Words in progress contro l’odio

Pratiche artistiche ed espressivo-corporee dentro e fuori la scuola

Laura Pomari

Caracol APS, Associazione tra artisti Ciridì

Vaninka Riccardi

Caracol APS, Associazione tra artisti Ciridì

Roberta Villa

Caracol APS, Associazione tra artisti Ciridì

Indice

Premessa
Contesto
Aspetti teorici sulla metodologia di intervento
Azioni
Percorso di formazione per docenti Sentire e Comprendere
Laboratorio I Racconti in Lingua Madre
Conclusioni
Bibliografia

Abstract. We present a project of intervention in a conflictual situation at a kindergarten, due to a different educational model of the teachers and the migrant families. The methodology arises from the mix between theatre and anthropology practice: the team are composed of two theatrical operators, a cultural anthropologist and a psychomotricist; the professional experience involve artistic and expressive-body practices as social change agents. The project is structured through different action within and for the school and then open up to the territory; particularly I Racconti in Lingua Madre for the families and the training Sentire e Comprendere for teachers. The action against hate promotes change and development as a part of the educating community through the purpose to build a self-learning school. The result of the project is a bridge of relationships between school and families, working on the sense of belonging to a common social fabric.

Keywords.  Teatro sociale e di comunità; pedagogia psicomotoria; scuola; lingua madre; formazione insegnanti.

Premessa

Nel 2014 il Comune di Magenta emette un avviso pubblico per realizzare un intervento che possa affrontare una situazione complessa di conflitto, creatasi in una delle scuole dell’infanzia della città. L’utenza della scuola negli ultimi anni è variata molto: la presenza di famiglie con trascorso migratorio è cresciuta notevolmente e le situazioni di incomprensione tra il corpo docente e i fruitori della struttura educativa hanno cominciato a manifestarsi frequentemente. L’associazione tra artisti Ciridì, un’organizzazione che da 18 anni lavora sul territorio in ambito socio-culturale utilizzando gli strumenti del Teatro Sociale e di Comunità, vince il bando e viene incaricata dal Comune di Magenta di realizzare il progetto “Seconda generazione. Identità in evoluzione”. Il progetto viene strutturato attraverso diverse azioni dentro e per la scuola, per poi aprirsi al territorio magentino. La programmazione territoriale trova una continuità negli anni seguenti, fino al 2019, grazie al finanziamento della Fondazione Ticino Olona Onlus.

Il progetto sistemico è stato pensato attraverso alcune azioni rivolte a diversi target di beneficiari. Le azioni hanno trovato il loro punto di intersezione nell’obiettivo comune di facilitare l’incontro tra docenti e famiglie, lavorando da una parte con le famiglie, dall’altra con gli insegnanti e gli operatori dell’educazione, creando eventi inclusivi e partecipati aperti a tutta la cittadinanza.

Il pensiero che sostiene gli interventi nasce dall’incontro tra prassi teatrale e prassi antropologica. Siamo un’équipe composta da due operatrici teatrali, un’antropologa culturale e psicomotricista; la nostra esperienza professionale si è strutturata nelle pratiche artistiche ed espressivo-corporee come agenti di cambiamento sociale.

Lavorando in contesti sociali multiculturali, all’interno di progetti finalizzati alla riduzione delle povertà educative[1] o alla valorizzazione delle risorse sommerse di individui e comunità nelle periferie milanesi, ci rendiamo conto quanto sia sempre più indispensabile un costante dialogo tra gli strumenti operativi delle nostre metodologie, la nostra “cassetta degli attrezzi”, e i riferimenti teorici che inquadrano, sostengono, avvalorano quegli stessi strumenti.

Per la progettazione e la conduzione degli interventi in campo educativo e formativo ci misuriamo costantemente con l’uso delle parole, con il corpo delle stesse, con la qualità del loro suono, con la prosodia, il tono, con la loro percezione e l’esperienza emotiva innescata. Le parole da una parte strutturano il pensiero alla base del nostro approccio e dall’altra sono contemporaneamente veicolo e sostanza per la co-costruzione di significati condivisi all’interno dei gruppi di lavoro, siano essi gruppi di équipe, di formazione, di laboratorio.

L’antropologia ha prestato molta attenzione al tema dell’esperienza: se per l’antropologo ha senso cogliere e comprendere l’altro, attraverso l’osservazione partecipante, stando dentro il contesto interessato, ma avendo allo stesso tempo uno sguardo anche esterno, allora può essere interessante un approfondimento sul senso e sulla consapevolezza del proprio essere presenza e corpo tra gli altri, dell’essere individuo agente, seppure nell’immobilità o nel silenzio. Inoltre, se si immagina di potersi avvicinare alla comprensione dell’altro nelle diverse sfaccettature, ancor di più avrebbe senso per l’antropologo misurarsi con la propria consapevolezza espressivo-corporea, considerando non solo la sfera razionale, ma anche i sentimenti, i desideri per lo più veicolati da linguaggi non verbali, o dalla qualità, dal colore delle parole, oltre che al loro significato.

Victor Turner (1993) fu promotore di un’antropologia che potesse attivare una sperimentazione in prima persona di modalità altre e diverse di esperire il mondo; è in questa dimensione che la nostra riflessione quotidiana si muove. Ci relazioniamo con culture diverse: famiglie con trascorso migratorio provenienti da altrove, culture bambine (Simonicca 2011:17), differenti culture dell’educazione dei collegi docenti; come équipe diamo grande valore agli elementi non verbali, in prima battuta per comprendere l’alterità con cui ci stiamo misurando, in un secondo momento per costruire un intervento trasformativo che metta in campo linguaggi, se non immediatamente accessibili a tutti, sicuramente molto intuitivi e che attivino dimensioni di piacere e coinvolgimento: in questo senso parliamo di interventi che abbiano la finalità di includere sé e gli altri nelle diverse dimensioni della società attuale.

Tra le varie azioni condotte tra il 2015 e il 2019 che l’associazione tra artisti Ciridì ha strutturato nel Comune di Magenta per promuovere l’incontro e la condivisione interculturale, intendiamo approfondire due interventi che riteniamo di particolare interesse in quanto esemplificativi rispetto alla modalità di intervento: il laboratorio I Racconti in Lingua Madre e il percorso di formazione per insegnanti Sentire e Comprendere.

Figura 1. Sguardi condivisi verso un obiettivo: insegnanti e mamme della scuola durante un’azione festiva (foto di Micaela Radi).

Contesto

Il contesto di riferimento è quello della città di Magenta, provincia Sud Ovest di Milano. In particolare il progetto di partenza è “Seconda generazione. Identità in evoluzione” che nel 2014 ha vinto il bando biennale emanato dal Comune. I soggetti coinvolti insieme all’amministrazione comunale sono: una scuola dell’infanzia cittadina, frequentata da un numero elevato di bambini immigrati e l’associazione tra artisti Ciridì, in qualità di ente che mette a disposizione gli esperti che intervengono sul campo, utilizzando strumenti e sguardi antropologici e teatrali.

La città di Magenta presenta un contesto sociale multiculturale con famiglie migranti inserite da diversi anni nel tessuto cittadino e altri nuclei arrivati da poco. Le famiglie e i bambini a cui facciamo riferimento provengono da entrambe le situazioni. Le nazionalità di provenienza sono: Europa orientale, Africa settentrionale e subsahariana. La scuola coinvolta vede un’elevata presenza di bambini immigrati perché si trova in un’area della città con numerose case affittate da famiglie straniere, funzionali per gli spostamenti.

La condizione di partenza, esplicitata dall’amministrazione nel bando, è quella di affrontare il conflitto culturale, emerso e cristallizzatosi nel tempo, tra insegnanti della scuola dell’infanzia e le famiglie. In particolare le insegnanti hanno a che fare con le madri, che non lavorano e non guidano e portano a piedi i figli a scuola.

Il progetto parte nel 2014 con azioni mirate a raccogliere gli effettivi bisogni per dare poi il via ad interventi finalizzati; viene quindi programmato un primo incontro con tutte le insegnanti della scuola ed il dirigente scolastico, e un altro incontro con i genitori interessati.

La situazione che si presenta indica un’incomunicabilità tra le parti, dovuta a pregiudizi e alla scarsa conoscenza delle reciproche realtà e dei modelli culturali: le insegnanti fanno presente una scarsa offerta formativa in grado di fornire strumenti pratici per affrontare un quadro relazionale che chiama in causa modelli educativi non occidentali. Dall’altra parte le famiglie, le madri, lamentano una solitudine concreta rispetto alla conoscenza di altre mamme, per condividere momenti di racconto quotidiano della gestione familiare e dell’accudimento dei figli. Il dato interessante è che questi bisogni sono condivisi sia dalle madri italiane che da quelle immigrate.

Nel 2015 partono le azioni del progetto che si svolgono all’interno della scuola e negli spazi pubblici messi a disposizione dal Comune:

  • Laboratori interculturali, rivolti a tutti i bambini della scuola dell’infanzia;

  • Laboratori su I Giochi del Mondo, rivolti a genitori e bambini della scuola dell'infanzia;

  • Feste ed eventi con creazione di eventi condivisi con la cittadinanza, co-progettati con insegnanti e famiglie;

  • Diverso da me? Riconoscersi nella differenza con l'altro, percorsi di pedagogia interculturale con incontri di formazione rivolti a genitori, insegnanti e cittadini interessati;

  • Sentire e Comprendere, incontri di formazione rivolti agli insegnanti;

  • Laboratorio Racconti in Lingua Madre per i genitori dei bambini della scuola d’infanzia.

Nel 2016 finisce il finanziamento pubblico stanziato e non viene emesso un nuovo bando.

Dal 2017 ad oggi il progetto prosegue solo con l’azione del laboratorio I Racconti in Lingua Madre attraverso il finanziamento di bandi territoriali (emessi da Fondazione Ticino Olona Onlus) su progetti interculturali. Il focus originario è incentrato sulla scuola. Secondo la nostra visione, la scuola è lo spazio pubblico per eccellenza, dove vediamo manifestarsi la complessità culturale in atto oggi. La scuola è un luogo versatile, integrato nella città, in cui bambine e bambini, ragazze e ragazzi provano a vivere insieme, ma si mescolano anche con gli adulti: insegnanti, educatori, famiglie. È un luogo che può incorporare occasioni e semi del conflitto, ma dovrebbe essere soprattutto luogo di cittadinanza viva, di cittadinanza praticata. Nella scuola si sperimentano, in un ambito che dovrebbe essere protetto, quelle che sono le differenze e i conflitti socio-culturali attivi “all’esterno”, sul territorio.

La scuola può essere dunque un luogo prezioso, per i bambini, i ragazzi e per le loro famiglie. Il progetto individua come uno dei target le seconde generazioni e a noi piace definire seconde generazioni, però, anche i figli di genitori italiani che si trovano a vivere in un contesto multiculturale.

Delle varie azioni progettuali riportiamo qui il percorso di formazione per insegnanti Sentire e Comprendere e il laboratorio per le famiglie Racconti in Lingua Madre, scelte in quanto risultano essere il nodo problematico emerso dall’analisi dei bisogni: è infatti nelle relazioni tra famiglie e insegnanti che si manifestano un atteggiamento e un linguaggio con reiterati elementi di conflitto.

Aspetti teorici sulla metodologia di intervento

Illustriamo di seguito i presupposti metodologici di intervento nelle due azioni che raccontiamo. Per lavorare sul tema del conflitto e dell’odio, utilizziamo i nostri specifici strumenti espressivo-corporei. Com'è possibile costruire interventi trasformativi?

Victor Turner sostiene che non tutte le esperienze siano trasformative; l’esperienza della quotidianità è estremamente fugace perché sia sempre possibile comunicare i derivati consci di ogni esperienza (Turner 1993: 78). Un’esperienza è trasformativa nel momento in cui è associata alla performance: è possibile cioè risperimentare codici passati attraverso la loro messa in scena (un rituale, una festa, il teatro). L’aspetto performativo e simbolico è dunque al centro dell’esperienza trasformativa per il gruppo.

Partendo da questo presupposto, i nostri interventi si costruiscono attraverso un processo: in una prima fase cerchiamo di comprendere il gruppo con cui lavoriamo, attiviamo un’osservazione partecipante all’interno della proposta già strutturata da noi operatori: può essere un setting psicomotorio adeguato alle fasi evolutive di gruppi di bambini, adolescenti, adulti oppure uno stimolo per scegliere un tema su cui lavorare con gli strumenti del Teatro Sociale e di Comunità, o un brainstorming del collegio docenti per pensare le specificità dei temi per la formazione.

Seppure si tratti di proposte già strutturate all’interno dei rituali programmati (apertura/chiusura; circolarità della condivisione; strutturazione di spazi e tempi), lasciano un elevato margine di spontaneità nell’espressione di sé e del gruppo all’interno dei limiti del setting predisposto dall’operatore: in questo modo è possibile per noi operatori osservare e cominciare a comprendere le dinamiche del gruppo e le singole peculiarità in un contesto de-limitato e protetto.

Una volta osservato il gruppo sia all’interno (siamo pur sempre operatori che lavorano con il gruppo e che con il gruppo hanno un contratto ben preciso), sia con uno sguardo esterno, cercando di cogliere le risorse sommerse, le fragilità e le dinamiche costruttive/distruttive, progettiamo l’intervento con gli strumenti propri delle nostre professionalità. Se lo sguardo antropologico ci sostiene nel comprendere l’alterità e così facendo struttura e legittima teoricamente gli interventi operativi, gli strumenti ed i linguaggi del Teatro Sociale e di Comunità e della pedagogia psicomotoria ci supportano per arrivare a quel momento performativo e trasformativo di cui parla Turner. Questa visione transdisciplinare determina la peculiarità di un approccio olistico al contesto in cui andiamo ad operare. In particolare, seguendo un approccio antropologico, il Teatro Sociale acquisisce una prospettiva che riconosce la dignità culturale e la piena umanità della persona, quale che sia la sua identità o condizione sociale, offrendo un metodo concreto affinchè la stessa possa «riacquisire ed esercitare una responsabilità culturale entro processi che consolidino i legami sociali e promuovano un’esperienza comunitaria aperta e inclusiva» (Innocenti Malini 2011: 84). In linea con parte della ricerca teatrale del XX° secolo, in particolare con la visione grotowskiana[2], questo metodo persegue la ricerca di un teatro necessario per l’essere umano per trovare la sua essenza originaria, al di là di ogni sovrastruttura. Il teatro è innanzitutto incontro: tra un io ed il suo corpo, un io ed un tu, un io ed un gruppo, un noi ed un voi, un io reale ed un personaggio, un noi ed un testo, un io ed uno spazio, un io e diverse identità (Innocenti Malini 2011: 83-89).

L’esperienza teatrale ha anche un valore didattico e pedagogico. Il teatro diventa strumento per la scoperta di sé stessi e del mondo, come mezzo di comunicazione con gli altri.

L’azione teatrale diventa qualcosa di estremamente serio, un “fare sul serio” contrapposto al “far finta”, e lo spettacolo rappresenta il vero momento di apertura e comunicazione con la comunità e il territorio: non solo per divertire, o per sbalordire, o semplicemente per intrattenere, ma per coinvolgere tutti nell’azione, nella responsabilità comune e dare vita a uno scambio culturale in cui gli attori (che siano bambini, ragazzi, adulti) non entrino come pretesto, ma come protagonisti[3].

Il modello a cui facciamo riferimento è quello del laboratorio di Teatro Sociale, un’esperienza a sostegno del benessere, un’occasione di socializzazione, di divertimento e sviluppo della creatività (Riccardi 2011: 16-36). Il teatro diventa un’esperienza a più dimensioni: nella scuola ad esempio gli operatori lavorano a stretto contatto con gli insegnanti e si mettono al servizio dei bambini, per consegnare loro le tecniche che conoscono, per animare un nuovo tipo di azione teatrale che non sia solo proposta di spettacolo, ma trasformazione della vita quotidiana della scuola stessa.

Un teatro inteso come forma di libera espressione e di comunicazione, dove la rappresentazione diventa un fatto sociale: entrare nel sociale per incidere nella società in cui stiamo vivendo (Baronti 2006: 231-243). Il Teatro Sociale è teatro della partecipazione: i diretti protagonisti sono anche attori, che acquisiscono funzioni attorali, autorali, registiche e che aiutano a sviluppare life skills da reinvestire nelle relazioni cittadine, al di fuori del contesto scolastico.

Il gruppo viene reso autore della propria storia, del proprio racconto, dal processo stesso messo in atto dal Teatro Sociale, che autorizza i partecipanti e li rende autorevoli a raccontare in maniera consapevole quella storia a qualcun altro. La scena non è solo su un palco, ma anche negli spazi non propriamente teatrali, in piazza, nella città, nelle esperienze sempre nuove della quotidianità (Villa 2011: 71-77).

Se il Teatro Sociale e di Comunità si configura come un processo che può portare ad esperienze performative e trasformative nei termini di cui parla Turner, la pedagogia psicomotoria e il suo sguardo peculiare sulla complessità dell’individuo considerato nell’organicità mente-corpo-ambiente è un altro approccio che valorizza l’essere in presenza consapevole dell’operatore, del ricercatore e di ogni individuo che costituisce il gruppo con cui si lavora. Come ha sottolineato Thomas Csordas «il corpo non è solo un oggetto di studio, ma anche il soggetto per eccellenza della conoscenza e quindi della produzione culturale» (cit. in Fabietti 2011: 197); l’antropologo insiste sul concetto di incorporazione e sulla possibilità per il soggetto di essere corpo nel mondo che produce conoscenza, superando i dualismi mente/corpo, soggetto/ambiente che fondano la tradizione del pensiero occidentale. Andrea Canevaro, pedagogista di fama internazionale (cit. in Formenti 2012: 19-26), a proposito della psicomotricità ha dichiarato:

Vorrei poter immaginare l’accompagnamento di un’educazione psicomotoria che cresce e che aiuti anche a sviluppare dei comportamenti sociali e professionali; che permetta alle persone non solo di avere un’autoreferenzialità, che nell’età infantile può anche andare bene, ma di sapere andare oltre, sostenendo lo sviluppo dell’identità sociale dei ragazzi.

L’intervento psicomotorio ha un approccio particolare, in cui il gioco e il corpo in azione assumono importanza rilevante. Le emozioni e i vissuti attualizzati durante il gioco spontaneo vengono poi rielaborati attraverso il decentramento e la simbolizzazione dell’esperienza[4]. Lo psicomotricista in ambito educativo e preventivo è il professionista che manipola un setting specifico, costituito di materiali destrutturati quali moduli di gommapiuma, teli, corde, palle, affinché il bambino e il gruppo vivano l’emozione nel gioco spontaneo e simbolizzino il vissuto tramite diversi livelli di rappresentazione. In un incontro di psicomotricità viene privilegiato il diritto al proprio ritmo e al tempo del vuoto, viene valorizzata l’invenzione improbabile e l’esperienza fuori dagli schemi, grande importanza assume la condivisione, ma anche l’esperienza in solitaria e contro-corrente, al centro ci sono desiderio e piacere del corpo in movimento.

Lo psicomotricista sviluppa un’osservazione attenta al linguaggio non verbale e all’azione e ha, inoltre, una specifica formazione personale intorno al suo vissuto per poter mettere il proprio corpo a disposizione nella prospettiva dell’evoluzione del gioco degli individui e dei gruppi. La figura dello psicomotricista nel contesto scolastico viene richiesta per il suo sguardo puntuale sull’evoluzione delle persone attraverso l’espressione e il linguaggio non verbale, e assume un ruolo sempre più rilevante intorno alla formazione dei docenti.

Azioni

Inserendoci nel quadro generale sopra descritto, riteniamo interessante proporre due tra i nostri interventi: il percorso di formazione Sentire e Comprendere, rivolto agli insegnanti e il laboratorio Racconti in Lingua Madre, indirizzato alle famiglie.

Figura 2. Insegnanti durante un vissuto psicomotorio (foto di Micaela Radi).

Percorso di formazione per docenti Sentire e Comprendere

Il percorso di formazione Sentire e Comprendere è rivolto al collegio docenti della scuola dell’infanzia di Magenta direttamente coinvolta nel progetto e si è interamente tenuto in un’aula vuota della struttura, riprogettata, in seguito alla formazione, come spazio psicomotorio dedicato ai bambini (Pomari 2019: 337-350).

Sono previsti 5 incontri da 3 ore ciascuno; in ogni incontro viene proposta una diversa attività laboratoriale a mediazione corporea che abbia al centro uno dei seguenti temi: il gioco per l’evoluzione del singolo e del gruppo, l’osservazione del singolo e del gruppo, il corpo di bambini e docenti nella cornice spazio-temporale della scuola.

Durante i primi incontri conoscitivi emerge subito una situazione molto conflittuale all’interno del gruppo docenti, affiancata ad un generalizzato senso di malessere generato dalla mancanza di strumenti e di supporto per fronteggiare situazioni sempre più complesse dell’utenza scolastica, con una tendenza a riversare le colpe dell'inadeguatezza sulle famiglie, in gran parte immigrate. La difficile relazione tra corpo docente e utenza è dovuta principalmente alla presenza di molte lingue differenti, di metodi di cura culturalmente distanti e di situazioni di povertà economica e socio-culturale.

Inoltre, il progetto viene inizialmente accolto tiepidamente dal collegio docenti ed una certa diffidenza viene mostrata verso gli esperti incaricati di condurre il percorso formativo.

Riportiamo le parole di una delle insegnanti durante uno dei primi incontri:

Credo che voi esperti siate stati chiamati qui per prendere le parti di tutte quelle famiglie che non si interessano alla scuola. Cosa ci dovete far capire? Che hanno le loro buone ragioni per non interessarsi? Faccio questo lavoro da molti anni, ho sempre lavorato così, ho la mia esperienza ed è sempre bastata, ma se una famiglia non ne vuole sapere è una partita persa. Inutile investire (Intervento di un’insegnante di scuola dell’infanzia raccolta dalle autrici a Magenta (MI) nel novembre 2015)[5].

Il gruppo di lavoro si presenta in parte diffidente ed in parte trincerato dietro la certezza professionale pluriennale. Pensiamo che prima di iniziare a ragionare con i docenti sul confronto intorno a metodi educativi altri, prendendo in carico le difficoltà tra scuola e utenza, sia necessario lavorare sull’alleanza tra gruppo e formatore e sulle relazioni all’interno del collegio docenti. Decidiamo dunque di proporre da subito esperienze a mediazione corporea, per promuovere una dimensione di benessere per il singolo e per il gruppo.

Nello specifico, la struttura di ogni proposta di vissuto corporeo prevede quattro fasi:

1. Un rituale di inizio dedicato alla presentazione verbale dell’esperienza corporea del giorno al gruppo; qui viene sempre sottolineata la possibilità per ciascuno di parteciparvi assecondando i propri bisogni, limiti e potenzialità psicomotorie.

2. L'esperienza corporea con fase iniziale e sviluppo.

3. Il decentramento per passare dall'azione alla rappresentazione: una fase dedicata alla rappresentazione individuale dell'esperienza corporea attraverso l'uso di differenti linguaggi non verbali (disegno, pittura, manipolazione, scrittura…).

4. Dal corpo alla parola: attraverso la verbalizzazione finale in gruppo, i partecipanti sono invitati a condividere la loro esperienza di vissuto corporeo (cosa sento, cosa penso). Durante questa fase il conduttore valuta di volta in volta quali feedback rimandare al gruppo in relazione alle possibili ricadute su un piano professionale.

Fondamentale in questi contesti è la disponibilità del formatore a rischiare, a mettersi in gioco insieme al gruppo. Il conduttore del percorso, per essere preso in considerazione, deve da una parte essere base sicura per l’esperienza corporea del gruppo, cioè deve guidare e osservare attraverso un occhio esterno, dall’altra deve essere parte di quanto accade, deve essere nello spazio-tempo investito emotivamente da tutti e ciascuno, deve partecipare attivamente a quanto emerge, che siano manifestazioni di divertimento, di aggressività, di gioia, di rabbia. All’interno della cornice del gioco corporeo tutto questo è concesso, contenuto e legittimato dal formatore, che non ha solo la facoltà di parlare ma anche di agire, mettendo se stesso a disposizione del gruppo.

Emblematico è un incontro in cui viene proposta un’esperienza corporea, partendo dal ricordo, materiale o immateriale, del proprio gioco d’infanzia. La conduzione vocale del formatore, affiancata dalla manipolazione personale dell’oggetto, porta ogni insegnante all’esperienza del proprio ricordo. Sempre attraverso la conduzione, il ricordo si trasforma in azione condivisa che si manifesta spontaneamente in giochi con i teli, giochi con la voce, giochi centrati sull’aggressività come interazione sociale esistente, riconosciuta e, finalmente, in quel momento del “far finta”, legittimata e contenuta all’interno del gruppo. Dopo le prime resistenze, inevitabilmente il gruppo si lascia coinvolgere dal riso condiviso. È emblematico il momento in cui la PO[6], che quotidianamente ha il ruolo di garante organizzativo dell’istituto ed è spesso bersaglio delle proiezioni di malessere da parte degli operatori dell’educazione, si trovi, per gioco, a farsi cullare in un telo come un bambino piccolo da alcune insegnanti. Attraverso l’esperienza condivisa basata sul gioco è possibile vivere il ribaltamento dei ruoli e condividere un’emozione di piacere attraverso il corpo. Durante l’incontro è riconoscibile il percorso che dal proprio ricordo porta all’azione e all’emozione condivisa, per poi arrivare alla simbolizzazione attraverso la rappresentazione e la parola. Il valore di questo approccio emerge pienamente nella condivisione finale di parole piene, corpose, cariche di vissuto proprio e condiviso, grazie ad un percorso attraversato da diversi livelli di rappresentazione (ricordo, azione, emozione, simbolo, parola).

Nelle parole di una delle docenti presenti:

Devo dire che oggi sono stata bene. Non ho mai fatto esperienze di questo tipo, né in formazione a scuola, ma neanche fuori. Non mi aspettavo che avremmo fatto cose di questo tipo, invece mi sono rilassata ascoltando la voce che mi accompagnava e mi spiegava cosa fare. Ho riso con le altre ed è la prima volta che ho pensato a me dentro la scuola. Io credo che noi insegnanti dovremmo sentirci bene a scuola, dovremmo pensare al nostro benessere, per fare star bene gli altri (Intervento di un’insegnante di scuola dell’infanzia raccolta dalle autrici a Magenta (MI) nel novembre 2015).

I vissuti corporei proposti durante i primi incontri permettono di ripristinare risorse assopite, di riattivare uno sguardo stra-ordinario sulle colleghe che mira a rimettere in attività una relazione sul piano emotivo/sensoriale, piuttosto che a reiterare l’uso di un linguaggio verbale ormai ripetitivo, cristallizzato e inadatto a veicolare un cambiamento. Il laboratorio corporeo diventa un campo neutro in cui le difese di ciascuno si abbassano: è possibile in un secondo momento cominciare a ragionare sul linguaggio, a capire come le parole possano costruire una relazione con i bambini e con le famiglie, come possano essere accoglienti o respingenti, essere contenitori vuoti, o avere un corpo vibrante che tocchi le corde emotive dell'altro, non solo per il loro significato, ma per come vengono pronunciate.

Il passaggio attraverso il proprio vissuto psicomotorio e la sua condivisione a livello verbale, permette al gruppo di aprirsi con maggiore disponibilità alla sensibilizzazione intorno al tema, ad esempio, del contatto corporeo in approcci educativi altri.

Per affrontare il tema, la formatrice propone un vissuto corporeo sul tono muscolare e il contatto corpo a corpo. Il tono è il primo canale di comunicazione tra il bambino e la mamma, la prima modalità di risposta all'ambiente. Sul fondo tonico del bambino nasce e si sviluppa il dialogo tonico con la mamma: la prima modalità di comunicazione su cui si costruiscono e si stratificano i successivi canali comunicativi; per questo è importante acquisire consapevolezza sulla propria comunicazione tonica come strumento nella relazione educativa.

Durante la proposta corporea, viene posta prima attenzione al proprio tono, poi alla relazione tra il proprio tono e gli oggetti (un oggetto interessante per questo tipo di esperienze è il telo in lycra), poi alla relazione tra il proprio tono e quello dell'altro, per tornare poi su di sé e per sentire se vi sono trasformazioni. Il tono regola anche la voce. Durante questo vissuto corporeo viene comunque sperimentata maggiormente la sfera non-verbale, usando la voce come “gesto sonoro”, attraverso il respiro, il volume, ma non usando la parola. La successiva verbalizzazione intorno all’esperienza parte da una riflessione sul proprio sentire il contatto corporeo con l’altro, accogliendo manifestazioni di piacere o di disagio, per poi arrivare ad una sensibilizzazione sull’importanza del tatto e del contatto con i bambini. Nelle parole di un’insegnante:

A me ha dato molto fastidio essere toccata, manipolata in questo gioco. Ho sentito un tocco troppo morbido per me, mentre io mi muovo velocemente e sono molto più tesa. Non mi sentivo contenuta dai movimenti della mia compagna, dal suo ritmo, ero quasi innervosita. Ho sentito questo e ho pensato che se fossi stato un bambino e avessi avuto questa sensazione, non avrei avuto le parole per dirlo (Intervento di un’insegnante di scuola dell’infanzia raccolta dalle autrici a Magenta (MI) nel novembre 2015).

Questa esperienza permette alle insegnanti di mettersi in ascolto dell’altro utilizzando un piano comunicativo alternativo, un registro che non sono abituate a considerare e che rimette in discussione la rappresentazione di sé e dell’altro. Arrivati a questo punto in cui il livello di fiducia e di ascolto tra gruppo e conduttore è stabile e si è un po’ aperta la disponibilità all’ascolto di diverse modalità di sentire e intendere il contatto corporeo, riteniamo opportuno introdurre alcuni argomenti promossi, tra gli altri, dalla pedagogista Graziella Favaro (2009).

Aver esperito un proprio rapportarsi con il contatto corporeo stimola il ragionamento su altre pratiche culturali che prevedono una relazione tra madre e bambino ad alto contatto corporeo. Il modello occidentale che tende a privilegiare il livello vocale e ludico anche nelle interazioni precoci e la comunicazione attraverso lo sguardo, non sempre si sposa con modalità di interazione che privilegiano il corpo a corpo, che si manifesta, ad esempio, nell'uso della fascia per molte ore al giorno per le mamme subsahariane o nell'allattamento dei bambini anche fino ai due anni per le mamme cingalesi o marocchine.

Favaro esplicita come per le donne immigrate casalinghe o lavoratrici, dover pensare ed elaborare un progetto di cura per il figlio sia una conseguenza della migrazione, che implica introdurre elementi di frattura rispetto alle modalità educative già conosciute e sperimentate nel paese d'origine. Il problema da comprendere qui non è tanto quale sia il modello educativo più funzionale, quanto piuttosto comprendere che l'abbandono improvviso delle cure materne legate alla propria provenienza culturale e spesso criticate dai servizi e dagli operatori educativo-sanitari in Italia, può provocare nelle madri immigrate un impoverimento del maternage perché le nuove pratiche del paese di arrivo non sono state apprese e soprattutto interiorizzate.

La questione è dibattuta a lungo durante la condivisione in cerchio. Alcune docenti, partendo dal proprio sentire rispetto alla questione del contatto corporeo, cercano poi di portare il discorso verso altri modi di sentire il contatto, arrivando a concludere che, evidentemente, la percezione del contatto corporeo di ogni bambino dipende anche dal maternage e dalla qualità del contatto offerto dalla madre. Questioni che non possono esimersi da una riflessione su pratiche culturali e approcci educativi differenti.

Non si può dire che venti ore di formazione possano portare a modifiche radicali nell’approccio del corpo docente verso l’utenza della scuola, si può dire però che, lavorando sul proprio sentire, è possibile per alcune di esse cominciare ad avvicinarsi al sentire dell’altro e a considerare che possano esistere moltissimi modi di intendere le questioni educative e di cura, tra cui il maternage.

È nel maternage e nel dialogo tonico tra caregiver-bambino che si struttura la prima capacità di comunicare ed è a partire da questa relazione che la lingua madre assume grande importanza. Luigi Anolli (Anolli, Legrenzi 2001) sottolinea come il neonato preferisca le ninne nanne cantate nella lingua madre rispetto ad altre cantate in lingue diverse: questo fenomeno viene chiamato continuità trans-natale e avvalorerebbe i risultati di molte ricerche che dimostrano come il feto, a partire dalla ventesima settimana sia in grado di sentire i rumori esterni.

Alla lingua madre abbiamo pensato di dedicare una delle azioni del progetto “Seconda generazione. Identità in evoluzione”: nel paragrafo successivo verranno esposte le pratiche che ci siamo immaginate per valorizzarne l’importanza nei contesti educativi di cui ci occupiamo.

Laboratorio I Racconti in Lingua Madre

Figura 3. In scena. Il gruppo del laboratorio dei Racconti in Lingua Madre presentato dall’operatrice teatrale durante una festa aperta alla città (foto di Micaela Radi)

Tra gli interventi rivolti agli adulti coinvolti nel percorso educativo, per i genitori e, in particolare, per le mamme, viene progettato uno specifico laboratorio di condivisione e narrazione di storie.

Le mamme vengono intercettate tramite una call nella bacheca della scuola tradotta nelle diverse lingue presenti nell’istituto, in cui si chiede la disponibilità dei genitori a partecipare a un laboratorio di narrazione per raccogliere storie, filastrocche e canti nella lingua d’origine da riportare e raccontare ai bambini della scuola. Si auspica così di creare uno spazio in cui possa avvenire l’incontro tra genitori di diversa provenienza, che si aprirà negli anni successivi anche a nonni, educatori, cittadini interessati, che siano disponibili a condividere esperienze narrative appartenenti alla loro terra d’origine e che diventino a loro volta veicolo di diffusione di una buona pratica.

Alla call rispondono alcune madri e si crea un gruppo che si incontra la mattina, una volta ogni 15 giorni, in uno spazio messo a disposizione dal Comune. Le mamme sono una decina e la loro origine è disparata: Italia, Senegal, Somalia, Marocco, Algeria, Albania.

Nel concreto dell’azione entra in campo il modello narrativo: alla narrazione è riconosciuto un aspetto affettivo (aiuta l’identificazione e il racconto di sé), cognitivo (sviluppa la capacità di cogliere le relazioni), sociale (crea condivisione di esperienze e riferimenti).

La narrazione è valorizzata nella lingua madre di appartenenza, esplicitando l’importanza sociale dei suoni e della cultura d’origine e incoraggiando le mamme a utilizzarla con i loro figli nel contesto quotidiano, affidando alla scuola l’insegnamento della lingua italiana L2, e aiutando a comprendere la grande importanza del bilinguismo per i bambini.

Come afferma Antonella Sorace (2011: 1, 6):

La ricerca recente sul cervello bilingue ha contribuito non solo a sfatare i pregiudizi negativi sul bilinguismo, ma anche a dimostrare che lo sviluppo bilingue nei bambini comporta molto di più della conoscenza di due lingue: in aggiunta a benefici ben noti, come l’accesso a due culture, la maggiore tolleranza verso le altre culture, e gli indubbi futuri vantaggi sul mercato del lavoro, il bilinguismo conferisce benefici molto meno conosciuti, ma forse anche più importanti, sul modo di pensare e agire in diverse situazioni. (…)

L’esperienza di gestire due lingue fin dall’infanzia si riflette in una serie di effetti positivi in ambiti sia linguistici che non linguistici. Uno di questi effetti è una maggiore conoscenza spontanea della struttura del linguaggio. I bambini bilingui ‘notano’ intuitivamente la struttura e il funzionamento delle lingue.

Alcune mamme raccontano spesso di figli che si rifiutano ad esempio di parlare in arabo, affermando il loro “essere italiani”, e di quanto questo sia fonte di preoccupazione rispetto alle aspettative di una perfetta integrazione sociale e linguistica dei bambini, ma anche di dolore e timore di perdita di una radice culturale e linguistica.

Le madri immigrate si trovano nella situazione complessa di dover interiorizzare comportamenti e pratiche della società di accoglienza, ma nello stesso tempo di voler trasmettere appartenenze, legami e memorie famigliari ai nuovi nati. Quando l’operatore educativo si approccia a bambini e famiglie non italiane nel contesto scolastico, deve considerare questi elementi tanto quanto fornire strumenti linguistici appropriati[7].

Crediamo di riconoscere in questa azione un’occasione preziosa per aiutare a sradicare pregiudizi e false credenze, soprattutto perché il setting di lavoro è un contesto inclusivo, in cui ogni partecipante si trova a rapportarsi alla pari, mettendo in campo risorse e competenze personali. Il gruppo, guidato dall’operatrice teatrale, che si pone come facilitatore sia per le dinamiche che per le tecniche, si conosce e riconosce a partire dal ruolo comune di madre e per l’appartenenza alla medesima comunità scolastica; le mamme vengono inizialmente sollecitate da input della conduzione, che chiede ad esempio di ricordare e portare fiabe tradizionali, oppure filastrocche che insegnano le parti del corpo, oppure favole di animali.

L’operatrice teatrale si pone come mediatore, mettendo in evidenza i tratti comuni delle storie, la similitudine delle filastrocche, sollecitando a trovare fiabe con la stessa radice narrativa nelle varie culture, ma anche spingendo a dare valore alla diversità e alla peculiarità di ogni tradizione.Si crea inizialmente una situazione curiosa, quasi un rovesciamento delle competenze, in cui le mamme italiane non sentono e non comprendono il loro valore aggiunto all’esperienza.

Loro hanno tantissime storie e canti e filastrocche. Io non conosco nulla. Non ho niente da portare di particolare, niente di interessante (Testimonianza di una mamma italiana raccolta dalle autrici a Magenta (MI) nel febbraio 2015).

Lo sforzo della conduzione è quello di far comprendere il valore della storia di ogni individuo, fino ad autorizzare ogni partecipante a portare anche ciò che viene ritenuto scontato e banale.

Nel proporre un’azione di questo tipo sentiamo infatti anche il rischio del generarsi di un “pregiudizio al contrario” (come avvenuto ad esempio in fase iniziale con le insegnanti), in cui le persone coinvolte possono travisare l’intenzione della conduzione e interpretare la proposta come un progetto che privilegi le esperienze migratorie a discapito di altre, arrivando, a lungo andare, ad avvalorare paure ancestrali di perdita dell’identità e delle radici, cavalcate da certe subculture che alimentano l’odio.

Siamo convinte che l’educazione interculturale sia una prospettiva, un atteggiamento, un approccio che valorizza la relazione, il dialogo e l’inclusione. Possiamo addirittura affermare che per fare intercultura non sia necessaria la presenza di famiglie con esperienza migratoria e, anche quando ci sono, occorre fare attenzione nel considerare i cosiddetti “stranieri” unicamente come immigrati, altrimenti il rischio è di renderli solamente ostaggio delle loro origini. L’educazione interculturale è per tutti e va coltivata in ogni momento.

La conduzione cerca quindi di puntare l’attenzione sui ricordi, anche coinvolgendosi in prima persona, sull’esperienza di ognuna legata all’infanzia, sulle filastrocche imparate dalle nonne e dalle mamme, o durante la scuola, fino a scoprire che alcune mamme addirittura inventano fiabe e rituali originali per aiutare i figli ad attraversare nodi fondamentali della crescita, come il bagnetto, la cena, il momento della nanna.Una volta passato il concetto che ognuna di loro è legittimata ad esprimere la propria storia, che sia di migrazione o più radicata in un contesto, e la propria individualità, tutte le mamme cominciano a partecipare in maniera attiva per condividere materiali. Questa spinta apre ad un gioco che diventa sempre più coinvolgente, in cui le partecipanti fanno quasi a gara a chi trova i particolari più divertenti, le canzoni più suggestive, i girotondi con i gesti più buffi. Ognuna si sente coinvolta, utilizzando la lingua madre e anche rispolverando i dialetti di origine (ad esempio del Nord e del Sud Italia).

Si crea piano piano un contesto realmente condiviso, a partire dalle pratiche sonore, musicali e gestuali proprie delle tecniche di narrazione, che porta ad un aumento della fiducia interpersonale e della confidenza: le donne si raccontano storie personali, condividono le difficoltà della maternità, si sostengono su questioni legate alla scuola dei figli, alcune cominciano a darsi una mano concreta rispetto ad esempio al ritiro dei figli a scuola e creano occasioni di incontro anche al di fuori del laboratorio.

Quando il gruppo comprende che ogni storia individuale interviene per costruire la storia comune, è pronto per rielaborare i materiali, attraverso gli strumenti della narrazione e del teatro, in una messa in scena di racconti drammatizzati e filastrocche in lingua, che vengono poi tradotte in italiano, così da poter essere presentate a tutti i bambini della scuola. Vengono organizzati dei momenti speciali per le diverse sezioni della scuola dell’infanzia in biblioteca (nel 2015) e direttamente a scuola (nel 2016).

La lingua madre e la mamma che racconta vengono legittimate in questa fase dalla stessa istituzione scuola a trasmettere conoscenza e così la madre (assieme alla sua lingua di origine) diventa una persona speciale, portatrice di un valore che la assurge al ruolo di conduttrice della lezione, facilitata dall’operatrice teatrale, pur mantenendo sempre un margine di protagonismo e autonomia.

In quel contesto la madre non è più solo la mamma del bambino tal dei tali e la lingua madre non è solo quella che viene trasmessa in casa, ma diventa una lingua legittimata ad essere trasmessa all’interno della scuola, al pari di altre lingue, che vengono studiate fin dalla prima infanzia, come ad esempio l’inglese. La lingua madre, qualunque sia la sua appartenenza, diventa oggetto di interesse nel contesto scolastico per gli adulti e per i bambini, non solo per i figli della madri coinvolte, ma per tutti i bambini frequentanti la scuola.La mamma diventa, in questo contesto educativo, quella che detiene il sapere della lingua madre e quindi della parola; che può raccontare e può tradurre e quindi far capire. Ai propri figli e ad altri bambini.

I racconti vengono inoltre presentati in momenti aperti ai genitori (festa della scuola) e alla cittadinanza (festa della donna), rendendo ancor più significativo, a livello di riconoscimento sociale cittadino, il sapere portato dalle mamme.

Tra il 2017 e il 2019 il progetto prosegue fuori dalla scuola attraverso il finanziamento di bandi territoriali (Fondazione Ticino Olona Onlus) su progetti interculturali.

A partire dal 2017 lo spazio di incontro diventa un luogo di proprietà del Comune di Magenta (una villa antica ristrutturata), ma in gestione ad alcune associazioni, che collaborano ad un progetto dal titolo “La Casa delle Culture”, di cui l’associazione tra artisti Ciridì è capofila.

In quell’anno nello spazio condiviso dalle associazioni viene realizzato un evento festivo aperto alla città organizzato da Ciridì, in cui sono presenti anche i Racconti in Lingua Madre. L’evento riscuote successo, tanto che si replica nell’anno successivo (2018), e in quell’occasione le mamme coinvolte, oltre a raccontare, cantare e performare, cucinano anche piatti delle loro tradizione. Durante questo evento è presente anche un rappresentante dell’amministrazione comunale, che si dimostra colpito dal lavoro svolto dal laboratorio in questi anni.

Nel 2018 viene coinvolta un’altra scuola dell’infanzia di Magenta, le cui insegnanti, attraverso un contatto con le operatrici teatrali, si dimostrano interessate a ospitare le raccontatrici in lingua madre in un momento di spettacolo dedicato ai bambini. Il gruppo del laboratorio viene considerato per la prima volta come una vera e propria “compagnia teatrale”, che può essere chiamata per un’azione culturale e di intrattenimento rivolta agli alunni di una scuola, al pari di altre offerte che durante l’anno vengono valutate dalle insegnanti stesse. Questa azione legittima ancora di più il riconoscimento delle lingue diverse e la valorizzazione della differenza culturale come fondamento di un processo educativo, sociale e di crescita dei bambini.

La collaborazione prosegue anche nel 2019, con uno spettacolo di narrazione offerto ai bambini alla fine dell’anno scolastico. Nell’anno 2018-19 il progetto viene scelto per la promozione delle azioni Fondazione Ticino Olona Onlus tramite video[8]. Il gruppo sostiene tre momenti di apertura al pubblico: oltre a quello di giugno nella scuola dell’infanzia, è tra i protagonisti del Festival del Solstizio, grande manifestazione promossa da diverse associazioni (tra cui Ciridì) insieme al Comune di Magenta, con uno spazio dedicato ai racconti; e poi a settembre si ritaglia uno spazio all’interno della Festa della Famiglia organizzata dal Comune di Magenta: la presenza del gruppo dei Racconti in Lingua Madre apre lo sguardo anche alla realtà delle famiglie con trascorso migratorio esistenti sul territorio magentino, e lo fa per la prima volta in un evento istituzionale organizzato direttamente dal Comune (che nel frattempo ha cambiato colore politico, rispetto al periodo iniziale del bando interculturale). Volente o nolente questa ultima situazione legittima la lingua madre come azione culturale di valore per il territorio.

Negli anni le mamme partecipanti sono naturalmente cambiate: il gruppo focus, che proviene dall’esperienza dei primi due anni, ha contattato a sua volta diverse donne di origine egiziana e marocchina, oltre che somala, italiana, spagnola, albanese. Nel corso del tempo si è definito il rituale dell’incontro: ci si vede intorno alle 9 del mattino e si fa colazione (Festa di Ramadan permettendo). Solitamente è chi organizza che offre caffè, tè e dolci, ma è capitato che le partecipanti portassero cibi cucinati da loro da condividere e in quel caso il racconto parte dal nome del piatto, dagli ingredienti utilizzati per la ricetta, dall’occasione per cui di solito viene cucinato; questo spesso apre aneddoti che, a loro volta, ne fanno scaturire altri, di diverse partecipanti al gruppo.

Ci sono spesso anche i bambini più piccoli, per cui si allestisce uno spazio apposito con fogli e colori. I bambini vengono accuditi a turno dalle diverse donne presenti e non solo dalla madre biologica.

La condivisione passa attraverso il rituale del caffè o del tè e diventa condivisione del vissuto tra donne e madri: spesso le problematiche sono le stesse (la scuola, i figli, i mariti), ma può comportare ad esempio l’aiuto a leggere un appuntamento dal ginecologo, una ricetta medica che non si è certi di aver compreso bene. Da lì si passa a parlare di argomenti più sociali, che hanno a che fare con l’accoglienza del diverso, le differenze tra le religioni, le opinioni su eventi di cronaca. A seconda della confidenza si riesce ad andare a fondo o meno su alcuni nodi delicati.

Essendoci molte donne di cultura araba, spesso nascono domande sull’utilizzo del velo o su pregiudizi che permeano la cultura occidentale nei confronti della religione islamica. È capitato che alcune mamme raccontassero la loro scelta di portare o meno il velo, il rapporto con il marito, fino alla condivisioni di momenti di grande intimità, come una danza che una donna ci ha mostrato, togliendosi il velo, che ha lasciato l’intero gruppo a bocca aperta, o un canto per la festa della mamma che ha fatto commuovere una delle partecipanti che aveva appena perso la madre in Egitto e che ha subito creato empatia e condivisione di racconti legati a lutti familiari.

Quindi si arriva al nucleo del laboratorio: la condivisione di storie e filastrocche nella lingua madre.

Di solito l’operatrice teatrale dà un tema: storie di animali, storie che raccontano della scuola, miti di creazione, ecc. Chi condivide con il gruppo lo fa nella sua lingua madre, quindi, ad esempio, nel caso di una mamma egiziana, la storia viene letta e raccontata in arabo e poi viene tradotta in italiano dalla stessa mamma che l’ha proposta o da un’altra partecipante che comprende bene sia arabo che italiano. Oppure se è la mamma di Madrid a proporre una canzone a ballo, sarà subito mostrata e cantata in spagnolo, coinvolgendo le partecipanti nell’azione e poi tradotta da lei. Finora non è stato necessario prevedere la presenza di un mediatore linguistico. C’è una mediazione condivisa nel gruppo anche per le traduzioni. Alle 10.30 circa il gruppo si saluta e ogni partecipante torna alle sue occupazioni quotidiane (chi va a fare la spesa, chi torna a casa, chi entra in ufficio).

Nel corso degli anni siamo sempre arrivati al momento produttivo, in cui si è pensato di portar fuori i materiali condivisi, in modo che potessero essere messi a disposizione di un pubblico, in particolare il pubblico speciale dei bambini a scuola (e non più solo i propri figli, come i primi anni).

È stato interessante osservare come questo obiettivo abbia dato tenuta alle donne più motivate, che si sono trovate a veicolare le proprie storie in lingua madre attraverso il corpo, la voce, usata anche in modo espressivo e teatrale (es. voci degli animali, canto, suoni e rumori). Prepararsi e poi entrare in un contesto didattico, nell’ambiente dell’insegnamento per eccellenza, trovarsi dall’altra parte della cattedra, a insegnare a bambini e maestre, ha portato a un senso di soddisfazione molto forte. Sempre più, inoltre, le mamme coinvolte esplicitano la necessità di questo laboratorio come spazio per se stesse, per riconoscersi un tempo speciale come donne, per condividere, per ritrovarsi in un ambiente accogliente e inclusivo in cui ci si incontri e ci si comprenda. La presenza non è sempre numerosa, ma chi c’è si attiva continuamente per creare partecipazione, forte di un senso di appartenenza a un progetto che può contribuire a disinnescare pregiudizi e a dare risposte pacifiche a una società che spesso sembra fare dell’odio il suo cavallo di battaglia.

Figura 4. La canzone della mamma. Gruppo di donne cantano e raccontano una storia egiziana, coadiuvate anche dai figli, durante una festa aperta alla città. (foto di Micaela Radi).

Figura 5. Comunità. Girotondo proposto dalle mamme che coinvolge tutti i presenti durante una festa aperta alla città (foto di Micaela Radi).

Conclusioni

Quello che ha costruito il progetto è stato un ponte di relazioni tra scuola e famiglie.

Il lavoro di contrasto all’odio passa attraverso la macro finalità di costruire una scuola che impara da se stessa, promuove il cambiamento e lo sviluppo e si sente parte della comunità educante. Dalla scuola siamo usciti sul territorio cittadino per sperimentare setting diversi dall’ambiente scolastico e per aprire gli interventi ad altri partecipanti (siano essi genitori o insegnanti) anche di altre realtà scolastiche. Questa apertura ha dato respiro alle problematiche, ponendo lo sguardo su orizzonti più ampi: il nostro conflitto non è solo nostro, ma si verifica anche in altre situazioni vicine a noi. Confrontarsi e formarsi in ambito più allargato ha permesso di ritornare a ciò che è stato il punto di partenza, la scuola, con un atteggiamento più propositivo.

Il gruppo del laboratorio dei Racconti in Lingua Madre, stimolato dalla conduzione, si attiva, per rappresentare il piccolo spettacolo in un’altra scuola dell’infanzia di Magenta, presentandosi e legittimandosi come attrici che agiscono un sapere interculturale.

Etimologicamente l’attore (actor) è colui che agisce. La funzione attorale implica la capacità di dare spazio alla possibilità di essere autore di un gesto. Essa è l’abilità alla messa in gioco del singolo e della relazione con gli altri, l’allenamento a un gesto che diventa azione comunicativa (Riccardi, 2011: 20).

A loro volta le insegnanti della scuola richiedono ogni anno la presenza del gruppo di mamme.È stato inoltre possibile organizzare eventi e feste co-progettati da insegnanti e famiglie, dove queste ultime si sono mostrate parte attiva nella realizzazione. Il vissuto rituale del laboratorio, il proprio vissuto personale, è diventato azione attraverso il teatro e il racconto e ha prodotto un pensiero da condividere, attraverso parole di incontro e di condivisione, e ha disinnescato pregiudizi che avrebbero portato a manifestazioni di odio.

Questo ci fa capire che l’approccio transdisciplinare, messo a punto per innescare dinamiche di cambiamento partendo dalla scuola e aprendosi al territorio, sta rispondendo ai suoi intenti.

Uno dei ruoli della performance è di creare rotture all’interno di dinamiche routinarie cristallizzate.

Nessuna società è priva di qualche forma di meta-commento, espressione illuminante di Geertz per indicare «una storia che un gruppo racconta a se stesso su stesso» o, nel caso del teatro, un dramma che una società rappresenta su se stessa: non solo una lettura della propria esperienza, ma una nuova rappresentazione interpretativa della medesima (Turner, 1982: 136)

Nel nostro intervento quotidiano non trattiamo performance che mettano in scena una società che legge e reinterpreta se stessa, ma attraverso la proposta laboratoriale trattiamo particolari gruppi con particolari rappresentazioni di sé, che necessitano dell’opportunità di spazi e tempi dove “mettersi in scena”, e contemporaneamente riguardarsi dall’esterno, facendo da attori e spettatori di se stessi, e ripensarsi. «Forse non dovremmo limitarci a leggere e commentare i materiali etnografici, ma rappresentarli (ivi: 163)», sulla scia di questo pensiero riteniamo che non basti confrontarsi dialogando sulle mancanze pedagogiche e i conflitti interni alla scuola, ma sia necessario “performare” quelle stesse mancanze attraverso il gioco, il teatro; per costruire insieme, attraverso un incontro tra corpi, un meta-linguaggio che evidenzi fragilità e risorse reali del gruppo, e le trasformi.

La risposta che proponiamo è l’incontro a questo livello. Senza retorica, se l’incontro è l’appuntamento tra due persone, nel tentativo di instaurare una relazione, la sfida è quella di andare oltre, ovvero far incontrare (come già citato nel paragrafo 3.) un io ed il suo corpo, un io ed un tu, un io ed un gruppo, un noi ed un voi, un io reale ed un personaggio, un noi e un testo, un io e uno spazio, un io e diverse identità. Quello che viene rappresentato identifica non solo chi racconta o porta l’esperienza, ma anche chi guarda: trovare quel gesto, quella parola, che racconta qualcosa di sé, ma in una forma che permetterà a chiunque altro di ritrovarsi all’interno di quel gesto e di quella parola.

Non solo, il movimento di resistenza all’individualismo permette di porre in comunicazione e far dialogare le varie parti del contesto di riferimento, anche quelle parti fragili spesso ai margini, forzatamente invisibili, e oggetto di comportamenti di odio, curando le azioni di incontro e di riconoscimento da parte della comunità.

Questo è un bisogno che oggi sentiamo fortissimo: poter attivare progetti aperti a un territorio e alle suemolteplici realtà, viste come risorse e ricchezza; poter realizzare azioni di comunità in cui i soggetti di un territorio possano incontrarsi, parlarsi, e persino andare in scena insieme; essere la dimostrazione visibile dell'appartenenza ad un unico tessuto sociale. La sfida continua è quella di lavorare senza sosta sulla ricerca di nuovi linguaggi che consentano di continuare a porre al centro del lavoro la persona e il suo contesto sociale, in un'unione da intendersi ormai imprescindibile e che possa diventare esperienza di cambiamento.

Figura 6. Incontro di sguardi e parole. Due mamme colte durante il racconto di una storia in lingua somala con traduzione in italiano, durante una festa aperta alla città(foto di Micaela Radi).

Bibliografia

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[1] La povertà educativa è una povertà che nessuno vede, nessuno denuncia, ma che agisce sulla capacità di ciascun ragazzo di scoprirsi e coltivare le proprie inclinazioni e il proprio talento. Le conseguenze sono nell’apprendimento dei ragazzi e nel rischio quindi di entrare nel circolo vizioso della povertà (www.savethechildren.it; consultato il 15/5/2020).

[2] A tal riguardo si veda Grotowski, J. 1968. Towards a Poor Theatre. Holstebro. Odin Teatrets Forlag. Trad. it. Per un teatro povero. 1970. Roma. Bulzoni.

[3] Per una descrizione approfondita si veda Rodari, G. 2006. Scuola, teatro, società, in Rodari, G. 2006. Il mio teatro. Corazzano (Pisa). Titivillus Edizioni.

[4] Nel paragrafo 4.1. Percorso di formazione per docenti Sentire e Comprendere, verrà trattato il processo che porta dall’esperienza corporea alla sua rappresentazione attraverso il decentramento, approfondendo una pratica di formazione psicomotoria con un gruppo di docenti.

[5] Gli interventi degli insegnanti riportati sono stati trascritti durante gli incontri di formazione da una operatrice sempre presente durante il percorso con funzione di osservazione del lavoro e documentazione. La documentazione degli incontri è avvenuta tramite raccolta di immagini e video e trascrizione degli interventi. La presenza dell’operatrice e la sua funzione sono state condivise con i docenti all’inizio del percorso.

[6] Posizione Organizzativa: ha il ruolo di coordinare il collegio docenti nella scuola dell’infanzia.

[7] Per approfondire si veda Moro, M.R. 1998. Psychothèrapie transculturelle des enfants de migrants. Paris. Dunod.

[8] Cento secondi di comunità, a cura di The Doc Village Festival: https://www.youtube.com/watch?v=wMcKpkGhCn0&fbclid=IwAR0etqknuge9PPHCzCG-12vkktO2opGLx-fQiq4AcJYxpfOIiM3WiKYupFA (consultato il 15/5/2020).