Contrastare l’odio

L’uso dell’antropologia nella comunicazione pubblica tra sentimenti, populismo e impegno politico. Un'introduzione

Pietro Meloni

Università di Siena

Francesco Zanotelli

Università di Messina

Indice

Contrastare l’odio: una proposta antropologica
Odiare: una passione ordinaria
Populismo e precarizzazione
Ordine e decoro
Gli ab/usi dell’antropologia
Bibliografia

Contrastare l’odio: una proposta antropologica

La sezione di Antropologia Pubblica che introduciamo raccoglie alcuni risultati di ricerca inizialmente presentati nella sessione da noi curata al VI° convegno annuale della SIAA (Società Italiana di Antropologia Applicata), tenutosi a Cremona dal 13 al 15 dicembre 2018. L’idea era nata da un nostro comune interesse sull’odio social(e), tema che sempre più impegna la comunicazione quotidiana sotto la categoria più nota di hate speech, su cui l’antropologia non ha prodotto studi sistematici. Volevamo inoltre riflettere sull’utilizzo, nel campo della comunicazione, di termini, concetti e categorie, che sono stati riletti ad uso dei movimenti etnici, nazionalisti, neofascisti, leghisti e post-coloniali, per giustificare l’odio verso l’altro. Questo secondo aspetto è stato invece oggetto di riflessione in antropologia, anche se per lo più incentrato sul concetto di cultura e sull’uso che ne hanno fatto gli antropologi. Pensiamo, ad esempio, al dibattito degli anni Novanta del secolo scorso animato da Richard Fox in Recapturing Anthropology (1991). In quel volume Lila Abu-Lughod criticava aspramente James Clifford e George Marcus, colpevoli di aver scritto una introduzione, quella di Scrivere le culture (1997), in cui l’uso del concetto di cultura appariva parziale, dimentico dei fondamentali contributi portati dall’antropologia femminista e da quella prodotta dagli “halfies”. Abu-Lughod asseriva convintamente che bisognava scrivere contro le culture (1991: 466), perché scriverne a favore significava al contempo reificarla. Alcuni anni dopo Ulf Hannerz (2001), ripercorrendo quel dibattito, sosteneva che la credibilità dell’antropologia passava anche dalla capacità di spiegare con autorevolezza l’importanza di termini e categorie antropologiche così da demistificare le interpretazioni strumentali a cui sono soggette.

Se guardiamo oggi a espressioni come cultura, relativismo, identità, tradizione, appartenenza, etnia ed etnicità, patrimonio culturale ma anche patria, cittadinanza, egemonia, razza, genetica e differenza, vediamo che sono quotidianamente utilizzate in campo politico. Stiamo pensando, in questo caso, alla comunicazione online di politici e personaggi della sfera pubblica che utilizzano l’odio per acquisire consenso. Politici come Matteo Salvini e Giorgia Meloni, solo per citare i più noti di una legione di beneficiari dei discorsi d’odio, sono un buon esempio dell’uso strumentale, errato, pregiudiziale di tutti i termini sopraccitati. I social media, da questo punto di vista, funzionano nello stesso modo del “capitalismo a stampa” che dava forma alle comunità immaginate di Benedict Anderson (2018), permettendo cioè a persone che vivono in diverse parti di una nazione – e molto spesso anche oltre i confini nazionali – di coltivare una condivisa idea di comunità, sentirsi parte di un gruppo che guarda il mondo attraverso la lente diffusa del populismo. Queste persone – e avremo modo di tornarci in modo più puntuale nei prossimi paragrafi – rappresentano quelle che Arjun Appadurai (2012) ha chiamato “comunità di sentimento”.

Abbiamo messo a confronto i discorsi e le pratiche di odio contemporanee con alcune parole chiave che contraddistinguono l’antropologia per mostrare qualcosa che a molti appare ovvio: il razzismo poggia su un’idea essenzialista di cultura, l’identità etnica è oggi usata come sostituto della razza, la tradizione, il patrimonio e i fenomeni di revivalismo portano spesso al populismo. L’uso di termini che riguardano da vicino la nostra disciplina – perché introdotti dagli antropologi o perché oggetti d’analisi per lungo tempo – ci ha portato a interrogare il tipo di azioni che gli antropologi possono portare avanti in questa temperie culturale: cosa possiamo dire sulla cultura, sull’etnia, sull’identità, sulla tradizione, per offrire una lettura che sia al tempo stesso ampiamente divulgativa – ossia rivolta alle masse che di queste parole abusano – e fortemente critica? Come ripensare il dibattito degli anni Novanta oggi? Il panel, da questo punto di vista, voleva essere un tentativo di riprendere in mano questo dibattito e cercare di trovare nuovi percorsi di riflessione per un duplice obiettivo: smascherare le pratiche e i discorsi di odio, da una parte, fornire strumenti per contrastarlo, dall’altra.

Gli autori che sono intervenuti a dibattere nel panel all’interno del convegno SIAA di Cremona[1], di cui solo una parte compare in questo numero, hanno accolto le nostre suggestioni, sviluppando riflessioni ancorate alla pratica etnografica per tentare di spiegare come si costruisce oggi l’odio e come si esprime nei mezzi di comunicazione. In alcuni casi, come vedremo, si avanzano anche ipotesi sull’uso del bagaglio di teorie e strumenti della disciplina antropologica per decostruire i discorsi d’odio e per contrastarli con altre pratiche, discorsive e non solo.

Odiare: una passione ordinaria

Il 26 luglio 2019 un barcone affonda nelle acque libiche. Le vittime sono circa 150. Tra i soliti commenti su Facebook, animati da soddisfazione e razzismo, ne spunta uno particolarmente cruento, ripreso da diverse testate giornalistiche e postato sulla pagina Facebook di Enrico Mentana come esempio di un ormai dilagante odio. L’utente così commenta: «potevano starsene a casa loro buon appetito pesci». Mentana scrive «tra i commenti che ho mostrato nel post di poco fa ce n’è uno raccapricciante per la doppiezza che esprime. Guardate l’immagine del profilo». Cosa c’è nell’immagine del profilo dell’utente che commenta con tanta freddezza e crudeltà la morte di 150 persone? Una madre che abbraccia il figlio con sotto la scritta “verità per i fatti di Bibbiano”.

FIG. 1

I commenti riportati nello screenshot della notizia postata su Facebook appartengono tutti a profili di utenti donne (o che come tali si presentano). Abbiamo scelto questo post per due motivi: da una parte per denunciare la normalizzazione dei discorsi d’odio (a scrivere questo commento non è infatti un esponente di estrema destra ma quella che, attraverso il profilo social e l’autorappresentazione digitale, è a tutti gli effetti un buon esempio di classe media)[2], dall’altra per riflettere su come i discorsi d’odio facciano leva su paure legate al quotidiano, favorendo la costruzione di soggetti deboli necessitanti di tutela e protezione – come possono essere i bambini e le donne in un società paternalista – che possono essere esibiti con finalità politiche.

Conosciamo ormai da decenni la strategia della “vittima ideale” – i bambini di Bibbiano ne sono un buon esempio – utilizzato in modo strumentale per aumentare consenso politico eppure, nonostante le critiche e la decostruzione costante, si tratta di una forma comunicativa ancora vincente. È guardando alle vittime ideali, che possiamo capire meglio come mai una classe media che rappresenta bene la miseria del mondo contemporaneo (Bourdieu 2015), possa odiare in modo “naturale”[3].

Ci ritorneremo anche nel paragrafo successivo, approfondendo gli aspetti legati all’economia e alla distinzione sociale. Per il momento, cerchiamo di mettere a fuoco l’idea di vittima ideale, perché aiuta a comprendere meglio il dilagare dell’hate speech. A tutti è evidente la critica che spesso viene rivolta nei social e nei canali informativi italiani (e non solo) riguardo i migranti: sono in salute, muscolosi, non sembrano affatto denutriti, sono soprattutto uomini ecc. Dentro queste affermazioni si cela il paradigma della vittima ideale. Ne ha parlato Birgitta Hojier in riferimento ad una indagine massmediale sulla compassione globale condotta in Norvegia e Svezia nei primi anni 2000. Hojier sostiene che esistano delle vittime ideali, capaci di suscitare compassione nello spettatore, in contrasto con vittime che invece non vengono ritenute tali. I giovani maschi, ad esempio, sono spesso associati a «fazioni politiche e violente, e possono anche morire di fame a migliaia, senza creare un minimo di interesse sul loro status di vittima» (Hojier 2004: 517). Nell’immaginario populista contemporaneo i barconi sono spesso associati a potenziali minacce: quanti potenziali stupratori, spacciatori, terroristi si nascondono tra i migranti che sbarcano, o chiedono di sbarcare sulle “nostre” coste? “Potevano rimanere a casa loro” è il commento di molti utenti, come a voler sottolineare che non vi è una reale necessità e che la loro presenza estetica non comunica affatto uno stato di bisogno. L’odio che si genera in questa relazione sembra poter essere compreso nella distanza che separa il noi da il loro. Come scrive Luc Boltanski, in un celebre testo sul rapporto di “sofferenza a distanza”

l’infelice che soffre e colui che guarda sono, per definizione, nulla l’uno per l’altro. Nessun legame, né familiare né comunitario e neppure di interesse, li avvicina. Colui che guarda viene quindi ben caratterizzato dall’assenza di impegno preliminare che costituisce […] una delle caratteristiche principali dello spettatore (Boltanski 2000: 58).

Nell’immaginario del benessere e delle vittime ideali molti utenti, infatti, mostrano immagini di bambini africani denutriti, malati per rimarcare quali siano i veri “bisognosi” a fronte di quelli che, invece, appaiono come impostori. Il gioco della vittima ideale, portato alle sue estreme conseguenze, viene poi polarizzato tra il “noi” e il “loro”. Il quotidiano Libero titola un articolo del 29 agosto del 2016 in questo modo: «Terremotati in tendopoli, immigrati in hotel: perché gli italiani si infuriano». In questo ulteriore passaggio la vittima ideale viene associata alla cittadinanza – ovviamente bianca.

Il migrante incarna il giusto capro espiatorio, il soggetto da temere e da odiare, il pericolo imminente che sembra dover sconvolgere il fragile equilibrio di una società che non ammette intrusioni o, più verosimilmente, ne ha bisogno per spostare l’attenzione dalle asimmetrie strutturali che la attraversano.

Quest’ultima riflessione ci spinge a osservare quanto l’incitamento all’odio sia divenuto oggi sempre più una strategia discorsiva per acquisire consenso politico (Belluati 2018: 373). Nell’epoca delle fake news, delle deep fakes e della post-verità, l’hate speech è una concreta strategia politica che non si limita all’uso che ne fanno soggetti legati al populismo e al sovranismo; i social media hanno aumentato la risonanza di questo fenomeno includendo qualunque utente nella propagazione dell’odio verso determinate categorie (Petrilli 2019; Ferrari, Paris 2019). Oggi chiunque si sente legittimato a esprimere non il dissenso ma il disprezzo verso l’altro. Augurare la morte, di subire violenza, di passare tutta la vita in carcere è divenuto una pratica quotidiana di comunicazione, forma irriflessiva di un linguaggio nuovo, quello dell’oralità scritta (Lovink 2011), che fa della rapidità espressiva e dell’istantaneità della condivisione lo strumento più efficace di persuasione. Già nel 2001, Thomas Eriksen aveva definito “tirannica” la velocità della comunicazione (Eriksen 2001), ben prima dell’affermarsi dei social media come mezzi privilegiati per rimanere in contatto con il mondo. Una tirannia che si esprime in differenti modi. Se da una parte una comunicazione accelerata (Eriksen 2017) produce forme di esclusione e rende le informazioni soggette a una obsolescenza sempre più repentina, dall’altra ci troviamo di fronte alla tirannia di un egocentrismo mediale. Le persone, proprio facendo leva sull’oralità scritta, si sentono come se stessero conversando tra amici, al sicuro nel salotto di casa o intorno a un tavolino di un pub la sera dopo una lunga giornata di lavoro. Proprio a causa di questa sicurezza – parlare tra pochi intimi o nascondersi dietro una tastiera – molti utenti pensano di poter esprimere un’opinione su qualsiasi argomento. Hanno la possibilità di farlo, hanno la libertà di farlo. Le comunità immaginate del XXI° secolo si costruiscono all’interno dei social media. I politici ne sono ben consapevoli.

Ma come si fomentano queste forme di odio? I soggetti politici hanno grandi responsabilità da questo punto di vista, alimentandone la diffusione e dando vita a veri e propri eventi mediali (Maneri, Quassoli, Ricci 2019) che rendono possibile la costruzione di narrazioni dentro le quali gli haters possono esprimere la loro rabbia.

L’hate speech, il discorso di odio, è oggi una categoria riconosciuta, per quanto difficile da collocare in un quadro giuridico preciso. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ne fa un chiaro riferimento all'art. 17 della sua Convenzione. Pur difendendo la libertà di espressione, l’art. 17 comprende come abuse clause tutto ciò che può essere ricondotto a propaganda antisemita e al negazionismo della Shoah (Caruso 2017: 967). Il problema ha a che vedere con l’opacità di internet, come strumento che dà voce a milioni di persone, garantendone la libertà di espressione ma al contempo esaltandone l’ambiguità. Questa libertà, infatti, rende più accessibili e condivisibili i sentimenti di odio: «il linguaggio dell’odio/l’incitamento all’odio acquista un nuovo significato, dato che il potenziale moltiplicatore che la rete offre a tale discorso aumenta il danno che esso può produrre» (Ansuategui Roig 2017: 39).

Se guardiamo alle teorie sulla costruzione e stigmatizzazione dell’altro (Sayad 2002; Dal Lago 1999), oggi possiamo notare come l’immaginario mediale prodotto intorno alla figura dei migranti tenda a congelarli in gruppi definiti, ai quali è sempre negata ogni soggettività (Lucchesi 2017: 112). Le retoriche narrative che descrivono il migrante come invasore, vengono normalizzate e rese senso comune, in modo che chiunque, nella forma dell’oralità scritta (quindi spesso opaca e poco attenta alla forma), possa esprimere un giudizio emotivo che si fonda sulla condivisione del risentimento. Questo genere di comunicazione è largamente utilizzato da alcuni politici. Secondo l’interpretazione di Fabrizio Macagno (2019: 606), Matteo Salvini, ad esempio, fa ricorso a una comunicazione fallace che poggia sulla manipolazione dei fatti e della conoscenza condivisa. L’analisi linguistica dei tweet dell’ex ministro, dimostra un registro comunicativo che si fonda su una opinione giustificata da un giudizio morale (ibid.: 612). Perché questo tipo di comunicazione ha successo? Per quale motivo le persone sentono il bisogno di odiare? Zygmunt Bauman (1999) ci ricorda come ogni società produca un proprio tipo di straniero, da utilizzare per polarizzare le posizioni tra chi si ritiene legittimato a parlare in nome del “noi” e chi invece viene relegato nella sfera di una alterità che in quanto tale non ha nemmeno il diritto di autorappresentarsi.

Va anche segnalato che i migranti non sono l’unico oggetto dei discorsi d’odio – anche se il principale. L’Espresso del 5 dicembre 2019 ha pubblicato un articolo sugli “odiatori social”, rilevando come l’hate speech colpisca principalmente le minoranze etniche (42%), le donne (41%) e, a seguire, i disabili e il mondo lgbtq+.

Populismo e precarizzazione

Vorremmo ora provare a dare una prima interpretazione dei discorsi d’odio, partendo dall’intreccio di tre assi principali: l’economia, la precarizzazione e il populismo.

Partiamo da un esempio concreto. Il 7 settembre 2018 il quotidiano La Stampa pubblica la notizia relativa a un ragazzo di 25 anni, che viene picchiato da 3 signori (italiani) perché a loro avviso sta usando un oggetto di consumo – un monopattino – al di sopra del suo rango sociale. Si tratta di un giovane originario del Benin, appartenente dunque a una categoria di persone che solitamente vogliamo pensare come indigente e impossibilitata ad accedere a un sistema di consumo paritario. «Monopattino troppo costoso per un negro» titola il quotidiano, riportando le parole usate dagli aggressori. Cosa vuol dire, in questo caso, “troppo costoso”? Significa, probabilmente, che nel nostro paese l’odio si esprime anche attraverso confini che sono al tempo stesso etnici e di classe. Non è soltanto il nero, definito etnicamente altro, è anche la sua appartenenza di classe – una classe immaginata (Anderson 2018) ovviamente, per quanto efficace dal punto di visto simbolico e identitario – a definire l’asimmetria dei rapporti tra individui. Significa, inoltre, che il consumo rappresenta oggi una forma di differenziazione sociale molto marcata. Il tipo di odio esercitato sottende pertanto l’idea di una barriera economica che diventa nel senso comune barriera di diritto civile – “sei immigrato e quindi non hai diritto a possedere e consumare certi beni”. Il concetto di “forclusione”, nella funzione che Butler (2010) assegna alle parole nel rapporto tra potere e discorso, sembra in questo caso appropriato a rappresentare non una semplice esclusione, ma una più profonda “indicibilità” di certi comportamenti se accostati a categorie inferiorizzate; una dissonanza che stride, produce fastidio, che si manifesta con l’odio.

Tra le varie fake news [4] che circolano sui migranti – ma spesso anche sui rom – e che hanno lo scopo di suscitare sentimento d’odio, molte fanno riferimento all’immaginario del benessere e del consumo occidentale. Giornali e siti di informazione parlano di migranti ben pasciuti, con gli ultimi modelli di smartphone, che vengono in Italia – nel nostro caso – senza essere davvero bisognosi. La presenza dello smartphone è sufficiente, agli occhi del razzista, perché si ritenga illegittima qualunque richiesta di accoglienza. La logica che sottende tale ragionamento, e che è divenuta a tal punto egemonica da essere trasversale ai simpatizzanti dei più diversi schieramenti politici (di destra e di sinistra), non tiene conto di (almeno) due aspetti che, al pari della necessità (lavorativa, economica, climatica, bellica), caratterizzano l’esperienza migratoria: la determinazione a muoversi o a far muovere, quando il viaggio è un progetto collettivo; la produzione di illegalità e dello stato di bisogno durante il viaggio e non esclusivamente come motivo originario di partenza. Uno specifico compito della etnografia delle mobilità, risiede a nostro parere nell’esercitare un ponte comunicativo, tra modi di pensare la vita orientati alla stanzialità e, viceversa, alla mobilità.

Ritornando alla questione del consumo, questo aspetto può essere compreso meglio se lo inseriamo all’interno della cornice del dispendio competitivo. Thorstein Veblen è stato un sociologo ed economista di fine Ottocento noto ai più per il libro La teoria della classe agiata (2007), dove sostiene, riprendendo gli studi di Franz Boas (2001) sul potlach, che la distinzione sociale avviene principalmente attraverso la competizione e l’imitazione. Le classi dominanti, come direbbe Bourdieu (2011: 244), lottano per imporre i gusti come stili di vita, mentre le classi dominate si adeguano a questi gusti, cercando di imitare, nelle loro possibilità, i consumi delle classi alte.

Veblen sostiene che la distinzione, il benessere di un singolo e del gruppo sociale al quale aderisce, si manifesta attraverso l’esibizione dell’inutile, del superfluo, di ciò che non è immediatamente necessario alla sopravvivenza[5]. Sono le pratiche improduttive, destinate a nient’altro che soddisfare gli aspetti competitivi della società, a restituire l’immagine di una persona benestante.

FIG. 2

Lo smartphone è un oggetto di consumo che risponde sia a esigenze pratiche – essere connessi con il mondo – sia a esigenze distintive – possedere modelli molto costosi e vistosi. Nei discorsi d’odio lo smartphone è visto come qualcosa di superfluo rispetto a chi dovrebbe scappare dalla guerra o da paesi molto poveri, e per questo è considerato un oggetto inadatto a un migrante. Eriksen ha ben spiegato come, grazie alla diffusione di telefoni cellulari, il divario tra Nord e Sud del mondo, per quanto riguarda la comunicazione, si è assottigliato. I migranti «possono ora ricevere aggiornamenti istantanei e continui su rotte migratorie, opportunità di lavoro e sulla posizione dei loro famigliari o dei loro contatti in Europa» (Eriksen 2017: 160). Muhammed Idris ha progettato un’applicazione telefonica, Atar[6], che permette a un immigrato che arriva per la prima volta in Canada di avere accesso a tutta una serie di informazioni di prima necessità, che spaziano dal dove andare a dormire e mangiare, al come ottenere una simcard canadese e l’assistenza sanitaria. Informazioni fondamentali che non sarebbero accessibili senza l’utilizzo di uno smartphone. I trafficanti di esseri umani e le informazioni per arrivare in Europa, sono oggi accessibili principalmente attraverso i canali social (Di Nicola, Martini, Baratto 2019).

Il caso di Josefa, soccorsa dalla organizzazione non governativa Open Arms nel luglio del 2018, è ancora più emblematico di cosa intendiamo per un discorso d’odio che si scaglia contro quelle che appaiono come pratiche improduttive che denunciano l’assenza dell’indigenza e del malessere.

Le foto che ritraggono Josefa evidenziano la presenza di uno smalto rosso per unghie: un particolare che ha indignato diversi haters.

Figg. 3-4

L’uso dello smalto è probabilmente ancora più superfluo rispetto allo smartphone. È il concedersi qualcosa di puramente edonistico che rimanda all’esibizione del sé e alla civetteria (Simmel 2001). Raj Patel e Jason Moore (2018), hanno ben spiegato come il capitalismo abbia la necessità di essere accessibile a un numero sempre più ampio di consumatori, contribuendo a una generalizzazione dei consumi che opacizza le disuguaglianze (senza ovviamente superarle). Elisabeth Currid-Halkett (2018: 46) sostiene che questa supposta democratizzazione illude le persone, convincendo le classi sociali più basse di avere accesso allo stesso benessere delle classi egemoniche. Se il consumo è anche una pratica di distinzione sociale (Veblen 2007; Bourdieu 2011) la democratizzazione rischia di mettere in crisi un ordine che permette di utilizzare livelli di riconoscimento – tra chi si ritiene simile – e barriere di esclusione – verso chi non è riconosciuto come pari (Goblot 1925). In altre parole, stiamo sostenendo che una parte dell’odio verso i migranti si appunta sui consumi. Perché?

I migranti ci ricordano la finzione creata dalla funzione distintiva dei consumi. Il loro arrivare poveri ma affamati di benessere, li rende simili a noi. Anzi, finisce per metterci di fronte alle nostre menzogne. Ci ricordano, i migranti, che anche noi siamo dei subalterni, che anche noi fingiamo benessere usando telefoni e scarpe di marca. I migranti sono una classe aspirazionale con il prezzo in bella vista sul cartellino attaccato all’abito. E questo, a ben vedere, è insopportabile. Si odia il migrante non perché ci ruba il lavoro ma perché somiglia a noi subalterni. Se davvero qualcosa ci ruba, è la possibilità di continuare a praticare la distinzione in modo meccanico. I subalterni odiano i migranti perché con la loro fame di benessere dicono a tutti che le differenze non sono scomparse. Li odiano anche i potenti, perché tramite loro i subalterni possono avanzare richieste, possono desiderare. Visti come outsider, intrusi di un sistema che appare armonioso ed equilibrato, cercano di nascondersi nella folla “democratica”, di mimetizzarsi attraverso il benessere delle merci ostentate. Ma la pelle non si nasconde[7].

Se le classi medie, quelle della “miseria dorata” di Bourdieu[8], usano il consumo vistoso per rendersi normali, simili a chi sta un gradino sopra, il migrante, con la sua miseria iscritta sulla pelle, porta giù con sé le classi medie, le degrada, relegandole nella subalternità come una zavorra lanciata contro il naufrago che finge di rimanere a galla con agio, mentre in realtà fatica perché non ha mai imparato a nuotare come i ricchi borghesi. Soprattutto in un contesto socio-economico dove il benessere materiale raggiunto dalla classe media nei due decenni del boom economico e quello edonistico e simbolico promesso dagli anni Ottanta in poi, oggi sono messi molto più a rischio dalla reale condizione di precarizzazione del lavoro, dell’accesso al welfare-state, di un sistema produttivo e commerciale sempre più aggressivo e quindi di un aumentato rischio di impresa. Parallelamente, lo Stato non costituisce né materialmente né simbolicamente un punto di riferimento rassicurante, quanto piuttosto viene percepito come ostacolo al raggiungimento del benessere agognato e pertanto anch’esso ricettacolo di sentimenti d’odio.

Il migrante, con la sua sola esistenza, denuncia la subalternità delle classi medie. Nel contesto italiano, dove i neri sono ancora identificati esclusivamente come minoranza migrante e subalterna, è lo stesso colore della pelle che comunica la posizione sociale dell’individuo (Currid-Halkett 2018: 59). Il nero – o l’altro migrante in genere – con il telefonino (e lo smalto) è fuori posto, aspira a consumi fuori dal suo status, dalle sue possibilità. Non può fingere il benessere come i bianchi di classe media, perché il colore della sua pelle lo condanna alla subalternità. Come le scarpe da ginnastica che diventano sporche se messe sopra il tavolo della cucina, dove si mangia (Douglas 1993: 77), il migrante diventa “pericoloso”, “fuori posto”, se si presenta davanti ai nostri occhi esibendo simboli del benessere.

Sono i bianchi medi a fingere benessere, i neri non possono. È come se urlassimo “Islam, terrorismo, sostituzione etnica” ma in realtà pensassimo “iPhone e benessere”. Lo straniero deve rimanere tale.

La distanza estetica è necessaria per mantenere separati il “noi” dal “loro”. Questa nostra interpretazione è orientata a considerare la forza dei consumi e delle merci come marcatori semiotici che formano identità e differenze. A questa interpretazione ne vanno senz’altro affiancate altre che considerano elementi del diritto, aspetti demografici, o di politica internazionale. Il nostro intento è però quello di interrogare la costruzione socio-culturale dei sentimenti, più che elencare ragioni (più o meno pretestuose) che giustificherebbero “razionalmente” tali sentimenti.

Ordine e decoro

Possiamo comprendere ancora meglio questa polarizzazione attraverso il consumo, facendo ricorso alla nozione di decoro. Come giustificare infatti questa contemporanea passione verso la punizione, verso l’esclusione, verso l’emarginazione, che trova riscontro in quello che Didier Fassin (2018) ha recentemente chiamato populismo penale?

L’odio è generato sì da problemi classici (crisi economiche, sentimenti di disaggregazione, paure dell’altro) ma le forme di odio espresso sono rese possibili da una sua normalizzazione nel quotidiano, che è tipica dei totalitarismi, delle forme più violente di esclusione e che rappresenta l’espressione di quel sentire contemporaneo che fonde insieme due aspetti: il populismo e il neoliberismo.

L’odio è una pratica che si fa teoria (Bourdieu 2003), che si esprime nel consumo e che ha la funzione di costruire soggettività riconoscibili. In quanto habitus o inclinazione[9], giocando cioè sulla convinzione che le differenze siano naturali senza scorgerne la loro costruzione socio-culturale, vi è una costante negoziazione tra alto e basso, tra forme non organizzate di odio e forme invece indirizzate all’acquisizione del consenso politico: partendo da questo punto di vista ci è possibile capire il rapporto che unisce Salvini all’odio sui social. Ma sarebbe riduttivo, e per certi versi miope, attribuire a Salvini tutte le colpe dell’odio che negli ultimi anni ha preso piede in Italia.

Salvini, più di altri politici, deve la sua forza e la sua fortuna politica non tanto nell’aver intercettato un sentimento diffuso che somma alla paura, alla diffidenza, l’odio più viscerale verso l’altro; quanto piuttosto ad aver reso questo odio una forma di confronto sociale, un modo di costruire uno stile di vita. Se Facebook (o altri social media) è lo strumento attraverso il quale odiare, persone come Salvini sono la valvola d’innesco che lo fanno esplodere.

Alcuni aspetti della politica e del consumo ci permettono di capire meglio cosa vuol dire oggi odiare come forma di distinzione. Usiamo qui l’espressione distinzione facendo riferimento ai lavori di Bourdieu (2011) sul gusto. Per Bourdieu la distinzione è una forma di classificazione e di gerarchizzazione delle classi sociali e degli individui, che si manifesta attraverso il gusto come strumento per definire ciò che è apprezzabile e ciò che invece è oggetto di disprezzo. Affermando che i gusti sono innanzitutto dei disgusti, Bourdieu – come anche Mary Douglas (1999) – evidenzia la polarizzazione di gruppi sociali attraverso le pratiche di consumo e gli stili di vita. Ed è in questo specifico campo che il decoro diviene un potente strumento di definizione identitaria.

Associato alle buone maniere e al comportamento pubblico (Meloni 2018: 28), il decoro è spesso utilizzato per unire e separare, fino a portare a feroci forme di esclusione sociale:

Poche cose vi sono che ci rivoltano così istintivamente quanto la violazione del decoro; e noi siamo andati tanto innanzi nell’attribuire un’intrinseca utilità alle regole dell’etichetta che pochi di noi, se pur ve n’è qualcuno, riescono a distinguere un’infrazione dell’etichetta da un senso della sostanziale indegnità del violatore. Un’offesa alla fiducia si può perdonare, ma un’offesa alle regole del decoro non si può. ‘Le maniere fanno l’uomo’ (Veblen 2007: 41).

Il decoro è richiamato oggi per giustificare azioni politiche di repressione: chiudere le fontane nelle grandi città; impedire il bivacco nelle piazze; progettare panchine anti clochard; “ripulire” le strade da persone sgradite; impedire assembramenti di particolari gruppi sociali; militarizzare le strade; imporre coprifuoco; decidere quali negozi possono essere aperti nei centri storici; aumentare la video sorveglianza e si potrebbe continuare a lungo, fino agli eccetera tipici delle liste di Umberto Eco (2009).

Chi sono i destinatari di questi provvedimenti? Pierpaolo Ascari ci aiuta a comprenderlo, legando decoro, insicurezza sociale e mercificazione degli spazi pubblici:

spuntoni, soglie chiodate, gabbie, rastrelliere, reti metalliche, repulsori: il paesaggio urbano si riempie di agenti silenziosi o di architetture del controllo che rendono sempre più irriconoscibile ‘il confine tra interesse pubblico e interesse privati’, ma nella più totale evidenza dei soggetti cui devono complicare la vita: i poveri, gli stranieri, le controculture. Dal momento che lo spazio pubblico viene appaltato ai consumi, infatti, sarà la forma-merce a determinare gli usi, respingendo ai margini tutti i comportamenti e gli stili di vita indesiderati (Ascari 2019: 27).

Così la presenza di “sgraditi” che utilizzano le fontane delle piazze, autorizzano sindaci e assessori alla loro chiusura o persino allo smantellamento, come è accaduto a Ventimiglia nell’estate del 2019, dove il sindaco ha smurato una fontana per impedirne l’accesso a migranti e rom che la usavano per bere e lavarsi, spostandola in seguito all’interno di un parco e destinandola al solo uso di mamme e bambini – italiani, immaginiamo. La reintroduzione del reato di accattonaggio nel decreto sicurezza del 2018, guarda in questa direzione: invocare il decoro per mettere in atto forme di esclusione sociale. Abdelmalek Sayad ha ampiamente denunciato come il decoro costituisca uno strumento per rinchiudere il migrante entro la cornice del sospetto:

Diverso da tutti gli altri (dai connazionali del paese), poiché è il solo ad accumulare tutti i segni distintivi possibili (alle distinzioni sociali abituali si aggiungono delle distinzioni etniche, politiche, giuridiche, linguistiche, culturali ecc.), l’immigrato ha la sensazione di essere costantemente sorvegliato, come si sorveglia un corpo estraneo. Ha la sensazione di essere diventato un eterno sospetto e ciascuno dei suoi atti e dei suoi gesti lo rende un oggetto d’accusa: per strada, nei negozi, a casa, nei pubblici servizi (soprattutto i servizi sociali, la previdenza sociale e l’ospedale) e anche al lavoro, la presenza di un immigrato sorprende (Sayad 2002: 273).

Anche i luoghi di consumo e le merci di cui si circonda (iPhone, monopattini, abiti firmati) lo rendono sospetto agli occhi dell’hater. Ma non è soltanto il migrante a essere rinchiuso dentro questo processo di soggettivazione che lo sguardo pubblico gli applica. Le statistiche sui discorsi d’odio comprendono diverse minoranze (etniche, culturali, religiose, di orientamento sessuale) e un grande altro subalterno della cultura occidentale: le donne. Prendiamo ad esempio il caso di Carola Rackete, capitano della Sea Watch, la cui notorietà si deve all’aver violato il blocco imposto da Salvini nel giugno del 2019, facendo sbarcare a Lampedusa migranti tratti in salvo nelle acque del Mediterraneo. Subito attaccata dalla stampa di destra e dagli haters online, è stata oggetto di aggressioni verbali a sfondo sessuale seguendo una pratica diffusasi in Italia soprattutto nei confronti di Laura Boldrini – anche lei “colpevole” di aiutare i migranti. Il quotidiano Libero del 21 luglio 2019 riporta questo titolo: «Sea Watch, Carola Rackete senza reggiseno in Procura: sfrontatezza senza limiti, il dettaglio sfuggito a molti». La notizia aggiunge qualcosa di nuovo al solito odio social, fa leva sul decoro, come atto di sfrontatezza imperdonabile da parte del capitano della Sea Watch. In questo caso il ricorso al decoro consente agli odiatori di delegittimare le azioni di Carola Rackete, di riportare la sua figura dentro l’orizzonte del nemico, del fuori posto, di chi trasgredisce le norme, non dissimilmente dai migranti che ha aiutato.

Ma perché fare ricorso al decoro? Edward Said (1991), nel ripercorrere i passi dei viaggiatori e dei pensatori che hanno costruito l’immagine dell’oriente, ricorda come il decoro venisse richiamato per denunciare la pericolosa sensualità dell’oriente, che contravveniva ai comportamenti privati e pubblici occidentali. La denuncia dell’indecenza delinea, come sostiene Tamar Pitch (2013), un dispositivo di controllo che deve normalizzare tutto ciò che può apparire perturbante, contaminante, capace di sfuggire alle norme dominanti e allo status di merce. Di opinione simile è anche Wolf Bukowski (2019), che nel decoro legge l’iscrizione delle leggi e dei comportamenti sul corpo del subalterno[10]. Il decoro permette di ristabilire i rapporti gerarchici tra classi e gruppi sociali. Consente al ceto medio di odiare chi cerca di riscattare la propria vita, imitando uno stile di vita superiore al proprio ma corrispondente alle proprie aspirazioni (Appadurai 2014). Come lo smascheramento del parvenu nel campo del consumo genera disprezzo e disapprovazione[11], così i subalterni sono disprezzati da altri subalterni, in una battaglia tra poveri – come si usa spesso dire – che si combatte negli spazi del consumo e in nome del decoro. Va però segnalato che molto spesso questi gruppi e queste classi sono totalmente privi di coscienza. Non sono una comunità ma fanno leva sui processi di immaginazione che Appadurai (2012) ha analizzato negli anni Novanta. L’immaginazione, palestra con cui le persone si confrontano per costruire il proprio mondo quotidiano, produrrebbe secondo Appadurai delle “comunità di sentimento”, persone accomunate da aspirazioni e desideri simili, che condividono immaginari con i quali cercano di dare forma al mondo. Nel caso dei discorsi d’odio, possiamo forse spostare l’idea di Appadurai su un altro piano. Potremmo qui parlare di “comunità di risentimento”, ossia di persone che condividono l’odio ma non una visione del mondo unitaria – né tanto meno l’unità di classe.

Durante l’attuale pandemia, il ri-sentimento verso i migranti apparentemente sopito, è prontamente riemerso non appena si è affacciata sulla scena politica e mediatica la proposta di regolarizzazione avanzata dal ministro delle politiche agricole Teresa Bellanova. È bastata una normalissima presa d’atto pubblica della dipendenza della produzione agricola nostrana dalla mano d’opera straniera sfruttata oltre misura; una ammissione peraltro funzionale alla sola impiegabilità e che pertanto mantiene inalterato il rischio sanitario insito nella scissione tra il diritto di asilo, quello al lavoro e quello alla degna abitazione[12].

Fino a qualche settimana prima, la comunità di risentimento si era orientata verso altri soggetti d’odio, nello specifico i runners, ma progressivamente anche coloro che semplicemente si trovavano a passeggiare nei pressi di casa, per accompagnare gli animali domestici o i figli, o – addirittura – a spostarsi per obblighi lavorativi. In questo caso il processo di produzione dell’odio, che si concretizza tanto nei messaggi sui social media come nelle invettive dai balconi e per la strada, appare più complesso da decostruire, non potendo affidarci a categorie consolidate quali quelle della de-umanizzazione del supposto “diverso”. La pratica di cura del corpo e della mente (una corsa, una passeggiata), da essere indice dell’adeguamento – fitness – ad un modello di ben-essere basato su specifici valori estetici e medici che prevedono corpi con-formati, ha rapidamente assunto i contorni di una pratica a-normale e immorale, pertanto bersaglio di insulti, attribuzione di colpa, e di odio generalizzato. Il giudizio sul decoro degli spazi e delle persone, identificato usualmente con l’ordine e l’igiene del corpo e degli ambienti, passa dall’opposizione sporco/pulito per estendersi a quella aperto/chiuso, rendendo esplicita e diffusa l’idea, autoritaria, che il controllo altrui sia una virtù e che il “capitalismo della sorveglianza” (Zuboff 2019) di cui si nutrono i grandi colossi globali della comunicazione, possa essere messo in atto da chiunque. In questo caso il sentimento d’odio assume risvolti più inquietanti poiché si salda con la invocazione del controllo. Una saldatura già ben presente e vissuta sulla pelle dei “marginali” (richiedenti asilo, immigrati, senzatetto, prostitute, etc.), che si estende a cittadini che precedentemente non costituivano il bersaglio dell’odio anonimo. Come i loro frequentatori, gli spazi aperti quali boschi, parchi e spiagge, oggettivamente più sicuri perché areati e perché più consoni a realizzare il distanziamento sociale, sono paradossalmente divenuti luoghi illegali per via dei provvedimenti anti-assembramento e al contempo “moralmente ambigui” (Zanotelli 2020).

Oltre al tema del controllo, la crisi sociale e sanitaria legata alla pandemia del Covid-19 ci aiuta a svelare un secondo elemento che compone il processo di costruzione dell’odio. Chiara Bresciani e Geoffrey Hughes (2020: 3) ipotizzano che il dilagare delle invettive contro coloro che escono di casa siano da ricondurre ad antagonismi socio-culturali preesistenti tra giovani e anziani, sportivi e sedentari e tra il “produttivo” e l’“improduttivo”. Se interpretiamo correttamente il pensiero degli autori, quest’ultima schematizzazione, invece che riferirsi a due gruppi sociali opposti, è organizzata intorno a una scala di priorità valoriali, talmente incorporata da divenire guida per l’approvazione o il sanzionamento dei comportamenti sulla base di criteri individuali ma socialmente codificati. Uno di essi è sicuramente il lavoro produttivo di tipo mercatista (sostenuto dal piano legislativo emergenziale con il concetto di “necessità”), che ha prevalso sulle funzioni riproduttive (la presa in carico delle necessità di bambini e adolescenti, ad esempio). Così uscire di casa è ritenuto necessario solamente per andare al lavoro e non per offrire un momento di svago ai propri figli. E dal concetto di “lavoro produttivo” è escluso quello di produzione per l’autoconsumo, come testimoniato dal fatto che diverse ordinanze regionali hanno proibito la pesca dilettantistica nel periodo di quarantena[13], e che in tempo di confinamento domestico le visite tra conoscenti per lo scambio di beni alimentari al di fuori di un rapporto di transazione commerciale non costituiva una ragione di necessità. L’odio si costruisce intorno alla legittimità o meno degli spostamenti, e tale legittimità è giustificata sulla base dell’utilità, un concetto che a sua volta è identificato con la produzione capitalistica. Si manifestano così, sul piano epidermico, gli esiti della naturalizzazione del pensiero neoliberista (Harvey 2005).

Gli ab/usi dell’antropologia

Nei quattro testi che seguono, nonostante la varietà dell’oggetto di analisi scelto e la diversa scala di prossimità etnografica al gruppo analizzato, ritroviamo un filo conduttore solido, rappresentato dallo sforzo di descrivere con accuratezza e originalità alcuni processi concreti di produzione dell’odio; l’attenzione verso l’abuso politico che oggi si fa di alcune categorie sviluppate soprattutto in seno all’antropologia culturale; una particolare cura rivolta agli eventi comunicativi (sia on-line che off-line) che riproducono le comunità di risentimento; il tentativo appassionato di discutere apertamente del ruolo pubblico dell’antropologo/a e delle potenzialità del suo mestiere, sia in ambito accademico che in quello professionale.

Lia Giancristofaro affronta lo spinoso caso del revival “etnico” in Abruzzo, concentrandosi sulla “restaurazione della tradizione” in stile neo-borbonico e la rivitalizzazione di riti di comparatico, presuntuosamente ricostruiti secondo un “metodo” basato sulla “anastilosi delle tradizioni” (la ricostruzione filologica di abiti, cibi e movenze) che, a parere degli ideatori, attinge alle conoscenze prodotte dagli antropologi nelle campagne di ricerca realizzate in Molise e in Abruzzo negli anni Settanta. A promuoverli, ci svela l’autrice, sono politici locali, attivisti della “cultura” e più o meno inconsapevoli appassionati della tradizione. Attraverso la partecipazione osservante, realizzata con un metodo che contempla l’immersione negli eventi festivi, la raccolta dei discorsi pubblici dei promotori, l’innesco di dialoghi sia in presenza che attraverso i social network, e soprattutto attraverso la pratica della “restituzione” che implica l’assunzione della responsabilità del ruolo dell’antropologa di fronte agli interlocutori della ricerca, l’autrice ci svela il nesso esistente tra i processi di patrimonializzazione, il revivalismo delle tradizioni locali e il sentimento aggressivo di antiabortisti, leghisti del Sud e sovranisti nei confronti di stranieri, omosessuali, donne. Un sentimento che non risparmia, infine, antropologi critici e de-essenzializzanti. Il revivalismo delle “tradizioni” non si limita pertanto ad assecondare gli interessi turistico-patrimonializzanti, ma assume una dimensione sentimentale che associa la passione per una “cultura propria” alquanto indefinita, con la passione (negativa) verso chi da tale “cultura” deve rimanere escluso. Un nesso tra politica, cultura e sentimento che è stato già ampiamente tracciato (Herzfeld 1998; Palumbo 2009) e che, nel saggio di Giancristofaro, affronta di petto la questione del ruolo che deve assumere l’antropologia. Qui l’autrice alza una voce critica verso gli atteggiamenti anti-culturalisti, a suo dire troppo arroccati su posizioni critiche e lontane dall’esperienza etnografica. Al contrario, secondo la sua proposta, il coinvolgimento dei gruppi e delle comunità nella pratica etnografica, così come l’assunzione di responsabilità dell’antropologo attraverso la pratica della restituzione sul campo e la presa in carico di percorsi partecipati di patrimonializzazione «possono contribuire a fluidificare le tensioni, a mediare i conflitti, ad aprire nuove opportunità, a raccordare strati popolari alle istituzioni». Protagonisti di questo processo dovrebbero essere gli antropologi professionisti istituzionalmente riconosciuti.

Il saggio di Francesco Bachis ci porta nel vivo del dibattito contemporaneo sui migranti e i richiedenti asilo, già richiamato nei paragrafi precedenti. Il focus dell’autore è incentrato sulla produzione del razzismo e sulle strategie discorsive dell’antirazzismo. Partendo da una veloce disamina delle principali teorie antropologiche critiche sul razzismo biologizzante e su quello differenzialista, propone in modo innovativo di volgere lo sguardo su un aspetto che a suo parere accomuna paradossalmente il pensiero razzista e il suo opposto: entrambi partirebbero da una teoria implicita che assegna al sentimento d’odio verso il diverso una origine naturale. L’antirazzismo si distinguerebbe dal razzismo per il procedimento, evolutivo, che individuerebbe nell’acculturazione (e nell’antropologia come scienza delle culture) l’antidoto a tale sentimento. Attraverso la disamina di due eventi comunicativi – la diretta Facebook del quotidiano la Repubblica di una manifestazione per il diritto alla casa dei migranti e un dibattito pubblico svolto a Cagliari sul rapporto tra fenomeno migratorio e comunicazione – Bachis evidenzia il fallimento, in entrambi i casi, dell’efficacia comunicativa del versante anti-razzista. Il metodo seguito, come nel caso di Giancristofaro, è quello di analizzare riflessivamente il ruolo dell’antropologo attraverso il metodo della netnography (Kozinets 2010), realizzata a partire dai commenti alla diretta Facebook, e attraverso un’auto-etnografia della partecipazione in prima persona al dibattito pubblico, confrontandosi con un giornalista e un mediatore culturale in una arena pubblica. Anche in questo caso, l’autore si interroga sui «limiti dell’antropologia come pratica antirazzista e la sua operabilità in funzione di contrasto al linguaggio d’odio». L’autore propone in conclusione di orientare la ricerca verso una etnografia dell’antirazzismo, per evidenziarne criticamente i rischi di essenzialismo. Oltre alla ricerca, propone di assumere seriamente il compito di diffondere le competenze antropologiche, andando al di là di una generica denuncia delle semplificazioni culturaliste. Richiamando il concetto gramsciano di “istinto”, ritiene che una strada promettente sia quella di risaltare gli aspetti di cooperazione, curiosità ed empatia presenti nella storia dell’uomo, altrettanto se non più di una ipotetica paura e avversità verso il diverso.

Il tema del rapporto tra razzismo e discorsi d’odio prosegue nell’articolo scritto da Stefania Pontrandolfo ed Eva Rizzin con una specifica declinazione: il loro obiettivo è quello di documentare il linguaggio d’odio verso rom e sinti che permea la scena politica italiana e come esso si diffonde e viene riprodotto attraverso canali mediatici (ansa, quotidiani, social media). Le autrici non si limitano a dar conto di una mole enorme di dati riguardanti gli ultimi trent’anni, raccolti grazie a campagne sistematiche di ricerca nell’ambito delle attività del CREAa[14] dell’Università di Verona. Attraverso le analisi del discorso e della semantica delle esternazioni politiche di esponenti politici di Lega Nord-Salvini premier, Forza Italia, Alleanza Nazionale e Fratelli d’Italia, che sono i partiti politici statisticamente più rappresentativi (sebbene non gli unici) di forme di hate speech rivolte a sinti e rom, le autrici rinvengono i processi di categorizzazione del pensiero intorno ai rom e ai sinti, primo fra tutti la de-umanizzazione attraverso l’inferiorizzazione per mezzo di simboli negativi appartenenti al mondo animale e delle cose.

Il primo suggerimento che proviene dal loro contributo è quello di raccogliere, classificare e rendere esplicite le forme di razzismo disconosciuto, attraverso l’esposizione pubblica della violenza del linguaggio verbale e scritto dei rappresentanti politici e dei media che gli danno voce. Un aspetto che, come ricordano le autrici, rischia di passare inosservato o peggio ancora rischia di essere riprodotto in modo inconsapevole e irriflesso. L’alleanza tra la ricerca antropologica e l’ordine dei giornalisti, per esempio attraverso specifici corsi di formazione dedicati alla critica dell’antiziganismo nei media, è un primo passo concreto che le autrici ricercano sistematicamente. Una ulteriore modalità di intervento, particolarmente significativa, è quella di esporre le ricerche etnografiche attraverso la voce di antropologhe, come la stessa Eva Rizzin, e le testimonianze e riflessioni presso scuole, università, ordini professionali, associazioni ed enti di formazione da parte di giovani attivisti sinti e rom.

Infine, nel testo di Laura Pomari, Vaninka Riccardi e Roberta Villa, il focus della riflessione diventa l’istituzione scolastica, a partire da un lavoro di antropologia applicata nella provincia di Milano. Partendo da un progetto di ricerca finanziato dal Comune di Magenta sul tema “Seconda generazione. Identità in evoluzione”, le autrici rileggono la scuola nella sua vocazione di luogo generatore di cittadinanza e convivenza, dove si possono superare «le differenze e i conflitti socio-culturali attivi “all’esterno”, sul territorio». Le autrici elaborano esperienze performative volte a contrastare le forme di esclusione sociale e di odio, attraverso la responsabilizzazione di tutte le parti coinvolte e la decostruzione degli stereotipi che alimentano le disuguaglianze. Far parlare i corpi attraverso il linguaggio del teatro sociale e di comunità, in una prospettiva transdisciplinare dove artisti, antropologi, pedagogisti dialogano insieme, permette alle persone di esprimere le conflittualità in modo non verbale e, attraverso la mediazione di tutti i partecipanti, di superarle. Contrastare l’odio, in questi casi, vuol dire anche riuscire ad attenuare conflittualità che vedono spesso il corpo docente, di fronte alla mancanza oggettiva di strumenti (principalmente tecnici e, talvolta, culturali) messi a disposizione dalla scuola, «a riversare le colpe sull’inadeguatezza delle famiglie, in gran parte immigrate». Per superare questo conflitto le autrici portano l’esperienza dei laboratori “I racconti di lingua madre” e “Sentire e comprendere”, quest’ultimo pensato come percorso di formazione per insegnanti. L’obiettivo è quello di rendere il laboratorio corporeo «un campo neutro in cui le difese di ciascuno si abbassano» e da lì ripartire per dare forma a relazioni che riducano l’odio e la diffidenza. Di fronte alla dematerializzazione dell’odio, che si esprime contro persone reali ma generandosi principalmente nei canali digitali dei social, un laboratorio scolastico, che come obiettivo ha quello di costruire una relazione “corpo a corpo” tra le persone, appare una risposta concreta ai discorsi d’odio finora discussi.

In conclusione, invitiamo alla lettura degli articoli che seguono poiché in ciascuno di essi, secondo forme e contenuti diversi, ritroverete una medesima sensibilità e serietà. La sensibilità a prendere sul serio i sentimenti, siano essi d’odio o, al contrario, di comunanza. La serietà dettata dalla dimestichezza a trattare con categorie complesse quali comunicazione, tradizione, razzismo, de-umanizzazione, performance. I lettori e le lettrici potranno pertanto confrontarsi con genuini tentativi di cercare, come abbiamo affermato all’inizio, nuovi percorsi di riflessione per un duplice obiettivo: smascherare le pratiche e i discorsi di odio, da una parte, fornire strumenti per contrastarlo, dall’altra.

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[1] Ringraziamo per i contributi e la partecipazione Marina Brancato, Miguel Mellino, Antonello Ciccozzi, Eva Rizzin, Stefania Pontrandolfo, Stefano Boni, Simone Ghiaroni, Lia Giancristofaro, Francesco Bachis, Laura Pomari, Vaninka Riccardi, Roberta Villa, Vittoriano Zanolli. Chiara Quagliariello e Ivana Abrignani all’ultimo momento non hanno potuto partecipare al convegno pur aiutandoci molto in questa riflessione comune.

[2] Per quanto il paragone possa apparire forzato, questo genere di normalizzazione sembra rimandare direttamente alla banalizzazione del male di Hannah Arendt (2013) e agli uomini comuni di Christopher Browning (2004).

[3] Nel lavoro di Pierre Bourdieu cui facciamo riferimento, La miseria del mondo, sono raccolte testimonianze delle classi medie e popolari francesi dove l’equipe del sociologo francese ha cercato di cogliere il senso di disagio, di rancore, di diffidenza e di subalternità di gruppi di persone che solitamente non identifichiamo come miserabili. Nel libro di Bourdieu, infatti, non ci sono i classici marginali ma persone “apparentemente” normali che solo nelle interviste lasciano intravedere quella “miseria” di mondo in cui vivono. Il riferimento ci serve per chiarire come gli haters non vadano ricercati tra quelle categorie che appaiono immediatamente riconoscibili (il fascista con la testa rasata e la svastica in bella mostra, per fare un esempio) ma tra quelle persone che facilmente si nascondono tra la massa e che solo attraverso l’osservazione, il dialogo, emergono come tali.

[4] Ceccarini e Pierdomenico (2018: 338), all’interno del progetto DEMOS-COOP (Osservatorio sul Capitale Sociale degli Italiani) hanno mostrato come, sebbene le fake news vengano prodotte e diffuse nei social media, proprio questi ultimi sono il primo luogo dove vengono smascherate.

[5] Su questo aspetto si veda anche il lavoro di Georges Bataille Il dispendio (1997).

[6] Consultabile al link https://edel.io/

[7] Sulla complessa questione della finzione dell’essere bianco, impossibile da approfondire in questa sede, si vedano Frantz Fanon (2015) e Homi K. Bhabha (2001).

[8] Bourdieu (2011: 74-75) chiama “miseria dorata” la condizione di chi cerca di vivere al di sopra delle proprie possibilità (economiche e socio-culturali), tradendo di fatto la propria provenienza. Lo utilizziamo in questo contesto per evidenziare come i consumi servano a rilevare una falsa coscienza che capovolge la realtà, convincendo le classi medie e popolari di essere realmente parte dei gruppi dominanti.

[9] Jean-Claude Passeron (2016) ha proposto di utilizzare la parola “inclinazione” al posto di “habitus” non perché in disaccordo con Bourdieu, ma perché a suo avviso l’inclinazione rimanda a un agire meno razionalizzato, meno radicato nel tempo e meno sistematico di ciò che invece appare l’habitus di Bourdieu. Per quanto non sia questa la sede dove approfondire queste differenze, l’inclinazione potrebbe spiegare meglio un odio generale ma irrazionale, fondato sulla breve durata. Se è un habitus quello della politica che ricorre all’odio e alla paura verso lo straniero per garantirsi una maggiore coesione interna (Barclay 2013), è forse un’inclinazione quella delle persone che rispondono meccanicamente all’ordine di odiare.

[10] Tema già affrontato da Franz Kafka (1994) e Michel de Certeau (2001)

[11] Jean Baudrillard (2010) ha analizzato le aste d’arte come luoghi in cui si praticano rituali d’iniziazione e di riconoscimento tra la borghesia parigina. In questi luoghi i parvenu sono immediatamente riconosciuto e oggetto di un forte disprezzo che si mette in atto attraverso il palesamento della provenienza sociale del parvenu (convincendolo a comprare, ad esempio, un quadro a un valore molto più alto di quello riconosciuto, evidenziando in questo modo la sua completa estraneità al mondo sociale di cui tenta di fare parte).

[12] Tra le varie sentenze della Corte Costituzionale in materia, la sentenza n. 119 del 24 marzo 1999 sancisce che il diritto a una abitazione dignitosa rientra fra i diritti fondamentali della persona.

[13] Emblematico il caso dei pescatori dilettanti di Torre Faro e Ganzirri, nel comune di Messina, che prima hanno richiesto un permesso speciale per poter nutrire le proprie famiglie attraverso il pescato, e poi sono stati addirittura multati. Si veda Messina Today del 23 Aprile 2020: “Coronavirus, richiesta al governo Conte per la pesca dilettantistica. Il consigliere del VI Quartiere Antonio Lambraio ha scritto al premier per i disoccupati di Ganzirri e Torre Faro, Giuseppe Sanò torna sulla mancanza di varchi di accesso nella costa tirrenica“. Consultato il 17/05/2020 http://www.messinatoday.it/cronaca/pesca-coronavirus-ganzirri-torre-faro-antonio-lambraio-nota-governo-.html?fbclid=IwAR3Z-1NGX9PjsxaCeYBuTHYPFNZzMpioCtZTvtUHyM9tTEqg9Tu21TLVx9s.

[14] Centro di Ricerche Etnografiche e di Antropologia applicata “Francesca Cappelletto”.