Esperienza dell'attesa e retoriche del tempo

L’impegno dell’antropologia nel campo sanitario

Giovanni Pizza

Università di Perugia

Andrea F. Ravenda

Università di Perugia

«Se i ritmi e i movimenti del tempo collettivo non si prestano

ad alcuna comprensione immediata, ci sono almeno alcuni

punti di riferimento sicuri: la grammatica e la retorica universale delle passioni»

Daniel Fabre, Carlo Levi nel paese del tempo, 1990

«Parimenti ogni cultura è innanzitutto una certa esperienza del tempo

e una nuova cultura non è possibile senza un mutamento di questa esperienza»

Giorgio Agamben, Infanzia e storia, 1978

«Insomma il tempo mi appare come una cosa corpulenta

da quando lo spazio non esiste più per me»

Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, 1 luglio 1929

Medici, antropologi, attese e mancanze

Durante[1] una ricerca etnografica in un contesto clinico, il medico neurologo, rivolgendosi ai due antropologi in una pausa di lavoro, disse: «Lavorare con voi è straordinario, ci date indicazioni minime, precise, come a disegnare una mappa di stradine e vicoli alternativi per giungere agli altri, ai pazienti. Noi, per dire, conosciamo solo la strada principale e… se la troviamo interrotta? ostacolata? Restiamo bloccati! Ma sai perché scegliamo sempre quella? Perché non abbiamo tempo. Ci vorrebbe molto più tempo per fare quello che dite…». Non era la prima volta che nell’esperienza etnografica dell’antropologia medica emergesse una rimostranza sulla mancanza di tempo (Vuckovich 1999; Strathmann, Hay 2009; Pizza 2012). D’altronde anche nell’insegnamento dell’antropologia agli studenti di medicina - corso di laurea dalla durata più lunga fra tutti – o ai corsi di formazione per medici già specializzati, le reazioni nei confronti delle difficoltà per l’antropologia medica di essere realmente operativa nei contesti clinici nascevano dall’impressione di un’impossibile dilatazione temporale, stante il portato riflessivo di una disciplina che persegue obiettivi di conoscenza critica, operativa e quindi impegnativa (Pizza 2005; Cozzi 2014). Discutendo successivamente tra noi su quella dichiarazione del neurologo, pensammo che la lamentela sulla mancanza di tempo, oltre ad essere annotata sui nostri “taccuini”, andasse approfondita, considerata non soltanto come una testimonianza della difficoltà di consilienza tra medicina e antropologia, o come un’evidenza dei vincoli reali che si frapponevano a quella collaborazione, ma forse anche come tratto saliente di un’esperienza culturale del tempo radicata su percezioni fisiche e politiche (Pizza, Ravenda 2012). In ogni caso ci trovavamo di fronte a un enunciato che andava a configurarsi come frammento narrativo dalle assonanze piuttosto familiari: nel campo scientifico-accademico, infatti, accadeva di trovarsi spesso di fronte a espressioni di rammarico relative al “tempo che manca” nella vita professionale, a causa dell’eccessiva dedizione a pratiche istituzionali, burocratiche o di audit e accountability , più che di studio, ricerca, scrittura e insegnamento (Strathern 2000). Se da un lato tali lamentele sulla mancanza di tempo, unite al rimpianto di un tempo necessario ma negato, riflettevano un’effettiva parcellizzazione dell’esperienza del tempo nei contesti istituzionali, clinici e universitari da noi frequentati (a sua volta riflesso delle difficoltà di organizzazione del tempo della vita come persone e cittadini di uno stato nazionale democratico in una fase critica di tardo capitalismo), dall’altro lato l’impressione di trovarsi dinanzi a un tratto retorico strutturale e condiviso, ancorché irriflesso, indicava una nuova traccia di ricerca. Per quanto riguarda poi il campo sanitario antropologicamente esplorato dal punto di vista dei protagonisti di tale pluralità temporale, la questione si profilava ai nostri occhi proprio nei termini in cui Antonio Gramsci, recluso nella cella di Turi dal regime fascista, aveva narrato la sua percezione incorporata del tempo, descrivendo minutamente lo sviluppo di una rosa da lui piantata nel cortile del carcere, e spiegando questa sua attitudine con un lampo riflessivo: «Insomma il tempo mi appare come una cosa corpulenta da quando lo spazio non esiste più per me» (Gramsci 1996: 270; Pizza 2003, 2012). Questa “corpulenza” del tempo, percepita nella forma di vita quotidiana della reclusione, sembrava ai nostri occhi di etnografi del campo sanitario, incarnarsi nelle posture dell’attesa degli assistiti-utenti-clienti, quando spostavamo lo sguardo dal dinamismo iperattivo dei medici alle figure dei pazienti nelle istituzioni sanitarie, disponendoci all’ascolto delle loro storie kafkiane. Storie di “pazienti di Stato” seduti in “sala d’attesa” per sottoporsi a visita medica, iscritti nelle “liste d’attesa” per usufruire di un esame specialistico o di un intervento, reificati e fissi nelle numerologie burocratiche delle misurazioni temporali (Pizza, Johannessen 2009; Aujero 2012; Ansell 2015), presi nella drammatica aspettativa di un organo per il trapianto o in una tensione religiosa, messianica (Agamben 2010; Palumbo 2015), segnata da timori e speranze, di fronte al mistero di corpi sospesi in una condizione di sonno apparente (Strathmann, Hay 2009). Eppure mai passivi, né “pazienti”, ma innervati di una capacità di agire politicamente densa, alimentata dal conflitto fra temporalità eterogene, in un'emergenza radicata nel dolore stesso, in grado di evocare spiriti di cambiamento o di non adesione, latenti o manifesti, presenti nelle forme della sofferenza silenziosa, della postura docile o dolente, o talora della protesta fisicamente spettacolare e addirittura irrelata. Forme, queste, dell’esperienza sociale, costitutive del campo sanitario contemporaneo, anche in paesi, come il nostro, in cui l’assistenza medica è pubblica e la salute è tutelata come “diritto fondamentale” dalla Costituzione della Repubblica italiana (articolo 32) (Pizza 2005; Brown et al. 2012). Queste esperienze erano spesso caratterizzate dalla profonda consapevolezza della metafora “il tempo è denaro” (Lakoff, Johnson 1980) o forse della sua versione rovesciata “il denaro è tempo”, stante l’immediata riduzione dell’attesa, previo il pagamento di interventi cosiddetti intra moenia, non ultimo gradino di un processo di privatizzazione che erode, dall’interno dello stesso sistema sanitario pubblico, il “fondamentale” diritto alla salute e costituisce un contributo a quella riproduzione dell’indifferenza che burocratizza, mercifica, espropria e disumanizza lo spazio pubblico dell’assistenza e della cura (Herzfeld 1992; Chieffi 2003; Sargent 2009; Pizza 2014).

Fu a partire da tali assonanze, dissonanze e contraddizioni che decidemmo di dedicare alla specularità fra esperienza dell’attesa e retoriche del tempo nei contesti sanitari una sessione seminariale del secondo convegno nazionale della Siaa, i cui esiti appaiono ora rielaborati in questo fascicolo di Antropologia Pubblica. Un percorso a più voci volto a esemplificare l’efficacia analitica e operativa delle etnografie incentrate sulle politiche del tempo in campo biomedico e a mostrare il senso di un contributo antropologico all’analisi sociale, culturale e politica della salute pubblica.

Salute pubblica, politiche del tempo e impegno dell'antropologia

Secondo la definizione fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, per salute pubblica si intende l’insieme delle misure organizzate e programmate da istituzioni pubbliche o private rivolte alla prevenzione di malattie e alla promozione della salute, messe in campo con l’obiettivo di prolungare la vita della popolazione mondiale. Si tratta, in sintesi, di azioni diversificate e multisituate rispetto ad articolate variabili spazio-temporali ed epidemiologiche che si concretizzano, ad esempio, in campagne di vaccinazione, controllo delle malattie infettive, promozione di stili di vita “sicuri”, della sicurezza sul lavoro, nella elaborazione di modelli di rischio principalmente fattoriali o in altri termini di riduzione della complessità in specifiche variabili determinanti e latenti (Inhorn 1995; Grier, Bryant 2005; Parker, Harper 2005; Hahn, Inhorn 2009). All’occhio dell’antropologia la definizione assume un tratto ambiguo, poiché include sia la responsabilità individuale dello “stile di vita” sia la causalità strutturale connessa alle difficoltà di rimuovere gli ostacoli che si frappongono all’accesso al diritto alla salute. Il disvelamento di tale ambivalenza definisce al tempo stesso l’avvio di un impegno dell’antropologia medica nel quadro della salute pubblica. Nell’introduzione a un numero monografico del Journal of Biosocial Science pubblicato nel 2005 e dedicato all’antropologia della salute pubblica, Melissa Parker e Ian Harper riflettono sul contributo operativo che la ricerca antropologica può dare ai piani di gestione e intervento per la prevenzione delle malattie e la promozione della salute, provando ad andare oltre la pure importante comprensione dei fattori sociali e culturali sui quali solitamente è chiamata a intervenire. Nel quadro di un’applicazione del sapere antropologico nei progetti di pianificazione della salute pubblica (Hahn, Inhorn 2009), infatti, la combinazione dei modelli fattoriali con l’epistemologia biomedica e le convenzionali pratiche cliniche che caratterizzano le problematiche inerenti la diffusione di malattie, tende a ridurre le dimensioni culturali e sociali a fattori aggiuntivi e di secondo piano rispetto ad altri fattori ritenuti più incisivi e determinanti come ad esempio quelli nutrizionali, ambientali, psicologici e genetici (Parker, Harper 2005: 1). Il ruolo ancora marginale dell’antropologia in questo settore è, secondo i due Autori, dovuto non solo alla dicotomia tra “scienza” e “cultura” operata dai professionisti sanitari spesso in maniera riduzionistica e arbitraria, ma anche a un atteggiamento subalterno della ricerca antropologica nei confronti di modelli fattoriali che riducono la complessità e che dominano nelle organizzazioni e nelle istituzioni preposte alla salute pubblica.

Come ha mostrato anni orsono l’epidemiologo Paolo Vineis (1990), si tratta di politiche di costruzione di modelli di rischio e di piani di intervento sottese da un paradigma che lega temporalmente e spazialmente la causa con l’effetto. Da una tale consapevolezza critica, appare pertanto necessario, per poter assumere funzioni concretamente operative, proporre un’antropologia della salute pubblica che tenda a riconfigurare i confini del problema sanitario e dei nessi causali come articolati processi che includono relazioni di potere (Baer et al. 2003), «volontà politiche» (Hahn, Inhorn 2009: 4), gerarchie economiche, così come le tassonomie e i concetti generati dagli stessi interventi di salute pubblica. A partire da questo impegno nella riconfigurazione dei problemi è possibile definire «nuovi contesti concettuali, conoscenze sostanziali, approfondimenti metodologici» (Parker, Harper 2005: 2). Dopotutto, il problema della riconfigurazione dei problemi appare, da oltre un ventennio, come uno dei temi centrali nel dibattito antropologico applicativo relativo alla cosiddetta antropologia pubblica o “impegnata” (Rappaport 1993; Borofsky 2000; Guerrón-Montero 2008; Colajanni 2015). In senso generale, infatti, l’antropologia applicata è considerata come la curvatura delle metodologie e delle teorie antropologiche alla soluzione di determinati problemi pratici, di carattere economico, politico, ambientale, sanitario o relativo ad altri ambiti (Kedia, van Willigen 2005; Guerrón-Montero 2008). Presupposti applicativi che nella loro apparente chiarezza e semplicità presentano tratti di ambiguità tali da aver richiesto, in più di un’occasione, riflessioni profonde sulle coordinate socioculturali e politiche che delineano l’applicazione, così come sui rapporti di forza storicamente determinati che generano o definiscono gli stessi problemi (Ravenda 2014b). Come evidenziato dall’antropologo statunitense Roy Rappaport (1993), la ricerca antropologica applicativa può essere sostanzialmente considerata un’antropologia dei problemi che assume una funzione operativa solo se può intervenire con una profondità critico-culturale, riconfigurando quei problemi che, impoveriti della propria complessità, rischierebbero di essere ridotti a dimensioni settoriali, economiche, storiche, tecniche, biologiche o culturali. Tale riconfigurazione critica dei problemi, proprio in quanto sapere prodotto in una relazione di prossimità con l’esperienza, con le pratiche, non può essere considerata come esclusiva attitudine di una specializzazione della disciplina o come esito di una ricerca applicata, ma come una prassi etnografica e politica che è sempre pubblica, potenzialmente “da usare” (Rylko-Bauer et al. 2006).

Su questa linea, l’antropologia medica come specializzazione transdisciplinare, critica e dialogica, ha riflettuto già da molto tempo sulle contrapposizioni tra ricerca accademica, azioni operative e impegno politico (Seppilli 1996, 2004; Pizza 2005) considerando il sapere prodotto nelle etnografie uno strumento utile per la formazione di professionisti sanitari sia nella progettazione di interventi sia nel campo dell’attuazione delle politiche socio-sanitarie. Analogamente, l’impegno politico è divenuto un veicolo metodologico determinante per l’accesso a particolari ambiti di ricerca così come per la produzione e analisi di dati scientifici. Il riferimento è soprattutto alle prospettive etnografiche aperte nel campo epidemiologico rispetto a problematiche sanitarie dovute alle disuguaglianze socioeconomiche globali (Biehl, Petryna 2013; Farmer 2003; Singer et al. 2012) o alla diffusione di neoplasie e patologie connesse all’inquinamento e ai crimini delle compagnie industriali in contesti lavorativi o di disastro ambientale (Balshem 1993, Petryna 2002; Ravenda 2014ab; Waldman 2011). Molti antropologi hanno lavorato in più occasioni in ambiti pubblici e legali a stretto contatto con i movimenti per la giustizia ambientale nella individuazione e analisi delle relazioni causali tra inquinamento e malattia come intersezione di molteplici variabili politico-economiche, scientifiche e storico-culturali (Agyeman, Ogneva-Himmelberger 2009; Baer, Singer 2009; Balshem 1993; Brown et al. 2012; Petryna 2002; Ravenda 2014ab; Waldman 2011). A tale proposito può essere utile riassumere un’esperienza di ricerca condotta in Puglia, rivolta all’esplorazione di ipotetici nessi eziologici tra inquinamento industriale e patologie, in un contesto dominato dalle forti tensioni tra compagnie industriali, istituzioni pubbliche e movimenti sociali per la giustizia ambientale (Ravenda 2014a). In questo caso l’etnografia può mostrare nella lunga durata come il nesso causale vada in realtà considerato come un nodo di stratificazioni temporali e continui processi di negoziazione all’interno di un campo conflittuale che si definisce sulla base di mutevoli posizionamenti, interessi diversificati, occultamenti, responsabilità, azioni giudiziarie, prove scientifiche spesso in contrasto tra loro. Le retoriche di un passato segnato dallo sviluppo industriale, le valutazioni su un presente fatto di criticità sanitarie e ambientali, la progettazione di un futuro sostenibile si costituiscono come i principali assi temporali di un problema da riconfigurare continuamente sino al cuore dei meccanismi fisico-politici (Pizza, Ravenda 2012) di gestione della salute pubblica. Si tratta della continua produzione e manipolazione di politiche del tempo incorporate dalle persone che si trovano a vivere la concreta esperienza di una quotidianità esposta agli agenti inquinanti (Petryna 2002). Rispetto a tali politiche del tempo la ricerca antropologica ha l’occasione di giocare un ruolo decisivo nello spazio pubblico come prassi di ricerca dialogica, localizzata e al contempo multisituata (Goulet, Miller 2007), capace di riconnettere sul campo fatti, discorsi, dati, persone apparentemente distanti tra di loro anche in ragione delle variabili cronotopiche che caratterizzano le diverse connessioni (Bear 2014; Palumbo 2015). Da questa prospettiva, un’antropologia della salute pubblica può dialogare con quell’epidemiologia critica che da diverso tempo ha superato le ambizioni deterministiche e fattoriali proprie del «paradigma della causa efficiente – spazialmente e temporalmente contigua all’effetto» (Vineis 1990: 3), muovendo verso l’elaborazione di modelli di rischio stocastici (Vineis 1990; Wild et al. 2008) capaci di esplorare la «pluralità delle reti di causazione» (Vineis 1990: 24) dentro una molteplicità di piani spazio-temporali e politici (Vineis 2014). Una politeticità causale che si manifesta concretamente nell’eterocronia o in altri termini come diversità nei tempi di sviluppo dei pacchetti genetici e molecolari, generativa nella materialità delle pratiche scientifiche e biomediche incorporate, di contraddittori effetti sociali e politici (Bear 2014; Palumbo 2015). Assumendo una tale posizione epistemologica, metodologica e politica, l’antropologia del tempo sanitario nelle variabili proprie delle esperienze di salute e malattia e dell’azione clinica, ci è parsa come una continua riconfigurazione della linearità temporale capace di far emergere le eterogenee pratiche del tempo, rappresentate e agite nel campo sanitario.

Pratiche del tempo in campo sanitario

Un’ulteriore descrizione etnografica può forse chiarire il rapporto fra esperienza dell’attesa e retoriche del tempo nel campo sanitario. Parimenti può segnalare la pluralità dialettica delle forme e delle pratiche della temporalità che, come detto, emerge come contraddizione allorché tale spazio sociale è attraversato dalla presenza operativa di un’antropologia pubblica.

All’avvio di una ricerca sulla diagnosi precoce dell’Alzheimer condotta in un’azienda sanitaria locale della città di Perugia, un gruppo di tre antropologi si incontrò con i neurologi per verificare la possibilità della presenza etnografica nel contesto clinico deputato all’accertamento deli “disturbi della memoria” (Pizza 2012). Durante l’incontro, gli antropologi capirono immediatamente l’aspettativa dei neurologi: il principale compito che essi richiedevano loro, consisteva nell’aiutarli a convincere i medici di medicina generale della Asl a somministrare ai pazienti un nuovo questionario elaborato dagli specialisti per rilevare più rapidamente i segni del disordine cognitivo. Il progetto costituiva la seconda fase di una sperimentazione già avviata da tempo. Due anni prima i neurologi avevano formulato il Basic Italian Cognitive Questionnaire (BICQ), uno strumento tecnico considerato essenziale per la diagnosi precoce delle cosiddette “demenze”. Rapidità, velocità e una non necessaria formazione specialistica del somministratore, erano le qualità esaltate di questo nuovo strumento diagnostico, progettato proprio al fine di semplificare e migliorare la collaborazione tra medici di medicina generale e neurologi clinici e velocizzare così l’individuazione dei “soggetti a rischio”. In tale processo, secondo i neurologi, gli antropologi avrebbero dovuto svolgere il ruolo di mediatori. In realtà, già ai primi passi della ricerca rilevammo una contraddizione: più che servire da semplice strumento diagnostico capace di individuare “persone a rischio” – e quindi in grado di favorire una “mediazione” tra medici generalisti e neurologi ospedalieri –, il BICQ sembrava fin da subito incentivare il conflitto fra i diversi protagonisti del campo sanitario, evidenziando le diverse forme e pratiche della temporalità da essi messe in opera nel rapporto con i pazienti. La facilità e rapidità sostenuta dai clinici non corrispondeva all’esigenza di una maggiore lentezza e pertinenza del dialogo avvertita dai medici generalisti nel rapporto con i pazienti. Fin dall’inizio, il tempo era apparso moltiplicarsi e stratificarsi in una polifonia di temporalità eterogenee prodotte dalle relazioni fra antropologi, neurologi ospedalieri, medici generalisti, familiari, amici e pazienti. Una polifonia irriducibile all’unisono del tempo istituzionale rispetto al quale anzi essa si configurava come una sorta di controtemporalità, ovvero una temporalità eterogenea e incompiuta, in attesa di dispiegarsi nelle sue potenzialità, suscettibili, agli occhi dell’etnografia, di ulteriori sviluppi anche in direzioni alternative dell’assetto organizzativo, e dunque trasformative e di cambiamento. Ma la retorica del tempo mancante difficilmente si apriva ad auto-scrutinarsi come possibilità di riorganizzazione temporale alternativa. Gli incontri preliminari tra medici, neurologi e antropologi avevano sempre avuto luogo in cene informali durante le quali le discussioni erano brevi a causa di problemi di “tempo” che rendevano difficile mettere insieme i diversi professionisti. Allo stesso modo, i test per il rilevamento dei disturbi cognitivi furono valutati e selezionati sulla base della rapidità nella somministrazione del questionario. Costantemente si elaboravano tecniche di somministrazione atte a evitare rallentamenti e digressioni superflue durante l’incontro medico. I neurologi clinici erano pesantemente critici verso la riluttanza dei medici di medicina generale ad adottare il loro strumento. Nella loro visione questa non-compliance produceva un aumento delle visite “superflue” presso la clinica neurologica determinando un allungamento delle liste d’attesa, aumentando il carico di lavoro e riducendo i tempi orari delle visite. I neurologi tendevano dunque ad attribuire i ritardi nelle diagnosi di malattia di Alzheimer ai medici di medicina generale, non perché li considerassero incapaci di riconoscere la patologia ma, paradossalmente, perché producevano osservazioni non oggettivanti ma troppo personalizzate, a testimonianza dell’eccessivo tempo impiegato. I neurologi consideravano tali osservazioni negativamente perché esse “prolungavano la durata” del processo diagnostico. La costante ricerca/fabbricazione di una metodologia “oggettiva” e standardizzata nel rilevamento diagnostico aveva l’obiettivo di risparmiare tempo, ma sembrava scontrarsi con le modalità interpersonali e con le metodologie dialogiche e informali messe in atto dai medici di medicina generale, e da questi considerate centrali per la loro affermazione di competenza fondata sull’esperienza. La “mancanza di tempo” era una preoccupazione comune a tutti gli attori coinvolti – clinici, medici di medicina generale e pazienti. I medici di medicina generale, le cui sale d’attesa erano sempre affollate, giustificavano il fatto di non somministrare il questionario di screening a causa della mancanza di tempo. Nel dialogo con l’etnografo essi si lamentavano della burocratizzazione statale della medicina generale, delle ingiunzioni a ridurre i tempi dell’incontro con i pazienti, che a loro avviso tendevano a depotenziare la loro conoscenza acquisita attraverso la longue durée delle relazioni storiche quasi amicali intrattenute con i pazienti più anziani. Le loro conversazioni con l’etnografo esprimevano spesso tali sentimenti di disappunto e di imbarazzo nel dover porre domande standardizzate e astratte a persone che, qualunque rischio patologico potessero presentare, conducevano comunque vite quotidiane “normali” (Pizza 2012; Lock 2013).

Questo esempio etnografico può far comprendere come le differenze interne, le relazioni di potere e i rapporti di forza alla base del campo biomedico, amministrativo e scientifico esplorato, corrispondano ad articolazioni e divisioni del lavoro materiale necessario per costruire socialmente un oggetto della medicina: in questo caso il BICQ, reso rilevante da decisioni istituzionali e da conoscenze e pratiche applicate nei molteplici contesti in cui agentività umane (pazienti, familiari, medici di medicina generale, neurologi clinici, burocrati, antropologi e i vari operatori dell’assistenza) e non umane (oggetti, tecnologie e dispositivi) sono attivate. In tale quadro si impone una visione critica nuova nei confronti della biomedicina: i medici non sono gli “oggetti” di ricerca di una antropologia medica che li “etnografa”. Sono colleghi con i quali costruire un’alleanza pratica in ragione di valori comuni, di difesa di diritti, e in vista di trasformazioni possibili. D’altra parte ciò accade anche perché l’approccio critico dell’antropologia medica si apre a nuove forme di consapevolezza. Per esempio, le malattie – l’Alzheimer nel caso riportato – non sono decostruibili unicamente come “invenzioni della tradizione biomedica” fondate su assunti ideologici “autoritari” e “riduzionistici”, ma risultano quali prodotti insieme proteiformi e concreti, ideali e materiali, evanescenti eppure resistenti proprio perché fabbricati e attivati quotidianamente nel quadro di una egemonia culturale e governamentale, una vera e propria governance epistemica, che regola gli esiti e i prodotti della conoscenza in tutti i campi scientifico-istituzionali. Si tratta dunque di esplorare etnograficamente tali laboratori politico-fisici, spazi dove la realtà istituzionale e quella corporea si fondono in un processo sociale in cui il tempo risulta ingrediente fondamentale e la polifonia temporale una stratificazione costitutiva.

Temporalità in crisi

Una lettura critica e transculturale delle politiche del tempo è stata sviluppata in antropologia a partire da molti anni (Fabian 1983; Fabre 1995; Gell 1992; Pandian 2012). Essa ha talora dialogato con le filosofie del tempo, in particolare provenienti dalla concezione marxiana della storia e dalle letture del tempo capitalistico (Agamben 1978; Frankenberg 1992). Recentemente, a fronte di una più complessa lettura antropologica del tardo capitalismo neoliberista che caratterizza i processi di globalizzazione a cominciare almeno dalla seconda metà degli anni Settanta del Novecento, si è sviluppata un’etnografia minuta delle pluralità temporali, dei conflitti e delle agentività trasformative implicite nelle dialettiche fra tempi plurimi individuate ora nel dominio di un punctuated time e nella scomparsa del «futuro prossimo» (Guyer 2007), ora in un ritrovato spazio di azione politica, una nuova constituency riaperta proprio dalle contraddizioni dell’«eterocronia» (Baer 2014; Palumbo 2015). Analogamente anche la più recente filosofia marxiana e gramsciana ha sviluppato un’importante riflessione sulle pluralità temporali, nel quadro di una nuova lettura politica della dialettica egemonica, critica e trasformativa (Thomas 2009; Tomba 2011; Basso et al. 2013). Non intendiamo qui ricostruire lo stato dell’arte nelle diverse antropologie e filosofie del tempo, ma solo di segnalare che la complessa lettura delle pluralità temporali soggiacenti alle antropologie culturali, sociali e a maggior ragione politiche, ha caratterizzato questo sviluppo analitico fino al momento contemporaneo. Oggi anche le antropologie mediche si sono andate «ripoliticizzando», non nel senso di una loro adesione a modelli “ideologici”, ovviamente, quanto della loro consapevolezza di un’ineludibile dimensione politica da considerare come metodo e oggetto di analisi antropologico-medica dei processi di salute-malattia e dell’istituzionalizzazione della cura (Mol 2008; Fassin 2014). L’analisi delle eterogeneità temporali non riducibili al tempo capitalistico, e ora neoliberale, delle burocrazie istituzionali e delle istituzioni pubbliche e private che concorrono al governo biopolitico dei corpi e dei tempi, si è andata progressivamente affermando come metodologia etnografica del campo biomedico e sanitario, almeno a partire dalle opere pionieristiche di Ronald Frankenberg (1992). Al tempo economico, politico, burocratico, studiato oggi in complesse etnografie del tempo moderno, va aggiunto dunque il «tempo sanitario», maggiormente oggetto di tali complesse dialettiche temporali nella fase della crisi economica e della sua influenza sulle esperienze del corpo, della salute e della malattia.

Nel momento contemporaneo, infatti, le già difficili possibilità di accedere alla salute appaiono ulteriormente minate dalla crisi economico-finanziaria (Keshavjee 2014). Si tratta di una fase storico-politica in cui la perdurante influenza dei fattori politico-economici sul corpo umano sembra riemergere in maniera ancora più evidente che in passato. Ciò accade attraverso una politeticità causale sulla quale, come abbiamo visto, l’epidemiologia ha ampiamente riflettuto fin dall’opera di Paolo Vineis (1990), ma anche di recente, con il suo importante congresso La salute ai tempi della crisi (Bari, 29-31 ottobre 2012, Aie 2012, Ravenda 2014a). Il contributo dell’antropologia medica in questo campo è molto strutturato, in particolare per quanto riguarda la questione politica delle disuguaglianze sociali avvertite come causalità di malattia (Seppilli 1996; Pizza 2005; Schirripa 2014).

Questa economia politica delle conoscenze biomediche è un campo di interazioni complesse, dagli esiti tutt’altro che scontati, come dimostrano le rivendicazioni sempre più articolate di movimenti politici popolari connessi al diritto alla salute (Brown et al. 2012). Le ricerche etnografiche dei praticanti dell’antropologia medica, svolte in campo sanitario, hanno difatti illuminato almeno due ordini di influenza politico-istituzionale sulla esperienza corporea: 1) la centralità dei processi di incorporazione (Csordas 1990), che ha reso prevalente la dimensione politico-fisica (o bio-politica) sottesa all’esperienza del malessere e alla ricerca di guarigione; 2) la capacità di agire dei protagonisti del campo biomedico, che è apparsa orientata non soltanto dalla loro responsabilità, né unicamente dallo specifico condizionamento culturale dei saperi e della formazione in biomedicina, quanto piuttosto da vincoli politico-economici e amministrativi, e da scelte governamentali sempre più rigide, destinate a ostacolare, se non a impedire definitivamente, l’esercizio democratico e popolare del diritto alla salute anche nel nostro paese. È dunque apparso sempre più evidente quanto l’assistenza sanitaria pubblica sia connessa alle scelte politiche di allocazione delle risorse economiche, nonché alle pratiche di azione e di sfida, di alleanza e di lotta, dei diversi agenti che operano in campo sanitario. Ciò pone questioni complesse a un’antropologia pubblica del campo sanitario che sia necessariamente un’antropologia politica della salute pubblica (Parker, Harper 2005).

In questa ottica, i processi di incorporazione che caratterizzano le esperienze di salute-malattia, assumono un significato politico oltre che fenomenologico o clinico: in definitiva essi riguardano tutti gli agenti sociali che attraversano il campo sanitario e non soltanto i “pazienti”. La salute e la malattia derivano da scelte politiche responsabili, di governo o di lotta, che appaiono disperse nel campo sociale. Per esempio, la connessione fra salute e crisi finanziaria, fra salute e smaltimento dei rifiuti, fra salute e inquinamento dell’aria e dell’acqua e così via non pone, ancora una volta, con forza, il problema di una salute intesa non come equilibrio armonico, esito di un corretto stile di vita, ma, più materialmente, come possibilità di accesso alle risorse che rendono possibile la vita? Non dovrebbero essere queste, oggi, le conoscenze e le esperienze evidence based del campo sanitario?

Dunque non è più possibile per l’antropologia parlare concretamente di salute o di malattia senza una preliminare riflessione oltre che sul corpo anche sul tempo. Come il corpo e lo spazio, il tempo è un elemento fondamentale di tale incessante fenomenologia politica della salute, nonché un tratto saliente atto a svelare, se esplorato con gli strumenti dell’antropologia, le più intime contraddizioni dei modi di produzione della salute e della malattia nel momento contemporaneo. I processi di aziendalizzazione e di burocratizzazione del campo sanitario hanno reso la quantificazione del tempo non soltanto l’oggetto di scelte organizzative, ma una vera e propria modalità di misurazione dell’efficienza clinica centrata sulla dialettica della velocità e della lentezza. L’erosione del diritto alla salute, resa ancora più iridescente dagli effetti necropolitici del neoliberismo nell’attuale crisi economico-finanziaria, conduce a una percezione del tempo per certi versi paradossale. Esso appare breve quando dovrebbe essere lungo e si allunga quando dovrebbe essere rapido. Da un lato si determina una velocizzazione frenetica e quantitativa dei ritmi imposti dall’organizzazione aziendale dei servizi che incidono sullo stesso incontro medico-paziente, sulla “visita”; dall’altra si determina una forma di esperienza sociale costituita dall’attesa da parte dei cittadini per l’accesso ai servizi, una lunga durata derivante dai tagli alla spesa sanitaria pubblica. Tali effetti negativi sul diritto alla salute nella fase neoliberista del «capitalismo veloce» (Holmes, Marcus 2006) sono l’oggetto di nuove ricerche antropologiche da mettere in campo in dialogo e alleanza con il mondo della biomedicina democratica, ovvero di quanti, dall’interno del campo biomedico, avvertono l’urgenza di esplorare gli effetti di tali processi contemporanei di crisi della salute nazionale e globale (Singer, Erickson 2009). Ma tali collaborazioni non potranno non riflettere sulla loro funzione operativa oltre che esplorativa e interpretativa.

Laboratori di consilienza fra medicina e antropologia

«Non c’è bisogno di un paziente particolarmente introspettivo per cogliere l’evidente connessione tra il tempo e la propria esperienza della medicina. La medicina sembra essere […] una cultura dell’attesa». Così apriva Ronald Frankenberg (1992: 1) la sua introduzione all’importante opera collettiva sul tempo, la salute e la medicina nei mondi contemporanei. Veniva introdotta (in maniera del tutto originale rispetto alle antropologie mediche classiche, incluse quelle critiche) una lettura pratico-critica delle esperienze culturali della malattia e della sua cura nei contesti istituzionali della biomedicina, fondata sul confronto fra gli esiti di ricerche etnografiche dei diversi strati temporali soggiacenti al campo sanitario e in grado di valutare il gradiente di conflitto fra essi, la loro capacità di produrre nuova cultura, la loro dialettica egemonica, ovvero la connessione fra esperienze dell’oppressione e forme e pratiche del riscatto agentivo. Ciò che ai nostri occhi aveva reso potente quell’approccio impresso da Frankenberg, era la consapevolezza che una possibile trasformazione delle culture biomediche fosse possibile denaturalizzando le pluralità temporali che le strutturano, e agendo in dialogo critico con esse. Non rigettando o rifiutando totalmente la pratica biomedica, considerandola oppressiva in quanto connessa a un unico modello temporale dominante. In questa reciproca demarcazione della riflessione sul tempo nel campo biomedico, risiede l’originalità della posizione di Frankenberg, raffinatamente critica ora verso il marxismo ideologico ora verso le forme oppressive del tardo capitalismo, nell’intento di mostrare i limiti speculari di sistemi di istituzionalizzazione sanitaria apparentemente alternativi (dal privato al pubblico, dagli USA all’Unione Sovietica, allora appena crollata come sistema statale e politico).

Questa consapevolezza è oggi alla base di un dialogo urgente fra medici e antropologi sul terreno dell’uso sociale e pubblico dell’antropologia medica e della sua dimensione operativa e pratico-politica costituita dall’esercizio etnografico. Su tali basi, infatti, diventano necessari e urgenti studi pratici, laboratori sperimentali plurali e co-disciplinari, ricerche operative e impegnate, incontri nuovi fra antropologia e biomedicina in grado di costruire modi di co-produzione del futuro. Tale urgenza può fondarsi sulla ricerca, anche nel campo della formazione, di forme di consilienza, cioè di esperienze di aggregazione e convergenza fra saperi e pratiche conoscitive provenienti da campi diversi (Slingerland, Collard 2001; Pizza 2015). Questa ricerca, tuttavia, non è facile. Nuovi ostacoli si frappongono al dialogo. Proprio alla luce dei risultati che l’azione dell’antropologia sul campo sanitario lascia intravvedere – sia come critica dell’organizzazione aziendale esistente sia come possibilità di cambiamento o di valorizzazione di laboratori sperimentali o di consilienza fra campo antropologico e sanitario – e a fronte delle evidenti difficoltà istituzionali che il campo sanitario vive, le professionalità della biomedicina hanno elaborato la “retorica del tempo che manca”. Si tratta di una lamentela sulla mancanza di tempo che emerge sempre di più nel dialogo con l’antropologia medica e punta a giustificare le difficoltà di perseguire appieno le indicazioni operative che provengono dalla ricerca antropologica in ambito clinico-sanitario. Tale retorica, peraltro, include un altro genere di enunciati che ricorre nello spazio pubblico della salute: le lamentele sulla mancanza di risorse economiche. Mancanze che invece sono sempre l’esito di precise scelte di allocazione delle risorse disponibili, che vanno nella direzione di una mercificazione della salute e di un attacco ai diritti e al welfare.

Le forme di vita della sanità oggi producono soprattutto esperienze dell’attesa, diverse percezioni e organizzazioni del tempo, retoriche e lamentele del “tempo che manca” o del “tempo che ci vorrebbe”. Un peculiare “tempo sanitario”, perduto o ritrovato, ridotto o esteso, sospeso o prolungato, mercificato, riscattato, trasceso o conquistato, fuori le mura o intra moenia, a seconda dei casi. In questi contesti neoliberisti, dove la crisi diventa difficoltà di accedere alle risorse che garantiscono il diritto alla salute, il compito dell’antropologia medica a vocazione operativa è più che mai strategico. D’altronde, come conseguenza della riflessività antropologico-medica, le stesse rigide dicotomie normale/patologico e salute/malattia hanno già perso la loro apparente fissità e sono diventate problematiche, dialettiche, variabili, connesse cioè alle egemonie culturali e morali e ai rapporti di forza che regolano la vita sociale. La presenza dell’antropologo nei contesti sanitari può dunque far emergere le contraddizioni, attivare trasformazioni sulla base dell’insorgenza di alleanze o di laboratori sperimentali con i colleghi medici. Ciò è possibile soltanto a partire da una reciproca e nuova disposizione a incontrarsi, anche attraverso forme di autocritica, di riflessività, di autoscrutinio. Per quanto riguarda gli antropologi: a fronte delle attuali evidenze politico-corporee, appare oggi superata e non più centrale la classica critica antropologica di “riduzionismo” rivolta allo sguardo medico-scientifico. Occorre, cioè, mettere il cosiddetto “riduzionismo” fra parentesi per agire in una cornice comune.

Per quanto riguarda i medici: alla luce delle evidenze degli effetti della crisi economica sulla salute umana risulta urgente una nuova riflessione sulla centralità della dimensione sociopolitica della malattia. Si tratta allora di coniugare definitivamente la propria visione scientifica e la propria responsabilità professionale a una concezione di salute come diritto umano e bene collettivo. E di promuovere ricerche e azioni comuni, in grado di offrirsi come contributi concreti alle politiche di superamento della sofferenza globale.

Prospettive etnografiche sulla pluralità del tempo sanitario

Attraversando le linee che abbiamo provato a tracciare, i saggi contenuti in questo volume si compongono rispetto a un’articolata eterogeneità dei contesti di ricerca e dei paradigmi teorico-metodologici di riferimento, ponendosi come prospettive etnografiche e operative sulle molteplici stratificazioni di un tempo percepito, agito e rappresentato all’interno delle complesse e conflittuali dinamiche del campo sanitario. Un incessante interscambio trasformativo tra il tempo e i diversi processi delineati nel tempo (Gell 1992) è stato affrontato dal versante di un’antropologia medica critica e pubblica, sia come dinamico oggetto di studio sia, in modo pressoché simultaneo, come fattore metodologico determinante nella ricerca etnografica di lunga durata (Fabian 1983; Palumbo 2009) e nella progettualità applicativa (Colajanni 2015). In tale quadro generale, le ricerche qui raccolte esaminano specifici segmenti spazio-temporali del campo sanitario di volta in volta disarticolati dalla loro apparente ovvietà lineare ed esplorati rispetto alle variabili determinanti e ai rapporti di forza espressi nei contesti etnografici.

Per queste ragioni, nella sequenza dei contributi presentati, le esperienze dell’attesa, le retoriche del “tempo che manca”, la capacità di agire degli attori coinvolti, così come le restrizioni o dilatazioni spazio-temporali che contrassegnano le dimensioni corporee della sofferenza, più che costituire specifici temi di ricerca hanno assunto la funzione di linee di attraversamento e riconfigurazione della contraddittoria esperienza di un tempo sanitario eterogeneo: linee della vita e della morte, della disabilità e della dipendenza, della violenza e del malessere, della salute perduta e ritrovata. Il tempo unico, istituzionale e apparentemente dominante, si sfrangia in una molteplicità di forme temporali incorporate che l’etnografia si rivela in grado di valorizzare. Il tempo sanitario non risulta unico, né dicotomizzato in “tempo biomedico” e “tempo della malattia”, ma si moltiplica in rapporto alla materialità degli inquadramenti sociali, nelle pratiche incorporate dei diversi soggetti agenti e nelle stesse azioni biomediche e fisico-politiche che lo definiscono sia come modello di riferimento sia come oggetto di contesa.

Annamaria Fantauzzi affronta il tema della percezione del tempo per un malato terminale di cancro all’interno di un Hospice nella città di Aosta. La ricerca etnografica esplora i complessi nodi temporali dell’attesa rispetto alla gestione delle cure palliative realizzate dai professionisti del settore sanitario. In maniera correlata il tempo dilatato e compresso del fine vita conduce a una riflessione sul posizionamento e sul ruolo operativo del ricercatore in rapporto al lavoro dello staff medico e alla sofferenza della persona assistita e dei suoi familiari. Il protagonismo numerico – inteso come quantificazione del tempo e misurazione dei corpi nel parto ospedaliero – è il principale focus della ricerca condotta da Annachiara Nicodemo nella città di Salta nel Nord-Est dell’Argentina. A partire da una prospettiva integrata tra antropologia e psicologia, l’autrice analizza le prassi che conducono al ricovero ospedaliero riducendo il ruolo della donna a mero paziente, depauperata delle proprie capacità decisionali e delle possibilità di azione. La manipolazione del tempo nei protocolli ospedalieri del parto ritarda il primo contatto tra madre e figlio per favorire le necessità burocratiche e organizzative. Ne consegue una dipendenza dalle pratiche mediche che trasforma il corpo umano in un semplice campione di laboratorio.

Si riferisce al campo della sordità il contributo di Fabrizio Loce Mandes. Facendo riferimento a una etnografia condotta nella città di Perugia, l’autore propone il caso di un percorso educativo alla lingua italiana dei segni (LIS) dopo il fallimento di più interventi di applicazione di un impianto cocleare. Il saggio mostra come le esigenze di “urgenza” e “rapidità” nell’intervento definiscano le strategie terapeutiche all’interno degli spazi sanitari divenendo allo stesso tempo fattori politici determinanti nelle controversie pubbliche tra associazioni di sordi e istituzioni sanitarie circa la scelta tra l’apprendimento della lingua dei segni e l’applicazione di un impianto cocleare. Il tempo della ricerca etnografica in una prospettiva pratica e operativa, rapportata alle esigenze e ai risultati richiesti dall’ente committente è, invece, il tema trattato da Filippo Lenzi Grillini. Il saggio si riferisce a una ricerca sulle dipendenze da gioco d’azzardo commissionata dalla ASL di Siena offrendo un’analisi riflessiva sulle divergenze tra l’etnografo e i diversi professionisti nel campo sanitario rispetto ai tempi dell’indagine qualitativa. Nella sua etnografia sulle donazioni di sangue e di cordone ombelicale in una struttura sanitaria in Toscana, Luigigiovanni Quarta si concentra a esaminare una vera e propria “battaglia epistemologica” che si viene a determinare tra i saperi biomedici e le pratiche del dono nello spazio sanitario. Per l’autore, la pluralità delle logiche che caratterizzano lo spazio sanitario ha nella concezione del tempo un ulteriore equivoco poiché gli attori sociali in gioco (i medici, i pazienti, i donatori) producono diverse esperienze del tempo che coesistono all'interno del reparto ospedaliero dando vita a conflitti politici, psicologici e personali.

Il consenso informato come prassi biomedica e legale diviene per Chiara Quagliariello occasione per un’articolata riflessione sul tempo concesso e su quello negato nella relazione medico paziente. Il “tempo che manca” – una retorica che caratterizza frequentemente i discorsi dei medici – corrisponde solo parzialmente alla quantità di tempo disponibile per l’informazione e l'ascolto dei pazienti. Da una tale prospettiva, il saggio evidenzia come una vasta gamma di fattori, non esclusivamente collegati alle limitazioni materiali imposte dai modelli economici del lavoro del medico, contribuisce alla gestione del tempo dedicato al consenso informato. I rapporti di forza all'interno del personale medico così come le caratteristiche socio-culturali dei pazienti influenzano il processo di informazione e, più in generale, la “qualità” delle interazioni medico-paziente.

A conclusione del volume, il saggio di Andrea F. Ravenda, si riferisce a un’etnografia condotta in un’area del Centro Italia dentro alcune strutture per il trattamento di persone con gravi lesioni cerebrali acquisite. L’autore analizza l’incisività che le diverse dimensioni di un tempo continuamente agito e rappresentato, possono avere rispetto alla complessa esperienza di persone (e famiglie) che si trovano ad attraversare le fasi della cosiddetta “scala di recupero dal coma”. Connettendo frammenti etnografici riferiti alle dimensioni biomedica (la prassi clinica), relazionale (il ruolo della famiglia) e corporea (la sofferenza della persona assistita) è analizzata la tensione trasformativa e generativa tra i diversi segmenti spazio-temporali verso la costruzione di nuovi processi di naturalizzazione che riguardano tutti gli attori sociali coinvolti.

Tutte le ricercatrici e i ricercatori sono pienamente coinvolti nei processi trasformativi esaminati. Pertanto le etnografie presentate assumono una forte valenza operativa, che potrebbe rivelarsi in grado di coniugare la pluralità temporale delle esperienze del malessere alle eterocronie biomediche del campo sanitario. Impegnate direttamente nel processo di trasformazione, tali ricerche possono infatti usare gli strumenti dell’azione antropologica, per mediare e ricongiungere le eterogeneità del tempo in un laboratorio pubblico capace di produrre nuova conoscenza e di sperimentare forme inedite di relazione e interazione fra i diversi agenti del campo sanitario. Un’antropologia medico-politica della salute è dunque in atto. Essa intreccia l’impegno scientifico e politico all'uso sociale del proprio sapere e a prospettive operative, di ricerca e azione trans-scientifica, co-disciplinare ed extra-accademica, contribuendo a delineare strategie di riqualificazione democratica della convivenza sociale. Queste etnografie medico-pubbliche, proprio perché discendono nelle pluralità degli strati temporali, possono favorire le possibilità di dialogo operativo fra antropologi, medici e altri agenti del campo sanitario. L’obiettivo è andare oltre le intenzioni della trans-disciplinarità teorica per immaginare forme nuove di collaborazione scientifica e di alleanza pratica e sociale. Purché si accetti una cornice e un percorso comuni: la lotta per il riconoscimento e la piena realizzazione del diritto alla salute.

Bibliografia

Agamben, G. 1978. «Tempo e storia. Critica dell’istante e del continuo», in Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Agamben. G.. Torino. Einaudi: 89-107.

Agamben, G. 2010. Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani. Torino. Bollati Boringhieri.

Agyeman, J., Ogneva-Himmelberger, Y. (eds). 2009. Environmental Justice and Sustainability in the Former Soviet Union. Cambridge Massachusetts. The MIT Press.

Aie [Associazione italiana di epidemiologia]. 2012. La salute al tempo della crisi. XXXVI congresso annuale Aie. Epidemiologia e Prevenzione. Rivista fondata da Giulio A. Maccacaro: 36 (5).

Ansell, A. 2015. Waiting in the Face of Bare Life. http://somatosphere.net/2015/10/waiting-in-the-face-of-bare-life.html (sito internet consultato in data 20/03/2016).

Auyero, J. 2012. Patients of the State: The Politics of Waiting in Argentina. Durham NC. Duke University Press.

Baer, H. A., Singer, M. Susser, I. 2003. Medical Anthropology and the World System: A Critical Perspective. Westport. Praeger.

Baer, H., Singer, M. 2009. Global Warming and the Political Ecology of Health: Emerging Crises and Systemic Solutions. Oxford. Left Coast Press.

Balshem, M. 1993. Cancer in the Community: Class and Medical Authority. Washington. Smithsonian Institution Press.

Basso, L., Bracaletti, S., Farnesi Camellone, M., Frosini, F., Illuminati, A., Marcucci, N., Morfino, V., Pinzolo, L., Thomas, P.D., Tomba, M. 2013. Tempora multa. Il governo del tempo. Milano-Udine. Mimesis.

Bear, L. 2014. Dubt, Conflict, Mediation: the Anthropology of Modern Time. Journal of the Royal Anthropology Institute, (N.S.): 3-30

Biehl, J., Petryna, A. (eds). 2013. People come First. Critical Studies in Global Health . Princeton and Oxford. Princeton University Press.

Borofsky, R. 2000. Public Anthropology: Where to? What Next? Anthropology Newsletter, 41

Brown, Ph., Morello-Frosch, R., Zavestoski, S., and the Contested Ilnesses research Group (eds). 2012. Contested Illnesses. Citizens, Science, and Health Social Movements. Berkeley-Los Angeles-London. University of California Press.

Chieffi, L. (a cura di). 2003. Il diritto alla salute alle soglie del terzo millennio. Profili di ordine etico, giuridico, economico. Torino. Giappichelli.

Colajanni, A. 2015. Editoriale. Antropologia Pubblica. Antropologia Pubblica, 1 (1): 7-10.

Cozzi, D. 2014. Stato dell’antropologia medica nella didattica universitaria italiana. AM. Rivista della società italiana di antropologia medica, 38: 191-208.

Csordas, T. 1990. Embodiment as a Paradigm for Anthropology. Ethos. Journal of the Society for Psychological Anthropology, 18 (1): 5-47.

Fabian, J. 1983. Time and the Other: How Anthropology Makes its Object, New York. Columbia University Press.

Fabre, D. 1995 [1990]. «Carlo Levi nel paese del tempo», in Nel paese del tempo. Antropologia dell’Europa cristiana. Charuty G. (a cura di). Napoli. Liguori: 17-45.

Farmer, P. 2003. Pathologies of Power. Health, Human Rights, and the New War on the Poor , Berkeley, Los Angeles, Oxford. University of California Press.

Fassin, D. 2014. Ripoliticizzare il mondo. Studi antropologici sulla vita, il corpo e la morale. Verona. Ombre Corte.

Frankenberg, R. 1992. «“Your time or mine”: temporal contradictions of biomedical practice», in Time, Health and Medicine. Frankenberg R. (ed). London-Newbury-New Delhi. Sage: 1-30.

Gell, A. 1992. The Anthropology of Time. Oxford. Berg.

Gramsci A. 1996. Lettere dal carcere. 1926-1937. Santucci, A. (a cura di). Palermo. Sellerio. II volumi.

Grier, S., Bryant. C.A. 2005. Social Marketing in Public Health. Annual Review of Public Health, 23: 319-339.

Goulet, J.G.A., Miller, B.G. (eds). 2007. Extraordinary Anthropology. Transformations in the Field. Lincoln. University of Nebraska Press.

Guerrón-Montero, C. 2008. Introduction: Preparing Anthropologist for the 21st Century. NAPA Bulletin, 29: 1-13.

Guyer, J. 2007. Prophecy and the Near Future: Thoughts on Macroeconomic, Evangelical, and Punctuated Time. American Ethnologist, 34 (3): 409-421.

Hahn, R., Inhorn, M. (eds). 2009. Anthropology and Public Health: Bridging Differences in Culture and Society. New York. Oxford University Press.

Herzfeld, M. 1992. The Social Production of Indifference. Exploring the Symbolic Roots of Western Bureaucracy. Chicago and London. The University of Chicago Press.

Holmes, D., Marcus, G.E. 2006. «Fast Capitalism: Para-Ethnography and the Rise of the Symbolic Analyst», in Frontiers of Capital. Ethnographic Reflections on the New Economy, Fischer M.S., Downey G. (eds). Durham and London. Duke University Press: 33-57.

Inhorn, M. 1995. Medical Anthropology and Epidemiology: Divergences or Convergences? Social Science and Medicine, 40: 285-290.

Kedia, S., van Willigen, J. 2005. Applied Anthropology. Domains of Application. Westport. Praeger.

Keshavjee, S. 2014. Blind Spot. How Neoliberalism Infiltrated Global Health. Oakland California. University of California Press.

Lakoff, G., Johnson, M. 1980. Metaphors We Live By. Chicago. University of Chicago Press.

Lock, M. 2013. The Alzheimer Conundrum. Entanglement of Dementia and Aging. Princeton. Princeton University Press.

Mol, M. 2008. The Logic of Care. Health and the Problem of Patient Choice. London and New York. Routledge.

Palumbo, B. 2009. Politiche dell’inquietudine. Passioni, feste e poteri in Sicilia. Firenze. Le Lettere.

Palumbo, B. 2015. Movimenti sociali, politica ed eterocronia in una città siciliana. Anuac. Rivista dell’Associazione Nazionale Universitaria Antropologi Culturali, 4 (1): 8-41.

Pandian, A. 2012. The Time of Anthropology: Notes from a Field of Contemporary Experience. Cultural Anthropology, 27 (4): 547-571.

Parker, M., Harper, I. 2005. The anthropology of public health. Journal of Biosocial Science, 2005 (00): 1-5.

Petryna, A. 2002. Life Exposed: Biological Citizens after Chernobyl. Princeton. Princeton University Press.

Pizza, G. 2003. Antonio Gramsci e l’antropologia medica ora. Egemonia, agentività e trasformazioni della persona. AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica, 15-16: 33-51.

Pizza, G. 2005. Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo. Roma. Carocci.

Pizza, G. 2012. Second nature: on Gramsci’s anthropology. Anthropology & Medicine, 19 (1): 95-106.

Pizza, G. 2014. Antropologia medica e governo dei corpi. Appunti per una prospettiva italiana. AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica, 37: 51-58.

Pizza, G. 2015. Il tarantismo oggi. Antropologia, politica, cultura. Roma. Carocci.

Pizza, G., Johannessen, H. (eds). 2009. Embodiment and the State, Health, Biopolitics and the Intimate Life of State powers. AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica, 27-28.

Pizza, G., Ravenda, A.F. (a cura di). 2012. Presenze internazionali. Prospettive etnografiche sulla dimensione fisico-politica delle migrazioni in Italia. AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica, 33-34.

Rappaport, R. 1993. Distinguished Lecture in General Anthropology: The Anthropology of Trouble. American Anthropologist, 95 (2): 295-303.

Ravenda, A.F. 2014a. “Ammalarsi di carbone”. Note etnografiche su salute e inquinamento industriale a Brindisi. AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica, 38: 615-633.

Ravenda, A.F. 2014b. Antropologia applicata e inquinamento industriale a Brindisi. Problemi e nessi da riconfigurare. Dada. Rivista di Antropologia post-globale, 2: 229-248.

Rylko-Bauer, B., Singer, M., van Willigen, J. 2006. Reclaming Applied Anthropology: its Past, Present and Future. American Anthropologist, 108 (1): 178-190.

Sargent, C. 2009. Speaking to the national health crisis. Medical Anthropology Quarterly , 23(3): 342-349.

Schirripa, P. 2014. Ineguaglianze in salute e forme di cittadinanza. AM. Rivista della società italiana di antropologia medica, 38: 59-80.

Seppilli, T. 1996. Antropologia Medica: fondamenti per una strategia. AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica, 1-2: 7-22.

Seppilli, T. 2004. «Introductory Speech», in Medical Anthropology, Welfare State and Political Engagement, Fainzang, S. Schirripa P. Comelles J. M., van Dongen E. (a cura di). AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica, 17-18: 41-49.

Singer, M., Bulled, N., Ostrach, B. 2012. Syndemics and Human Health: Implications for Prevention and Intervention. Annals of Anthropological Practice, 36 (2): 205-211.

Singer, M., Erickson, P. I. 2009. The future of medical anthropology: meeting global health challenges. Anthropology News, December: 13, 15.

Slingerland, E., Collard, M. (eds). 2011. Creating consilience. Integrating the sciences and the humanities. Oxford. Oxford University Press.

Strathern, M. 2000. (ed). Audit Cultures. Anthropological studies in accountability, ethics and the academy. London and New York. Routledge.

Strathmann, C.M., Hay, M.C. 2009. Working the Waiting Room: Managing Fear, Hope, and Rage at the Clinic Gate. Medical Anthropology, 28 (3): 212-234.

Thomas, P.D. 2009. The Gramscian Moment. Philosophy, Hegemony, and Marxism. Leiden. Brill.

Tomba, M. 2011. Strati di tempo. Karl Marx materialista storico. Milano. Jaca Book.

Vineis, P. 1990. Modelli di rischio. Epidemiologia e causalità. Torino. Einaudi.

Vineis, P. 2014. Salute senza confini. Le epidemie al tempo della globalizzazione. Torino. Codice.

Vuckovich, N. 1999. Fast Relief: Buying Time with Medications. Medical Anthropology Quarterly, 13 (1): 51-68.

Waldman, L. 2011. The Politics of Asbestos: Understandings of Risk, Disease and Protest. London. Routledge.

Wild, C., Vineis, P., Garte. S. (eds). 2008. Molecular Epidemiology of Chronic Diseases. West Sussex. John Wiley e Sons.



[1] Concepito in comune dai due Autori, questo testo è stato scritto da G. Pizza per i paragrafi primo, terzo, quarto e quinto e da A. F. Ravenda per i paragrafi secondo e sesto.