Oltre le parole

Saperi e identità in un percorso di co-costruzione tra arte e narrativa

Nicoletta Castagna

Universitat Rovira i Virgili Tarragona, Doctorat en Antropologia médica i salut global

Indice

Introduzione
Il campo come spazio d’incontro e negoziazione
I partecipanti
La liminalità dell’esperienza in un caso di etnografia at home
Il linguaggio come espressione creativa dell’esperienza
La narrazione dell’esperienza come processo di co-costruzione
Dalla forma alla parola: percorsi di arte terapia tra riflessione e condivisione
L’analisi dell’esperienza attraverso una prospettiva laterale
Saperi in movimento
Considerazioni conclusive
Bibliografia

Abstract.  This contribution aims to explore some methodological aspects emerged during medical anthropology research with relatives of Huntington’s patients. It also deepens the illness narratives in a help-self groups and art therapy activities, organized by Associazione Italiana per la Còrea di Huntington (AICH) of Milan. The field is characterized by exchange of personal experience of illness and disciplinary concepts. Participants and therapists collaborate in the creative process of co-construction of lay knowledge and identity: caregivers, people at genetic risk and therapists highlight different representations and ideas about Huntington’s disease. Therefore, they encourage the creation of new subjectivities. Genetic identity are engendered by the relationship between emotions, experiences and shared knowledge. For this reason, the lateral perspective is necessary to explore the different concepts in a multidisciplinary approaches. In this way, the participant observation put on evidence the production and re-production of nomadic knowledge, that moves concepts and meanings in multiple disciplinary fields.

Keywords.  Illness narratives; art therapy; Huntington’s disease; lateral perspective; nomadic knowledge.

Introduzione

Le “narrazioni di malattia” sono pratiche discorsive attraverso le quali le persone raccontano la propria illness intesa come la declinazione soggettiva, esperienziale e al contempo sociale, del loro malessere o della loro malattia (Cozzi 2012). Esse consentono di iscrivere l’evento patologico in una temporalità biografica che si dispiega sul piano della soggettività esperita da un lato e dell’intersoggettività dall’altro, attraverso il linguaggio, i segni, il riconoscimento dei sintomi, i significati condivisi e le sovrapposizioni nosografiche. Gli approcci narrativi in antropologia medica sono storicamente emersi con un duplice obiettivo: da un lato, quello di favorire l’analisi dei processi di dissoluzione del mondo vissuto alla cui luce arrivare a comprendere che cosa significhi, per i soggetti coinvolti, una particolare esperienza di afflizione; dall’altro, quello di promuovere la partecipazione attiva dei pazienti nella produzione del significato attraverso cui arrivare a dare senso ad una inedita forma di esperienza del/nel mondo (Quaranta, Ricca 2012). Parlando di narrazioni di malattia si dà spesso per scontato che si tratti del racconto del singolo, del paziente e che il tema sia la propria e individuale esperienza. L’evento patologico però, fa sì che non siano solamente i pazienti a vivere la propria malattia, ma che ci sia tutta una sfera di persone che possono essere coinvolte e per questo possono rappresentarla nelle narrazioni. Parliamo quindi dei familiari del sofferente, degli amici, di chi gli sta accanto, ma anche i medici, gli infermieri, il personale sanitario e, nel caso della malattia ereditaria, le persone a rischio genetico. Nel corso della mia ricerca con i famigliari dei malati di Huntington presso l’Associazione Italiana per la Còrea di Huntington (AICH) di Milano, ho voluto analizzare attraverso la narrazione dell’illness, non tanto l’interpretazione della malattia come «collezione di sintomi» (Foucault 1998: 110), quanto le modalità con cui questi sintomi, interagendo sul piano socio-culturale, relazionale e affettivo, contribuiscono alla produzione dei significati e di nuove soggettività. Si tratta di una parte di un progetto di più ampio respiro che intende indagare l’incorporazione dell’incertezza prodotta da malattie ereditarie attualmente inguaribili. Gli obiettivi che mi sono posta durante la ricerca svolta con i famigliari dei malati, riguardano lo studio delle problematiche relative alla gestione quotidiana delle persone affette e la costruzione delle identità a rischio genetico (Novas, Rose 2000).

La Malattia di Huntington è una malattia ereditaria di tipo neurologico, cronico-degenerativa, caratterizzata da disturbi cognitivi e psichiatrici che accompagnano, in intensità variabile nel tempo, una serie di movimenti incontrollati detti “còrea” (Huntington 2003). Attualmente la malattia interessa circa 6-7.000 persone nel territorio italiano e si calcola che altri 30-40.000 individui siano a rischio di svilupparla nel corso della loro vita. Per la sua scarsa diffusione è considerata una malattia rara. Trattandosi di una forma di disabilità che investe aspetti motori, cognitivi e psichiatrici, la malattia di Huntington è soggetta ancora oggi ad una forte stigmatizzazione che colpisce non solo la persona malata, ma talvolta l’intero nucleo famigliare (Wexler 2010). A partire dai racconti dell’illness mi è stato possibile analizzare la malattia come costruzione sociale e culturale, come una trasformazione ed espressione della sofferenza del corpo e dell’identità, ma anche come ri-costruzione di un proprio mondo e una propria immagine di sè (Carricaburu, Ménoret 2007). Infatti, la narrazione biografica agevola lo studio dei processi di categorizzazione, in quanto permette di leggere la profondità temporale e la connessione dei fenomeni narrati, consentendo allo stesso tempo di ridurre l’opacizzazione derivata dalla standardizzazione dei saperi esperti (Bichi 2007).

Nell’ambito della mia ricerca presso l’AICH Milano Onlus, il campo è stato caratterizzato da uno spazio definito da dinamiche strutturate e da professionalità plurime che hanno collaborato alla realizzazione dei gruppi di auto aiuto e del laboratorio di arte terapia per i famigliari dei malati. Durante la mia partecipazione agli incontri, ho potuto osservare come l’ambiente in cui si sono svolte le attività mutasse di volta in volta, da luogo di dialogo e di confronto sulle idee ed esperienze significative, a luogo di interpretazione creativa delle stesse. La mia presenza si è configurata fin da subito attorno ad un’osservazione partecipante volta a cogliere gli aspetti espressivi e linguistici dei componenti del gruppo, contestualmente all’agentività degli operatori che se ne sono occupati. È emersa qui una prima criticità dovuta alla fluidità del campo, che nell’ambito dell’antropologia medica at home, ha evidenziato la continua alternanza di prospettive tra la vicinanza e l’alterità nei confronti del sapere biomedico e dell’esperienza espressa dai vari attori (Van Dongen, Fainzang 1998). Approssimarsi agli orizzonti di significato prodotti dalla complessità della malattia, comporta l’esigenza di approfondire i vissuti personali attraverso linguaggi narrativi stimolati dall’azione di metodologie espressive differenti che lasciano spazio alla creatività. L’arte terapia è stata introdotta nei gruppi di auto aiuto al fine di rispondere ad esigenze prevalentemente di tipo psicologico, in quanto funge da stimolo per riconoscere e far emergere un complesso emozionale interiore difficilmente esplicabile solo mediante il linguaggio verbale. Infatti, il processo creativo trasforma dei materiali allo scopo di ottenere forme di creazione o di simbolizzazione, dopo una prima fase di esplorazione caotica tra le possibili alternative, facendo così “germogliare il soggetto” (Santos Sánchez-Guzmán 2013). Attraverso il tentativo di decifrare la conoscenza esperita al di fuori degli schemi di riferimento, in un contesto riflessivo e transdisciplinare, la creatività espressa mediante la produzione e rielaborazione di oggetti artistici ha permesso un avvicinamento laterale alle rappresentazioni soggettive della malattia e allo stesso tempo ha contribuito alla co-costruzione dell’identità.

Il campo come spazio d’incontro e negoziazione

Attualmente la maggior parte degli studi sulla Còrea di Huntington coinvolgono gli ambiti della biomedicina e dell’infermieristica, e molto raramente quelli sociali. Per questo la presentazione degli obiettivi della mia ricerca in antropologia hanno suscitato fin da subito l’interesse e la curiosità dei partecipanti, favorendo così un clima di collaborazione nei miei confronti.

Partendo dall’analisi delle illness narratives (Kleinman 1988), la ricerca si è sviluppata nel contesto delle iniziative di supporto e sostegno rivolte a persone a contatto diretto e indiretto con la malattia, a rischio genetico, o coinvolte nella cura del malato sotto un profilo esperienziale e affettivo. Le attività di auto aiuto e di arte terapia organizzate dall’associazione sono state caratterizzate dalla presenza e compresenza di figure professionali differenti che agivano in collaborazione: il laboratorio di arte terapia, con la partecipazione delle due psicologhe dall’associazione, era guidato da un’arte-terapeuta; i gruppi di auto aiuto erano mediati dalle due psicologhe, di cui una esperta di counselling. L’attività di arte terapia era stata proposta già negli anni precedenti sulla base delle difficoltà riscontrate durante i gruppi di auto aiuto rivolti ai figli, nel corso dei quali le psicologhe avevano evidenziato una certa “resistenza” a far emergere i contenuti emozionali suscitati dalla rielaborazione dall’esperienza con la malattia di Huntington. Da un incontro all’altro la tipologia e il numero di partecipanti variava sensibilmente, così come variavano le attività proposte. Infatti, mentre il gruppo di ascolto era rivolto esclusivamente ai caregiver e ai figli dei malati a rischio genetico, i laboratori di arte terapia coinvolgevano un gruppo più numeroso ed eterogeneo di persone.

La sala dell’associazione ha accolto in momenti distinti la produzione e la ri-creazione della medesima esperienza attraverso linguaggi diversi e inediti. Le due attività, svolte in alternanza tra loro, erano concepite dagli operatori come un continuum temporale tra l’azione creativa ed espressiva, intrisa di simboli e significati, e la successiva rielaborazione narrativa dei partecipanti. Questi ultimi al contrario, percepivano le due attività come profondamente differenti, talvolta prediligendo l’una rispetto all’altra. In questo contesto la mia posizione si è collocata all’interno delle dinamiche previste con gli operatori, permettendomi un accesso privilegiato e allo stesso tempo informale nei confronti delle persone che prendevano parte ai gruppi di sostegno. Il mio lavoro di ricerca si esplicava in una duplice direzione: da una parte come osservatrice partecipante con un ruolo prevalentemente di ascolto durante i gruppi di auto aiuto; dall’altro come partecipante attiva durante i laboratori di arte terapia ed impegnata a creare delle opere a cui conferire un significato simbolico, così com’era richiesto agli altri membri del gruppo. Sulla base di queste dinamiche, il campo è diventato uno spazio di incontro circoscritto e mutevole, dove la labilità dei confini spaziali e identitari ha permesso l’intersecarsi di approcci metodologici e saperi differenti.

I partecipanti

La malattia di Huntington oltre ad essere scarsamente diffusa sul territorio nazionale, è soggetta ancora oggi a processi di stigmatizzazione dovuti alle sue caratteristiche sintomatiche e all’aspetto ereditario (Wexler 2010). Per tale ragione, intraprendere uno studio su questa rara malattia, implica in primo luogo la difficoltà di entrare in contatto con un numero sufficiente di famiglie. Ai fini della mia ricerca è stato quindi fondamentale prendere parte alle attività organizzate dall’associazione, attraverso le quali mi è stato possibile conoscere i famigliari dei malati: coniugi, parenti di vario grado e figli a rischio che hanno effettuato o meno il test genetico. Come rilevato dalle psicologhe, ciascuna di queste categorie manifestava differenti bisogni di ascolto e spazi di confronto. Per questo, le attività dell’associazione, organizzate attorno alle esigenze dei famigliari, erano caratterizzate da una frammentazione in gruppi di auto aiuto con un numero ridotto di partecipanti. Tale frammentazione ha comportato la necessità di prolungare e intensificare la mia permanenza sul campo.

Una parte dei famigliari che ho incontrato nel corso di questo primo periodo di ricerca, assistevano il malato quotidianamente e condividevano con lui le difficoltà legate alla gestione e al peggioramento dei sintomi, così come il progressivo isolamento che investe le relazioni affettive e sociali, ma non solo. Carlo, uno dei membri del gruppo che assiste la moglie malata dal 2008, testimonia le difficoltà di vedere riconosciuto l’aggravamento delle condizione di salute da parte delle commissioni mediche:

Non vi dico per avere l’invalidità! Sei commissioni sono venute, sei commissioni mediche per dare l’invalidità e l’accompagnamento! Il 50%, poi il 67%, il 73% e non il 74 perché con 74 ti davano qualcosina. Le avevano dato il 70. Ho fatto ricorso al tribunale. Al patronato ho detto: “Io voglio fare ricorso”. Dopo sei mesi l’ho vinto. Perché hanno visto. Adesso ho l’accompagnamento. Però tutte queste istituzioni ne approfittano, ne approfittano, perché se te non ti dai da fare per conto tuo… Capisci cosa voglio dire? Devi rompere le scatole a tutti (Carlo, gruppo auto aiuto, 22/11/2018).

Ne emerge un’immagine di caregiver famigliare che, oltre a prendersi cura del malato, si fa anche interprete delle condizioni di salute del proprio caro, assumendosi la responsabilità delle relazioni, talvolta conflittuali, con il personale sanitario e con le istituzioni.

Diversamente,il gruppo dei figli a rischio era costituito da un numero ridotto ed eterogeneo di persone che mantenevano in gran parte una certa indipendenza rispetto alla situazione assistenziale famigliare. Infatti, la maggior parte di loro non viveva con il genitore malato, pur rendendosi partecipe in vario grado alla sua cura e ai bisogni assistenziali. Per i figli a rischio le problematiche sollevate dalla malattia erano legate alla gestione della consapevolezza genetica, in quanto elemento fondamentale per l’elaborazione di un’immagine di sé e di una prospettiva di vita futura.

Il gruppo di auto aiuto rivolto ai caregiver è stato fondamentale per comprendere l’elaborazione dei saperi esperti e delle rappresentazioni prodotte dalla malattia genetica nel contesto famigliare; gli incontri con i cosiddetti “figli a rischio”, mi hanno permesso invece di osservare le pratiche di resistenza nei confronti della malattia e i meccanismi legati alla costruzione della propria identità e di un progetto di vita. Le stesse persone che partecipavano ai gruppi, frequentavano il laboratorio di arte terapia.

La scelta di non coinvolgere direttamente i malati nella mia ricerca è stata dettata dalle caratteristiche cognitive e psichiatriche della malattia. Le persone che ho incontrato nel corso dell’osservazione sul campo assistevano in casa i malati nella fase intermedia o avanzata. Sebbene non tutte le persone affette dalla malattia di Huntington manifestano gli stessi sintomi con la stessa progressione e intensità, le caratteristiche psichiatriche, il grado di avanzamento dei sintomi e i complessi e delicati equilibri famigliari, sono elementi che ostacolano l’osservazione delle persone malate nel loro contesto quotidiano.

La liminalità dell’esperienza in un caso di etnografia at home

Come hanno rilevato gli antropologi Van Dongen e Fainzang (1998), la ricerca nell’ambito dell’antropologia medica at home ha messo in rilievo il carattere fluido e mutevole del concetto di campo nel determinare i confini tra la vicinanza e l’alterità rispetto all’esperienza dei soggetti osservati. Già Lévi-Strauss (1987) ha sostenuto la necessità dell’antropologo di mantenere uno “sguardo da lontano”, in qualità di garanzia di obiettività. Egli ritiene opportuno che alla distanza dello sguardo corrisponda una distanza geografica. Come affermava Fabietti (1999), oggi sarebbe veramente difficile seguire alla lettera l’invito di Lévi-Strauss, sia perché negli ultimi decenni sempre più antropologi si sono dedicati allo studio di realtà culturali e sociali “vicine”, sia perché il traffico culturale che sembra caratterizzare sempre più la nostra epoca, non consente di mantenere stabile la distinzione rigida tra un “qui” e un “laggiù”. Il viaggio può essere considerato un momento di quella particolare esperienza di sradicamento dalla vita quotidiana, in quella curvatura dell’esperienza che costruisce l’esperienza etnografica (Cozzi 2007). Infatti, vicinanza geografica non significa necessariamente identità o esperienze condivise e orizzonti comuni di significato. Alla lontananza dello sguardo deve corrispondere in primo luogo una lontananza culturale dell’antropologo nei confronti del proprio oggetto di studio. La contemporaneità impone quindi un rimpatrio dell’antropologia in cui l’antico giro lungo dell’antropologo non avviene necessariamente in termini geografici, ma soprattutto esistenziali e di appartenenza (Spada 2016). L’antropologia medica at home determina dunque una ridefinizione di confini (Van Dongen, Fainzang 1998) che non interessa tanto l’aspetto geografico quanto quello metodologico: lo sguardo da lontano si configura come la necessità di prendere le distanze dalla propria cultura intesa come complesso di norme, concetti e valori (Fabietti 1999). Ne deriva uno spaesamento che non dipende dalla frattura con lo stile di vita ordinario, ma da un ri-orientamento e da un mutamento di prospettive.

Nel caso specifico dell’analisi delle esperienze narrate con i malati di Huntington, il mutamento di prospettiva è avvenuto attraverso un accesso al campo graduale. In un primo momento l’osservazione si è focalizzata sulle dinamiche strutturate nello spazio adibito al sostegno psicologico delle persone coinvolte dalla malattia ed, in seguito, si è dilatata fino ad interessare modalità di riflessione e comunicazione di diversi concetti e le categorie disciplinari. Parlare di uno sguardo vicino in contrapposizione a quello “da lontano” di Lévi-Strauss, comporta un duplice posizionamento nell’ambito dell’antropologia medica, con particolare riferimento agli studi genetici. Da un lato, la consapevolezza della conoscenza biomedica come prodotto culturale impone un allontanamento dalle idee, dai valori e dalle rappresentazioni costruite dai saperi esperti; dall’altro si rivela necessario uno sforzo di avvicinamento all’esperienza “distante” tra la soggettività della persona e la formazione dell’identità a rischio genetico. In questo contesto è emersa la necessità di de-costruire i valori prodotti dai saperi esperti che investono gli spazi culturali delle relazioni sociali e dei legami famigliari. Questi ultimi non emergono solo attraverso il linguaggio degli affetti e delle emozioni, ma anche in relazione al patrimonio genetico. De-costruire gli aspetti sociali, culturali e politici della malattia attraverso uno sguardo decentrato, significa mettere in gioco concezioni differenti sopra i diversi saperi e i vissuti delle persone. Si tratta quindi di procedere ad una continua de-costruzione e ri-costruzione di valori epistemici che informano e plasmano le relazioni sociali. La necessità di occupare uno spazio liminale è emersa nella relazione e collaborazione con professionalità diverse che agiscono come interpreti e co-costruttori di significati delle esperienze di vita. Il confronto con i saperi esperti, con le psicologhe e con le terapiste dell’Associazione e con i partecipanti ai gruppi di auto aiuto e dei arte terapia, ha evidenziato modelli interpretativi differenti e stimolato spazi di condivisione e riflessione (Hay 2010). La posizione dell’antropologo at home va a collocarsi dunque sulla “soglia”, nella liminalità tanto delle relazioni individuali quanto dei “saperi dati” (Martínez-Hernáez, Correa-Urquiza 2017), attraverso l’ambivalenza dei confini tra vicinanza e alterità.

Il linguaggio come espressione creativa dell’esperienza

Come afferma Striano (2005), la narrazione genera forme di conoscenza che rispondono a richieste di chiarificazione di senso e di significato in merito ad accadimenti, esperienze ed eventi intesi come fenomeni su cui si esercita un processo ermeneutico. La narrazione autobiografica è almeno in parte motivata dall’intenzione di dare un senso e una ragione, di scoprire una logica retrospettiva e insieme prospettiva, una consistenza e una costanza, collegando con relazioni intellegibili, momenti successivi che così si pongono come tappe di uno sviluppo necessario (Charon 2008). La scelta di iniziare dall’ascolto dei vissuti autobiografici mi ha permesso da subito di mettere a fuoco gli eventi significativi della storia del malato e della malattia stessa: l’interpretazione dei primi sintomi, il momento della diagnosi e del test genetico, l’aggravamento della condizione di invalidità con il successivo riconoscimento economico ed, infine, l’inserimento della persona affetta in una struttura assistenziale idonea. Kleinman afferma che «le linee della trama, le metafore e i dispositivi retorici che strutturano il racconto della malattia emergono dai modelli culturali e personali per disporre le esperienze in modo sensato e per riuscire a comunicare davvero quei significati» (Kleinman 1988: 43).

Talvolta però il racconto della malattia non ha come primo obiettivo quello di descrivere il malessere, ma di evidenziarne il carattere iniquo: «Ma perché, ma perché ha dovuto soffrire così tanto e ne sta soffrendo ancora?» — si domanda Paola, la madre di una ragazza affetta da diversi anni dalla Còrea di Huntington — «Io chiedo cento mila volte a me, non a lei, ma non c’è niente da fare, non c’è niente da fare»[1]. Il suo racconto si concentra sul carattere ingiusto della malattia che ha colpito la figlia in giovane età e sullo sconforto derivante dall’impossibilità di inserirla in un’attività lavorativa (Hay 2010)[2].

Poi lei era una ragazza stupenda perché aveva voglia di lavorare. Cercava lavoro e a lavoro la prendevano e non la tenevano mai, la lasciavano sempre a casa. E quindi lì un’altra tragedia perché lei diceva: «Ma perché, ma perché trovo lavoro e poi mi lasciano tutti a casa?». Un mese, quindici giorni e poi me la lasciavano tutti a casa. E io dovevo affrontare anche questa cosa e dicevo: «Ma sì, vedrai che poi andrà bene, vedrai che prima o poi verrà fuori qualche lavoro anche per te». Aveva solo questo poco di tremore e questi movimenti involontari, ecco. Ma lei non se ne rendeva conto (Paola, gruppo di auto aiuto, 23/2/2018).

Racconti come questo tentano di condurre l’ascoltatore a risolvere la verità della storia nelle questioni del giusto e dell’ingiusto. La vita malata si configura in questi frammenti di narrazione come un’esperienza politica del vivere insieme, della disuguaglianza che si subisce e dell’ingiustizia che si denuncia (Fassin 2016). Le pratiche narrative messe in atto dai famigliari per raccontare la propria esperienza, permettono loro di iscrivere l’evento patologico in una temporalità biografica e di mantenere le connessioni di significato tra il tempo passato, presente e futuro della propria storia di vita.

Turner (1992) sostiene che la struttura della trama narrativa, con il suo carattere essenzialmente temporale, il suo sviluppo e la sua risoluzione, non regge solo i racconti, ma il processo sociale stesso, il quale progredisce da una rottura nello stato presente verso una crisi e una riparazione. Egli afferma che i resoconti narrativi, insieme ai rituali, agli sforzi di risarcimento legale, e altri drammi sociali vissuti dai malati, si trovano in relazione all’indeterminatezza assoluta evidente nei momenti di crisi e di rottura. Attraverso la narrazione è possibile dare una prospettiva e un significato alla vicenda esistenziale (Atkinson 2002). La narrazione della storia di vita quindi si configura come una tecnica di resistenza alla “distruzione biografica” inevitabilmente prodotta dall’irrompere della malattia (Bury 1982). Questo artificio impeccabile, che è la storia di vita, non è fine a se stesso, ma porta anche alla costruzione di un concetto di “traiettoria” come serie di posizioni occupate da uno stesso agente in uno spazio che è esso stesso in divenire e soggetto a trasformazioni incessanti (Bourdieu 1995).

Dalle narrazioni delle persone che ho incontrato emerge una traiettoria temporale che distingue tra una vita “prima” della malattia e una “dopo” l’esordio dei sintomi. In molti casi, a questi due momenti corrispondono due stili narrativi differenti: il primo è caratterizzato da eventi collocati secondo una successione logica e ordinata che termina con l’arrivo della malattia; il secondo, appare caotico e difficile da ricostruire lungo un asse temporale coerente e significativo. Pur individuando il punto di inizio con l’esordio dei primi sintomi[3], o con la diagnosi medica, la narrazione non è più organizzata secondo una logica consequenziale di eventi. Come sostiene (Frank 1995) la narrazione caotica è sempre oltre a ciò che può essere detto, perché mancano le parole per esprimerlo. Il caos può essere metaforicamente interpretato come un “buco nel discorso” che costringe a parlare sempre più velocemente per cercare di nascondere la sofferenza con le parole. Questo modello narrativo è particolarmente adatto a descrivere il racconto di Elena, che assiste il marito malato di Huntington dal 2007. La vita del marito, prima della diagnosi medica, era scandita dagli eventi professionali e famigliari: il lavoro come dipendente, la nascita della figlia Sara, la decisione di aprire un’attività in proprio, le difficoltà e gli imprevisti professionali e, infine, la dolorosa decisione di abbandonare la sua amata professione. Poi, con l’arrivo della malattia, la narrazione diventa caotica: Elena parla contemporaneamente di eventi differenti che vanno dalle cadute e dalle continue crisi di ansia del marito alle difficoltà incontrate con le commissioni mediche, dalla figlia cresciuta con il padre malato, all’allontanamento inspiegabile dei parenti. Nella sua trama narrativa, molto ricca di dettagli, si perde completamente il senso del tempo: gli eventi non si collocano più in una successione logica e causale dando così l’impressione di non sapere esattamente a che punto siamo del racconto.

Le biografie narrate consentono di studiare fatti e interpretazioni nei quali la parola è il vettore principale che esprime saperi sociali, sistemi di valori e di norme. Questo processo però non avviene solamente attraverso il racconto delle storie di vita. Anche l’immagine di un oggetto o di una forma che trasmette un’idea, un’esperienza o un’emozione può essere investita di simboli e rappresentazioni. Nel corso degli incontri di arte terapia Francesco, uno dei partecipanti a rischio genetico, crea uno specchio che non riflette nessuna immagine: «È uno specchio che non riflette niente e che non ci si vede dentro perché è ruvido e impenetrabile però sotto c’è un altro specchio, quindi se guardi bene si può vedere qualcosa. Questo specchio non rimanda nessuna immagine, l’ho fatto con una superficie ruvida che sembra una grattugia»[4]. Lo specchio di Francesco non trasmette un’immagine definita; lascia solo intuire che “sotto” c’è qualcosa che non si può vedere. Lo specchio appare, in questa testimonianza, come la metafora dell’impossibilità di riconoscere e riconoscersi in un’identità chiara e distinta, percepibile agli altri. Come sostiene Lacan (1994) l'opera d'arte è un tipo di organizzazione testuale, una trama significante che manifesta una sua propria particolare densità semantica. Sulla base di queste considerazioni ho voluto interpretare il prodotto artistico come una forma di espressione, una modalità di comunicazione che esprime dei contenuti sul soggetto che lo crea. Il linguaggio sia artistico che verbale, inteso come espressione creativa, è decisivo tanto nella costituzione e trasmissione del significato, quanto nel processo di interpretazione generato dal ricercatore nei confronti della realtà da studiare (Menéndez 2005). Attraverso le narrazioni e le produzioni artistiche, in quanto modalità espressive e creative, è stato possibile interpretare non solo l’esperienza della malattia, ma anche il suo ruolo nella ricerca di significato e nell’elaborazione dell’immagine di sé.

La narrazione dell’esperienza come processo di co-costruzione

Negli approcci che considerano tendenzialmente simmetrica la relazione tra osservatore e osservato, prevale la concezione partecipativa della raccolta-produzione delle informazioni ricavate dai racconti e dalle interviste. Questo significa dover considerare l’espressione linguistica come un’attività sociale e come una funzione cognitiva in cui la persona che comunica dei contenuti non è più solo il depositario di opinioni e di ragioni, ma una vera e propria fonte produttiva di contenti e conoscenze: proprio un atteggiamento improntato all’ascolto dà rilievo al fatto che anche gli altri sono produttori di significati, di valori e di senso. Ne consegue che anche la figura del ricercatore non appare più separata da un’esternalità di principio, ma si trova costantemente in relazione con il soggetto osservato, pur nella contemporanea ma relativa distinzione dei ruoli.

Fin dal primo incontro con il gruppo di auto aiuto mi sono dovuta confrontare con l’impossibilità di utilizzare qualsiasi modalità di annotazione. Infatti, visto il numero ridotto di partecipanti e la loro collocazione nella stanza dell’associazione, l’utilizzo di quaderni di campo su cui trascrivere le osservazioni e gli interventi avrebbe potuto facilmente fungere da elemento condizionante e distraente per i miei interlocutori. Per questo, nel corso dell’osservazione ho cercato di memorizzare le parole chiave e le frasi significative che mi avrebbero in seguito aiutata a trascrivere le note di campo, rimanendo il più possibile fedele al loro contesto. Trattandosi di racconti e conversazioni, sia con le psicologhe che tra i partecipanti dei gruppi di auto aiuto, ho dovuto fare affidamento sulle mie capacità di attenzione, di ascolto e concentrazione (Taylor, Bogdan 1987). La figura dell’“etnografo-spugna” (Piasere 2002) è fondamentale per chi compie una ricerca sul campo che coinvolge aspetti empatici ed emozionali. Essa rappresenta una metodologia che agevola il processo di co-costruzione della conoscenza attraverso una componente autoriflessiva della propria esperienza di ricerca (Remotti 2012). La riflessività inerente alla ricerca etnografica si configura come il processo di interazione, differenziazione e reciprocità tra il ricercatore e i soggetti osservati. Questo aspetto è particolarmente significativo nelle ricerche in cui vi è un coinvolgimento dello studioso e dove vi è la consapevolezza delle trasformazioni sociali e culturali innescate dall’incontro tra il ricercatore e il soggetto studiato, mediante le pratiche e i saperi in continua evoluzione. Frank (1995; 2001) sottolinea la differenza tra thinking with stories e thinking about stories: pensare con le storie che ci vengono narrate è un processo esperienziale e trasformativo, che ci pone in relazione al narratore. Quando ci confrontiamo con il dolore e la sofferenza degli altri, le loro narrazioni esercitano una sorta di obbligo morale nei confronti dell’ascoltatore a non distogliere il nostro sguardo e il nostro ascolto, ma a riconoscere e condividere (Morris 2002). In tal senso, si presuppone che le idee e le conoscenze delle persone coinvolte in questa reciprocità non solo siano rilevanti, ma anche inscindibili dalle differenti tipologie di narrazioni del sé: il sé dei soggetti indagati e dei soggetti che indagano. L’ascolto attivo, così come la costante attenzione nei confronti dei miei interlocutori, sono stati fattori che mi hanno aiutata a rafforzare la relazione di fiducia con i partecipanti, contribuendo inoltre ad attenuare e superare l’aspetto “intrusivo” (Taylor, Bogdan 1987) rappresentato dal mio ruolo di osservatrice nel gruppo. I contenuti emozionali, espressi spesso dai caregiver attraverso l’uso di metafore, apparivano come un codice comunicativo fondamentale nell’interazione tra le persone che prendevano parte al gruppo. La costruzione e ri-costruzione narrativa, emersa dalle parole dei partecipanti, faceva trasparire una condizione emozionale di assoluta rilevanza sulla quale poggiavano le relazioni tra i membri del gruppo e che conferiva loro un certo senso di appartenenza ad una storia di vita e un destino comuni. Durante i gruppi, ho potuto osservare ad esempio come l’utilizzo dei pronomi “noi/loro” fosse finalizzato ad esprimere tutto il coinvolgimento emotivo e il carico della sofferenza, oscillando da un determinato distacco ad una sentita comunanza e condivisone di esperienza: «Sembra che tutto giri intorno a loro. Loro non capiscono, non si rendono conto. Sembra che lo facciano a posta…»[5] — sono frasi spesso ripetute dai membri del gruppo. Con la stessa costanza si è utilizzato il pronome “noi” per riferirsi impropriamente ai malati di Huntington: «Al centro diurno, ho visto, ce ne sono altri come noi, con la nostra patologia»[6].

Anche l’aspetto gestuale, la comunicazione non verbale, il tono della voce e i silenzi significativi esprimevano spesso informazioni sulla persona, sulla sua percezione di soggetto a rischio genetico e sull’esperienza famigliare. Questi dettagli accessori, mi hanno permesso di giungere ad una più chiara comprensione delle possibili interazioni tra le idee individuali e i significati prodotti dalla relazione intersoggettiva. Con la condivisione dei vissuti emozionali trasmessi dalla malattia di Huntington attraverso un dialogo incessante, il gruppo non appariva più solo un luogo di scambio di esperienze, ma anche di formazione di pensieri e rappresentazioni della malattia stessa.

Dalla forma alla parola: percorsi di arte terapia tra riflessione e condivisione

La produzione di significati avviene attraverso una pluralità di linguaggi espressivi differenti che meritano attenzione in quanto complementari ai processi narrativi. Approssimarsi all’esperienza degli altri attraverso il linguaggio è sempre un atto parziale di cui si è molto discusso poiché, come indica Geertz (1983), non possiamo comprendere pienamente ciò che i nostri informatori percepiscono. Infatti, gli individui sono immersi in un contesto complesso di relazioni multiple che non possono essere approcciate solo attraverso la narrazione e l’intervista (Hita 2013). Mi sono posta dunque l’interrogativo di come avvicinarmi all’esperienza dell’altro attraverso canali comunicativi diversi, ma pur sempre in relazione tra loro. La partecipazione al laboratorio di arte terapia mi è parsa una posizione privilegiata, da cui cogliere e comprendere la portata degli aspetti culturali e sociali del fenomeno patologico inteso in termini genetici. Secondo la definizione di Klein, l’arte terapia è l’abilità di proiettare se stessi in un’opera «come un messaggio enigmatico in movimento e di lavorare su quest’opera per lavorare su di sé, poiché è la possibilità di simbolizzare che conferisce all’uomo la capacità di essere nel mondo» (Klain 2006: 13). A differenza dei gruppi di auto aiuto, dove prevaleva la condivisione dei valori e dei significati prodotti dall’esperienza con la malattia, l’arte terapia era pensata come un’attività prevalentemente individuale che proiettava al di fuori di sé dei contenuti emozionali rendendoli concreti, visibili e manipolabili dal soggetto. Questa tecnica rispondeva alle esigenze evidenziate dalle psicologhe dell’associazione allo scopo di sostenere e stimolare la rielaborazione dell’esperienza per i figli a rischio, ma allo stesso tempo dava informazioni sul soggetto stesso, non solo sul suo vissuto personale o sulle sue relazioni, ma anche sulla rappresentazione di sé, sull’idea di futuro e sull’incertezza nel formulare un progetto di vita. Questi aspetti appaiono come domini di significato che connettono la malattia, espressa in termini di patrimonio genetico, ai valori culturali di una società. Essi coinvolgono le rappresentazioni cognitive sulla gestione del rischio a loro volta influenzate dal sapere biomedico in virtù delle nuove scoperte scientifiche.

Le persone che partecipavano al laboratorio di arte terapia prendevano posto attorno a dei tavoli disposti in un lato della stanza, mentre dall’altro era collocato tutto il materiale necessario all’attività: carta, colla, colori a tempera, pennarelli e acquerelli e materiali di altro genere, come fogli di giornali e cannucce colorate. Durante l’attività, i pochi scambi comunicativi tra i partecipanti e la terapista avvenivano sottovoce e il più delle volte erano motivati dalla necessità di chiedere un consiglio pratico sull’uso dei materiali da utilizzare. Ciascuno era profondamente concentrato sull’ideare e realizzare il proprio oggetto. Si trattava di un lavoro individuale e autoriflessivo il cui prodotto trascendeva il valore estetico e la partecipazione dell’altro. Alle persone che prendevano parte all’attività è stato chiesto di scegliere di rappresentare di volta in volta un oggetto diverso tra quelli proposti dalla terapista: una scala, una tana, un uovo o uno specchio. Non sempre il tempo concesso era sufficiente a concludere i lavori, anche perché di frequente la “fase di esplorazione” (Santos Sánchez-Guzmán 2013) richiedeva una lunga riflessione e revisione dell’idea di partenza.

La necessità da parte mia di partecipare attivamente all’attività è dipesa da diversi fattori: in primo luogo era opportuno evitare che le persone concentrate nella realizzazione della loro opera si sentissero osservate; in secondo luogo, impegnarmi nella loro stessa attività ha contribuito ad accorciare la distanza tra la mia posizione di “estranea” in un primo momento al gruppo dei famigliari, ma soprattutto alla malattia di Huntington. In accordo con l’arte terapeuta, la mia partecipazione prevedeva la creazione di un oggetto a scelta, come per tutti gli altri partecipanti, con la richiesta però che fosse il più possibile neutrale e descrittivo, come poteva essere ad esempio, la riproduzione della scala esterna che conduceva alla stanza dell’Associazione. La richiesta era motivata dall’esigenza di non caricare ulteriormente il gruppo sotto il profilo emozionale. In questa sede la mia attività di ricerca si è tradotta nella condivisione di materiali e tecniche che contribuivano, attraverso un’esperienza autoriflessiva, alla ridefinizione e alla co-costruzione delle idee e rappresentazioni sulla malattia, influenzate dalla condivisione dei vissuti personali. Ai fini della mia ricerca, la partecipazione al laboratorio mi ha permesso di comprendere meglio le sensazioni di soddisfazione/insoddisfazione verso il prodotto finito, superando gli aspetti giudicanti e razionali a vantaggio della produzione dei significati. L’aspetto fondamentale è stato quello di intraprendere con gli altri partecipanti il processo costruttivo che parte dal momento in cui la persona sviluppa un'immagine che rappresenta un'idea o un concetto, e la conduce alla ricerca di una relazione tra l’oggetto in divenire e le idee che lo rappresentano.

Alla dimensione individuale dell’attività si contrapponeva il momento della restituzione: l’ultima mezz’ora di ogni incontro era dedicata ad una breve descrizione dell’opera creata. I partecipanti spiegavano la selezione dei materiali e dei colori, la costruzione del loro oggetto e i ragionamenti che sottostavano alle scelte effettuate. Nel momento della restituzione, la presentazione del proprio oggetto suscitava talvolta la riflessione degli altri membri del gruppo che intervenivano con osservazioni proprie, secondo prospettive condivise, favorendo così la circolazione e la produzione di idee e delle interpretazioni. Tra i vari oggetti da rappresentare, la tana è stata interpretata da alcuni partecipanti nella duplice funzione di gabbia, intesa come spazio angusto in cui si è costretti a vivere, e allo stesso tempo di rifugio che offre protezione. Durante uno degli incontri di arte terapia, Anna, una giovane mamma a rischio che assiste la madre malata, realizza la sua tana addobbando con colori, fiocchi e perline l’esterno di una scatola di cartone. La scatola però racchiude un mondo oscuro e precario rappresentato dalla statuina di una pecora collocata su un terreno franoso e circondata da altri elementi instabili. Al momento della restituzione, proprio Anna fa notare alle persone presenti il contrasto tra l’apparente perfezione esterna e l’incertezza di un mondo interiore che gli altri non possono vedere e che minaccia di crollare da un momento all’altro:

L’ho fatta usando una scatola. Fuori è tutta colorata… bella decorata e rappresenta come sono io per gli altri, come loro mi vedono. L’ho decorata con varie perline, fiocchetti di tanti tipi. Però la scatola è tutta chiusa. Non arriva l’aria e infatti qui di lato c’è una cannuccia che serve per far arrivare l’ossigeno da fuori. La parte interna non si può vedere perche si chiude, è tutta buia e non arriva la luce dall’esterno (Anna, gruppo arte terapia, 18/05/2018).

Qualcuno dei partecipanti nota però che Anna ha posizionato dentro la sua tana anche un piccolo sole. A questo punto le persone intervengono riflettendo sul significato della cannuccia che fa arrivare dell’aria in uno spazio chiuso, e il sole che Anna ha costruito come alternativa alla luce esterna. Pur mantenendo la sua caratteristica di fragilità, l’interno della tana non appare più solamente come un luogo oscuro di isolamento e incertezza, ma come uno spazio che Anna ha saputo dotare degli elementi essenziali per poter sopravvivere: l’aria e la luce.

Proprio l’originalità della creazione che emerge dall’arte terapia attraverso la sua caratteristica idiosincratica, permette di avvicinarsi all’esperienza ed alla sua interpretazione da una prospettiva differente. In questo clima di dialogo l’emozione e l’esperienza materializzate fuori dall’individuo, diventavano oggetto di riflessione e ri-definizione della propria soggettività. Mi sembra significativa a tal proposito la testimonianza di Martina, una ragazza a rischio genetico che vive distante la famiglia di origine e che frequenta con costanza sia il gruppo di auto aiuto che gli incontri di arte terapia. Nel corso dei colloqui, i suoi racconti vertevano sui fatti relativi alla vita quotidiana, come i rapporti professionali, le relazioni affettive, le amicizie, ecc… Durante gli incontri, Martina descriveva ciascuna di queste situazioni come elementi che, per varie ragioni, le causavano un inspiegabile disagio da lei sintetizzato con il termine “ansia”. In uno degli incontri Martina racconta lo stato d’animo per l’attesa dell’arrivo di una sua cara amica:

Adesso poi succede una cosa bella. Tra poco viene a trovarmi una mia amica che non vedo da tanto tempo e starà da me per un po’. Sono felice di rivederla, è una cosa bella ma poi, come tutte le cose belle, mi mette ansia. Resta da me per due settimane e allora mi sono organizzata i fine settimana per portarla a visitare dei posti perché gli altri giorni lavoro e quindi starò via un paio di giorni… Però anche lei, sì sono felice che stia da me, però anche questa cosa qui mi fa ansia (Martina, gruppo auto aiuto, 23/02/2019).

Il termine “ansia” in questo caso può essere inteso come un concetto-nuvola[7], connotato da un ampio spettro semantico che coinvolge una moltitudine di esperienze ed eventi collocati in relazione tra loro. La sensazione di disagio espressa da Martina riemerge nella rappresentazione di un animale nella sua tana nel corso degli incontri di arte terapia. La tana, realizzata con una scatoletta di plastica trasparente su di uno sfondo paesaggistico, risponde nuovamente alla duplice funzione di gabbia e di riparo: «L’animale dentro la gabbia vuole dire: qui non c’è solo l’Huntington! Lui vuole ribellarsi. Chi sta dentro la tana ha una specie di protezione che gli altri non vedono»[8]. Questa protezione invisibile dalla quale non si può uscire e che separa dal mondo circostante, può essere concepita come una sorta di “resistenza” a pensare e costruire se stessi in funzione della malattia. Lo spazio chiuso, angusto e invalicabile della tana priva dal senso di libertà e obbliga a convivere con una sensazione di oppressione costante. Ne deriva un’immagine particolarmente evidente di come le dimensioni simboliche e intersoggettive siano saldamente intrecciate a quelle individuali. In queste due testimonianze emerge la possibilità data dall’arte terapia di comunicare dei contenuti che vanno oltre il significato conferito dalle parole. Le dinamiche relazionali e riflessive del gruppo hanno contribuito in questo modo ad alimentare la negoziazione dell’identità intesa come un insieme di atteggiamenti e di scelte dipendenti da «ciò che vogliamo trattenere di un fenomeno, dal modo con cui intendiamo perimetrarlo, recingerlo, con bordi più larghi o più stretti» (Remotti 1996: 5).

L’analisi dell’esperienza attraverso una prospettiva laterale

Diverse correnti teorico metodologiche interpretano la realtà come significato che si produce mediante le relazioni tra i soggetti. Approssimarsi a una conoscenza di tipo intersoggettivo, non necessita solo l’avvicinamento all’esperienza attraverso i molteplici registri espressivi, come l’arte e la narrazione, ma rivela anche il bisogno di un esercizio del pensiero e del ripensamento di ciò che è stato formulato in contesti differenti e in altri approcci metodologici (Wikan 2013). Come afferma Scarry (1990), le conoscenze che derivano dalla relazione con l’altro possono essere intese come processi di co-costruzione in continua evoluzione che derivano proprio dall’auto riflessione prodotta dalle varie figure che interagiscono nel campo di indagine. In questo senso, l’esperienza del laboratorio di arte terapia, concepito in continuità con i gruppi di auto aiuto, si configura come una pratica di apertura, che manifesta una predisposizione nel pensare alla sofferenza e alla malattia oltre la struttura egemonica della biomedicina e degli assetti culturali prestabiliti. Da un punto di vista antropologico, la lateralità può essere intesa come una risorsa per considerare l’esperienza soggettiva con il malato e la conoscenza del proprio patrimonio genetico come elementi che portano a nuove prospettive sull’osservato, nel momento in cui vengono collocati in uno spazio di riflessione e di confronto, dove l’incontro con l’altro diventa parte di un processo ermeneutico. Infatti, ri-costruire il senso della propria esperienza disponendola in forma narrativa o attraverso una rappresentazione artistica, è un processo fluido e continuo, in cui i nuovi simboli e significati si sostituiscono o si sovrappongono ai precedenti, facendo della illness un racconto senza fine manipolato e interpolato. Ne deriva che l’esperienza di malattia viene costantemente reinterpretata dai soggetti attraverso un processo in continua evoluzione e per questo essa rappresenta la complessità della realtà come un fenomeno difficile da comprendere unicamente da una singola prospettiva (Cozzi 2012). La prospettiva laterale è quindi correlata ad una predisposizione ad agire al di fuori dei saperi, favorendo un atteggiamento di accoglienza verso la possibilità di decifrare una conoscenza che non fa parte del nostro schema di riferimento e che ha bisogno di interagire con ciò che è prodotto dalla reciprocità con l’altro (Martínez-Hernáez, Correa-Urquiza 2017). Essa implica l’assunzione di una molteplicità di punti vista attraverso i quali i membri del gruppo di arte terapia interpretano la malattia, mettono in comune le idee e le rappresentazioni generate dall’esperienza con il malato e dai saperi esperti, nel contesto socio-culturale in cui si trovano ad operare.

Saperi in movimento

Avvicinarsi all’esperienza dell’altro attraverso una prospettiva laterale conduce lontano dal prevedibile e in tale misura alimenta la creazione di un sapere di tipo nomade, condiviso dalla pluralità di attori che si confrontano e si relazionano tra loro. La ricerca che ho effettuato con i caregiver e le persone a rischio di Huntington ha visto la collaborazione e la progettazione delle attività con diverse figure professionali e con persone che vivevano e osservavano la malattia da posizioni differenti. Ne è emerso un interscambio di concetti non ancorati necessariamente ai settori disciplinari di riferimento, ma costantemente in movimento attraverso la condivisione dell’esperienza e la relazione tra punti di vista diversi. L’idea di nomadismo sposta l'attenzione dalla staticità dei saperi verso la loro tendenza alla mobilità ri-creativa e la possibilità di essere continuamente investiti e rinnovati da valori culturali (Martínez-Hernáez, Correa-Urquiza 2017). Come sostiene Said (1983), le idee e le conoscenze che sottendono alle varie discipline sono mobili nel momento in cui vengono “esportate” in realtà diverse e chiamate a rispondere a nuovi usi, in posizioni e contesti differenti: in tal senso, i contenuti disciplinari, collocati in spazi creativi e di confronto, hanno prodotto nuovi linguaggi e rappresentazioni sulla malattia e sulle persone a rischio, permettendo una più ampia riflessione sulla propria esperienza e avviando al contempo processi di significazione. Come sostiene Bonetti (2018), il campo muove dalla costruzione di senso condiviso tra l’antropologo e gli attori che compongono il contesto di intervento, attraverso i modi con cui il sapere etnografico entra in dialogo non solo con i soggetti di studio, ma anche con altre professionalità. La costruzione dei saperi nomadi ha portato sia alla riproduzione della conoscenza di base relativa al significato di un determinato concetto, sia ad una vera e propria conoscenza inter- e transdisciplinare nonché di trasformazione, tesa ad indagare che cosa un’idea o un concetto produce nei diversi ambiti disciplinari e nei diversi contesti. L’etnografia ha così espresso il proprio nomadismo tra saperi tecnici, epistemologie, conoscenze situate e pratiche condivise. Nel corso della mia ricerca, questo “nomadismo” dei saperi è emerso in una duplice direzione: da un lato, attraverso la riflessione e la collaborazione tra le varie figure professionali che hanno operato e interagito da prospettive disciplinari differenti; dall’altro tra i professionisti e i partecipanti ai gruppi di auto aiuto. La pratica riflessiva messa in atto dai soggetti che hanno operato e interagito sul campo, ha portato alla comprensione dei concetti come elementi che si collegano alle discipline in virtù del fatto che tra queste ultime e i soggetti stessi esiste sempre un dialogo e una reciprocità.

Considerazioni conclusive

L’etnografia dell’esperienza soggettiva e intersoggettiva della malattia ha condotto all’analisi delle transazioni cognitive che hanno luogo nei mondi morali locali, dell’interazione tra elementi culturali, strutture sociali e processi psicofisiologici (Martínez-Hernáez, Correa-Urquiza 2017). Gli incontri di auto aiuto e di arte terapia, apparentemente differenti sia per le caratteristiche dei partecipanti che per le modalità di interventi, hanno portato alla produzione di conoscenze, idee e rappresentazioni non ancorate alla fissità dei saperi, ma in costante movimento tra le discipline e l’esperienza vissuta. È stato quindi fondamentale intraprendere un percorso di ricerca, riflessione e discussione sia tra le diverse metodologie che tra i contenuti disciplinari, in un dialogo costante con le idee e le esperienze delle persone a contatto con la malattia di Huntington. Le biografie narrate e l’arte terapia si sono focalizzate su certi eventi o aspetti significativi in funzione di una selezione globale, istituendo tra essi delle connessioni atte a giustificarne l’esistenza e a renderli coerenti al fine di accettare una creazione artificiale di senso. Questi significati si sono costituiti attraverso le relazione intersoggettive tra i vari attori (Menéndez 2005) e in continuità con i contenuti emozionali emersi attraverso l’espressione creativa. È proprio sulla base di queste relazioni, che i caregiver e le persone a rischio hanno co-costruito il proprio sapere e “inventato” la propria identità, intesa come concetto dipendente da una serie di scelte e decisioni (Remotti 1996). In un contesto di dialogo e reciprocità, il campo non è apparso più solo come un territorio di regole prestabilite, con differenti attori appartenenti ad altrettante differenti posizioni e ruoli, in funzione di luoghi storicamente costituiti (Bourdieu 1992). Esso è diventato soprattutto un luogo sociale di scambio di parole, gesti, suoni e di «traffico di simboli significanti» (Geertz 1987: 87) nella misura in cui ha portato a nuove comprensioni e interpretazione dei fenomeni. I saperi nomadi, infatti, si riconoscono attraverso la loro caratteristica di transitorietà, apertura e capacità di interrogare se stessi. Ne deriva la necessità di adottare un approccio transdisciplinare, attraverso il quale attribuire alle dinamiche rappresentative dai saperi un valore trascendente. Nell’ambito dell’antropologia medica at home, un approccio di questo tipo si relaziona alla predisposizione del ricercatore ad agire oltre il sapere dato, contribuendo così a cogliere orizzonti di significato che rischierebbero altrimenti di rimanere nell’ombra.

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[1] Affermazioni di Paola raccolte durante l’incontro con il gruppo di auto aiuto ed estrapolate dal mio quaderno di campo del 23/2/2018.

[2] Basandosi su ricerche etnografiche tra persone con malattie di tipo reumatico o neurologico, Hay ha dimostrato come l’impossibilità di agire in modo intenzionale e motivato che si manifesta spesso in produttività, facendo qualcosa di valore personale o sociale nella vita quotidiana, sia causa di ulteriore sofferenza e frustrazione per i malati e per i loro famigliari.

[3] Da quanto emerge dalle narrazioni, l’esordio dei sintomi della malattia di Huntington non è definibile entro uno spazio temporale facilmente determinabile e tantomeno in un episodio particolarmente rappresentativo. Gli eventi che i famigliari descrivono come i primi sintomi della malattia, si dispiegano in un lasso temporale che può abbracciare l’arco di anni, coinvolgendo un insieme di episodi ed esperienze che assumono significato “a posteriori”, in seguito alla diagnosi medica.

[4] Frase pronunciata da Francesco durante l’incontro di arte terapia ed estrapolata dal mio quaderno di campo del 18/05/2019.

[5] Questa espressione è stata utilizzata da Alberto durante il gruppo di auto aiuto in riferimento alle problematiche di gestione con la moglie malata. La frase è stata estrapolata dal mio quaderno di campo del 18/05/ 2019.

[6] Affermazione fatta da Carlo durante il gruppo di auto aiuto del 22/11/2018, e riportata dal mio quaderno di campo, in riferimento ad uno momenti più significativi del percorso di malattia: la ricerca di una struttura assistenziale idonea ad accogliere la moglie malata.

[7] Sulla base della definizione di Hofstader, cfr. Piasere 2002: 74-77.

[8] Questa frase, riportata nel mio quaderno di campo del 18/05/2019, è stata detta da Martina durante il momento della restituzione.