delle famiglie ospitanti che, in risposta a politiche migratorie ritenute dagli intervistati sempre più aggressive, hanno deciso di intervenire mettendo in gioco e rendendo disponibile lo spazio domestico e privato.

Gli ultimi due contributi interpellano la lotta per la casa e l’occupazione abitativa che sta gradualmente diventando un ambito di ricerca a sé stante anche in Italia (Mugnani 2017; Vereni 2015). Erasmo Sossich si propone di studiare i rapporti tra l’occupazione abitativa dello Spazio Popolare Neruda di Torino – dove convivono venti famiglie di diversa nazionalità e status socio-giuridico, studenti, lavoratori, titolari di protezione internazionale – e il circostante rione di Valdocco, storicamente caratterizzato da un’alta percentuale di stranieri ma in rapida “gentrificazione” (Semi 2015). L’analisi del confluire del movimento politico per la casa con quello dei rifugiati nella comune contestazione delle politiche di riqualificazione permette di discutere alcune pratiche di mobilitazione. I molteplici significati che l’occupazione ha assunto all’interno dello spazio urbano e le differenti pratiche culturali, sportive e aggregative, che animano lo Spazio Neruda, sono discussi per rivelare la tensione esistente tra processi di etnicizzazione e mobilitazione collettiva. Chiara Cacciotti, infine, esplora il legame tra precarietà abitativa e diversità socioculturali e si interroga su come le occupazioni possano rappresentare una forma di “welfare surrogato”. Grazie ad un’accurata ricostruzione storica, l’articolo mostra come sia le politiche nei confronti dei migranti, sia quelle abitative siano state pensate ed implementate all’insegna dell’emergenza e della temporaneità. Lo studio di un’occupazione nel quartiere Esquilino, all’interno della quale si tenta di elaborare un modello di convivenza – tra nazionalità differenti – e foriero di una più ampia “cultura dell’occupazione”, dà qui modo di trattare le pratiche di spazializzazione messe in atto dagli occupanti e i diversi significati della convivenza quotidiana.

Documentando ricerche svolte negli ultimi tre anni o ancora in svolgimento, gli articoli hanno il pregio di rileggere con diverse strategie e capacità analitica questioni di attualità[4] ponendo in relazione evento, storia e fatto culturale in una prospettiva temporale volta a rileggere la diacronia del contingente. Dal punto di vista metodologico i contributi arricchiscono il repertorio cui attingere nella ricerca antropologica animata da una potenziale rilevanza sociale. Dalla peer research, solitamente utilizzata in altre discipline in cui si mira a far confluire, nella produzione del dato, anche i diversi punti di vista e i vissuti esperienziali del gruppo allargato di ricerca, alle audio-video interviste su piattaforme online. Tecnica, quest’ultima, già adottata nelle ricerche sugli spazi domestici (Pink et al. 2016), che ha permesso di rilevare l’evento pandemico nel suo dispiegarsi tentando di ricostruire la dimensione dialogica della narrazione senza dimenticare quella etica della ricerca che, dentro un’epidemia, comporta l’uso di dispositivi di controllo del possibile contagio (Venables, Pellecchia 2017). Il sé di chi fa ricerca, ri-articolato nella peer-research così come posto sotto nuova pressione dal medium digitale e nelle forme di re-intepretazione del dato, trova altra forma nel contributo auto-etnografico (Reed-Danahay 1997), così come lo definisce Vietti. L’articolo, infatti, pur non ponendolo a tema, ripropone al lettore questioni ben note in cui l’etnografia tratti e combini anche fatti autobiografici (Brand 1982) o, con più accortezza, armonizzi nel testo scritto storia orale e storia d’archivio, etnografia e autobiografia (Denzin 1989), tratteggiando come l’antropologo divenga parte del condominio di Corso Giulio Cesare per ragionare su possibili ruoli e azioni d’intervento nelle codificate funzioni di gestione delle relazioni di vicinato condominiale. Il divenire ed esser parte dell’antropologo/a, da prospettive opposte, è al centro delle riflessioni dei due saggi sull’occupazione abitativa nel quartiere romano dell’Equilino e del rione torinese di Valdocco quando discutono rispettivamente il ruolo della ricerca come possibile contributo all’azione di occupazione o, piuttosto, come parte integrante e inscindibile dell’azione militante. I contributi ripropongono questioni chiave che hanno animato il dibattito antropologico nella revisione degli strumenti d’indagine e forniscono spunti di ulteriore riflessione sulle forme e le prassi, più o meno consolidate, con cui la ricerca in Italia legge, si situa e declina l’engagement.

Le riflessioni di diverso calibro sulla convivenza e la coabitazione, sui legami sociali e i processi di costruzione di confini etnici e di classe emergono dal campo di applicazione dello sguardo antropologico, segnando un aspetto particolarmente originale dei contributi che qui presentiamo. In altre parole, l’antropologia applicata diviene terreno per sviluppare riflessioni in ambito teorico e di ricerca fondamentale. Pur nella loro diversità di approcci e lessici, gli articoli sollecitano una riflessione puntuale e ampia sui progetti istituzionali, del terzo settore e dei movimenti sociali che coinvolgono migranti in esperienze eterogenee di co-abitazione. Le città medio-piccole di Parma e Como e le grandi città di Roma, Torino e Bologna pur avendo caratteristiche istituzionali e storiche eterogenee divengono, nei saggi, luoghi di ricognizione della mobilità, non solo contemporanea. Investigare le forme esperite di convivenza con migranti, pur nei limiti di questi articoli, fa intravedere come, nelle azioni e relazioni quotidiane, i migranti divengano parte del tessuto sociale e contribuiscano al city making (Caglar, Glick Schiller 2018).

In un certo senso è grazie alla riflessione sulla convivenza che potenzialmente si rigenera anche la ricerca sulle migrazioni, creando un terreno di riflessione e azione nel presente e futuro delle città contemporanee. Le città, infatti, sempre più protagoniste nella competizione per i capitali produttivi – che scompagina i criteri consolidati di lettura del rapporto tra grandezza, capitale e migrazioni (Sassen 2001) – sono sempre più investite da tensioni opposte in cui devono predisporre servizi e governare persone, diritti e, come risulta del tutto evidente nella recente pandemia, la salute dei suoi abitanti. Il campo di tensione si genera nel mandato di governo in cui gli stati costruiscono confini, tracciano la mobilità delle persone e ri-organizzano i piani di distribuzione delle risorse (Ferguson 2015). Da parte loro, gli abitanti, se pur con componenti minoritarie e forme dissimili quando non contrastanti, reagiscono alle politiche della frontiera (Khosravi 2019; Ciabarri 2020) sempre più violente che mal governano le migrazioni contemporanee.

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[1] I saggi qui presentati sono l’esito di una ristretta selezione delle comunicazioni presentate nel panel Spazi di Convivialità? Pratiche e significati di convivenza del Convegno SIAA di Ferrara 2019. In questo approfondimento monografico è confluito anche un articolo (Marabello e Parisi) che prova a rileggere la convivenza con l’alterità in relazione all’epidemia di Coronavirus.

[2] Entrambi gli autori, grazie al finanziamento del progetto competitivo “Migranti e Migrazioni in Italia” promosso dalla Fondazione Alsos, hanno aperto una linea di ricerca del Dipartimento di Scienze dell’Educazione “G. M. Bertin” su convivialità, forme dell’accoglienza migranti e legami deboli tra autoctoni e migranti.

[3] Si segnala il ciclo di seminari Convivenze del Dottorato in Storia Antropologia Religioni (SAR) della “Sapienza” Università diRoma 2018/2019 e il seminario Behind the “Dark Side” of the Migration Reception System: Conviviality and Affective Circuits tenuto dagli autori nell’ambito dei seminari del Dottorato di Antropologia Sociale e Culturale (DACS) dell’Università di Milano “Bicocca” nel 2020.

[4] Analisi del lockdown e misure di contenimento dell’epidemia da Coronavirus; eventi mediatici legati alle città e la ridefinizione delle politiche di riqualificazione urbana come nel caso di Torino o, ancora, l’evento con cui il cardinale Krajewski (elemosiniere del papa) ha riallacciato la luce allo spazio Santa Croce del quartiere Esquilino.