Netnografia del dono

La socialità ai tempi di Facebook

Rossella Cirrone

Università degli Studi di Siena

Indice

Introduzione
Il metodo netnografico
Svolgimento della ricerca
Case study: Facebook ed i cyber-doni
Like: un bene posizionale nel “capitalismo comunitario”
Conclusioni
Bibliografia

Abstract. According to anthropological studies “all the paths of the gift lead back to Mauss” (Aria 2016), echoing back the key role of gift in traditional societies studies. In this vein, this research employs an original approach to update the definitions of good, consumption and gift, analysing this triad on a field yet unexplored: the digital space. By building on the study of Kula’s gifts exchange as a formal practice of social recognition (Mauss 1950), I have sought to apply this theoretical framework onto the case of Facebook. Within this specific cyber space, I have argued, the exchange of likes functions as a circulation of cyber-gifts which is aimed, on the one hand, at forming up social alliances between users and, on the other hand, at increasing the digital social capital of each user (Bourdieu 1979; Magaudda 2015). The methodological framework I have applied is the so-called netnography, which combines classic methods of ethnographic research with the purposes of social network research (Kozinets 2010). Lastly, I have proposed an anthropology of social practices in the cyber-space, revealing a capitalism of storytelling which meets the contemporary need for community (Bauman 2001).

Keywords. Facebook; netnography; dono; consumo; antropologia digitale.

Introduzione

Come emerge dalle evidenze statistiche ed empiriche[1], l’utilizzo di strumenti digitali o ICT (Information and Communications Technology) è sempre più consistente e pervasivo, tanto da travalicare i confini dello schermo e configurarsi come luogo abitabile da parte dell’utente, alla stregua di un qualunque altro ambiente che contribuisce a corredare il suo contesto culturale.

Allo stato attuale, il social network più utilizzato al mondo è Facebook. Secondo l’ultimo Global Digital Report, i cosiddetti active users ammontano a 2.271 milioni, ventuno percento in più rispetto al 2014. Se nel 2011 la durata media del tempo speso giornalmente su Facebook si aggirava intorno a un’ora per utente (Miller 2011), nel 2019 è arrivato a sei ore e mezzo circa. La condivisione e la produzione di contenuti virtuali è divenuta progressivamente più bulimica e accedere al social è divenuto sempre più semplice: l’accesso dal proprio smartphone, equivale ormai a vidimare un biglietto universale per accedere da ogni parte del mondo ad uno spazio di circolazione e ad un luogo abitato da soggettività confezionate, ognuna secondo il proprio gusto.

A rendere lo spazio digitale un luogo culturale osservabile dall’etnografo contribuisce il fatto che gli attori sociali che lo frequentano vi creino relazioni e producano testi, tenendo conto di regole e modelli che fanno parte unicamente di quel sistema. Una tale concezione del web come spazio del reale e non più come realtà virtuale fornisce l’occasione e la possibilità di indagare Facebook come un campo definito e accessibile alla metodologia etnografica che, nel caso di questa ricerca, si è declinata nella forma della netnografia (Kozinets 2010): una modalità di osservazione partecipante, adattataalle caratteristiche del campo cibernetico e mediata dal computer che non si esaurisce nella mera osservazione delle pratiche virtuali, ma alterna fasi di indagine online a fasi di osservazione offline. Una tale postura metodologica, che pone l’uso specifico dei new media all’interno del più ampio ventaglio delle attività sociali offline, mostra una delle peculiarità che gli studi antropologici sui social media possono rivendicare nel vasto campo degli studi sulla comunicazione digitale: la dimestichezza con un approccio teorico-metodologico che mette in luce la complessità e la multidimensionalità dell’utilizzo dei new media, a svantaggio di una prospettiva “mediacentrica” tipica degli studi sulla comunicazione tradizionali (Biscaldi, Matera 2019).

In linea con le suddette proposte metodologiche, la conduzione di questa ricerca ha contemplato dapprima l’analisi dell’attività online di un gruppo di utenti (dai 25 ai 40 anni) particolarmente attivi su Facebook e avvezzi alla condivisione di contenuti impegnati e al contempo eccentrici; successivamente, all’osservazione digitale è seguita una serie di interviste tramite questionari e la partecipazione alla vita del gruppo in occasione di momenti di svago ed eventi culturali nella città di Catania, dove questi vivono.

Il filo di Arianna che percorre le tappe di questo lavoro è costituito dal tentativo di comprendere le nuove modalità di produzione di spazi e pratiche sociali in seno ai social networking sites come strumenti che permettono agli utenti non tanto (e non solo) di incontrarsi, quanto di articolare e rendere visibili le loro reti sociali latenti (boyd[2], Ellison 2007), allo scopo di accrescere il proprio “capitale sociale digitale”(Bourdieu 1979; Magaudda 2015). Tali piattaforme oggi sembrano fornire spazi innovativi per la promozione di una nuova cultura comunitaria e cibernetica in cui – come è emerso – attecchiscono logiche che però non sono affatto nuove: quelle del consumo e dello scambio, da un lato, e quelle relative alla necessità di instaurare relazioni ed esperire la socialità, dall’altro. In questo panorama, un ruolo cruciale viene rivestito dalla funzione del like button. L’osservazione rivela, infatti, come il like – originariamente pensato come opzione per comunicare più rapidamente le proprie preferenze – abbia dato vita a una vera e propria circolazione atta alla produzione e al mantenimento dei legami online. Dalla voce degli attori osservati emerge che il grado di circolazione di like tra utenti è direttamente proporzionale alla percezione di appartenere a un dato gruppo. Appartenenza e riconoscimento vengono costantemente confermati dal continuo scambio di manifestazioni di apprezzamento/consenso. Alla lente dell’antropologa o antropologo, il like si figura così come quella particolare forma di dono definita da Aime bene relazionale che racchiude in sé il valore stesso dello scambio: la relazione (Aime 2010). La circolazione di questo bene genere una pratica assimilabile a quella del kula (Mauss 1950), rituale delle popolazioni delle isole Trobriand nell’Oceano Pacifico descritto per la prima volta da Malinowski (1922), in cui lo scambio di soulava e mwali (collane e bracciali di conchiglie) era volto a sancire alleanze tra diversi gruppi. Il dato etnografico che questa ricerca ha prodotto, mi ha condotto a utilizzare la teoria restituitaci da Marcel Mauss sul kula all’interno del suo celebre Saggio sul dono (Mauss 2002), come metafora dello scambio di feedback su Facebook. A suggerire il rimando al rituale trobriandese è stata la presenza di quel triangolo costituito dai tre pilastri su cui si fonda lo spirito del dono: donare-ricevere-ricambiare. Il sistema di manifestazione di feedback elaborato da Facebook, nel rispettare questa sequenza, finisce per esprimere la dimensione prettamente simbolica delle relazioni, confermando la teoria del dono come generatore di alleanze.

Con l’utilizzo degli strumenti teorici forniti da Aime (2010), Dei (2007) e Mugnaini (2013) sul dono in Internet e da Anderson (1996) con il concetto di “comunità immaginata” ho rilevato, dunque, come in un luogo innovativo come la rete, gli attori sociali tendano a edificare forme e modelli di comunità tradizionali, riproponendo i medesimi meccanismi della realtà offline e, tra queste, quelle del dono e dello scambio. Applicando le categorie analitiche di Veblen (2007) e di Bourdieu (2011) sul consumo ed il capitale sociale, inoltre, l’utente Facebook si configura come un consumatoredi particolari beni, impelagato nelle maglie di un capitalismo digitale dello storytelling, fatto di narrazioni e beni relazionali (Bruni 2019). Ciò che emerge, in altre parole, è che nell’era della scarsità delle merci e di un raggiunto senso di gratificazione e sazietà materiale, non è di beni tangibili che il consumatore/utente vuole nutrirsi, ma di storie, dando così vita a un capitalismo delle relazioni.

Il metodo netnografico

Al di fuori del campo specialistico, la figura degli antropologi è spesso ammantata da un particolare esotismo che induce a immaginare l’antropologo o l’antropologa immersi in un villaggio lontano, con le scarpe impolverate, a patire il caldo per strada in compagnia di un uomo o di una donna che raccontano la loro storia pronta a essere appuntata nell’immancabile taccuino. Una rappresentazione appartenente al senso comune che spesso considera l’antropologia ancora implicata nel colonialismo ma che tradisce, tuttavia, la naturale inclinazione della disciplina all’aspetto partecipativo del metodo.

L’antropologia oggi si occupa anche di altro: il rapido sviluppo dei media digitali ha condotto gli antropologi a coltivare un particolare interesse nei confronti delle cyber cultures e, conseguentemente, a stimolare la riflessione su nuovi profili metodologici pensati per lo studio dei mondi sociali computer-mediated. Il mio obiettivo iniziale, pertanto, è stato quello di fornire al mio lavoro una panoramica teorica per rendere pensabile l’etnografia nel cyberspazio.

L’argomento fondamentale con cui mi sono principalmente confrontata in questa fase è stato quello relativo al mutamento del concetto di fieldwork tradizionale ovvero del passaggio da un campo di ricerca fisico al cyberspazio, luogo che non contempla nè entrata nè uscita, ma è intrecciato nel vissuto quotidiano del ricercatore. Lo studio e l’analisi di questo particolare luogo ha caratterizzato la prima parte della mia ricerca da cui è successivamente dipesa la scelta degli strumenti analitici da utilizzare.

L’interesse per un campo di ricerca etereo come quello cibernetico comporta, infatti, delle implicazioni teoriche e metodologiche legate alle peculiarità del contesto in esame: la mancanza di un confine fisico, la varietà delle modalità di accesso e delle forme di partecipazione o la rapidità di scorrimento delle informazioni. Presentandosi come un campo dominato a più livelli dalla fluidità, la rete rende ampio e diversificato il ventaglio dei metodi di osservazione che il ricercatore ha la possibilità di praticare, seppur con le dovute riserve.

Espressioni quali media etnography, webnography e cyberanthropology hanno preso piede all’interno di un ampio dibattito, con riferimento ad una metodologia confacente allo spazio digitale, rivelando l’interesse di molti antropologi a delineare nuovi profili metodologici pensati appositamente per lo studio delle cyber-cultures (Ginsburg et al. 2002; Hine 2000; Miller et al. 2018; Pink et al. 2016). Nella fase di individuazione di un setting di strumenti che sposasse le esigenze della mia ricerca sulle dinamiche online con quelle dell’etnografia classica, mi sono così imbattuta nel lavoro di Kozinets (2010), antropologo canadese che alla linea metodologica da lui stesso teorizzata dà il nome di netnography: attraverso un approccio misto che prevede l’utilizzo degli strumenti di indagine più tradizionali applicati al cyberspazio e l’osservazione delle interazioni sociali tra attori sia online che offline, il metodo netnografico permette di cogliere la visione endogena dell’attore in un’ottica olistica che lo considera attore sociale da intervistare o osservare nel quotidiano, ma anche user, inteso come membro di una community, fabbricatore di testi e contenuti osservabili online.

L’abbinamento tra l’approccio etnografico classico e la promozione di un’osservazione digitale è il punto di forza della netnografia, che si risolve in una necessaria alternanza tra l’osservazione dei dati che fluiscono su internet e le conversazioni, le pratiche quotidiane e la vita offline degli attori osservati. In virtù di ciò mi sono ritrovata ad utilizzare una varietà di tecniche e strumenti: dai sondaggi tra gli utenti (online survey method)[3], all’osservazione delle dinamiche online, alle interviste, passando per i diari e gli incontri con gli attori.

Il metodo netnografico mi è sembrato adatto alla postura e all’orientamento epistemologico della ricerca che ripudia l’opposizione tra vita reale e vita virtuale – con cui solitamente in molti tendono a classificare le attività sui social media distinguendole dalle normali attività quotidiane – e accoglie, piuttosto, la dicotomia tra vita offline e vita online. Esse sono in realtà strettamente correlate, compongono il continuum identitario di un attore sociale e costituirebbe un limite per la ricerca concepirli in compartimenti stagni.

Svolgimento della ricerca

Individuato il modello metodologico adatto, ho fissato i confini del fieldwork all’interno della mia community di Facebook, con una particolare attenzione nei confronti di dieci utenti, selezionati sulla base del loro alto grado di partecipazione all’ambiente virtuale e del consistente numero di like scambiati nel corso della loro attività all’interno del celebre social.

In una prospettiva pratica che guarda ai protocolli, la netnografia non si è distinta in maniera particolare da una tradizionale etnografia e si è svolta in quattro fasi chiave:

1. Pianificazione della ricerca ovvero individuazione di un quadro teorico e scelta degli strumenti di osservazione e analisi. In questa fase ho assunto come modelli di riferimento i lavori di Miller e dei suoi colleghi di Why We Post?[4], così come di boyd ed Ellison. Tali studiosi hanno voluto soffermarsi sulle dinamiche culturali che è possibile cogliere anche nello spazio online, in cui non è escluso che si possano intravedere modelli e valori condivisi su cui si fonda un gruppo. Il paradigma alla base di questi studi è la teoria SCOT (Social Construction of Technology), nata intorno alla fine degli anni Ottanta, in virtù della quale i dispositivi tecnologici e gli strumenti a loro annessi (technological artifacts), si configurano come dei manufatti culturali che si adattano ed evolvono in base alle esigenze del contesto antropologico in cui questi vengono inseriti e degli attori che ne fanno uso.

In altre parole, contrapponendosi al pensiero tecnologico-determinista prevalente, secondo cui sarebbero i dispositivi tecnologici a forgiare e ad influenzare le pratiche sociali di un gruppo, l’approccio SCOT sostiene l’opposto: sono i modelli culturali e le strutture sociali esistenti a guidare lo sviluppo e i cambiamenti dei dispositivi tecnologici. Da ciò deriva l’idea della “costruzione sociale della tecnologia” per cui sarebbe il mondo a cambiare i social media e non il contrario (Miller et al . 2018).

2. Ingresso nel campo. Introdursi all’interno di una community online comporta degli sforzi in termini di accessibilità e potenziale di inclusione differenti rispetto a quelli di un’interazione face-to-face . Nel mio caso ho scelto la mia comunità Facebook di appartenenza[5]. L’esistenza di un rapporto già consolidato con alcuni di loro mi ha permesso di accedere al loro ambiente sociale online e alle loro rappresentazioni con minore difficoltà del previsto, e di raggiungere un grado di coinvolgimento nella relazione offline apprezzabile da parte degli utenti osservati. Ma l’ingresso in questo campo non ha riguardato esclusivamente il situarsi nei rapporti con gli attori, ma anche la conoscenza, la nascita, le varie fasi di sviluppo e trasformazione del social, così come l’analisi di alcune questioni focali per l’antropologia: il modo in cui si stanno evolvendo il concetto di identità e comunità attraverso i social; le modalità creative di rappresentazione del sé; la nascita di nuovi strumenti legati all’esperienza sociale. A tal fine, ho ripercorso la storia di Facebook, le evoluzioni delle funzioni ad esso annesse a partire dalla sua fondazione, e la sua netiquette .

3. Osservazione, partecipazione e adaptation. L’osservazione partecipante nel cyberspazio implica una forma di adattamento del metodo etnografico. Essa implica l’adozione di strumenti di raccolta dati e una prospettiva di osservazione differenti che si adattano al dispositivo tecnologico e alla piattaforma in esame. In seno a questa ricerca, l’adattamento del metodo etnografico al cyberspazio ha dato forma a un tipo di osservazione ascrivibile a quello di chi spia qualcuno dal buco della serratura. Nel caso di Facebook colei o colui che osserva deve essere “amico” del soggetto da esaminare per accedere al materiale pubblicato sul profilo. Come ho già accennato, il gruppo di utenti selezionati corrisponde a una consistente parte della mia personale lista di amici; conseguentemente, ho avuto modo di osservare gli scambi tra di loro per un lungo lasso di tempo, ancor prima che il presente lavoro prendesse forma. Una volta fissati gli estremi della ricerca, tuttavia, ho dato avvio ad un’osservazione specifica e strutturata della durata di circa sei mesi (da Maggio 2018 a Novembre dello stesso anno), durante i quali ho tentato di costruire una mappa delle relazioni intrattenute tra i membri del gruppo e di questi con altri utenti, nonché di classificare la tipologia di relazione sulla base dell’interazione e della quantità in media dei like scambiati. Non tutti sapevano di essere osservati e quasi nessuno era consapevole del fatto che io contassi il numero di like scambiati. Si è trattato, in altre parole, di una partecipazione in condizioni opzionali di anonimato, che mi ha permesso di osservare anche in assenza e all’insaputa dei soggetti coinvolti. Questo aspetto della ricerca potrebbe destare perplessità sul codice deontologico dell’antropologia. Bisogna tener conto però che nel mondo digitale la gestione del sé etnografico presenta un grado di complessità diverso rispetto al campo tradizionalmente inteso. L’interazione tra utenti e ricercatori nel corso di una netnografia, infatti, funziona diversamente: esso conduce a un’osservazione semi-coperta, ovvero un’osservazione non informata di profili già di per sé resi pubblici dagli utenti stessi. Ciò non implica una violazione della privacy, ma si configura piuttosto come un consenso parzialmente dichiarato all’utilizzo dei dati da parte di chi viene osservato.

All’osservazione digitale è seguita una partecipazione attiva – e della stessa durata – alla vita del gruppo nel quotidiano, perlopiù durante lo svolgimento di eventi culturali (presentazioni di libri, mostre, riunioni, cineforum) nella città di Catania, ma anche in casa e in alcuni bar e sale concerti regolarmente frequentati dal gruppo. Nella fase dell’osservazione offline ho quasi sempre fatto in modo – spesso anche con un atteggiamento provocatorio rispetto ai temi trattati – di innescare dei dibattiti relativi all’utilità di Facebook e all’influenza che l’appartenenza a questa piattaforma esercita nel vissuto sociale di ognuno.

4. Raccolta e analisi dei dati: l’archiving. All’osservazione è stata affiancata una raccolta dati su più canali: il primo è stato quello diretto dell’intervista; alcune di esse, ben strutturate e da me preimpostate, sono state effettuate tramite questionari a risposta aperta, somministrati attraverso l’app SurveyMonkey lanciata su Messenger, il programma di messaggistica istantanea utilizzato da Facebook. Il questionario, suddiviso in vari blocchi, era costituito da varie domande riguardanti sommariamente i seguenti punti:

  • informazioni sulla data di iscrizione al social network;

  • quantità di tempo dedicata alle attività del social network durante la giornata; motivazioni alla base della condivisione di una data tipologia di contenuti (link /foto/status) e la relazione tra questa e la ricezione di like (es. “Ti capita mai di pubblicare un contenuto esclusivamente allo scopo di ricevere un sostanzioso numero di like?”);

  • informazioni specifiche sulla natura dello scambio di like (es. “Apponi un like pur non conoscendo il contenuto del link, al solo scopo di rendere manifesto un certo grado di empatia?);

  • informazioni sulla natura del legame intrattenuto con gli utenti da cui si ricevono più like; carattere volontario e reciprocità dello scambio (es. “Hai mai apposto un like sul contenuto di un utente al solo scopo di ricambiare tutti i like apposti dal suddetto utente ai tuoi contenuti?”);

  • percezione di uno scarto tra identità online e identità offline;

  • concezione del like come indice di ricchezza e notorietà (es. “Pensi che la ricezione di un alto numero di like da parte di un utente sia assimilabile a un segno di ricchezza?”).

Il secondo canale ha, invece, avuto a che fare con l’archiviazione automatica dei dati e degli scambi a opera del social stesso che permette, tramite specifiche funzionalità, di verificare quanti like o commenti due users si sono scambiati nel corso del tempo. Facebook, ad esempio, permette di celebrare l’anniversario delle richieste di amicizia e di valutare, in altre parole, la durata e la qualità della connessione tra due persone, mostrando la data di inizio della connessione e il numero di like scambiati o di foto condivise insieme. Grazie a questa funzionalità è stato possibile estrapolare alcuni dati utili a tracciare quella mappatura delle “relazioni online” necessaria per cogliere l’eventuale frizione tra ciò che accadeva su Facebook e ciò che accadeva oltre lo schermo.

Case study: Facebook ed i cyber-doni

L’indagine ha preso avvio a seguito di un approfondimento in seno allo studio dell’antropologia del consumo, in particolare sull’analisi relativa alle pratiche ostentative e a quelle più specifiche del dono, in diversi periodi storici e parti del mondo: dal potlach dei nativi americani allo “sciupìo vistoso”[6] dell’analisi vebleniana (Veblen 2007), passando per il kula trobriandese (Mauss 2002). Tutte le pratiche hanno in comune il fatto di definire il consumo e lo scambio di beni come processo simbolico di potenziamento dell’esperienza sociale e non come processo di alienazione volto al mero e sterile scambio di merci (Meloni 2018).

L’osservazione del cyberspazio in questo studio ha suggerito l’idea che il sistema di scambio di feedback in rete potesse essere inserito nel novero delle relazioni di scambio di beni e, in particolare, come una forma originale di promozione della cultura del dono, inteso alla maniera della lezione antropologica antiutilitarista, secondo cui la pratica dello scambio di doni si intersecherebbe, oltre che con la sfera dell’utile, con quella della socialità primaria (Aria 2016).

Gli studi di Aime, Dei e Mugnaini si figurano come precursori del tema e sollevano la questione del file-sharing nei termini di un’economia del dono che fa leva sulla reciprocità ed è volta alla produzione di relazioni (Aime 2010; Dei 2007; Mugnaini 2013). Si entra a far parte di un social network per instaurare e rafforzare legami; i legami si instaurano attraverso le relazioni di scambio; nelle relazioni di scambio su Facebook circolano informazioni su di sé, immagini e like, allo scopo di rafforzare tali relazioni. Ci si scambia, dunque, un bene volto alla creazione di una relazione online e che in virtù di ciò ho definito cyber-dono.

L’ipotesi di partenza è che il like possa configurarsi come un bene relazionale e che la sua circolazione possa essere paragonata – su più livelli – allo scambio di doni e, quindi funzionale – oltreché all’esteriorizzazione delle proprie inclinazioni, all’instaurarsi di legami sociali e alla costruzione di un’identità online che richiede un continuo riconoscimento. Tale continuità – che rimanda anch’essa al rituale kula – è inevitabilmente richiesta in un contesto nel quale non è il valore materiale dell’oggetto donato che conta, ma la sua circolazione, nonché l’istanza che porta con sé: tessere relazioni sociali. La posta in gioco è la fama all’interno della propria cerchia di amici, per la quale l’utente sacrifica spesso la sua identità offline, allo scopo di far emergere un ulteriore segmento identitario costruito ad hoc per riscuotere successo all’interno del social network.

Like: un bene posizionale nel “capitalismo comunitario”

Leda[7] ha 39 anni, vive insieme ai suoi tre gatti in un grazioso appartamento nel centro storico di Catania, dove passa la maggior parte del suo tempo. Durante le giornate che passo insieme a lei sono rari i momenti in cui la vedo lontana dal suo computer, principale strumento di lavoro, in remoto per una multinazionale straniera, ma anche di svago. Passa tra le dieci e le quattordici ore al giorno davanti allo schermo, alternando tra il portale dell’azienda, Facebook e piattaforme di streaming come Netflix. Il computer è il suo principale ponte di contatto con l’esterno e le permette di fare la spesa, di fare shopping e stare in compagnia, senza muovere un passo da casa. Pubblica dai tre ai cinque contenuti al giorno sul suo profilo e interagisce costantemente con ogni contenuto dei suoi “amici più stretti”, apponendo like o commentando. Tra i membri del gruppo osservato è sicuramente uno dei più attivi e dei più avvezzi a raccontare episodi della propria giornata e della propria vita personale. Di fronte a un tè, le chiedo con chi sarebbe uscita quella sera e mi parla di un amico in comune su Facebook: “Sì, certo che conosco Emanuele! Nel senso… siamo amici su Facebook”. La quantità di like e di interazioni online, sono per Leda il termometro della qualità di un rapporto e rappresentano la forza propulsiva di un’interazione offline. Durante un altro incontro mi chiede se ci sia del tenero tra due utenti di mia conoscenza, alla mia risposta negativa risponde: “Che strano. Eppure, si scambiano un sacco di like".

Emanuele ha 34 anni, non ha un posto fisso e quando lo incontro passa molto tempo di fronte allo schermo del suo smartphone alla ricerca di un lavoro stagionale. Ciò che salta all’occhio, in realtà, quando sono con lui è la sua spasmodica attenzione per la quantità di like ricevuti. È lui a parlarmi di una sorta di codice di comportamento da tenere online e della sua tendenza a “contraccambiare” i like ricevuti.

Anche Emilio, ingegnere benestante sulla quarantina, musicista dilettante e amico di entrambi[8], condivide dei tratti comuni con i due utenti e con la community osservata, che vanno oltre l’ampio quantitativo di tempo speso sul social: si tratta di utenti tra i quali circola un altissimo numero di like (circa dieci al giorno per ogni utente), tutti altamente alfabetizzati e con un discreto capitale culturale, messo in mostra nei più svariati modi allo scopo di posizionarsi su un “alto rango digitale”. Nel gruppo di attori osservati, il numero di like ricevuti – in media – sulla condivisione di un contenuto “di successo” va dai venticinque ai quaranta per gli status scritti; dai dieci ai venti circa nel caso di notizie o video musicali, fino a raggiungere i duecento nelle pic profile. Si è registrato un caso in cui un utente ha deciso di eliminare dei contenuti condivisi perché poco attraenti. Quando un post, come si dice nel gergo, “non acchiappa like”, gli utenti amici lo notano e questo può incidere negativamente sul “capitale reputazionale” di chi l’ha condiviso. Il rischio di diventare un utente unpopular è alto; allora l’utente si trova, talvolta, a condividere dei contenuti “acchiappa like” al solo scopo di non perdere consensi tra gli amici, privandosi della libertà di condividere un pensiero o un gusto autentico, nello stesso modo in cui la borghesia di fine Ottocento analizzata da Veblen, si privava della comodità di un capo d’abbigliamento preferendo un abito stretto pur di mostrare il proprio benessere materiale e la distanza da chi non deteneva lo stesso capitale economico (Veblen 2007). In questo caso ci si vuole distinguere da chi non possiede lo stesso “capitale sociale digitale” (Bourdieu 2011; Magaudda 2015).

Il caso di Emilio è molto interessante: l’acquisizione di uno status symbol nel suo caso viene esperita attraverso la pubblicazione di contenuti elaborati in chiave provocatoria e sarcastica. Sono molti, ad esempio, i casi di meme da lui pubblicati contenenti immagini che fanno leva sul black humor. Emblematico il caso di un meme relativo all’aggressione ai danni di Daniele Piervincenzi, giornalista Rai, da parte di un membro del clan Spada a Ostia[9]: l’immagine ritrae l’istante in cui il malavitoso colpisce il giornalista, e riporta due particolari etichette, il tag "significante" sul volto di Roberto Spada e il tag "significato" sul volto del giornalista, chiaro riferimento alla teoria semiotica. Si potrebbe dire che l’intento della pubblicazionesia semplicemente goliardico, se non fosse che sul relativo post è poi nato un acceso dibattito sull’accaduto tramite commenti tra utenti, con riferimenti alle teorie linguistiche e alle vicende politiche contemporanee. Un pot-pourri di materiale culturale che ha fornito all’utente stesso e alla sua cerchia di amici, una delle tante occasioni di vendere un’immagine di sé ben definita e mettere in mostra il proprio capitale culturale.

La peculiarità principale del gruppo osservato è l’utilizzo di un codice comunicativo molto pungente, una sorta di linguaggio comune al gruppo (l’utilizzo del caps lock per delle frasi volutamente sgrammaticate, ad esempio) che mette in evidenza il senso di comunità del gruppo, con una sua identità e un suo “linguaggio sacro” (Anderson 1996). Ciò che li distingue è, inoltre, la ricerca e la creazione di uno stato sensazionale che provochi una reazione nel marasma di parole e link ordinari della piattaforma: la reazione – stupore, meraviglia o approvazione – da parte degli amici viene resa manifesta attraverso i like che contribuiscono in tal modo a scalfire quell’identità riconosciuta nell’ambiente digitale. Maggiore è il numero di like ricevuti, maggiore sarà la notorietà di quell’utente. La necessità sociale di questo bene mette così in moto la sua circolazione, basata sulla dicotomia del ricevere/ricambiare. L’apposizione di un like, in quest’ottica, diviene un linguaggio che ha i caratteri del dono di «beni simbolici, apparentemente non necessari […] che mettono in moto un circuito di alleanze e di favori» (Meloni 2018: 11).

Il like viene dunque consumato – e del suo consumo si fa ostentazione – e, al contempo, utilizzato come bene relazionale, dando vita a una particolare forma di capitalismo simile a quella che Bruni definisce, all’interno dell’economia del dono, “capitalismo comunitario” (Bruni 2019).

Conclusioni

Il dato etnografico prodotto da questo lavoro – oltre a quello statistico relativo al numero dei like giornalmente scambiati tra utenti[10] – è molto difficile da restituire. Come ho spiegato, l’etnografia dei social media presenta delle peculiarità specifiche tanto nella raccolta dei dati, quanto nella restituzione degli stessi. Con le parole di Biscaldi e Matera, «occorre superare anche in modo “creativo” la rigidità dell’etnografia tradizionale»: ciò che il ricercare è chiamato a fare e da cui dipende l’esito della netnografia, è «ricostruire il senso complessivo di una situazione articolata che può essere solo parzialmente osservata» (Biscaldi, Matera 2019: 86). La strategia che ho deciso di adottare in questa sede è stata quella di raccontare l’utilizzo che alcuni utenti fanno del social e la rappresentazione che essi hanno sviluppato relativamente all’incontro tra la loro vita online e quella offline. È dall’analisi di tali rappresentazioni che ho potuto instaurare un parallelismo tra lo scambio di like su Facebook e le pratiche del dono descritte nelle monografie etnografiche oceanistiche di Mauss. Le narrazioni degli attori intervistati hanno infatti dimostrato che, al di là della sua funzione apparente, il like button assolve una funzione prettamente simbolica che fa propria la grammatica dello scambio. Come nel Kula maussiano, anche nello scambio di like viene in essere quel triangolo su cui si fonda lo spirito del dono: donare-ricevere-ricambiare. Indipendentemente dal contenuto condiviso, alcuni like vengono apposti al solo scopo di ricambiare uno o più like ricevuti[11], dando vita a una sorta di contro-dono dall’apparente gratuità e sostanziale reciprocità «in cui si annida gran parte della forza del dono» (Aime 2010: 73). Oltre alla simbolica reciprocità – che culmina nell’emblematico #LikeForLike, con il quale gli abitanti del web intendono incentivare altri utenti ad apporre like per riceverne altrettanti in cambio – anche sul celebre social, come sulle coste delle Isole Trobriand, il circolo viene inaugurato attraverso un opening gift, ovvero un primo dono che dà avvio a questo sistema di scambio-obbligazione e alla conseguente instaurazione di un legame sociale. Alcuni utenti nelle interviste parlano, infatti, di una vera e propria circolazione di like che molto spesso viene introdotta da uno iniziale, apposto allo scopo di attirare l’attenzione. Sarà questo il preludio di un costante scambio che si arricchirà, in un momento successivo, anche di commenti, inviti a eventi e messaggi personali, a confermare l’appartenenza dell’utente al gruppo e la sua popolarità all’interno dello stesso[12].

Emerge, dunque, la pratica del riconoscimento sociale tramite scambio e si profila l’ipotesi che il like – nella sua funzione di riconoscimento della “storia” di qualcuno – si stia elevando in seno a questa nuova fisionomia capitalistica[13] a “bene posizionale” in grado di assegnare un dato status symbol, funzione che in altre epoche veniva assolta da beni di altro tipo, come i capi d’abbigliamento firmati, le abitazioni lussuose, i sigari o lo champagne. Come sostiene Mauss, infatti, la pratica del dono costituisce il segno tangibile della relazione e della parità di rango tra ricevente e donatore; in virtù di ciò lo scambio e le relazioni online vengono resi visibili e volutamente ostentati – come i beni di lusso nella vita offline – nella prospettiva di un riconoscimento sociale all’interno della propria community di appartenenza. In seno ad un consumo che si nutre di relazioni e socialità, la pratica dello storytelling online acquisisce così un valore primario. La narrazione, il racconto di sé e delle proprie esperienze si conferma come pilastro portante nell’edificio della community. Senza allontanarci dai riferimenti terminologici interni al capitale si arriva dunque a teorizzare un “capitalismo narrativo” modellato sulla costruzione di racconti sul sé che incantano e incatenano – reciprocamente – i membri a una comunità.

Bibliografia

Aime, M. 2010. Il dono al tempo di Internet . Torino. Einaudi.

Anderson, B. 1996 [1983]. Comunità Immaginate: Origini e diffusione dei nazionalismi. Roma. Manifesto Libri.

Appadurai, A. 2012 [1996]. Modernità in polvere. Roma. Meltemi.

Aria, M. 2016. I doni di Mauss. Percorsi di antropologia economica. Roma. CISU.

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[1] Global Digital Report 2019 https://wearesocial.com/global-digital-report-2019 (sito internet consultato in data 29/03/19)

[2] Alla nascita Danah Michele Mattas. Il nome è minuscolo per scelta dell’autrice, come chiarisce sul suo blog: «In college, i changed my last name to "boyd" to honor my grandfather. When doing the legal paperwork, i switched back to a lower-cased style to reflect my mother's original balancing and to satisfy my own political irritation at the importance of capitalization» (http://www.danah.org/aboutme.html, sito internet consultato in data 04/04/2020)

[3] Nello specifico, ho utilizzato per la mia ricerca il software online SurveyMonkey basato su un sistema che permette in maniera molto semplice di sviluppare e inviare dei sondaggi via e-mail, chat, web, Messenger e altre piattaforme, nonché di archiviare le risposte ottenute all’interno di un cloud facilmente consultabile dall’intervistatore (https://it.surveymonkey.com).

[4] https://www.ucl.ac.uk/why-we-post/ (sito internet consultato in data 04/04/2020).

[5] Tale scelta metodologica può risultare a primo acchito come un limite. In realtà, nella letteratura antropologica contemporanea, sono annoverati – e sempre più diffusi – approcci qualitativi che prevedono lo studio e l’analisi del contesto culturale di cui l’antropologo o l’antropologa fanno parte. Questo approccio, detto auto-etnografia, ha preso forma nell’alveo della ricerca etnografica già a partire dagli anni Settanta, quando ha cominciato a prodursi una crescente ibridazione con altri campi disciplinari (Hayano 1979). È bene far notare, che l’aspetto autoetnografico di questa ricerca non costituisce la totalità della cornice metodologica entro cui si pone, ma si configura piuttosto come un “ponte” che ha favorito una maggiore adesione al campo.

[6] Espressione con la quale il sociologo TH. Veblen indica, in seno alla sua teoria del consumo, quel comportamento sociale tipico della leisure class nordamericana di fine Ottocento, volto a ostentare e dilapidare le proprie ricchezze allo scopo di segnalare una distanza dalle classi meno agiate e rendere visibile la propria posizione sociale (Veblen 1899).

[7] I nomi anagrafici e i tratti biografici dei membri della community oggetto di questa ricerca sono stati sostituiti per la tutela della privacy.

[8] Per motivi di spazio, non sarà possibile in questa sede fornire la mappatura delle relazioni tra tutti gli utenti osservati. Per queste pagine, ho scelto un campione ristretto di utenti che rappresentano due situazioni-tipo: amici online che decidono di incontrarsi nella vita offline (Leda ed Emanuele) e amici conosciutisi offline che potenziano la loro socialità su piattaforme online (Leda, Emanuele ed Emilio).

[9] Nel Novembre 2017, la troupe televisiva del programma Nemo (Rai 2) durante le riprese di un servizio televisivo sulle elezioni ad Ostia, venne aggredita da Roberto Spada, titolare di una palestra e fratello di Carmine, boss condannato a dieci anni per estorsione con metodo mafioso. Il giornalista Daniele Piervincenziaveva incalzato Spada sul suo endorsement per Luca Marsella, candidato di CasaPound con il quale era anche ritratto in una foto amichevole. Indispettito, Roberto Spada colpì al volto il giornalista procurandogli la frattura del setto nasale.

[10] Dato molto variabile e determinato anche dal numero di contenuti condivisi al giorno dagli utenti e di cui si è già detto sopra.

[11] Alla domanda “Hai mai messo un 'mi piace' al link di un utente solo perché questo aveva cliccato 'mi piace' molte volte ai tuoi contenuti? In altre parole, hai mai ricambiato like?”, molti hanno risposto di sì, motivando la risposta appellandosi alla necessità di manifestare empatia nei confronti di quell’utente amico, indipendentemente dal contenuto da questi condiviso.

[12] «Pubblico sempre contenuti di nicchia, per lo più musica hardcore quasi sconosciuta. La pubblico per vedere da chi riceverò un segnale, per capire chi tra i miei amici, come me ascolta questo genere. A volte ricevo un feedback da persone che non mi aspetto» (Intervista a Santi, 31 anni, organizzatore di concerti, raccolta dall’autore a Catania in data 12/10/2018).

[13] L’utilizzo del concetto di capitalismo è qui utilizzato non in riferimento al sistema economico di mercato, ma in senso bourdieano, con riferimento alla tendenza da parte degli utenti di accumulare like allo scopo di ricoprire un’elevata posizione nella maglia sociale in rete.