Emidio di Treviri: un’esperienza di ricerca collettiva sul post-disastro in Appennino centrale (2016-2017)

Quando la ricerca è pubblica: verso un’etnografia comune

Alexandra D’Angelo

Università degli studi di Siena

Eleonora Diamanti

John Cabot University/University of Antwerp

Indice

Emidio di Treviri e la ricerca pubblica militante
Per un’ "etnografia comune": collettività e transdisciplinarietà
Conclusione: verso un sapere comune
Bibliografia

Abstract.  Emidio di Treviri is a collective research group formed in the aftermath of the earthquake that hit central Italy in 2016-2017. This paper reflects back on the composite experience of the group and its interdisciplinary approach to such a complex event. Researchers involved in the project span a variety of disciplines, from anthropology to architecture, from sociology to psychology, also including photographers and video-makers. The group was active and conducted field-work since the beginning of the seismic event in aiming to bridge academic research and activism, through “militant research”. The main goal was twofold: firstly, the project aimed at producing a theoretical framework to the study of such phenomena that commonly fall under the name of Disaster Research, and secondly at producing informative and effective tools to help people living through the disaster to be actively involved in the political decision-making process. We argue that academic research, in order to be “public,” needs to be cross-disciplinary and rooted in militant interventions. Such approach, which we name “common ethnography,” referring to the common as a collective practice, aims at co-producing mutual knowledge with local communities and territories. The results produced by the extensive field-work include a collective book, academic and dissemination articles, a photo exhibit, a short documentary, and concrete propositions for political and social change put forward in collaboration with local communities and organisations.

Keywords.  Public research; Emidio di Treviri; Post-Disaster; Trans-Disciplinarity; Central Apennine.

Emidio di Treviri e la ricerca pubblica militante

L’esperienza di ricerca collettiva e trans-disciplinare condotta dal gruppo di ricerca Emidio di Treviri nasce nel dicembre del 2016 da una call for research lanciata dalle Brigate di Solidarietà Attiva (BSA). Quest’ultima è una federazione di associazioni ispirate alle società di mutuo soccorso di inizio Novecento, che promuove pratiche di mutualismo e autorganizzazione nei contesti di emergenza, nascendo proprio in seguito ad uno dei disastri più recenti e significativi del nostro Paese: il post-sisma aquilano del 2009. All’indomani del 24 agosto 2016, quando la terra tremò nuovamente in centro-Italia[1], le Brigate di Solidarietà Attiva sono state subito presenti nel territorio colpito, portando aiuti concreti alla popolazione terremotata e costruendo campi-base che avrebbero assunto il ruolo di sistemazioni abitative di prima emergenza. Lo sciame sismico si sarebbe ripetuto di lì a poco con altre violenti scosse, il 26 e 30 ottobre 2016 e il 18 gennaio del 2017[2], estendendo l’area colpita a quattro regioni (Marche, Umbria, Abruzzo e Lazio), comprendendo più di 140 comuni e numerosissime frazioni. Le peculiarità della zona colpita, per gran parte aree montane e comprese in aree naturali protette – come il Parco Nazionale dei Monti Sibillini e il Parco Nazionale del Gran Sasso – fanno fin da subito avvertire che la gestione del post-disastro si sarebbe caratterizzata per un processo lento e travagliato. Per questo motivo, tra gli attivisti e le attiviste delle Brigate di Solidarietà Attiva nasce l’esigenza di affiancare le pratiche di politica attiva ad un’analisi delle trasformazioni che la gestione di un disastro di tale portata avrebbe afflitto al contesto socio-territoriale dell’Appennino centrale. Nasce così la call for research che avrebbe dato vita all’esperienza di ricerca collettiva di Emidio di Treviri. Alla chiamata rispondono decine di ricercatori – accademici o indipendenti – fotografi, videomaker, ingegneri, architetti, docenti universitari, dottorandi: un gruppo multiforme ed eterogeneo aderisce all’appello dando vita ad un’esperienza dal basso di ricerca collettiva ed autogestita.

Nelle diverse fasi che hanno caratterizzato il lavoro di ricerca di Emidio di Treviri, il duplice obiettivo posto dal gruppo è rappresentato dalla volontà, da un lato, di contribuire con riflessioni teoriche al dibattito scientifico insito nello studio dei disastri – comunemente riconosciuto come Disaster Research – e dall’altro, di fornire alla popolazione coinvolta nel post-disastro gli strumenti e le informazioni scaturite dalle analisi prodotte in fieri (Emidio di Treviri 2018: 21). I due obiettivi menzionati confluiscono, dunque, in uno spazio ove convergono attivismo, mondo accademico e intervento sociale. Il percorso di Emidio di Treviri trae, infatti, ispirazione dalle esperienze della così chiamata “ricerca militante”, “conricerca” e “inchiesta operaia”, sviluppatesi a partire dagli anni Cinquanta nell’ambito degli studi sulle classi subalterne o legati al movimento operaio[3]. Da queste esperienze nasce l’idea di una “ricerca militante”, quale attività pratica di conoscenza e trasformazione che viene proposta come elemento fondamentale per l’analisi dei conflitti, del sistema e delle pratiche volte alla loro trasformazione (Alquati 1993).

Elementi imprescindibili dell’approccio militante sposato dai ricercatori e le ricercatrici di Emidio di Treviri sono il mutuo apprendimento e la co-produzione di sapere (Sousa-Santos 2016), movendo dall’esigenza di diminuire le distanze tra la conoscenza prodotta in ambito accademico e il «sapere attivista» (Escobar 2008: 11). Quest’ultimo è la conoscenza promossa da soggettività e gruppi sociali impegnati nelle rivendicazioni contro le diverse forme che, oggigiorno, dominazione e sfruttamento possono assumere. In numerosi contesti globali, la produzione di sapere condiviso ha l’obiettivo di estendere, connettere e rafforzare le eterogenee forme di resistenza e di reazione alla globalizzazione di stampo neoliberale, al colonialismo e al capitalismo, intesi come sistemi volti alla «naturalizzazione delle differenze» (Sousa-Santos 2016: 18) che giustifica gerarchie, ingiustizie e oppressioni. Da questo approccio alla ricerca, applicabile ai diversi ambiti del reale, scaturisce un’epistemologia basata sulla consapevolezza di una mutua ignoranza, colmabile solamente attraverso la co-produzione di un sapere che connetta l’ambito accademico e la società civile.

Per un’ "etnografia comune": collettività e transdisciplinarietà

Basandosi su tale approccio, il gruppo ha messo in atto una ricerca pubblica di stampo militante. Con ciò intendiamo una ricerca applicata sul campo, co-gestita dalle diverse istanze e soggettività e basata sulla mutua ignoranza, che intenda il sapere come un bene comune (Hess, Ostrom 2009). Una “etnografia comune” che considera i risultati di studio come pratiche collettive, dinamiche, in costante evoluzione e atte sia al cambiamento in sé che a produrre cambiamenti. Come sottolineano Hardt e Negri: «il comune [...] non è soltanto la terra che condividiamo, ma anche il linguaggio che creiamo, le pratiche sociali che costituiamo, le forme di socialità che definiscono i nostri rapporti e così via» (2010: 145). L’“etnografia comune” messa in atto dal gruppo si propone come una pratica sociale per il cambiamento. Grazie a questo approccio, alcuni dei risultati prodotti nel corso della ricerca sono sfociati in proposte concrete e strumenti utili sul piano politico per le rivendicazioni locali[4]. Di grande importanza sono state anche le numerose riunioni pubbliche e assemblee organizzate sui territori del cosiddetto “cratere”, che hanno permesso alla ricerca scientifica di interfacciarsi con le realtà e le soggettività locali coinvolte nei processi di post-disastro.

Una delle caratteristiche fondanti di Emidio di Treviri è sicuramente la transdisciplinarietà, emersa sin dall’inizio della costituzione del gruppo come condizione essenziale per mettere in pratica una ricerca militante e pubblica che abbia ricadute applicative sulle comunità e gli spazi coinvolti. Tale scelta di inglobare una prospettiva ad ampio spettro si è resa necessaria per poter rendere conto della complessità del fenomeno preso in considerazione. Il lavoro condotto da Emidio di Treviri si determina, quindi, a partire dall’idea di adottare la conoscenza come un’istanza di partecipazione ai processi in atto, nel tentativo di intrattenere una conversazione continua con le voci, diverse per contesto e per condizioni, dei soggetti coinvolti. Una dimensione in cui la produzione di conoscenza scientifica si combina con l’impegno civile e politico. Il progetto di ricerca portato avanti da Emidio di Treviri si inserisce in questo contesto di “ricerca-azione”: una ricerca che mira a produrre strumenti concreti di cambiamento. Riteniamo che un punto cruciale del nostro lavoro sia stato quello di agire nell’immediatezza dei fatti accaduti, essendo presenti sul territorio a partire dalle primissime scosse dell’Agosto 2016. Nondimeno, il ruolo assunto dai ricercatori e le ricercatrici originari dei territori oggetto di analisi sono stati fondamentali per rendere possibile un contatto diretto con le soggettività locali, facilitando il dialogo con gli individui e le organizzazioni operanti sul territorio.

All’interno della dimensione transdisciplinare del gruppo di ricerca, l’apporto di professionisti specializzati nel campo della disciplina antropologica si è rilevato essere di fondamentale importanza. Nella prima fase di ricerca (2016-2017) il gruppo si è strutturato in Research Networks (RN) rispettivamente incentrati su questioni legate alla salute, al territorio, alla governance, al mondo rurale, alla cultura materiale, alla metodologia visuale, alla psicologia di comunità. L’obiettivo di ciascun RN era di analizzare singoli aspetti o livelli del fenomeno oggetto di analisi, senza però mai discostarsi da una visione olistica sulla complessità del reale. L’approccio multidisciplinare di ogni singolo RN è stato fondamentale al fine di rivolgere sguardi differenti, sebbene complementari, sui fenomeni analizzati. È dunque all’interno di questa struttura che l’apporto antropologico insito in ciascun RN si è rivelato indispensabile.

In particolare, il contributo dell’antropologia medica all’interno del RN-Salute ha permesso di prendere in esame la dimensione della salute come indicatore dei processi politico-gestionali post-sisma e le conseguenze sulla vita della popolazione assistita. Sono emersi effetti legati alla perdita di benessere e alla sofferenza esistenziale, fisica ed emotiva derivata dalla dislocazione forzata dai luoghi di residenza di una popolazione con caratteristiche eterogenee e accomunata dall’evento disastroso. In questo senso, l’apporto antropologico è stato fondamentale nell’integrare l’analisi di tipo quantitativo legato alla misurazione della salute (quali il tasso di mortalità e il grado di consumo farmacologico delle popolazioni coinvolte) ad un approccio qualitativo circa le ripercussioni della trasformazione della dimensione spaziale, temporale e relazionale sul benessere psico-fisico della collettività (Caroselli et al. 2018: 80). Un approccio prettamente antropologico è stato adottato, inoltre, dal RN Cultura Materiale, ramo della disciplina che ha rivolto le sue attenzioni alle relazioni tra oggetti e individui, mettendo in discussione le intricate relazioni che persone e collettività intrecciano con i loro luoghi e la materia, quella che Daniel Miller (2013) definisce un'“antropologia delle cose”. In questa prospettiva, l’approccio antropologico è andato ad affinare una visione complessa del reale e di una artificiale separazione soggetto/oggetto, portando alla luce le tensioni affettive e le radici mnemoniche che le comunità tessono con i propri luoghi e le loro “cose” (Amato 2018; Miller 2013; Halbwachs 1950).

Anche da un punto di vista metodologico, l’apporto dell’antropologia si è rilevato fondamentale. Tra le diverse modalità di raccolta di dati e di analisi degli stessi, è stato adottato dai ricercatori e dalle ricercatrici l’approccio dell’osservazione partecipante e dell’antropologia visuale. Il racconto per immagini ha dato vita a singole e personali narrazioni, nelle quali non si ritrova il dramma, la morte o la tragedia esplicita, bensì quella che può essere definita come la quotidianità del disastro: la trasformazione del paesaggio, le ferite inferte alle persone e ai luoghi e la vita che pian piano si ricostruisce. La produzione di materiale visuale è scaturita in una mostra fotografica itinerante e in un cortometraggio[5], partendo dall’auspicio che le immagini, anziché paralizzare, possano muovere alla riflessione e all’azione.

Conclusione: verso un sapere comune

Il sapere che l’antropologia offre e produce sulle problematiche sociali si relaziona spesso con le conoscenze di altre discipline che, da prospettive diverse, pongono lo sguardo sullo stesso fenomeno. Come antropologhe e antropologi abbiamo molto da dire sulla variabilità culturale e sulle relazioni interculturali, e siamo in grado di illuminare molti degli aspetti che regolano la vita sociale di una collettività. Tuttavia, tali aspetti rimangono parziali se relegati ai confini della disciplina antropologica: la grande sfida dell’antropologia pubblica diviene quella di avvalersi del sapere prodotto dai distinti campi di ricerca, adottando un approccio transdisciplinare che – a nostro avviso – si configura come la quintessenza della ricerca applicata.

Il contesto del post-disastro in Appennino centrale si è rivelato essere un campo d’analisi più che mai fertile per lo sviluppo della ricerca collettiva e multifocale proposta da Emidio di Treviri. D’altronde, la genealogia del concetto stesso di “disastro” in seno alle scienze sociali suggerisce di per sé la necessità di una visione olistica e transdisciplinare sui fenomeni catastrofici oggetto di analisi. Il progressivo allontanamento da una visione prettamente tecnicistica e ingegneristica dei disastri naturali ha portato – in ambito socio-antropologico – alla considerazione delle catastrofi non come forze esterne, improvvise e dirompenti, capaci di stravolgere il normale corso della vita individuale e collettiva, bensì come il risultato di «processi storico-sociali più radicati, che contribuivano a sviluppare vulnerabilità ben prima dell’occorrenza di un evento fisico distruttivo» (Benadusi 2015: 29). Una visione olistica e aggiornata di come un disastro agisca sui processi sociali dovrebbe, perciò, tenere in considerazione le eterogenee relazioni che intercorrono tra gli esseri umani, la società, l’ambiente e il centro politico (Hewitt 1983: 10), le quali contribuiscono a prefigurare la fase critica che succede l’occorrenza di un evento indesiderato.

La dimensione psicologica – individuale e collettiva – delle popolazioni colpite da un disastro si integra, così, con la dimensione culturale che investe il significato che gli eventi assumono per una determinata comunità; agli aspetti politici e organizzativi delle popolazioni coinvolte in termini di policy e di governance; agli aspetti sociologici che determinano il funzionamento delle relazioni politico-sociali nella gestione del potere degli apparati coinvolti nella governance di un post-disastro ecc. A ciò si aggiungono il sapere delle scienze ambientali e geologiche e il sapere ingegneristico ed architettonico, legati alle tematiche di prevenzione e di una ricostruzione dei luoghi colpiti che sia conforme ai territori e adeguata alle esigenze delle popolazioni coinvolte. Riteniamo fermamente che nessuno di questi contributi può, o deve, rimanere ai margini della produzione di un sapere inteso come un bene comune e capace di generare un impatto nella trasformazione del reale.

Bibliografia

Alquati, R. 1993. Per fare conricerca. Padova. Calusca Edizioni.

Amato, F. 2018. «Perdere. Cultura materiale e pratiche quotidiane nel dopo terremoto», in Sul fronte del sisma. Un’inchiesta militante sul post-terremoto in Appennino centrale (2016-2017), Emidio di Treviri (a cura di). Roma. DeriveApprodi: 161-180.

Benadusi, M. 2015. Un’introduzione. Antropologia dei disastri. Ricerca, Attivismo,

Applicazione. Antropologia Pubblica, 1(1): 33-60.

Caroselli, S., Macchiavelli, V., Di Marco, G., Moscaritolo, G. 2018. «Al mare d’inverno. Prolungamento dell’emergenza e salute degli sfollati nelle strutture alberghiere della costa», in Sul fronte del sisma. Un’inchiesta militante sul post-terremoto in Appennino centrale (2016-2017). Emidio di Treviri (a cura di). Roma. DeriveApprodi: 80-109.

Emidio di Treviri (a cura di) 2018. Sul Fronte del Sisma. Un'inchiesta militante sul post-terremoto dell'Appennino centrale (2016-2017). Roma. DeriveApprodi.

Escobar, A. 2008. Territorios de diferencia: lugar, movimientos, vida, redes. Departamento de Antropología Universidad de Carolina del Norte. Chapel Hill Press.

Halbwachs, M. 1950. La mémoire collective. Parigi. Les Presses universitaires de France.

Hardt, M., Negri, A. 2010. Comune. Milano. Rizzoli.

Hess, C., Ostrom, E. 2009. La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica. Milano. Bruno Mondadori.

Hewitt, K. 1983. Interpretations of Calamity, The Risk & Hazards Series. Boston. Allen & Unwin.

Miller, D. 2013. Per un’antropologia delle cose. Milano. Ledizioni.

Sousa-Santos, B. 2016. Epistemologies of the South and the future. EuropeanSouth Journal, 1: 17-29.



[1] La magnitudo è di 6.0 e il suo epicentro è ad Accumoli (RI), nell’alta Valle del Tronto. Pochi minuti dopo una seconda scossa, di magnitudo 4.4 colpisce il borgo di Amatrice.

[2] Il 26 ottobre gli episodi tellurici si verificano con due potenti scosse (5.4 e 5.9 di magnitudo) tra i comuni della provincia di Macerata, Visso, Ussita e Castelsantangelo sul Nera. Pochi giorni dopo, il 30 ottobre, si registra la scossa più forte: di magnitudo 6.5, l’epicentro è tra Norcia e Preci, in provincia di Perugia. Il 18 ottobre 2018 le scosse colpiscono nuovamente il territorio amatriciano, con epicentro tra Amatrice e Pizzoli.

[3] Si ricordano, a tal proposito, gli studi sulle classi subalterne condotti nel Sud Italia su direzione di Danilo Dolci, dalle cui esperienze nascerà il “Centro studi e iniziative per la piena occupazione” e il “Centro di Ricerche Economiche e Sociali per il Meridione”.

[4] Si riporta, in questa sede, l’esempio dell’analisi sul Contributo di Autonoma Sistemazione (CAS), che rappresenta l’aiuto economico erogato mensilmente agli individui e alle famiglie le cui case sono andate distrutte o rese inagibili dal sisma. Questo strumento si è dimostrato iniquo e volto all’amplificazione della forbice delle disuguaglianze economiche della popolazione; a tal riguardo, il gruppo di ricerca ha sviluppato iniziative per la produzione di un’alternativa volta alla considerazione delle disuguaglianze materiali ed economiche di partenza della popolazione beneficiaria. Un altro esempio è la proposta di “AutoRicostruzione” che attualmente alcune ricercatrici e ricercatori stanno portando avanti in collaborazione con abitanti del cratere e ARIA Familiare, associazione che promuove l’autorecupero. La proposta consiste nell’inserire l’autoricostruzione familiare tra le forme di ricostruzione ammesse ai finanziamenti erogati dallo Stato per gli edifici toccati dal sisma. In questo caso si tratta di creare strumenti pratici di recupero fisico degli edifici, ma anche di consolidamento del senso di comunità.

[5] “Dopo il terremoto - Cultura materiale e pratiche quotidiane nel cuore dei Sibillini” (Emidio di Treviri 2018).