Le nuove sfide all’antropologia

L’etnografia nell’era del suo successo e del suo (quasi-)decesso

Leonardo Piasere

Università degli Studi di Verona

Indice

La relazione storicamente schizofrenica tra Antropologia ed Etnografia
Ma l’etnografia è legale?
Il GDPR: solo un problema etico e giuridico?
La lotta per la rappresentazione al tempo della giuridicizzazione dei comportamenti
Riferimenti bibliografici

La relazione storicamente schizofrenica tra Antropologia ed Etnografia

Oggi sappiamo[1] che “Antropologia” ed “Etnografia”, in quanto etichette per definire ambiti conoscitivi riguardanti l’umano, nascono in tempi diversi e per scopi diversi, ed evolvono in modi diversi. Nei primi anni del XVI secolo il termine Ant(h)ropologium è coniato in Germania per designare lo studio dell’uomo (al singolare) in quanto unione di corpo e di anima, e quasi contemporaneamente in Italia viene coniato il termine Anthropologia per designare lo studio degli uomini (al plurale), intesi allora umanisticamente come gli uomini illustri e degni di ricordo (Piasere 2019). Se questo secondo significato prevale nel corso del Cinquecento, nel XVII e XVIII secolo sarà invece il primo significato che si imporrà, specie in contesto tedesco, mettendo le basi di quelle che oggi chiamiamo anatomo-fisiologia e antropologia filosofica. È solo alla fine del Settecento, quando si sviluppa l’anatomia umana comparata, che questa comincia a riservare per sé, a partire dal 1775 con Johann Friedrich Blumenbach, il nome di Antropologia (senza aggettivi). Essa avrà un successo enorme e produrrà i primi studiosi che si autonomineranno “antropologi”, e per tutto l’Ottocento e la prima metà del Novecento, in tutte le tradizioni accademiche europee eccetto quella inglese, Antropologia sarà solo quella che oggi chiamiamo Antropologia fisica o biologica.

Han Vermeulen (2015) ci insegna che un sapere indicato come “Etnografia” non nasce nell’alveo di quest’ambito anatomico-filosofico, ma nasce in modo indipendente tra il 1738 e il 1771 fra studiosi tedeschi di storia che erano stati assunti da istituzioni russe nel periodo dell’espansione coloniale zarista in Siberia. Esso nasce come traduzione del tedesco Völker-Beschreibung (prima locuzione usata) espressamente per etichettare un sapere che riguarda, come dice la sua etimologia (ethno-graphia), la descrizione dei popoli – all’epoca, dei popoli siberiani prima (con Gerhard Friedrich Müller) e di quelli nord-europei poi (con August Ludwig Schlözer). È in quest’ambito che fin dal 1771 appare la figura espressamente denominata dell’“etnografo” (Ethnograph). Contemporaneamente nasce l’esigenza di una conoscenza comparata dei popoli stessi, indicata con Völkerkunde da Schlözer sempre nel 1771 e fin dal 1783 tradotta con “Etnologia” (Ethnologia) da Adam František Kollár.

Ovviamente non è questo il luogo di riprendere la travagliata storia semantica successiva dei tre termini (Antropologia, Etnografia, Etnologia) e di tutti i dibattiti che le hanno coinvolte, se non per constatare che dopo secoli ce li troviamo ancora tra noi e ci fanno ancora discutere. Sappiamo che fin dalla nascita dell’anatomia comparata chi si occupava della diversità del corpo tendeva a occuparsi anche della diversità degli “usi e costumi”: Blumenbach stesso, fra i fondatori dell’antropologia fisica, è stato per anni direttore del museo, che oggi definiremmo etnografico, dell’Università di Gottinga (Vermeulen 2015). E sappiamo che con l’emergere della razziologia, dell’evoluzionismo e dell’eugenetica, l’antropologia fisica tese a fagocitare l’etnografia/etnologia assegnandole un ruolo epistemico (e politico) subalterno. L’operazione di pirataggio compiuta prima in Inghilterra, in cui l’etnologia si trasformò in “antropologia sociale”, e poi negli Stati Uniti, dove divenne “antropologia culturale”, non fu altro che una mossa contro-egemonica per impossessarsi di una denominazione allora egemonica, Anthropology, ornandola di aggettivi che stavano al tempo diventando di moda: appunto, “sociale” e “culturale”.

Scomparsa, o quasi, l’Etnologia dopo il venir meno dell’attenzione sulle “aree culturali” e i “primitivi” (un’etichetta che “sa di vecchio” anche se storicamente è l’ultima nata), il confronto oggi è sostanzialmente tra Antropologia socio-culturale (detta spesso solo Antropologia, dopo che è diventata accademicamente egemonica rispetto all’Antropologia fisica) e Etnografia. Per tutta la seconda metà del Novecento, l’Etnografia nell’accezione originale di “descrizione dei popoli” è rimasta essenzialmente confinata al mondo sovietico e para-sovietico[2], mentre altrove si impose l’idea (non senza resistenze), costruita a partire da fine Ottocento nel mondo anglo-sassone, dell’etnografia intesa come il momento del lavoro sul campo, quindi come il metodo di lavoro sul campo e come il risultato del lavoro sul campo. Da qui la famosa torta tri-foglie di Lévi-Strauss (1966: 379-418), con la sua struttura gerarchica di etnografia-etnologia-antropologia, che sarebbe una sequenza di lavoro che va dal prima al poi, e di conseguenza una strutturazione epistemologica dal particolare al generale, dal più semplice al più complesso, ma anche dal più empirico al più teoretico. È da questa torta tri-foglie diventata col tempo a due foglie che nascono riflessioni sul «dosaggio tra le due componenti» (Remotti 2014: 98): ci vuole più etnografia o più antropologia? Qui mi sforzo di argomentare che, come si dice, non è proprio questo il punto.

Benché Malinowski spiegasse in modo chiaro fin dal 1922, nella sua famosa «Introduzione» ad Argonauti del Pacifico occidentale, che il lavoro etnografico si compone della raccolta sia di dati qualitativi (gli “imponderabili della vita reale”), sia di dati quantitativi (la “documentazione statistica”), sia di dati linguistici più o meno codificati (racconti orali, formule magiche ecc.: il “corpus inscriptionum Kiriwiniensium”), è prevalsa in seguito l’idea che l’etnografia-come-metodo sia un “metodo qualitativo”. È vero che gli antropologi sono abbastanza allergici ai dati quantitativi, ma l’idea che la ricerca sul campo si basi invece su un metodo totalmente eclettico è costantemente ribadito dagli antropologi (vedi le parole chiare di Olivier de Sardan 1995). Si tratta allora di una leggenda metropolitana assunta dall’accademia internazionale? Solo in parte. L’idea dell’etnografia come metodo qualitativo viene essenzialmente dalla sociologia, un ambito ovunque molto più potente accademicamente dell’antropologia. Come è noto, la famosa Scuola di Chicago aveva sviluppato l’etnografia in ambito urbano (specie nei ghetti degli immigrati) proprio negli stessi decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento in cui gli antropologi inglesi e americani la sviluppavano nelle proprie colonie esterne o interne[3]. Diventata in seguito minoritaria all’interno della sociologia anche dopo l’avvento dell’etnometodologia, la ricerca etnografica è stata trasformata nella capofila dei metodi considerati “non-standard”, alternativi, se non dissenzienti, rispetto ai metodi quantitativi. Mentre in antropologia la ricerca sul campo ha continuato a richiedere tempi lunghi, nella sociologia cosiddetta qualitativa si è sviluppata sempre più l’idea della validità delle short ethnographies, ricerche sul campo brevi se non brevissime, anche solo di qualche giorno, in cui, per ottimizzare i tempi, viene dato ampio spazio all’intervista, individuale o collettiva (allora chiamata focus group), al questionario, alla raccolta di storie di vita e, oggi, allo shadowing, il “pedinamento consenziente”. Normalmente questo tipo di “ricerca qualitativa” è svolta per testare ipotesi teoriche preconfezionate che poi nelle pubblicazioni possono occupare molte più pagine di quelle illustranti i risultati della stessa ricerca sul campo. Si tratta di ricerche in cui il metodo etnografico è applicato in modo parcellizzato, limitandosi alla osservazione-descrizione di momenti particolari di vita delle persone (al lavoro, a scuola, al supermercato, ecc.), momenti spesso trattati in modo avulso dalla vita nel resto della giornata (Piasere 2005). La lettura “olistica” che l’antropologia ha mantenuto nel corso dei decenni e che ha ereditato dall’ambizione dell’etnografia originaria di voler “descrivere le genti”, è di fatto assente in questo tipo di etnografie.

In tempi di globalizzata contrazione spazio-temporale, d’altra parte, questo tipo di etnografia è molto funzionale nel mercato della ricerca, e dalla sociologia si è allargato ad altri ambiti di studio. E oggi ha un successo enorme: è praticata da ricercatori nel campo della pedagogia, della psicologia, della politologia, del marketing, dell’organizzazione aziendale, della comunicazione, della geografia, della storia contemporanea, del design, del teatro, dei cultural studies ovviamente, persino della filosofia: nel 2017 un mio collega, Gianluca Solla, professore di Filosofia teoretica e interessato alla “filosofia delle migrazioni”, ha passato quindici giorni a bordo della nave Iuventa in navigazione nel Mediterraneo di fronte alla Libia (Solla 2017)[4].

In quanto “metodo qualitativo” questa etnografia “mordi e fuggi” risulta in buona parte agli antropologi un’etnografia disincarnata, parcellizzata com’è in ambiti ristrettissimi della quotidianità delle persone descritte, anche se praticata all’ombra di grandi teorie. E fra le grandi teorie di partenza troviamo spesso citati gli antropologi, accarezzati e coccolati, da Malinowski a Geertz ecc., i quali, però, etnografie di quel tipo, non ne hanno mai praticato. La pratica antropologica prevede che chi ha fatto la ricerca sul campo poi sia anche l’autore delle pubblicazioni che la narrano. Fuori dall’antropologia, invece, essa può diventare una metodica disgiuntiva, per cui non sempre l’analista corrisponde all’etnografo che ha raccolto i dati[5]. Da questa etnografia de-antropologizzata, cioè, il lato esperienziale della ricerca risulta inutile, per non parlare dei raffronti comparativi di cui si nutre l’antropologia[6].

Nell’ambito dell’antropologia socio-culturale le cose sono andate diversamente. A parte il momento postmoderno che in certi autori prefigurava (e in parte lo fa ancora) un avvicinamento all’etnografia del “mordi e fuggi” dei non antropologi, e predicava un ritorno a metodiche pre-moderne di ricerca basate essenzialmente su interviste volanti (Maurice Bloch, 1995, è stato molto caustico sull’argomento), il resto degli antropologi hanno continuato a ritenere fondamentale la ricerca prolungata sul campo, e le pubblicazioni su questo tema sono ormai migliaia. Ma con l’avvento dell’antropologia interpretativa si è ripresentato il problema dei rapporti tra etnografia e antropologia, tra descrizione degli uomini e discorso sull’uomo. Qual è più importante? A chi spetta il primato? C’è chi si è schierato per il primato dell’antropologia, mentre altri hanno innalzato l’etnografia. Le bocce sono alquanto mosse. Geertz (1987) certamente dissolve l’antropologia nell’etnografia (la scrivania collassa nel campo, come si dice) col suo metodo della “descrizione densa”, ma non ci riesce fino in fondo e non sa trattenersi dal proporre comparazioni, come diversi critici hanno evidenziato. D’altra parte, gli è stato rinfacciato che, “densamente” concentrato a guardare le lotte dei galli, non si accorgeva dei massacri che i governativi compivano nella regione indonesiana in cui faceva ricerca (Robinson 1995). Lo stesso Lévi-Strauss, al lato opposto, non appare sempre coerente nella sua proposta di un’antropologia unificata dello spirito umano: se è vero che assegna un posto strumentale all’etnografia nella costruzione dell’antropologia, e se è vero che bacchetta Malinowski per essere – a suo dire – più bravo come etnografo che come teorico, in uno scritto intitolato Elogio dell’antropologia arriva però a dire, sulla scia di Mauss, che «Contro il teorico, l’osservatore deve sempre avere l’ultima parola; e, contro l’osservatore, l’indigeno» (Lévi-Strauss 1967: 53). Se Maurice Bloch (1995), esaltandone l’“epistemologia bastarda”, sottolinea che solo l’etnografia può scoprire il “non detto”, ciò di cui non si deve parlare in una comunità, Tim Ingold (2008) torna invece a Radcliffe-Brown esaltando l’antropologia. Laura Nader, da parte sua, sottolinea che l’etnografia quale si è sviluppata come «scienza del contesto» (Nader 2003: 71), non è una “descrizione”, ma una “teoria della descrizione” (Nader 2011). Mette l’accento sul fatto che solo gli etnografi hanno oltrepassato la linea che vede negli altri dei “primitivi” e li hanno posizionati nello stesso tempo del ricercatore, non l’antropologia. Ultimamente Eduardo Viveiros de Castro (2017) spinge a fondo la posizione per la “teoria etnografica”, portata avanti anche dalla rivista HAU, sponsorizzata dal Museo in cui lavora, che segue anche l’idea di una “pratica della teoria” di Herzfeld (2006), mostrando come l’etnografia amazzonica suggerisca come si debba andare verso un nuovo concetto di “concetto”. Qui siamo ben lontani dall’etnografia come metodica volante dei non antropologi. Qui siamo di fronte alla trasformazione di un metodo in una teoria. Ho citato nomi oggi famosi nei loro diversi posizionamenti, ma è evidente che resta quella schizofrenia, storicamente incistata nei rapporti tra antropologia e etnografia, che vede chi preme per il primato dell’una o dell’altra o chi cerca di fonderli in un unico orizzonte. Lo possiamo notare in un ultimo confronto: nel 2014, Francesco Remotti, uno dei decani degli antropologi italiani, individuava fra le cause della supposta crisi dell’antropologia contemporanea il fatto che negli ultimi tempi si fosse dato troppo peso all’etnografia, specie quella che insiste sull’importanza dell’esperienza etnografica (e additava giusto la mia posizione come un esempio da criticare[7]). L’etnografia si deve fare, spiega Remotti, ma nelle dosi giuste, come abbiamo già accennato: solo così l’antropologia potrà risorgere. Nello stesso anno Claudio Lomnitz (2014), della Columbia University, pure dibattendo sul come uscire dalla crisi dell’antropologia, questa volta in Messico, ribadiva che ciò sarà possibile solo insistendo sull’importanza dell’etnografia, un sapere che gli altri studiosi neanche si sognano di praticare come lo praticano gli antropologi!

Insomma, possiamo dire che l’idea dei rapporti tra antropologia ed etnografia che si è venuta a creare negli ultimi decenni possa essere riassunta dalla famosa litografia di Maurits C. Escher, Mani che disegnano (Figura 1), in cui una mano disegna l’altra: come è indecidibile stabilire il confine tra soggetto che disegna e oggetto disegnato, allo stesso modo etnografia e antropologia sono implicate in un circolo in cui è indecidibile stabilire se venga prima l’uovo o prima la gallina e dove finisca l’una e inizi l’altra. Potremmo dire che le diversità di idee sul loro rapporto che abbiamo brevemente citato, potrebbe essere raffigurata nel disegno di Escher ingrandendo poco o tanto una mano rispetto all’altra, ma la co-costruzione resta.

Figura 1 - Maurits C. Escher, Mani che disegnano (1948).

Si tratta di riflessioni spesso trattate, ma che è bene ribadire. Esse al contempo hanno bisogno di un continuo aggiornamento. Antonio Palmisano inizia il suo ultimo libro affermando che «l’attuale crisi dell’antropologia è in rapporto al suo grande successo di pubblico» (Palmisano 2017: 21). Analogicamente, potremmo affermare che il grande successo dell’etnografia come metodo rischia di uccidere l’etnografia come teoria. La situazione è complessa e riguarda la questione del rapporto tra etnografia e “etnografati”, su cui voglio concentrare ora l’attenzione svolgendola in due momenti.

Ma l’etnografia è legale?

Se è dall’Ottocento che si disquisisce sul rapporto tra antropologia ed etnografia, è solo da una trentina d’anni che ci si interroga sul rapporto tra etnografia ed etnografati, cioè le persone di cui si parla nelle pubblicazioni etnografiche e che – oggi lo sappiamo bene – co-costruiscono il resoconto finale dell’etnografo. Fin dal Settecento, l’etnografia ha conosciuto un privilegio: ciò che scriveva l’etnografo era letto essenzialmente dai colleghi, dai governanti o dai funzionari, da lettori curiosi dell’argomento che conoscessero il tedesco (i siberiani non leggevano Müller). Certamente i Trobriandesi non leggevano Sex and Repression in Savage Society in cui Malinowski (1927) spiattellava la loro vita sessuale a lettori della lontana metropoli. E non so che cosa possano dire i Trobriendesi scolarizzati di oggi leggendo quelle informazioni riguardanti i loro nonni o bisnonni... Una cosa simile avveniva per i sociologi di Chicago, che scrivevano su immigrati emarginati delle grandi città americane, dalla scolarizzazione bassa o nulla e che a stento parlavano inglese. Ma con l’avvento della scolarizzazione di massa a livello mondiale nel corso del Novecento, le cose sono via via cambiate, anche se gli etnografi se ne sono resi conto tardi. Come dice Giovanni Pizza (2015: 182), il tempo del Grand Partage del “noi-loro” è finito da tempo. Caroline Brettell, che ha riflettuto in profondità sul fenomeno all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, neanche trent’anni fa, sottolineava come nemmeno i più accaniti sostenitori del literary turn allora prevalente in antropologia avessero preso in considerazione che fra i lettori delle monografie etnografiche ci potessero essere anche i “locali”, cioè coloro di cui si parla nelle monografie stesse (Brettell 1993a: 2-3). Una pubblicazione su un quartiere, una comunità, un gruppo professionale ecc. può avere effetti differenti localmente, che possono essere completamente diversi dagli effetti che può avere nella comunità degli antropologi o degli accademici in generale. Gli interessi della scienza, come si dice, possono essere molto diversi dagli interessi degli interessati.

Così, le ricerche di De Martino nel Salento hanno avuto un riconoscimento che ha raggiunto l’antropologia internazionale, e il successo locale non è stato di meno, visto che hanno scatenato una vera e propria industria turistico-artistica sul tarantismo (Pizza 2015). Ma poco, mi conferma Giovanni Pizza in una comunicazione personale, si è discusso del fatto che la famosa Maria di Nardò (Figura 2), che possiamo definire l’“ultima tarantata”, così ritrosa a dare interviste nei decenni successivi alla ricerca, definisse in questo modo l’équipe di De Martino:

quelli erano tutti infami, per me. Per me, sì, erano tutti infami! [...] Perché mi hanno sempre voluto dar male, non mi hanno voluto sempre dar bene. (Grida) Mi hanno sempre fatto dannare (Pizza 2015: 39).

Cristallizzata nel suo ruolo di “tarantata”, lei non visse la gloria che invece fu riservata, e che si auto-riservò, un altro personaggio della Terra del rimorso, il violinista-barbiere Luigi Stifani che si presenterà in seguito come “dottore in tarantismo”.

Figura 2 - Foto dal “Ciclo coreutico di Maria di Nardò” (De Martino 1961).

Ma per altri ricercatori in giro per il mondo l’impatto delle proprie ricerche non sempre è stato così ambivalente come è successo per quelle demartiniane. Brettell ricordava dei casi di contestazione già successi negli anni Cinquanta e Sessanta sia ad antropologi (The Children of Sanchez di Lewis, violentemente rifiutato dai governanti messicani) sia a sociologi (Small town di Vidich e Bensman, violentemente contestato dagli abitanti di “Small town”). Sempre agli inizi degli anni Novanta il Journal of Contemporary Ethnography dedicò un intero numero alle critiche lanciate da Marianne Boelen (1992) su una delle icone dell’etnografia sociologica americana, Street Corner Society, che William Whyte aveva pubblicato cinquant’anni prima, nel 1943. Non soltanto lo accusava di aver scritto delle falsità e di aver misinterpretato tanti loro comportamenti a causa della sua scarsa conoscenza della cultura degli immigrati italiani che il libro voleva descrivere, ma rivelava anche come la fama del libro avesse poi stravolto le vite di alcune persone di cui parlava, notizie di cui l’autore era venuto a conoscenza in via confidenziale durante la ricerca sul campo.

Cito anche il caso famoso di Nancy Scheper-Hughes che scrive nel 1979 una monografia (Saints, Scholars and Schizophrenics) di antropologia psichiatrica dopo una prolungata ricerca etnografica in un villaggio irlandese: nel 1980 il volume vince il Margaret Mead Award rilasciato dalla Society for Applied Anthropology, ma dopo una denigratoria campagna di stampa locale, ancora venticinque anni dopo, di ritorno al villaggio, l’antropologa è vivamente consigliata di non restare e andarsene in fretta, accusata di aver dato una visione distorta dei locali e delle loro malattie psichiatriche, di aver violato la loro privacy. Il gossip tra antropologi narra di diversi altri casi di cui non si è parlato pubblicamente. Scheper-Hughes (2000), invece, come Brettell, analizza in modo molto riflessivo la controversia in cui è caduta, in cui la comunità degli antropologi e la comunità locale arrivano a valutare in modo opposto una stessa ricerca. In diversi casi, la disputa inizia dopo la pubblicazione di articoli di giornalisti che nei giornali locali hanno l’effetto di amplificare la distanza tra l’etnografo (spesso estraneo se non straniero) e gli abitanti. Dorothy Zinn (2013) presenta le reazioni dei locali e della stampa locale al suo libro su La raccomandazione, basato su una ricerca a Bernalda, Basilicata e, come altri, sottolinea il fatto che le reazioni devono essere inglobate nella riflessione antropologica stessa perché, in qualche modo e giustamente, “etnografiche” esse stesse.

Ma vorrei approfondire le riflessioni offerte pochi anni fa da Edward Simpson, della School of Oriental and African Studies di Londra. In un’antropologia che opera in un mondo molto diverso da quello dei suoi padri fondatori, dice l’antropologo britannico, in un mondo in cui le comunità si sfilacciano, in cui le nozioni di democrazia e verità diventano scivolose, in cui le nuove tecnologie e i «social media in particolare hanno incoraggiato una consapevolezza generale della politica dell’auto-presentazione e della rappresentazione» (Simpson 2016: 114)[8], tante idee e concetti che prima gli antropologi scambiavano solo tra sé, sono diventati correnti e condivisi. Non solo i lavori degli etnografi sono sempre più letti dagli etnografati, ma anche sono sempre più oggetto di critica e reinterpretazioni locali – se non di recensioni scritte, aggiungiamo con Gianni Pizza (2015) – tanto che, appunto, questo è diventato ormai un sottogenere di studio. Ma constatare ciò non è sufficiente. Simpson riferisce il suo malessere di quando, nove anni dopo aver pubblicato un saggio sulla mobilitazione politica di un movimento nazionalista hindu dopo un terremoto in India, uno scritto che voleva essere di antropologia critica, riceve le obiezioni scritte da parte di membri con un alto grado di istruzione e appartenenti al movimento stesso. Il documento accusava lui, professore di antropologia sociale, di aver scritto una “etnografia scadente” sulla base di “pregiudizi ideologici errati”. Invece di difendere in modo tradizionale la propria posizione, Simpson si interroga sul proprio lavoro, osservando che «l’antropologia è attraversata da idee incantate che sono in gran parte incomprensibili per un lettore normalmente istruito che si aspetta di leggere qualcosa di “scientifico”», e che in un mondo sempre più post-esotico, alcune forme di antropologia sono diventate in realtà «una forma di conoscenza esotica» (Simpson 2016: 116). Si interroga quindi sulla «più generale disparità esistente tra il modo critico di descrivere il mondo da parte degli antropologi e il modo in cui gli altri vedono il mondo in funzione» (Simpson 2016: 118). L’affare andò oltre: Simpson stava per pubblicare un libro sull’argomento, libro che era stato ben valutato dei revisori accademici, ma l’editore lo consigliò di riportarvi solo frasi e situazioni di cui aveva materiale registrato, per timore di subire una possibile azione legale. Egli scrive: «Di colpo la sua chiara censura mi ha suggerito che la maggior parte dell’antropologia scritta può esser fatta sembrare illegale. La maggior parte di ciò che gli antropologi presentano come prova potrebbe essere trattata dai tribunali come diceria, diffamazione e/o calunnia» (Simpson 2016: 122).

Lo stato giuridico precario dell’etnografia appare in tutta la sua evidenza; cito ancora: «il senso accumulato delle cose che gli antropologi traggono dalla ricerca a lungo termine e l’osservazione partecipante sul campo erano inammissibili – non pubblicabili in questo contesto» (Simpson 2016: 122).

Tutta la discussione che ho brevemente citato prima sui rapporti tra antropologia e etnografia, per quanto raffinata possa esser diventata la riflessione nel corso degli anni, ci appare a questo punto lunare: una delle due mani in un tribunale non reggerebbe, e se non regge l’una, cade anche l’altra. All’improvviso, gli antropologi hanno bisogno di un avvocato, e anche bravo! E Simpson, che evidentemente e giustamente considera le due mani un’unità, si chiede: “Ma l’antropologia è legale?”.

Nel 2014 la rivista francese Socio ha dedicato tutto un dossier intitolato Chercheurs à la barre, “Ricercatori alla sbarra” (Atlani-Duault e Dufoix 2014), denunciando diversi casi in cui studiosi di scienze sociali sono stati portati davanti al giudice in seguito alle loro ricerche. Le accuse di diffamazione sono in aumento in tutto il mondo e, se è vero che spesso si tratta di accuse rivolte da parte di chi si vede messe in piazza le proprie manovre per mantenere potere e privilegi in un dato contesto, è anche vero che le scienze sociali in generale si sono ritrovate, nel giro di pochi anni, giuridicamente deboli. Il vecchio problema del rapporto tra scienza e politica è allora riesploso con nuovi termini. E, come a volte fanno i deboli, che creano associazioni di difesa, allo stesso modo è stata creata Chercheurs sans Frontières - Free Science, Ong nata in Francia nel 2011 per difendere la libertà della ricerca nel mondo. In Italia, un workshop del Convegno nazionale della Società Italiana di Antropologia Applicata del 2016, tenutosi a Trento, è stato dedicato alla libertà di ricerca dopo che alcuni antropologi italiani erano stati indagati dalla giustizia per aver partecipato, come momento del loro lavoro etnografico sul campo, a manifestazioni non autorizzate.

Come sappiamo bene, una ricerca etnografica è sempre immersa in rapporti di forza: la domanda non è solo: “chi diffama chi?”, ma anche “chi ha il potere di dire: ‘tu mi diffami’”? Nel caso di una multinazionale che denunci per diffamazione un etnografo per quello che ha scritto, ci si può chiedere se il vero diffamato non sia in realtà l’etnografo che ha riportato verità scomode; ma nel caso dei Trobriandesi di Malinowski, se qualcuno di loro l’avesse desiderato, avrebbe veramente potuto intentare una causa contro l’antropologo?[9]

Il GDPR: solo un problema etico e giuridico?

La precarietà giuridica è esplosa totalmente con l’entrata in vigore il 25 maggio 2018 del Regolamento UE del Parlamento europeo per la Protezione dei Dati Personali (EU General Data Protection Regulation - GDPR)[10]. Il Regolamento, adottato il 27 aprile 2016, riguarda la protezione delle persone fisiche relativamente al trattamento e alla libera circolazione dei dati personali. Regolamenta le modalità di acquisizione dei dati personali, di impiego, di divulgazione e di conservazione/archiviazione; tutto ciò ha assunto urgenza in seguito all’importanza che hanno assunto le comunicazioni via internet. Esso riguarda non solo il mondo delle imprese, del commercio e delle associazioni in genere, ma anche quello della ricerca; prevede deroghe per acquisizioni di dati fatte “per pubblico interesse”, e la prima cosa che uno si chiede è, ovviamente, chi decide che cosa sia di pubblico interesse e che cosa no, come ha prontamente scritto una dottoranda inglese (Yuill 2018). Dico subito che i vari codici etici delle associazioni antropologiche di solito non contemplano tanti aspetti presenti nel GDPR, e a volte prevedono anche l’opposto. Ma qui non affronto questo problema, se non per evidenziare che, di fronte al diritto alla ricerca avanzato dai ricercatori, esiste appunto il diritto alla protezione dei dati personali – e i due diritti possono confliggere.

Cito alcuni snodi problematici. La normativa prevede l’esplicito consenso della persona alla raccolta dei suoi dati, e tale consenso deve essere dato fin dall’inizio firmando un modulo scritto. Una pratica simile di consenso informato è da tempo obbligatoria in certi ambiti, come quello sanitario ad esempio, ma diventa problematica in etnografia. Scrive Cassandra Yuill:

I procedimenti per il consenso in etnografia e nel GDPR sono in totale disaccordo: mentre il primo è fluido e negoziato, il secondo è rigido e concreto. In antropologia, il consenso informato è acquisito, a volte verbalmente, e poi negoziato e rinegoziato mentre il lavoro progredisce e si evolve; c’è una comprensione costruita via via e un ricercatore non sempre sa che cosa accadrà nel campo e in che modo la finalità dell’indagine si estenderà e si espanderà (Yuill 2018: 37).

Questo andamento processuale a cui tutti gli antropologi sono abituati non è assolutamente previsto nel GDPR, ma, specie nelle ricerche finanziate dai grandi enti internazionali, è il consenso di tipo non etnografico che è oggi richiesto. Ora, gli antropologi possono avere a che fare con persone non alfabetizzate per le quali la lettura di un modulo e l’apposizione della firma possono essere problematici. Durante la ricerca europea MigRom (2013-2017)[11], su famiglie rom immigrate in Italia dalla Romania, abbiamo ovviato alla firma del consenso informato registrando un consenso orale prima di iniziare un’intervista. Ad esempio:

- Allora, BIP, posso registrare?

- Sì, ğa!

- No, col registratore acceso devo dire: “Posso registrare?” perché poi così danno l’autorizzazione [...]

(Intervista di Stefania Pontrandolfo, Bari, 29/11/2013, Progetto «MigRom»).

Ma per la ricerca ora in corso nell’ambito del progetto «NetRom» (2019-2020)[12], iniziata dopo l’entrata in vigore del GDPR, i responsabili di Bruxelles hanno richiesto anche copia scritta del testo del consenso informato che sarà formulato in forma orale agli intervistati, che dovranno comunque firmarlo (Figura 3).

Figura 3 - Parte del testo da sottoporre agli interlocutori nella ricerca sul campo per ottenere il loro consenso informato - Progetto NetRom. Il testo è stato redatto dal ricercatore del progetto, Grégoire Cousin.

Questo, oltre a tutta una serie di dichiarazioni di ordine etico e giuridico che tralascio. Ora, richieste di questo tipo sono sempre obbligatorie quando finanziate da enti pubblici, ma saranno obbligatorie anche per le ricerche su scala più ridotta che normalmente conducono gli antropologi. E ciò pone problemi epistemologici, oltre che giuridici ed etici[13].

Un altro punto problematico è quello dell’“anonimizzazione”. Gli etnografi sono da sempre abituati all’uso degli pseudonimi, sia dei nomi propri che, meno spesso, delle località in cui svolgono le ricerche. Ma si tratta di un anonimato fragile. Ricordo che nella mia tesi di dottorato sui Ròma sloveni del Triveneto avevo cambiato tutti i nomi di persona e tutti i nomi di città (Piasere 1984), ma gli amici che conoscevano il contesto e la lingua di quei Ròma individuarono senza esitazione città e persone. Whyte (1943) aveva dato uno pseudonimo al quartiere in cui aveva fatto la ricerca sugli italoamericani, ma il quartiere fu presto individuato; Scheper-Hughes (1979) aveva dato uno pseudonimo al villaggio irlandese della sua ricerca, ma una giornalista “maligna” l’aveva facilmente scoperto, ecc. Oggi il problema dell’anonimizzazione è collegato a quello della condivisione attraverso l’archiviazione telematica. Riprendo ancora l’esempio della ricerca «MigRom». Eravamo sette équipe sparse tra Gran Bretagna, Francia, Spagna, Romania e Italia, e il progetto prevedeva l’archiviazione in una piattaforma informatica dell’Università di Manchester di un certo numero di interviste da condividere per l’avanzamento dello studio; contemporaneamente, però, si doveva garantire l’anonimato degli intervistati, perché le piattaforme informatiche non garantiscono mai, come ben sappiamo, la certezza dell’inaccessibilità ai non addetti ai lavori. Abbiamo quindi dovuto proteggere le interviste, raccolte in romanes, quindi già abbastanza protette di per sé, “bippando” tutti i dati personali dell’intervistato e delle persone di cui egli parlava. Oggi il GDPR recita che devono essere protetti tutti i dati sia diretti che indiretti, in modo che una persona sia del tutto irriconoscibile anche da chi la frequenta nei suoi contesti di vita. Ecco un breve spezzone di un’intervista “bippata” e il risultato che ne deriva:

- šaj mothos mange čo lav haj čo prézime, sar bučos tu?

- BIP

- čo prézime?

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- haj če forá ánde Romania?

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haj če forá [sánas] ánde Italia?

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(Intervista di Suzana Jovanović, Milano, 01/05/2014, Progetto «MigRom»).

Come capisce ognuno che faccia etnografia e a prescindere dal fatto che conosca la lingua in cui è stata condotta l’intervista, il testo orale che ne deriva può forse servire a qualcuno che studi la lingua in cui è espresso, ma per il resto? Che ne è della vita legata a “quella” persona, che ha vissuto in “quelle” città, assieme a “quelle” persone di cui parla – tutte cose che rappresentano il sale della ricerca etnografica e che qui scompaiono? L’anonimato, come dice giustamente Yuill, protegge il più delle volte il ricercatore invece che l’intervistato, introducendo opacità laddove è sempre meglio che esista trasparenza. Anche il GDPR sposa la trasparenza, dice Yuill, «anche se da un punto di vista molto diverso» (Yuill 2018: 38). D’altra parte, «la totale anonimizzazione delle persone e delle località diminuisce la co-produzione nella ricerca e la diffusione della ricerca, in quanto non possiamo co-produrre con coloro che sono stati permanentemente non-nominati» (Yuill 2018: 40). Ma le cose non sono così semplici, e dipende sempre dai contesti. Alcuni studiosi si chiedono, al contrario, se non sia il caso che si istituisca il segreto professionale per le notizie raccolte sul campo, come è previsto per altre discipline e per i giornalisti. In un mondo dai rapporti di potere sempre più sbilanciati, infatti, chi è al potere può pretendere informazioni da un ricercatore che invece vuol salvaguardare la vita di informatori antagonisti verso chi è al potere. Atlani-Duhault e Dufoix riportano il caso di quella ricercatrice che, dopo aver condotto un’indagine di storia orale sul PKK, il Partito dei lavoratori curdi, viene arrestata dalla polizia turca perché si rifiuta di fare il nome degli intervistati: viene incarcerata, torturata e condannata all’ergastolo per terrorismo (Atlani-Duhault e Dufoix 2014: 30). Il caso di Giulio Regeni, di fatto un politologo che svolgeva una ricerca etnografica sul movimento sindacale anti-governativo in Egitto, è una storia simile e se possibile anche più tragica.

Ora, il Regolamento UE vale, sì, per tutti i cittadini dell’Unione Europea, ma la sua applicazione è lasciata a regolamenti attuativi locali. Un recente Statement congiunto dell’Associazione degli antropologi (ASA), dei sociologi (BSA) e dei geografi (RGS-IBG) britannici[14], sottolineando che ricerche svolte col metodo dell’osservazione partecipante possono essere ora considerate come eticamente da disapprovare, chiede alle istituzioni nazionali e accademiche britanniche di sfruttare al massimo quei passaggi poco chiari del GDPR che prevedono deroghe: lo sviluppo delle scienze umane e sociali non appartiene forse al “pubblico interesse”? La libertà di ricerca non appartiene forse alla “libertà di espressione ed informazione”? – aspetti che il Regolamento vuole salvaguardare. È urgente che in tutti i paesi le associazioni dei ricercatori si muovano in questa direzione. Gli antropologi sono sempre stati sensibili per conto loro a questioni simili, ma ora devono essere pronti a farlo pubblicamente e formulare proposte che legalmente difendano il proprio modo di costruire il sapere, al limite rimettendo in discussione alcuni lati delle proprie pratiche.

La lotta per la rappresentazione al tempo della giuridicizzazione dei comportamenti

Torniamo al disegno di Escher: continuo a trovarlo illuminante per quanto riguarda il rapporto tra etnografia e antropologia. Ma esso rischia di nascondere il fatto che quelle due mani sono state a loro volta disegnate da una mano (quella di Escher stesso), e che sono disegnate su un triplo supporto: il foglio raffigurato, il piano su cui figura appoggiato il foglio disegnato e, di fatto invisibile, il vero foglio su cui furono disegnate. Potremmo proporre diverse interpretazioni di chi svolga nel nostro caso il ruolo di Escher e dei tre piani, ma una cosa mi pare sicura: che in un mondo in cui la “giuridicizzazione” dei comportamenti è ormai onnipresente, l’etnografo-antropologo non può continuare a far finta che essa non sia uno di quei piani e che non esista, e non può continuare a espungerla dalle considerazioni metodologiche, epistemologiche ed ermeneutiche della sua disciplina. Non può essere espunta dalla riflessività, di cui tanto si parla, nel momento in cui un Regolamento sovranazionale, dei poteri forti che difendono i propri privilegi e dei poteri deboli che vogliono riscatto, hanno (quasi) decretato il decesso dell’etnografia, proprio nel momento del suo massimo successo accademico come metodo extra-antropologico e al tempo del suo massimo successo accademico come trasformazione in teoresi antropologica. D’altra parte, il diritto stesso è una costruzione sociale che è stata “scientificizzata” negli ultimi secoli (Kiesow 2014), e nelle due mani di Escher potremmo vedervi diritto e scienza che si co-disegnano a vicenda...

La lotta per la rappresentazione e per l’autorappresentazione che invade il mondo, la lotta per la gestione delle impressioni che gruppi, movimenti e persone vogliono dare di sé agli altri – come diceva il buon vecchio Goffman – non può non coinvolgere anche l’etnografia e l’antropologia; e se può essere vero che in tempi postmoderni c’è stata la famosa “crisi della rappresentazione”, in tempi post-postmoderni, in tempi in cui prevale l’“io obietto” (Mosse 2006), l’etnografia antropologica deve essere consapevole di essere uno degli agenti in opera nel campo della stessa lotta per la rappresentazioni, e deve fare di questa consapevolezza uno dei suoi principali pilastri epistemologici, oltre che etici, politici e giuridici. La decolonizzazione del pensiero di cui parla Viveiros de Castro passa anche (anche) da qui[15].

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[1] Il presente lavoro è il testo in parte rivisto della relazione presentata al convegno internazionale Where is Anthropology today and where is it going?, tenutosi a Lecce presso l’Università del Salento il 6 e 7 giugno 2019. Desidero ringraziare Antonio Palmisano, organizzatore dell’incontro, per il gentile invito a partecipare e i diversi colleghi presenti per i loro spunti e interventi. Gli atti del convegno sono ora in preparazione a cura di Antonio Palmisano.

[2] Un esempio famoso dell’“etnografia di stato” di impostazione sovietica, tradotto in diverse lingue, fu il testo di Bromlej, apparso in italiano nel 1975.

[3] Qui non posso che tagliare con l’accetta una storia complessa e complicata, basti pensare ad esempio agli antropologi di provenienze rimaste a lungo nell’ombra in Occidente, come è il caso dei ricercatori russi (Cannarsa 1994; Golovnev 2018). Del grande Miklucho-Maklaj (poco noto ai non specialisti) esiste la traduzione in italiano di un suo libro, ma uscita in tempi in cui l’antropologia accademica in Italia era ai minimi termini (Miklucho-Maklaj 1963).

[4] L’etnografia del filosofo è diventata anche oggetto di una polemica politica pretestuosa: «In pratica un professore di Filosofia teoretica con uno stipendio pubblico va a recuperare migranti con una Ong, notoriamente estremista, per un ricerca sulla “situazione nel Mediterraneo per ascoltare e conoscere le storie di coloro che attraversano il mare”», scrive un cronista ignorante che afferma che Solla «con la scusa di fare ricerca si è imbarcato: una bugia come tante» (Biloslavo 2017).

[5] Fra i tanti esempi che potrei citare, porto il lavoro curato da due pedagogiste, Iori e Mortari (2005), in cui compare un cosiddetto “Diario etnografico” di sette pagine scritto da una terza ricercatrice (una dottoranda) che di fatto fa solo interviste, dal lunedì al venerdì…

[6] Riflessioni importanti su questo argomento sono fornite da Roberta Bonetti (2018), a margine di una ricerca etnografica in un istituto di credito.

[7] Quale espressa in Piasere 2002; ma si veda anche Piasere 1997 (o edizioni successive).

[8] Tutte le citazioni tratte da pubblicazioni in lingua straniera sono di mia traduzione.

[9] È chiaro che questa domanda (retorica?) può valere per migliaia di studi etnografici in cui i rapporti di potere tra comunità studiata e comunità di provenienza del ricercatore sono altamente sbilanciati.

[11] Mi riferisco alla ricerca «The Immigration of Romanian Roma to Western Europe: Causes, Effects and Future Engagement Strategies (MigRom)», finanziata dalla Commissione Europea nell’ambito del 7° Programma Quadro (Grant Agreement n. 319901), del cui consorzio hanno fatto parte L’Università di Manchester (capofila), la Maison des Sciences de L’Homme (Parigi), l’Università di Granada, l’Università di Verona, l’Institutul Pentru Studierea Problemelor Minoritaţilor Naţionale (Cluj-Napoca), il Manchester City Council e il Forum Européen pout les Roms et les Gens du Voyage (Strasburgo).

[12] Mi riferisco alla ricerca «Early Marriage between Dynamism of Social Network and Legal Autonomy: The Case of Transnational Romanian Roma (NetRom)», finanziata dalla Commissione Europea nell’ambito del programma Horizon 2020, Marie Skłodowska-Curie Individual Fellowships (Grant Agreement 794108), e svolta da Grégoire Cousin presso l’Università di Verona.

[13] In conversazioni informali alcuni colleghi suggeriscono diverse scappatoie "pratiche" per aggirare la normativa (quando far "veramente" firmare il consenso, come "veramente" fare, ecc.). Ma le scappatoie restano tali finché non ti becchi una denuncia, un rinvio a giudizio o una condanna, e servono solo a non affrontare con serietà problemi di ordine giuridico che devono entrare in riflessioni di ordine epistemologico.

[14] Reperibile nel sito: https://www.britsoc.co.uk/media/24742/joint_asa_bsa_esa_rgs_statement_april2018.pdf (sito internet consultato in data 04/04/2020).

[15] Voglio ringraziare Selenia Marabello e Grégoire Cousin per aver attirato la mia attenzione su alcune pubblicazioni qui citate, e Giovanni Pizza per le sue informazioni sulle vicende post-demartiniane della ricerca di De Martino in Salento.