“Il tempo è una lama sottile, che tutto cancella e tutto fa superare”

Retoriche del tempo nei malati terminali di cancro in Hospice

Annamaria Fantauzzi

Università di Torino

Abstract. This paper faces on the perception of the time for a terminal cancer patient admitted to the hospice of Aosta (Italy). The project explores the anthropological vision of time, the perception of a patient at the end of his life and the management of care realized by health professionals. Moreover there is an issue about the relationship between the researcher and the context: how to explain the presence of the anthropologist to the patient, to his family and to the team?

Keywords: Time; palliative care; hospice; end of life, body perception.

Un'indagine etnografica comparativa

«Il tempo è una lama sottile, che tutto cancella e tutto fa superare»: con queste parole mi salutò Rinaldo, un bravissimo musicista di Aosta, ricoverato in Hospice, per un cancro terminale. Rinaldo, come altri malati presenti allora in quel luogo, che lui definì come quel posto «dove si entra nella convinzione di non uscirne se non morti», ripercorse nelle interviste fatte assieme la percezione della dimensione dello spazio e del tempo nella vita che gli sarebbe rimasta, in quella pienamente vissuta e in quella che forse avrebbe voluto ancora esperire. Come antropologa, ho percepito un senso di impotenza e di ineluttabilità per cui né parole di conforto né tentativi di disillusione possono essere messi in atto in quel preciso istante. Cos’è il tempo, dunque, per un malato che convive con un cancro allo stadio terminale, che chiede incessantemente agli operatori quanto ancora gli resti da vivere, che cerca di assaporare al meglio, soprattutto per i congiunti, gli istanti rimanenti di un tempo inqualificabile e non quantificabile? Questo saggio vuole riflettere su dati raccolti presso l’Hospice dell’ospedale Beauregard di Aosta, in comparazione con ricerche analoghe presenti nella letteratura, non solo medica, sull’argomento.

L’illusione di un tempo inqualificabile

Nei racconti dei pazienti malati di cancro terminale, emerge costante l’idea di un’illusione relativa alla sensazione del tempo che scorre, che rimane o che si cerca di vivere. Il sig. Rinaldo, di buon mattino, in uno dei nostri dialoghi che duravano ore, parlava del tempo come di una lama sottile che tutto può smussare o tagliare, incluse la sofferenza, il dolore, l’illusione e la speranza. Rinaldo faceva riferimento al suo atroce dolore che il tempo avrebbe cancellato con la morte, come anche alla ferita che avrebbe lasciato nel figlio e nella sua nipotina. Era chiaro anche a lui, come ad altri pazienti incontrati, che, dopo la morte, il tempo avrebbe garantito il ricordo della persona dipartita in chi fosse rimasto in vita, in quanto il tempo viene percepito come lo strumento di cura dell’atroce sofferenza del malato che convive con il dolore fisico, esistenziale e psicologico.

Il tempo ha un’ulteriore semantica nelle cure palliative, dato che “palliare” significa in prima istanza “coprire”, ovvero con il tempo viene occultato il dolore e la sofferenza, perché scompaiono attraverso la capacità del paziente di conviverci (per così dire una dimensione consapevolmente “perenne” del dolore). Per analogia il termine “palliare” è poi andato a costituirsi nel significato di “curare apparentemente”, ovvero curare l’apparenza della malattia, il sintomo, non la causa. Infatti «la cura palliativa è una cura “alla fine della vita” e in quanto tale essa solleva problemi anche di carattere etico relativi alla definizione di quale sia la cura “giusta” per i morenti» (Pizza 2005: 236), tanto è vero che alcuni specialisti ammettono anche che la cura palliativa possa accelerare il processo di morte (Kuhse 2000: 251). Allo stesso modo il tempo copre e scopre, fa riemerge le sofferenze e il dolore di chi è malato ma anche dei congiunti, come anche copre il periodo della sofferenza per la ripresa di una normale (o pseudo normale) quotidianità. Il fine vita è un momento fondamentale nella riflessione e percezione del tempo. Dall’esperienza di campo, si nota che la transizione temporale del paziente trattato con cure palliative è una delle più traumatiche e confuse, proprio perché questi pazienti evidentemente non hanno più tempo; la mancanza oggettiva di esso implica una maggiore attenzione alla tutela del malato e del suo benessere. La prospettiva di una morte imminente concentra sul presente tutte le aspettative che non possono essere rimandate nel futuro, perché la malattia non lo permette. Manca una strategia per la guarigione, ma si vorrebbe quantomeno garantire una buona qualità di vita, intendendo per essa «la percezione soggettiva che un individuo ha della propria posizione nella vita, nel contesto di una cultura e di un insieme di valori nei quali egli vive, anche in relazione ai propri obiettivi, aspettative e preoccupazioni», secondo quanto riporta l’OMS (Cipolla 2005: 75). Questo colloca le cure palliative all’interno di un’aspettativa, un’attesa appunto, che fa del tempo il suo protagonista, come commenta Cristina, irrequieta sul letto mentre assume la terapia:

Attendo che mi dia un responso, attendo che il dolore passi, attendo che il medico venga e mi dica qualcosa, magari di buono; attendo mio marito che arriva e magari mi può vedere diversa… attendo e, forse, quello che non voglio riconoscermi è l’attesa dell’ultimo respiro che, comunque, più prima che dopo, arriverà

Dall’osservazione partecipante, dunque, si può rilevare come, a differenza degli altri pazienti, per i quali è presente un prima, un durante e un dopo della malattia, che consistono rispettivamente nella normalità e quotidianità di una vita (prima) a un certo punto interrotta da un evento traumatico (la malattia) e vissuta in una condizione di liminalità (tra il normale e l’anormale, tra il patologico e l’ordinario), poi conclusasi con la guarigione e il ritorno a una totale o parziale consuetudine (il dopo), il malato terminale di cancro ricorda nostalgicamente il prima, vive un dopo nell’inquietudine, incertezza, sospensione e angoscia, per attendere o non voler attendere il dopo. È come se il tempo si fermasse e fosse sospeso, impercettibilmente collocato in un’altra dimensione rispetto alla vita normale, che non è più tale. Dice la signora Luisa che, purtroppo, è mancata prima di vedere nascere la sua nipotina:

Prima avevo l’orologio ogni secondo, invece qui, ora, non serve, perché non c’è bisogno; prima programmavi di alzarsi a tot ora, di fare nottata magari con un bell’uomo e dormire fino a tardi; era pressato dal lavoro se non arrivavi in orario, ora che senso ha? Questa cosa [il cancro] assorbe minuti, secondi, ore e giorni, per quanti ancora ce ne saranno, assorbe l’idea che un domani ci sia e che possa vedere mio nipote nascere. Io vivo nell’attesa che mio nipote nasca e poi posso pure morire.

Parlando con i pazienti, appare evidente come il tempo abbia una struttura diacronica e sincronica: si sviluppa lungo un asse cronologico e al con-tempo accade ora e in questo “ora” sono presenti altri tempi (presente, passato e futuro). Ha a che fare con “l’essere qui”, con l’essere stati altrove e con l’essere altrove nel futuro. L’Essere, secondo Heidegger (1927), si può definire come la percezione intuitiva dell’“essere vivi”, dell’esistere. Possiamo farne esperienza al risveglio, nella sensazione di appartenere alla vita, magari malati, disperati, oppure felici, ma “siamo”. Dalle interviste emerge che il malato terminale di cancro, man mano che trascorre il tempo, sente di “non essere più”, nel soma e nella psiche, di farsi vivere e di non riuscire più a vivere, attivamente e consapevolmente. Ecco perché, all’altra categoria heideggeriana dell’“Esserci: noi esistiamo”, Dasein, ovvero “esserci con la propria vita”, con il proprio Tempo, il malato contrappone un “non esserci” e “non voler esserci”, perché stanco dell’esistenza e della fatica a essa, soprattutto se con dolore.

Tempo e vita dipendenti dalla iatrogenesi

La vita dipende dal tempo e, in questo contesto, il tempo dipende dalla tecnologia, che esercita un vero e proprio controllo sulla morte, sottraendola al caso e alla necessità. La morte è, infatti, sempre più dipendente da scelte che incidono sia sul “quando” sia sul “come” si giunge alla conclusione dell’esistenza. Il fine vita sembra qui dipendere da una medicina chiamata ad affrontare situazioni in larga parte prodotte dai suoi stessi successi, secondo la ben nota nozione di iatrogenesi (Illich 2004). Gli aspetti tecnici della somministrazione di farmaci come antidolorifici per il controllo del dolore neoplastico interessano le risposte da dare ai bisogni di nausea, vomito, mucosite, diarrea, debolezza, sindrome mani-piedi, rush acneiforme nonché la necessità di rassicurazione e di non abbandono per il malato stesso e i suoi familiari. Questo aspetto delle cure palliative si riflette anche nella risposta non solo al dolore ma anche alla sofferenza come modo di sentire e sopportare: la categoria della sofferenza è più ampia rispetto a quella del dolore. Nel contesto del fine vita, esso intercetta l’attesa, aspetto essenziale per gli operatori di cure palliative perché legato al tempo, come sottolinea una delle infermiere interpellate:

Si attende che il farmaco faccia effetto per capire dove poter ancora agire e se agire; si contano le ore per osservare miglioramenti e nelle nostre cartelle tutto è scandito tramite orari; la vita del paziente è un orario della malattia, ovvero cadenzato dalle medicazioni, dai trattamenti e dalla somministrazione della terapia.

Il tempo viene più apprezzato e non sprecato: ogni attimo è vissuto come l’ultimo nei momenti di condivisione con la famiglia e con gli amici; l’importante è l’hic et nunc, non il domani (spesso tabù) né il passato (pura illusione e amaro ricordo). Altra osservazione interessante è l’incontro dei pazienti con familiari e amici. Normalmente le visite dei parenti sono all’insegna dell’allegria e del giubilo, quasi si voglia “coprire”, appunto, la malattia evidente e lo stato degenerativo del congiunto malato. I parenti portano oggetti e doni che il paziente gradisce, cercano di riproporre nella stanza una parvenza di domesticità consuetudinaria, inserendosi nel contesto “ospedale” camuffato da casa, pur non mostrando lacrime, sofferenza e sconforto. Ogni attimo vissuto insieme è prezioso, come commenta Luisa, paziente presente in Hospice già da due mesi:

È come se qualcuno ti consegnasse una parte del cielo, ovvero un grande dono perché stai ancora toccando tua moglie o tuo marito, perché puoi vedere la nipotina, puoi ancora osservare i monti dalla finestra e magari vedere il bel sorriso delle infermiere.

A questo si contrappone il tentativo degli operatori di far vivere appieno il tempo ordinario, cadenzarlo con visite ma anche con dialoghi senza interruzioni, con la cura del corpo che vada oltre i segni di un tempo che consuma e assottiglia, priva e rapisce. Secondo la stessa signora Luisa, gli operatori sono «angeli, i nostri angeli» che fanno vivere la “favola bella” del fine vita, conferendo dignità e vitalità alla persona morente. È quanto sostiene Lina, infermiera in Hospice da molti anni:

Mai potrei pensare di toccare un corpo e non guardare in faccia la persona che sto assistendo. Per me è prima di tutto una persona, non l’immagine di un cancro brutto e tremendo che prima o poi la porta via. E io cerco di starle accanto con le mie competenze ma anche con il mio umore, perché quel tempo trascorso insieme sia bello, allegro, quasi “inventato” rispetto alla situazione reale.

La figura dell’infermiere riveste un ruolo fondamentale perché è il professionista sanitario che si trova maggiormente a contatto con il malato terminale e con la sua famiglia, il quale deve adeguarsi ai loro bisogni e ai loro ritmi nella scansione di un tempo ordinario. L’infermiere, inoltre, incrocia il problema della percezione del tempo non solo da un punto di vista professionale e scientifico ma anche etico e morale. La relazione che stabilisce inevitabilmente con il paziente incide sulla condizione di attesa e aspettativa che vive il malato. In una realtà come quella dell’Hospice in cui vi è sempre bisogno di cure palliative, la percezione del tempo diventa un elemento di negoziazione tra l’uno e l’altro attore.

Corpo e tempo direttamente proporzionali

E poi c’è il tempo del corpo, il tempo che segna il decadimento e il consumo, il tempo che non s’arresta e che non è semplice invecchiamento ma incessante degradazione dei tessuti, delle cellule, dei muscoli:

Non sono più io. Qui questo [il cancro] mi sta mangiando tutto. Prima hai voglia che suonavo, cantavo, correvo, facevo anche nottate… ora non mi muovo più, il braccio è consumato, il dolore mi mangia e mi stringe. Non c’è più il Lorenzo di un tempo, questo non sono io e domani sarà peggio.

I muscoli perdono tonicità, il volto cambia perché sempre rattristato e sofferente, i capelli cadono e diventi calvo, il sangue scorre sempre più lento come lento è il battito cardiaco. Il tempo e il corpo sembrano essere gli elementi direttamente proporzionali per cui all’aumentare dell’uno aumenta anche l’altro nei termini di durata della vita, sopportazione del dolore e resistenza; al diminuire dell’uno, diminuisce inesorabilmente anche l’altro, invecchiando, affaticandosi, arrendendosi. Questa percezione del tempo che manca o che se ne sta andando è sempre più evidente soprattutto per gli uomini, che si trovano a dover dipendere, anche per i gesti più intimi e ordinari (abbassare i pantaloni o farsi la barba), da un congiunto o da un operatore; per le donne questo senso di “invasività” è meno sentito, forse anche perché, nel contesto studiato, la prevalenza degli operatori era femminile. Accanto al disfacimento del corpo fisico, dunque, il tempo agisce sul malessere psicologico del paziente, che, talora, invoca il tempo che tutto spezzi e tutto recida, in una vita, che

non è più vita. È un’attesa del niente, perché tu sai che non ci sarà niente. Perché allora attendere, far finta di stare bene e giocare al teatro che la vita ci pone; ma la malattia è dura e triste e non dà scampo, allora anche l’attesa, come anche la speranza perdono sin dalla base.

Parlando con pazienti e personale in Hospice, si evince che una caratteristica peculiare dei pazienti in cure palliative è la sofferenza per l’attesa: c’è un tempo lento e indefinito nell’attesa di ricevere una diagnosi, un esame, di iniziare un trattamento o di ricevere informazioni. Il tempo dilatato dell’attesa, in realtà, si riferisce anche alla quotidiana passività del paziente nel ricevere le cure dell’infermiere (e degli altri operatori) che si presta a pulirlo, a vestirlo e ad alimentarlo: «Aspetto costantemente che venga qualcuno per lavarmi, pettinarmi, andare persino ai servizi; senza di loro ora non posso nulla e nulla sono, come niente più è il mio corpo». I pazienti descrivono un’attesa straziante dovuta a un fisico malato che non risponde più ai solleciti. Non c’è resistenza da parte del corpo ma un abbandono alla malattia e all’assistenza degli operatori. L’attesa è inoltre un carattere intrinseco delle cure palliative che si riflette nel paziente. Non ci si aspetta un miglioramento o una cura che stravolgerà il corso della malattia, ma il decorso sarà più o meno lento e comunque rivolto sempre alla morte. Avere un corpo malato accelera il processo di invecchiamento e con esso la trasformazione del tempo del corpo. La percezione del tempo che passa velocemente e si trasforma è sorprendente; altri descrivono questo tempo logorato dalla malattia come un ritmo lento, sempre più lento di cui non si ode più la frequenza né la melodia. Un ritmo dettato più dall’attività assistenziale necessaria per mantenere il corpo che dalla reazione alla malattia posta in atto dal corpo stesso. Anche qui rivestono un ruolo fondamentale gli infermieri e gli operatori sanitari tutti: nelle loro cure hanno la responsabilità di stabilire un tempo apparentemente esterno al paziente ma che, a causa della malattia, diventa il tempo della malattia. Quest’ultima, incurabile, non altera i principi e i valori di un uomo ma ne cambia le priorità.

Non c’è un’aggiunta o rinuncia a valori e principi fondamentali che caratterizzano la persona, ma quello che si tende a modificare è la loro importanza perché rapportata a una mancanza di tempo dettata a sua volta dall’imminenza della morte, come sostiene Ellingsen: «My values are basically the same, but they become clearer. When you have a lot of lifetime it is not so important what you use time on, but when life is limited, it is important to spend time on things that have value» (Ellingsen et al. 2013: 168). Il tempo deve essere speso nel migliore dei modi possibili, altrimenti nasce un sentimento di rinuncia e di abbandono da parte del paziente che si trova non solo a combattere la propria malattia ma anche il benessere psichico: infatti, il bioeticista Julião, Università di Lisbona, ha studiato come la percezione del tempo giochi un ruolo importante nella depressione del paziente (Julião et al. 2013) e nella sua qualità di vita, nell’assaporare un’ora trascorsa serenamente o nel proiettarsi verso la morte in un minuto di autoriflessione. Ritengo dunque che considerare questi aspetti significhi mettere al primo posto il paziente, i suoi bisogni e non la sua malattia. Per sopportare questa sofferenza il paziente chiede primariamente di poter ricevere le informazioni sulla sua malattia perché la consapevolezza permette di trasformare il periodo d’incertezza in rassegnazione o speranza; in ogni caso lo stato d’animo è più tollerabile rispetto a quello fragile e vulnerabile dell’attesa. Riflettendo sulla dimensione del tempo nella fase terminale, in base alla percezione cronologica e a quella esperienziale, dalle interviste effettuate nel nostro setting emerge che possono essere individuate tre diverse prospettive di fine del tempo. Nella prima area rientrano i pazienti che non hanno né futuro né un fine. Il tempo passato e vissuto in salute sembra stato sprecato rispetto all’imminenza della morte, non ci sono progetti a breve o a lungo termine. La malattia è vista come punizione o con rassegnazione, anche secondo quanto afferma Ellingsen: «The first I am thinking of about time is how much time I have left. I would say awareness of limited life has changed the most» (Ellingsen et al. 2013:168).

Un secondo settore di pazienti si proietta verso un orizzonte trascendente. La fiducia e la speranza in una vita migliore dopo la morte proiettano i pazienti verso un futuro e verso un fine ultimo. Infine abbiamo una terza categoria comprendente i pazienti che non hanno prospettive future ma hanno un fine. Il fine è nel presente, come ancora propone Ellingsen: «To be safe is what determines whether time feels good or bad, as it always has been. What I want for my time (here at the hospital) is to be safe and to have confidence that the health care system takes care of this last part of my life. Confidence is what it’s all about in the days to come» (Ellingsen et al. 2014: 460). Gli operatori, dunque, focalizzano il loro tempo non solo nell’aiuto dei malati, in questo caso terminali, ma anche nella creazione di un senso della “fine” per i malati stessi, perché possano vivere al meglio anche il termine della loro esistenza. Così scrive Ivana Meynet, infermiera dell’Hospice:

Quando ci avviciniamo all’evento morte spesso assistiamo ad un rallentamento di tutte le funzioni vitali ed è un po’ come se il tempo della clessidra cominciasse a rallentare. Infatti molti dei commenti delle famiglie sono relativi al tempo che non passa mai! Per loro le ore sono eterne... In molti casi la persona tende ad assopirsi sia per l’astenia, sia per l’uso talvolta di farmaci sedativi che rallentano le funzioni cognitive per lenire stati ansiosi oppure stati confusionali disturbanti sia per la persona sia per la famiglia. In quelle circostanze non è più importante il “saper fare” quanto piuttosto il “saper essere”, e dunque ritornano in gioco più che mai tutte le strategie relazionali precedentemente citate (Meynet 2014: 254).

Il tempo s’arresta anche per i parenti, quando finisce la vita: allora la famiglia inizia a ricordare, a voler ricordare e a soffrire anche solo nel ricordo; inizia il tempo della “nuova” vita senza quel congiunto e senza, paradossalmente, la quotidianità della malattia che lo teneva impegnato ed era diventato la ragion d’essere per quella persona. Il tempo cambia aspetto e sapore, diventa quasi vacuo e nullo, perché prima riempito dalla malattia e dal servizio al proprio congiunto:

E adesso che faccio? Chi devo accudire, a chi devo fare la barba la mattina, controllare ora per ora le medicine, aspettare la notte per rilassare un po’ i muscoli in tensione tutto il giorno per l’ansia e la fatica anche nel sollevarlo. Oggi vedo il letto dov’è stato a casa e mi sembra tutto vuoto, il vuoto intorno e il tempo che s’è fermato a quando mi ha salutato. Il mio passato, mannaggia, rappresenta il desiderio di un presente che anche se ne è andato, portandoselo via. Ora l’orologio si è fermato nella mia testa, i giorni sono tutti uguali e le ore interminabili. Il ricordo ti logora, dentro, e vorresti reinventare il tempo perché non arrivasse quel giorno in cui hanno segnato accanto al nome di mio padre “deceduto a tal ora”.

È il tempo della morte che si sostituisce a quello della vita attraverso il tempo della malattia. Questo trinomio è parallelo alla naturale evoluzione/involuzione del corpo del paziente che può essere sollevato, ma non coperto, come la cura palliativa tenta di fare con il dolore.

L'antropologa e il tempo del cancro

Di fronte a questa dimensione del tempo e reinvenzione dello stesso da parte degli operatori sanitari e della famiglia del paziente, al fine di mantenere il benessere per quest’ultimo, l’antropologa riveste una posizione quanto mai ambigua che non è quella della psicologa né del medico né del prete che vorrebbe offrire, ma non riesce, un aiuto tecnico o un sostegno morale. Nella fame delle informazioni e della raccolta di dati, il ricercatore abbandona quasi la sua veste vivendo pienamente la dimensione del “mondo altro” della malattia terminale che coinvolge, distorce, influenza qualunque presupposto di ricerca e di osservazione. Cosa dire a Rinaldo quando chiede: «E tu come vivresti sapendo che, se va bene, potrai vedere il sole ancora per tre giorni e poi niente più? Che cosa diresti a tua moglie o a tuo marito se non sei più in grado di fargli neppure una carezza né di guardarti allo specchio perché questo bastardo di tempo ti consuma tutto?», oppure quando si osserva una donna di quarant’anni farsi accudire completamente dalla figlia ventenne che non ha più la forza neppure di somministrare le medicine prescritte, presupponendone la vacuità?

Allora l’antropologa reinventa il tempo della narrazione della malattia, crea momenti di riflessione con i pazienti per cogliere e vivere appieno il tempo della cura, vivendo appieno le azioni quotidiane del luogo di ricerca, mettendosi in gioco come persona e come ruolo. Coglie, dunque, con il paziente, il momento necessario per sorridere ai clown presenti ogni sabato mattina, che perlustrano e si soffermano in ogni camera per almeno una mezzoretta, «dandoci la bella illusione che ancora si possa sorridere… ma sorridere di cosa?», come dice Luisa, paziente, ad Aosta. Nelle narrazioni della malattia, l’operatore cerca di ripensare, con il paziente, alla sua vita precedente, “normale”, in termini di acquisizione di saggezza e di lascito alle persone cui si è voluto bene; di assaporare i tempi della condivisione, pur nella sofferenza, come il momento dell’offerta del “the” del giovedì pomeriggio a tutti gli ospiti della struttura, nonché ai parenti. Dalla semplice ricerca etnografica, sono passata al vivere insieme al paziente (e alla famiglia) l’accettazione delle cure palliative, la scoperta e comprensione di esse, la percezione del proprio corpo che, con il tempo (anche breve), cambia e parla, la rivisitazione della propria vita e dell’attuale condizione sotto forma di una narrazione consapevole del sé, pur nell’incognita del futuro. Ciò mi ha permesso in alcuni casi di giungere a una valutazione della dimensione del tempo più consapevole, volta a un’accettazione della condizione del sé, della cura e della malattia nel fine vita, come Rinaldo sostiene: «Quante belle parole le ho detto; eppure è passato un pomeriggio, quasi come un ricordo costante che non m’ha lasciato il tempo di pensare al braccio che non funziona più o alla morte che mi sta accanto... è così, è vero, non è giusto illudersi del contrario».

Narrare il proprio dolore è già un’azione volta a fermare il tempo, assaporarlo, riempirlo. In tal senso, le illness narratives rappresentano un buon metodo per permettere al paziente di rielaborare la sua malattia e imparare a convivere con essa, in quanto il racconto diventa «declinazione soggettiva, esperienziale e al contempo sociale, del loro malessere o della loro malattia» (Cozzi 2012: 205). A differenza di altri contesti etnografici in ambito sanitario, nei quali l’antropologo fa i conti con il tempo messo a disposizione per l’incontro, dipendente dai trattamenti e dalle visite cui il paziente è sottoposto, un tempo che

può essere poco anche perché, a volte, siamo costretti a intervistare in setting ospedalieri caotici, e non sempre gli spazi sono a nostra disposizione riservata, l’intervistato, poi, può trovarsi in una situazione in cui i sintomi della patologia – o, al contrario, i trattamenti – gli concedono limitati ambiti di mobilità, o tempi di concentrazione, o di libertà dal dolore (Nigris 2008: 133),

in Hospice e a contatto con malati terminali, si ha tempo per stare con loro, per far trascorrere una giornata diversamente, per riempire vuoti di attesa talora incommensurabili verso un epilogo purtroppo noto e previsto. In tal senso, condividiamo l’idea di Arthur Frank che, nella sua monografia The Wounded Storyteller (1995), afferma che il raccontare una storia, ovvero la storia della propria malattia, rientra tra le azioni principali del processo di cura, come bisogno di conferire senso e significato alla malattia stessa. Allora, il tempo della narrazione, che per l’antropologo è il momento di maggiore ricerca e acquisizione di informazioni, per il paziente diventa sospensione della quotidianità e scoprimento a ritroso della vita passata oppure attraversamento di quella presente, che diventa esperienza della realtà, come sostiene P. Ricoeur: «il mondo rivelato da ogni opera narrativa è sempre un mondo temporale» (Ricoeur 1986: 3), in cui la trama delle azioni, delle situazioni e delle persone incontrate è strettamente connessa alla dimensione del tempo, del prima, del dopo, del durante. Queste che Schaefer (1992) definisce storylines, ovvero linee narrative, possono subire il turbamento o la distorsione della malattia, per cui il paziente intesse, ora, un racconto più sereno e spontaneo, ora, più intenso, frammentato e sofferto, in cui l’interlocutore diventa finanche il bersaglio più diretto di rimproveri, malcontenti e improperi. Luisa, dopo aver ingerito le sue abituali medicine, rifletteva sul tempo che è passato rispetto al suo primo ricovero:

Se ripenso, come abbiamo fatto insieme, alla mia vita, allora riesco ancora a sorridere e magari a dire che il tempo trascorso non è stato vano, anzi, ben vissuto; ora, come tu mi dici, forse conviene vivere bene anche questo, perché è l’ultimo, come sarà l’ultimo per tante persone.

Al contrario, Lorenzo, in una delle mattine di maggiore sconforto per la sua irriducibile impazienza a sopportare il dolore atroce che lo corrodeva, mi rispose quasi urlando e scusandosi successivamente:

Ma lei, voi che ne sapete come sto? Dice di capire, qui tutti capiscono ma io mi tengo questa crocefissione, questa è la croce della mia vita. Non faccio più nulla, non sono nulla, le lancette dell’orologio passano e così il sangue dentro di me… ma che cosa ne sapete voi di come una persona è ammaccata, mangiata da questo maledetto? Lasciatemi stare, tanto lui viene con me o, anzi, io andrò con lui fino alla tomba.

Il dolore di un malato terminale è refrattario spesso anche al linguaggio, in quanto non può essere condiviso né fatto interamente capire all’esterno. Ecco perché avviene che il carattere ripugnante del dolore sia «in parte determinato dalla separazione completa tra il senso della propria realtà e la realtà delle altre persone» (Cozzi 2012: 97; Scarry 1990) e che l’espressione non soddisfi la descrizione dello stesso per cui si preferisce il silenzio («Soffro dentro, in silenzio», hanno detto spesso i malati). Ciò è vero ancora di più per il dolore cronico, che diventa parte della vita del paziente, anzi, ne diventa vita. Per cui non esiste il tempo della malattia e della guarigione, come del benessere e del malessere ma tutto è informato, pervaso e influenzato dal dolore somatico e psicologico, che ri-orienta la persona e il suo vissuto, come «un assalto ontologico che sfida la relazione tra il corpo, il self e il mondo circostante» (Cozzi 2012: 101; Del Vecchio Good et al. 1992).

Più problematico è comprendere la posizione dell’antropologo da parte dei parenti che si chiedono e “ti” chiedono cosa faccia in quel contesto e cosa voglia. L’ambigua e scomoda posizione del ricercatore a contatto con la sofferenza, soprattutto in prossimità della morte, deve essere ancora più giustificata che in altri contesti, a meno che non si garantisca l’offerta di un contro-dono (una soluzione, una cura, un rimedio) allo scambio di informazioni e di conoscenze. L’ambiguità del ruolo continua a sussistere, confuso con lo psicologo e il medico, sebbene ciò che all’antropologo interessa è fare della narrazione della vita e della malattia uno strumento di aiuto e di riflessione per meglio affrontare l’ultimo istante. Pertanto Giovanni Pizza sostiene che «la ricerca etnografica in questi contesti ha dunque il merito di evidenziare la concretezza dei problemi nei luoghi in cui essi materialmente si generano in contrasto con il carattere astratto dei dibattiti teorici» (Pizza 2005: 246); li mette a nudo, li sviscera dal profondo, facendoli diventare vita pratica.

Come visto, il tempo sfugge a chi sa di perdere, a breve, la vita, ma mettere la persona nella condizione di godere anche dell’ultimo istante significa darle dignità e cura. Il ruolo dell’antropologo, in un contesto come l’Hospice, pur nella sua ambiguità e difficoltà, può aiutare concretamente a razionalizzare questo tempo che resta, attraverso quelle illness narratives che stimolano al ricordo, all’accettazione e alla consapevolezza del sé e del sé nella malattia. Il tempo è dunque una lama sottile che lascia strascichi, tagli e segni indelebili, tanto in chi resta quanto in chi muore.

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