Sessualità, riproduzione e costruzione di soggettività femminili “moderne” nelle scuole di Mekelle (Tigray-Etiopia)

Désirée Adami

Sapienza Università di Roma

Indice

Scolarizzazione e controllo della fertilità: un progetto congiunto di modernizzazione
Nelle scuole di Mekelle
Il caso di Helen: “essere moderne o essere morali”, una questione di non facile conciliazione
Conclusioni
Bibliografia

Abstract.  In the field of politics and development, the inversely proportional link between education and pregnancy receives great attention. Worldwide the most educated women give birth to fewer children and later than their less educated peers. The school is considered to provide that technical-scientific knowledge transforming women from “victims of tradition” to autonomous and rational subjects who give birth by choice, thus electing the school as a privileged path to exit from poverty. This article explores the rhetorical and practical processes of subjectivation activated in the high schools of Mekelle (Tigray-Ethiopia). Here the scientific rationality of books plays a marginal role with respect to the reproductive agency of those who continue in the study. Rather, educated women embody a pattern of “good femininity” focused on a normative order of events where sexual activity, marriage and motherhood (the two main institutions which guarantee(d) a passage of status and a full social recognition as mature women) must follow the educational and job career (Johnson-Hanks 2006). A corollary of the constant process of making formal education and reproductivity so closely intertwined is the fact that much of this rhetoric rests on strongly ideological grounds. It is thinking of themselves as “moral agents” in a modern state, that young female students build a sense of dignity and personal success, and it is this sense that makes lower fertility possible. The formal education puts urban and educated women on a path of distancing themselves from traditional certainties towards a more modern but also more uncertain future.

Keywords.  Sexuality; reproductive agency; motherhood; girl’s education; Ethiopia.

Ovunque nel mondo, le pratiche sessuali e riproduttive hanno rappresentato una questione cruciale negli sforzi statali di riforma sociale e modernizzazione della nazione. Inoltre è possibile affermare che i corpi delle donne, nelle loro espressioni sessuali e riproduttive, sono stati i luoghi dove storicamente si sono giocate le battaglie culturali e le decisioni statali concernenti le misure demografiche e la posizione della donna nella società.

Partendo da una ricerca[1] svolta tra un gruppo di studentesse universitarie e delle scuole superiori della città di Mekelle (Tigray-Etiopia settentrionale), questo saggio intende riflettere sui significati della maternità e delle pratiche di controllo della fertilità per come questi si dispiegano in un settore peculiare della vita sociale: la scuola. Andare a scuola e proseguire nella carriera scolastica significa acquisire un sapere razionale, scientifico e, in quanto tale, portatore di una verità ultima e indiscutibile, che dovrebbe condurre le persone secondo una progressione lineare dalla “tradizione” alla modernità, dall’arretratezza al progresso, dalla dipendenza all’autonomia. Un sentiero che, quasi sempre, nel caso delle giovani donne equivale a raggiungere una maternità contenuta (nel numero di figli) e controllata (nelle tempistiche e nelle possibilità di sostentamento dei figli stessi). Se è vero che il “paradigma della maternità” (Amadiume 1997) orienta ancora la percezione della “buona femminilità” in molti contesti africani e non solo, essendo la maternità un ruolo naturalizzato, celebrato, idealizzato e atteso, oltreché un ruolo di “potere” (Oyewùmì 1997, 2000), è pur vero che non tutte le maternità sono valorizzate allo stesso modo sul piano sociale e politico.

Il presunto potere della scuola di trasformare le donne da “vittime della tradizione” a soggetti che partoriscono per scelta è un principio che ispira da anni il settore della politica e dello sviluppo, dove il legame causale tra educazione e gravidanza è oggetto di grande attenzione. La frequente correlazione inversa tra scolarizzazione e fertilità fu osservata già da Malthus nel suo famoso saggio del 1798[2] dimostrata, con rinnovata attenzione, nel corso delle passate decadi con riferimento ai paesi in via di sviluppo, dove le donne più istruite partoriscono meno figli e lo fanno in ritardo rispetto alle loro coetanee meno istruite (Adamchak, Ntseane 1992; Castro Martin 1995; Bledsoe et al. 1999). Nonostante la diversità nella qualità e distribuzione dell’istruzione scolastica, nei significati sociali ascritti all’educazione e alla gravidanza e nelle forme di famiglia o di contesto familiare da paese a paese, o che l’unità di analisi sia la nazione o l’individuo, la relazione statistica tra istruzione formale e riproduzione emerge come una costante (Johnson-Hanks 2006: 1). Tuttavia come riconosce l’autrice i modelli di spiegazione basati su una causalità meccanica del rapporto scuola-fertilità poco ci dicono su come tale processo avvenga. Troppo spesso, negli studi sociali che pongono al centro dei loro interessi analitici i fatti demografici, l’attenzione è stata posta soprattutto sul risultato anziché sul processo e l’insieme delle relazioni che modellano l’agentività riproduttiva. Il contributo di questa analisi antropologica intende ricollocare le visioni e le scelte di coloro che fanno figli all’interno del più complesso contesto della maternità (e della paternità) come pratiche sociali e come progetti politici. In questione non è solo se la fertilità e le strategie riproduttive siano «il risultato di una scelta, ma quali tipi di scelte e quali altri agenti siano coinvolti» (Cornwall 2007: 234) nel processo decisionale che porta verso una più bassa fertilità tra le giovani donne che proseguono nella carriera scolastica di alto livello. Nel dare priorità a questi aspetti, si analizzerà lo sforzo convergente (e in alcuni aspetti divergente) dello Stato e del mondo umanitario internazionale legato alla definizione della salute pubblica, e nello specifico della salute sessuale e riproduttiva, nel promuovere ciò che conta come comportamento sessuale e riproduttivo “appropriato”, e come questo si leghi inestricabilmente alla definizione di un nuovo soggetto femminile etico (Paxson 2005). In sostanza, si cercherà di rispondere alle domande: cosa significa diventare una donna etiope matura, moderna e “dignitosa” per chi persegue la carriera scolastica? Come si conciliano le spinte governative verso l’esaltazione di soggetti femminili autonomi, autosufficienti e in grado di autoregolarsi e la contemporanea formazione di soggetti di governo (Xavier Inda 2005) “utili” al comune progetto di ammodernamento del paese, la cui prassi sembra voler riportare i vissuti e le condotte personali all’interno di collettività più ampie? E come queste spinte centripete interagiscono con le norme di genere “tradizionali” che regolavano la rispettabilità e il passaggio di status del genere femminile nel contesto locale?

Prima di dar risposta a questi interrogativi è bene specificare un dato centrale dell’analisi. Se, come vedremo a breve, l’istruzione di base e un pari accesso all’alfabetizzazione sono stati resi disponibili in tutto il paese, anche nelle zone più remote, la situazione cambia sensibilmente quando confrontiamo le diverse percentuali relative agli ultimi due anni di scuola superiore (XI e XII grado[3]) e ancor di più se consideriamo l’educazione universitaria. Nonostante il lancio nel 2003 dell’Ethiopian Higher Education Proclamation, che prevedeva tanto l’implemento dell’offerta formativa, cresciuta vertiginosamente in termini quantitativi, con la presenza di università pubbliche e college privati in tutte le principali città del paese (Mains 2012), quanto la riduzione del divario tra partecipazione maschile e femminile, la presenza delle donne nell’istituzione accademica è pari solo al 30 percento di tutta la popolazione studentesca (FDRE-MOE 2015). Questa percentuale ci offre già un primo spunto di riflessione: le donne istruite si distanziano dal resto della popolazione femminile in quanto appartenenti e rappresentanti di un élite. Non si tratta semplicemente di numeri però. Il distanziamento, coma sarà chiaro in seguito, avviene anche per un diverso riallineamento di quegli statuti sociali che localmente sanzionano una “buona femminilità”, vale a dire la condizione di moglie e di madre, che l’istruzione sembra rimpastare secondo temporalità, priorità e valori differenti rispetto a quelli di coloro che interrompono la scuola. In questo senso, è possibile parlare del loro processo di educazione formale come di uno di quei processi “in-generati”, vale a dire «simultaneamente ‘generati’, ‘procreati’, ‘prodotti’, ma anche di genere (nel senso di dotati o ascritti ad un genere» (Mattalucci 2012: 12), nella sua peculiarità di ascrizione sociale e politica.

Scolarizzazione e controllo della fertilità: un progetto congiunto di modernizzazione

Da sempre la scuola è il luogo della produzione della differenziazione sociale, della costruzione dell’ineguaglianza (Bourdieu, Passeron 1977), così come l’ambito in cui si realizzano specifiche forme dell’identità di genere (Anyon 1983; Weis 1988; Thorne 1993). E da sempre, ovunque, la scuola è l’istituzione per eccellenza accreditata alla produzione di soggetti moderni. Questo vale a casa nostra così come nei paesi in via di sviluppo dove la scolarizzazione diffusa è stata posta al centro del cambiamento istituzionale moderno per segnalare, agli occhi della comunità internazionale, l’avvento degli ideali occidentali e l’arrivo delle opportunità di massa (Fuller 1991).

L’Etiopia, in questo processo, non ha fatto eccezione. Nei resoconti ministeriali locali, così come nella letteratura internazionale sul tema, l’educazione è spesso descritta come una recente storia di successo della nazione etiope, il cui incremento, per copertura e accesso, ha guadagnato slancio nelle ultime due decadi come parte della strategia nazionale di sviluppo per diventare un paese di medio-reddito entro il 2020 (Mjalaand 2016: 1). Questo disegno politico ha seguito una tendenza internazionale che ha posto l’alfabetizzazione di base e accesso all’istruzione – da parte delle donne – quale strumento cardine per una società sviluppata e più equa.[4]

I risultati sono effettivamente tangibili e piuttosto impressionanti se si considera l’estensione della copertura della scuola primaria, con un aumento nel numero d’iscritti, sia da parte dei ragazzi sia delle ragazze, pari al 500 percento di ammissioni tra il 1994-1995 e il 2008-2009 (Camfield 2011).

Guardando il fenomeno con una certa “sensibilità storica” (Tinkler, Jackson 2014), è possibile riconoscere che non tutti i cambiamenti avvenuti di recente nel campo dell’educazione formale e delle politiche di genere siano da ricondurre all’attenzione globale sull’istruzione femminile. Queste trasformazioni vanno piuttosto analizzate alla luce di continuità storiche e politiche che hanno caratterizzato, nella lunga durata, la storia della nazione.

L’investimento nel settore educativo trova già un primo forte impulso con Haile Selassie[5], come parte del suo ampio progetto di modernizzazione dell’Impero[6], proseguendo poi con il regime dittatoriale del Derg, per il quale la formazione scolastica era funzionale all’indottrinamento politico delle masse (Tekeste 1996; Balsvik 2007) al fine di rovesciare il precedente governo autocratico, fino ad intensificarsi con l’attuale Repubblica fondata dall’opera dell’EPDRF (Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front) di Meles Zenawi (Mains 2012: 9). Il partito di coalizione, in continuità con la sua politica rivoluzionaria per l’indipendenza dal regime di Mengistu e in coincidenza ideologica con la dottrina leninista-marxista degli anni ’70 e ’80, che vedeva l’educazione popolare come lo strumento per elevare la coscienza delle masse e, con esse, operare un cambiamento sociale (Freire 1972), ha fatto dell’istruzione – un’istruzione che includesse un numero di donne maggiore – uno dei nodi centrali della lotta alla povertà e all’oppressione, eleggendola a sentiero privilegiato per l’emancipazione e la modernizzazione del genere femminile. Questo è particolarmente vero in Tigray, dove la questione femminile durante gli anni della rivoluzione è stata formulata come strettamente intrecciata alla più ampia lotta di classe contro ogni forma di oppressione (Hammond 1989).

Nel TPLF le donne parteciparono in gran numero alla guerra di liberazione. Esse ricoprirono ruoli paritari rispetto agli uomini sia nelle file del fronte armato sia nell’amministrazione dei territori che venivano man mano strappati al governo del Derg, facendosi promotrici, ad un tempo, degli obiettivi del programma del partito e dei diritti delle altre donne (Villanucci 2014: 149), sviluppando così quella che Gebru Tareke ha definito la “loro rivoluzione all’interno della rivoluzione”[7] per ottenere l’eguaglianza.

Lo sforzo posto nel settore dell’istruzione è andato di pari passo con il diffondersi di retoriche sviluppiste che esaltano, da un lato, il valore trasformativo della scuola nelle personali condizioni socio-economiche di vita e nelle traiettorie verso il progresso e, dall’altro, la realizzazione di una nazione più competitiva sulla scena internazionale. “Nell’immaginario nazionale dell’istruzione” (Riggan 2009), le persone istruite rivestono un ruolo cardine nel rimodellare il paese, sia come promotori delle retoriche nazionaliste contenute nei programmi scolastici, sia in quanto personificazione della congiunzione tra progresso individuale e sviluppo della nazione. Se si confrontano le narrazioni degli studenti dei primi anni Sessanta, quando fu istituita l’Università di Addis Abeba, sull’importanza di elevare ai massimi gradi dell’istruzione formale la propria formazione (Levine 1965) e le retoriche discorsive dei giovani di oggi sull’idea che la scuola abbia un valore trasformativo delle condizioni personali e delle traiettorie verso il progresso, si trova una comunanza sorprendente. Ovviamente, le traiettorie verso questa trasformazione non prevedono uno stesso cammino per gli uomini e per le donne. Vedremo nelle pagine che seguono, come la congiunzione tra successo individuale e sviluppo nazionale, per le giovani donne impegnate nella carriera scolastica di alto livello, si snoccioli in contemporanea con quelle che potremmo definire le politiche del corpo, dove alle donne sembra sia chiesto abitare contemporaneamente due “corpi etici” (Paxson 2005) di difficile conciliazione.

Nelle scuole di Mekelle

Entrando in una qualsiasi scuola di Mekelle è difficile non essere colpitidall’aspetto degli edifici, decorati con numerose immagini e slogan dipinti che esaltano l’importanza e il potere dello studio per il progresso personale e nazionale. Tra le tante immagini che hanno suscitato la mia attenzione, sono stata particolarmente attratta da una fotografia.

Figura 1. Foto di una locandina esaltante il potere trasformativo della scuola per il rafforzamento socio-economico della donna, scattata presso la Abba Gebre Michael Catholic School di Mekelle (Foto dell’autrice).

Questa è un’immagine che si ritrova spesso attaccata alle pareti delle scuole secondarie della città ed è una celebrazione del potere trasformativo dell’istruzione e della sua importanza per una società sviluppata. Non può tuttavia sfuggire che a essere oggetto e soggetto del valore dell’istruzione non sia l’intera popolazione studentesca, bensì la donna.

Come detto precedentemente, nelle ultime decadi l’empowerment femminile nei paesi in via di sviluppo si è coniugato con il potenziamento dell’accesso all’istruzione da parte delle donne, inteso come via per raggiungere l’eguaglianza di genere e come mezzo per convogliare gli sforzi dei governi verso l’ammodernamento dei paesi.

La foto, però, a ben guardarla suggerisce qualcosa di più dell’importanza dell’educazione formale. Essa è un’immagine che funge da decalogo della “giusta femminilità”, rivelando molti discorsi sottesi alla costruzione di una donna matura, moderna e “onorevole” secondo quelle caratteristiche di razionalità, autocontrollo e produttività, che farciscono le politiche neoliberali intraprese negli ultimi venticinque anni dal partito al potere.

L’immagine non suggerisce solo questo: essa pone immediatamente una correlazione inversa tra l’istruzione e la condizione di moglie e di madre, la cui assunzione, nel contesto locale, segna un passaggio di status verso il riconoscimento di una piena e dignitosa femminilità. L’istruzione delle ragazze, infatti, fa accadere “cose straordinarie”, come recita la fotografia, che riguardano anzitutto la posticipazione del matrimonio (e con esso l’ingresso nella maternità[8]) e la limitazione del numero di figli partoriti dalle donne stesse.

Questo è un presupposto che, da più di vent’anni, informa le politiche e le azioni del settore dello sviluppo e del mondo umanitario. Le ONG e le organizzazioni internazionali considerano l’istruzione scolastica delle ragazze lo strumento principale per elevare la loro condizione e aumentare la loro autonomia di fronte agli uomini, il mezzo più potente per persuaderle a partorire meno figli e più tardi (Johnson-Hanks 2006: IX). Alla base di questa visione c’è l’idea che l’educazione possa fornire quel sapere tecnico che funzionerebbe come kit di strumenti pronti all’uso per valutare le circostanze e applicare, secondo una logica razionale di calcolo costi-benefici, quell’armamentario scientifico che l’istruzione formale trasmette (Caldwell 1980; 1982), per agire sulla propria fertilità e nella pianificazione familiare.[9]

Nelle scuole etiopi, man mano che si sale di grado, l’educazione alla salute riproduttiva e sessuale è parte del curriculum di ogni studente, inserita sia nell’insegnamento della biologia sia in quello di educazione civica. Se prendiamo, ad esempio, il libro di biologia per i gradi VIII, IX e X, la sessualità e la salute riproduttiva rientrano nel capitolo intitolato «human biology and health», mentre le malattie sessualmente trasmissibili costituiscono un discorso separato, inserito nel capitolo «micro-organisms and disease». In queste pagine, le spiegazioni spaziano dal funzionamento organico del corpo umano e dell’apparato riproduttivo, ai diversi metodi contraccettivi, di cui per ogni forma sono esplicitati vantaggi e svantaggi e la percentuale di efficacia, fino alla spiegazione del sistema immunitario e le sue alterazioni causate dal virus dell’HIV. Qui la sessualità e la riproduzione sono oggettivate e naturalizzate, presentate come una conoscenza tecnica che si acquisisce attraverso l’esposizione a un sapere scientifico e, in quanto tale, possono (e devono) essere sottoposte ad un controllo razionale. Il sesso è ridotto alle sue espressioni anatomiche e alle conseguenze e possibilità in termini procreativi; la procreazione è ricondotta al suo funzionamento biologico e il funzionamento dell’apparato riproduttivo sfocia nella spiegazione del suo controllo razionale in termini di metodi contraccettivi. Questo sapere riflette una tendenza globale d’internazionalizzazione della conoscenza e della tecnica biomedica che accompagna la moderna storia delle scienze sessuali e le conseguenti articolazioni delle pratiche di pianificazione familiare, di salute riproduttiva e di prevenzione dalle malattie sessualmente trasmissibili, che, dai luoghi lontani della loro programmazione, attraverso reti di relazioni che coinvolgono più attori (i governi, i donors, le ONG), si concretizzano nelle attività di fornitura di servizi e di educazione nei diversi luoghi di attuazione. Alla base di queste azioni opera un particolare concetto di sesso “moderno”, reificato e biologizzato, che si oppone ad altre sessualità (Leigh Pigg 2005).

Sotto l’etica del benessere che la moderna scienza sessuale propone, ogni persona è moralmente responsabile delle proprie azioni in termini di possibili ricadute di salute fisica, formulata come diritto del singolo individuo, che contemporaneamente si traduce in un obbligo personale a controllare ciò che accade al corpo. In questa cornice, gli atti sessuali sono stati medicalizzati (Jordanova 1995; Ross, Rapp 1997; Weeks 1998), cioè sottoposti a retoriche e interventi isolanti che li separano dagli altri domini della vita sociale (Leigh Pigg, Adams, 2005). Una tale operazione dissociativa contrasta con i codici morali tradizionali delle relazioni sessuali in molti contesti non occidentali, dove la complessa dimensione della sessualità e della riproduzione era finalizzata a sostenere la volontà di Dio e la solidarietà familiare e di lignaggio, per allinearsi piuttosto con l’impegno della modernità verso il razionalismo.

Accanto all’insegnamento di un sesso reificato e biologizzato e alla sua conseguente profilassi, per le giovani donne che proseguono nella carriera scolastica di alto livello, la razionalità scientifica dei libri cede presto il posto a un insegnamento dai toni ideologici e moralizzanti. I discorsi che fanno da cornice alla sessualità e alla “buona femminilità”, quella “moderna” e di successo, rivitalizzano le tradizionali norme di genere che vedono nella modestia sessuale e nella castità della donna la base della propria onorabilità, sebbene riplasmata secondo i dettami del credo neoliberale.[10]

Si tratta di un insegnamento non scritto che affianca le conoscenze dei testi e oltrepassa l’orario della lezione di biologia o di educazione civica, per diramarsi nelle attività extra curriculari e ben oltre le pareti della scuola.

Durante gli incontri con diversi insegnanti, infatti, ho riscontrato un continuo avvicendarsi, se non un totale sostituirsi, delle informazioni nozionistiche riportate nei libri scolastici con insegnamenti che hanno il sapore dei consueti modi “coercitivi” utilizzati dalle famiglie per contenere la sessualità delle figlie e garantirne il rispetto.

Helen e Genet, due insegnanti molto attive nell’organizzazione di attività extrascolastiche pensate solo per ragazze, parlando del loro insegnamento, sono piuttosto chiare nel restituirmi la cifra retorica delle lezioni.

A: Dico sempre che arriverà il tempo per avere una relazione, per ogni cosa c’è il suo tempo.


D: Qual è secondo te e secondo i consigli che dai alle studentesse il tempo giusto per una relazione?

A: Suggerisco di avere una relazione con qualcuno quando avranno finito la scuola e quando avranno trovato un lavoro.


D: Cosa intendi per “quando avranno finito la scuola?” Ti riferisci alla scuola superiore o all’università?


A: All’università! Penso che quello sia il momento giusto per avere un fidanzato e alla fine per sposarsi. Avere un fidanzato a questa età, iniziare una relazione adesso non è il tempo giusto perché può succedere qualcosa di brutto. Potrebbero restare incinte e se avranno un figlio adesso potrebbero non essere in grado di allevarlo, non è una situazione desiderabile per loro (...) avere un figlio non ti permetterà di avere un buon lavoro, di avere un elevato grado di istruzione (...). Gli dico sempre: ‘guardate me, non sono ancora sposata e non ho una relazione (...) perché? Perché prima devo finire di studiare e trovare un lavoro migliore, devo avere i soldi e comprarmi una casa mia, una macchina, devo prima fissare tutte le cose e poi dopo se succede qualcosa di “brutto” saprò come affrontarlo e sarò in grado di crescere mio figlio da sola[11].

D: Dunque dicevi che consigli alle ragazze di astenersi e di non avere rapporti sessuali?


A: Si è proprio così!


D: Questo consiglio vale per tutte le età o solo fino ad una certa età?

A: Io consiglio a tutte di finire la scuola, almeno fino al XII grado, e di iscriversi all’università, a quel punto la loro attitudine sarà sviluppata e sapranno come controllarsi, quindi non gli dico a che età possono incominciare, io le educo prima di tutto ad astenersi anche quando hanno raggiunto l’università. La prima cosa è astenersi, se poi proprio non possono astenersi devono utilizzare dei metodi per proteggersi ma questo noi non lo consigliamo, soprattutto se sono ancora al nono o al decimo grado, diciamo solo che non devono iniziare.

D: Quando consigli di astenersi che motivazioni dai per giustificare la tua raccomandazione?


A: La prima ragione è che esso (il sesso) è un ostacolo per la loro frequentazione scolastica, potrebbe essere la causa della fine della loro educazione e se loro smettono di studiare non potranno mai vivere per conto loro, non saranno mai in grado di gestire la propria vita da un punto di vista economico (...)[12].

Che sia esplicitamente nominato come nel caso di Helen, o lasciato intendere come nelle parole di Genet, il sesso non è più incorniciato in termini apparentemente neutrali, come riporta la scienza biologica dei libri di scuola. Le relazioni sessuali e sentimentali sono piuttosto inserite in un discorso “terapeutico” strettamente associato a questioni morali, in cui il criterio che permette di distinguere tra una relazione “salutare” e una relazione “dannosa”, è la tempistica della relazione stessa piuttosto che la sua natura fisica ed emotiva.

È opinione condivisa che con la pubertà i giovani entrino in un’età di fuoco, tïkus ï’dme (Mjalaand 2016: 7), sviluppando impulsi fisici difficilmente controllabili. Se questo vale tanto per i ragazzi quanto per le ragazze, “seguire l’istinto” è giudicato in maniera differente a seconda che a farlo sia un uomo o una donna. Per un giovane, è sentimento comune che egli non possa evitare di avere rapporti sessuali durante l’adolescenza. Al contrario, è auspicabile e doveroso che in questa fase una ragazza non sia “danneggiata”, ossia che non abbia rapporti sessuali e non resti incinta al di fuori di una cornice socialmente sanzionata, che, come suggeriscono le parole delle due insegnanti, per le giovani studentesse s’inquadra entro un allineamento di eventi dove la carriera scolastica e lavorativa precede quella riproduttiva[13].

Se è vero che andare a scuola, soprattutto in ambiente urbano, è considerato un’assicurazione per un futuro migliore e una “carta vincente” per l’eguaglianza di genere, è pur vero che la scuola stessa è vista come un luogo insidioso. Per le giovani che raggiungono alti livelli d’istruzione continuare gli studi vuol dire, quasi sempre, doversi allontanare da casa, situazione che contribuisce a giudicarle spesso come “sessualmente dissolute” (Haram 2014: 213).

La scuola è sicuramente il primo luogo istituzionale dove ragazzi e ragazze s’incontrano. Questo contatto deve essere gestito attraverso l’incorporazione di una disciplina che è prima di tutto una disciplina corporea, e che ha come finalità di questo auto-regolamento il controllo delle azioni sessuali e della sfera riproduttiva[14]. Detto in maniera molto semplice: a scuola si va per imparare e non per “civettare”, così come una donna che prosegue nello studio deve essere una donna modesta nei suoi comportamenti in pubblico e deve sapersi attenere a un canone di limitazione estetica. “Se vedo qualche ragazza troppo truccata chiamo immediatamente la sua famiglia così che la possa sgridare!”, mi spiega Genet, riconoscendo che quello che insegna alle sue ragazze “è che devono frequentare la scuola in maniera appropriata, astenendosi da tutte queste cose per focalizzarsi esclusivamente sulla loro educazione”.

È della stessa opinione anche Helen, che è molto attenta al comportamento delle studentesse in classe, arrivando perfino a sorvegliarle fuori dalla scuola.

Le regole poste dalle insegnanti e la loro severa osservazione, rientrano perfettamente nell’idea di corpo disciplinato, e dunque moderno, che le ragazze istruite si pensa ottengano; una disciplina che è considerata un tratto centrale sia per l’indipendenza economica sia per le azioni giudiziose che guidano le relazioni sessuali. Questa disciplina s’impara sui banchi di scuola, ma s’impara ancor di più quando suona la campanella scolastica che segna la fine del ciclo di lezioni.

Nelle scuole superiori locali, le ragazze sono coinvolte in numerose attività extracurriculari durante tutto l’anno, molte delle quali incentrate proprio sulle tematiche della sessualità e della riproduzione. La tipologia e la quantità di spazi ricreativi varia da istituzione a istituzione, sia in base ai gradi di formazione presenti all’interno della scuola sia in relazione alle diverse risorse economiche cui ciascun istituto può attingere. Tralasciando queste differenze, tre club sono obbligatori in ogni istituto scolastico: il club dedicato alla prevenzione dall’HIV/AIDS, il club di Salute Riproduttiva e il club sulle questioni di Genere[15]. “Queste sono le principali sfide che dobbiamo affrontare come paese per svilupparci e sono le aree più critiche in cui si riscontrano i maggiori problemi per i giovani”, mi spiega Mulugeta, responsabile dell’ufficio di salute e educazione della wereda di Hadnet.[16]

Ognuno di questi circoli è coordinato da un leader scelto tra il personale scolastico, la cui specifica preparazione didattica è rafforzata da corsi intensivi di formazione sulle peculiari tematiche affrontate dal club, diretti dai centri medici di zona e/o da qualche Organizzazione Non Governativa, che operano in stretta collaborazione con gli uffici amministrativi statali. “Ogni trimestre noi (gli amministratori delle wereda) valutiamo le attività dei club, se stanno lavorando bene, quali sono i gap (...) l’ufficio della salute analizza il gap, come può essere colmato e cerca di concentrare gli sforzi nel costruire la capacità, nel creare consapevolezza tra gli studenti”, specifica Mulugeta.

Le attività svolte nei club menzionati non si basano solo su lezioni frontali, fatte di letture e spiegazioni, come durante l’orario scolastico, quanto sulla fruizione di media differenti e sulla preparazione di materiali di diversa natura (opuscoli, rappresentazioni teatrali ecc.) da poter far circolare tra tutti gli studenti e negli spazi sociali fuori dalla scuola.

L’attenzione dei giovani alla cultura popolare e ai media, nei contesti africani, ha motivato la produzione locale di nuovi generi pedagogici come l’“edu-tainment”, che si configurano come spazi pubblici di negoziazione di valori e di rappresentazioni di posizioni intergenerazionali differenti (Christiansen et al. 2006). Tra questi, dei brevi video clip riscuotono grande successo. Un video molto popolare tra le giovani studentesse, ad esempio, riguarda la storia di una ragazza universitaria che durante il suo percorso accademico scopre di essere incinta. A questo punto, per la giovane si apre una “congiuntura vitale” (Johnson-Hanks 2006)[17] inattesa, per la quale, come solo in un film può succedere, si susseguono una serie di immagini che ritraggono le possibili conseguenze dell’accaduto: dall’interruzione del percorso scolastico e il mancato ottenimento del titolo di laurea, alla delusione familiare e conseguente vergogna per la ragazza, dal biasimo dei compagni per essersi discostata dal “giusto” percorso verso la maturità, fino alla prospettiva di un futuro “misero” e lontano dall’aura dorata della modernità che il titolo accademico fa presagire. Tale sequenza di eventuali risultati non è solo un trucco del mezzo cinematografico, capace di condensare il tempo e lo spazio in pochi frammenti visivi. Essi, piuttosto, devono essere considerati come un insieme di orizzonti letteralmente visionati dalle giovani in caso d’incrinature nelle lineari traiettorie dalla scuola al successo come donne mature, che come già detto prevede l’allineamento della maternità con un’alta formazione scolastica e con l’indipendenza economica. La ragazza protagonista del video può sembrare una ragazza qualsiasi eppure non è così: quella giovane rappresenta tutte le altre studentesse; una “sconosciuta” che, tuttavia, incarna gli avvertimenti e le attrattive di un immaginario sociale di modernità, fornendo un’immagine vivida e dei significati concreti con cui orientarsi nella percezione di sé stesse e delle traiettorie verso una maturità rispettata e di successo.

Il video termina con la soluzione per ripristinare questo “incidente di percorso”, ossia il ricorso all’aborto eseguito in una clinica specializzata e affidato al personale medico.[18]

Seppur formalmente illegale e moralmente condannato da tutte le confessioni religiose del paese, l’aborto nello specifico contesto cittadino non è quasi mai osteggiato e in alcuni casi è addirittura incoraggiato, presentato come una soluzione – seppur pericolosa e “imperfetta” – per una gravidanza che avviene quando una donna non è nella posizione di adempiere ai requisiti sociali di essere una “buona madre”.

Sai cos’è? Nessuno supporta l’aborto in teoria, ma se restano incinte a questa età e smettono di studiare non potranno mai vivere per conto loro, non saranno mai in grado di gestire la propria vita da un punto di vista economico (…) Così non c’è miglioramento nemmeno per il paese (…).[19]

Le giovani studentesse che partoriscono sono valutate e criticate non solo per essere rimaste incinte in circostanze sbagliate. Esse sono anche considerate manchevoli della virtù del “senso sociale” (Ringsted 2008) che è necessaria per essere riconosciuta una persona matura e, dunque, rispettabile, che per chi prosegue nella carriera scolastica significa “non fare figli a caso” o “senza pensare al loro futuro”, come ben ribadiscono tutte le insegnanti, ma aver prima posto le basi per una maternità opportuna, tale solo se la ragazza ha ottenuto un diploma, un buon posto di lavoro e creato le condizioni materiali per una famiglia.

Alle mie ragazze dico sempre: ‘vedete quanti bambini ci sono per strada che chiedono l’elemosina, che non sono mai andati a scuola, è questo quello che volete?’ Oppure porto l’esempio delle zone rurali, dove le donne partoriscono molto presto e fanno tanti figli ma poi stanno tutti in mezzo alla strada (...) senza un futuro. Perché queste cose da noi ancora esistono e soprattutto nelle campagne è così, siamo ancora un paese povero. Però alle mie ragazze dico che loro sono diverse, che hanno la possibilità di studiare in una delle scuole migliori della città e poi di andare all’università, loro non sono come le “altre” e non devono buttare via tutto questo (...) devono pensare al loro futuro, a quello dei figli (...)[20].

Parte del tempo trascorso durante gli incontri extracurriculari è impiegato anche nella preparazione di performance teatrali, da mettere in scena in vari momenti dell’anno scolastico e in occasioni particolari come la “giornata dei genitori”. In questi spettacoli, le ragazze portano all’attenzione degli altri studenti gli insegnamenti ricevuti durante l’anno, sia sui banchi di scuola sia soprattutto nei circoli che frequentano. Dal piano delle idee al gesto concreto il passo è breve e la teoria diventa pratica incorporata.

Le esibizioni, coordinate dalle insegnanti, vertono sempre sulla vita studentesca, e “mostrano quanto sia importante studiare, ma che a quest’età ci sono anche dei pericoli, perché ancora non sono mature e potrebbero essere distratte da cose temporanee che adesso, però, fanno più male che bene!”, dice ancora una volta Genet. Non può sfuggire il persistente accento ideologico con cui è costruita la tradizione – sinonimo di povertà e oppressione – e la modernità – equiparata alla “liberazione” e al miglioramento, non solo personale, bensì riferito ad uno sforzo di sviluppo collettivo – che trasuda dalle parole delle insegnanti. I termini con cui sono “confezionati” i fatti sociali che hanno come protagoniste le donne sono quelli della costrizione (Peveri 2012): costrizione al matrimonio; costrizione ad una maternità senza razionalità (dove la razionalità è rappresentata dal calcolo costi-benefici); costrizione alla vita domestica, dove le pareti di casa sembrano ergere barriere che imbrigliano un destino di oppressione. I discorsi dello stato, nelle diverse arene sociali e nel caso specifico tramite la scuola, plasmano le soggettività attraverso la produzione di una figura di donna “da salvare” ed emancipare.

La retorica dello sviluppo e della modernità pervade la microfisica del quotidiano delle studentesse, molecolarizzandosi nei loro corpi fin nelle più intime espressioni, che sono poste come la base del cammino verso l’emancipazione e il benessere, un percorso tuttavia non esente da incertezze e contraddizioni che si ripercuotono nella loro agentività riproduttiva e nelle dinamiche di potere tra i sessi.

Il caso di Helen: “essere moderne o essere morali”, una questione di non facile conciliazione

La retorica del successo e della modernità, strettamente intrecciata alle questioni sessuali, investe il corpo delle donne – nelle sue molteplici dimensioni – in maniera contraddittoria, e come tale è vissuto dalle giovani incontrate durante la ricerca. Il caso più emblematico tra quelli raccolti riguarda sicuramente Helen, la giovane insegnante di scuola superiore di cui nel paragrafo precedente ho più volte riportato alcuni stralci di interviste.

La ragazza appartiene a una famiglia benestante e numerosa, originaria dell’Eritrea; è l’ultima di sei figli, tre maschi e tre femmine, tutti con un percorso educativo di alto livello già concluso e con un buon lavoro avviato.

Anche Helen segue il cammino dei suoi fratelli e s’iscrive all’università. Ottenuta la laurea in scienze informatiche, il padre, uno stimato traduttore internazionale, esorta la ragazza a proseguire negli studi e a completare il suo master, ponendo l’alta formazione scolastica come priorità assoluta e relegando al grado di “frivolezze” tutte le altre attività che possano distoglierla da tale obiettivo. Helen propagandava questi valori con una perentorietà irremovibile, sia quando raccontava dei suoi progetti sia quando parlava delle sue giovani allieve. Tuttavia, quelle che all’inizio mi erano sembrate convinzioni granitiche, a un dialogo più approfondito e a una maggiore confidenza si sono mostrate venate d’insicurezze e attraversate da spinte contraddittorie, che provocavano nella ragazza un forte senso di spaesamento e preoccupazione.

Fin dal nostro primo incontro noto che Helen indossa un anello molto simile a una fedina di fidanzamento, portato proprio nell’anulare sinistro. Sebbene non le avessi mai chiesto esplicitamente il significato di quell’anello, un giorno in tono scherzoso mi dice:

Vedi? Indosso un anello di fidanzamento così le persone credono che abbia una relazione sentimentale e in questo modo posso proteggermi, posso evitare che i ragazzi, compresi i miei colleghi, mi chiedano di uscire, perché come ti dicevo adesso non è il momento opportuno per farlo e perché non voglio commettere errori di cui possa pentirmi. Che succede se tra due, tre, quattro anni mi accorgessi che non è la persona giusta? Non voglio stare con qualcuno e poi rompere la relazione in futuro (...) devo proteggere me stessa e indossando questo anello è proprio ciò che sto facendo[21].

Durante gli anni dell’università Helen ha un fidanzato. L’incompatibilità di carattere e la distrazione dallo studio che la frequentazione le comportava, tuttavia, portano la giovane a concludere la relazione. Dopo pochi mesi dalla rottura con il suo primo fidanzato, Helen conosce un altro ragazzo, ma anche questa relazione non ha l’esito sperato: “all’inizio i ragazzi ti mostrano che sono innamorati di te, ma appena ti hanno conquistata non si interessano più a te”,commenta con rammarico le trascorse vicende sentimentali.

Il racconto delle sue delusioni amorose, inizialmente, mi sembra la giustificazione per quell’enfasi così marcata posta sulla necessità di doversi proteggere portando un anello di fidanzamento, un bisogno che interpreto come legato alla paura di poter soffrire nuovamente. Il dispiacere per quelle relazioni finite male ha lasciato sicuramente il suo segno, ma c’è un di più che occorre leggere tra le righe.

L’oggettivizzazione della sessualità in termini biologici e il suo sdoganamento nelle arene pubbliche, ha portato a considerare il sesso come qualcosa di separato dalla procreazione, qualcosa ancorato al piacere personale e alla sfera intima individuale. Qualcosa di moderno, dunque, e non più “il fare l’amore” tradizionale basato su logiche procreative, parentali o di lignaggio. Avere relazioni sessuali perché è piacevole, perché si ama qualcuno, è visto come un segnale di rottura tra il passato e il presente, tra la vecchia generazione delle madri e la nuova, rappresentata da queste giovani istruite e urbanizzate, per cui il rapporto sentimentale diventa espressione di libertà individuale e di modernità. Tuttavia, se per i ragazzi avere più partner femminili, contemporaneamente o in successione, è un tratto distintivo della propria mascolinità, la stessa cosa non può dirsi per le ragazze. In un contesto in cui il nuovo assetto economico neoliberale ha de-valorizzato i marcatori tradizionali che contrassegnavano l’identità di genere maschile – o li ha resi quasi impraticabili – la conquista sessuale diventa per questi giovani il mezzo attraverso cui esaltare la propria virilità e il proprio successo (Lindisfarne 1994; Connell 1995; Morrell 2001; Silberschmidt 2004). Per le ragazze, al contrario, l’accusa di essere sessualmente disponibili, e dunque moralmente lascive, è un’ombra che accompagna la percezione ambivalente del loro pensarsi come donne moderne. Tuttavia, non è questa contraddittorietà che intendo mettere in risalto qui, sebbene anche questo “doppio standard” (Arnfred 2004) posto sulla sessualità maschile e femminile abbia un peso.

Tornando al bisogno di “protezione” di Helen, le sue parole forniscono un livello ulteriore di analisi per afferrare le contraddizioni vissute dalle giovani donne come lei, vale a dire istruite e in “carriera”, contraddizioni che rendono quel futuro brillante tanto agognato e propagandato piuttosto incerto e dai contorni sfumati.

Per le ragazze istruite come me e come la mia collega che è sulla trentina ma non è né sposata né ha figli, le priorità sono quelle di avere un buon lavoro, una casa di proprietà (...). Credo proprio che sia una buona idea dare la priorità ad altre cose di “basica” importanza, come gli aspetti economici, l’istruzione, prima di sposarsi ed avere figli. Non è troppo tardi se faccio un figlio a 30-32 anni. Avere un figlio prima non mi permetterebbe di finire l’università e di avere un posto di lavoro appropriato (...) ma per le altre ragazze che si sono fermata al X gradoo che non hanno finito l’università perché hanno fallito alcuni esami non c’è altra scelta che trovarsi qualcuno e sposarsi. [22]

Helen incarna in pieno quel gruppo di giovani donne che prosegue negli studi e che cerca di sincronizzare la maternità e la vita coniugale con la carriera scolastica, con quella lavorativa e con una situazione sentimentale di mutua comprensione e affetto. L’allineamento di queste situazioni diventa un marcatore di distinzione sociale tra le donne istruite come la mia giovane interlocutrice, e le altre, quelle che interrompono la propria educazione formale e per le quali la maternità e il matrimonio restano le uniche opzioni possibili, sinonimo, secondo le forti spinte progressiste dei discorsi statali, di una femminilità “arretrata”.

Sai c’è una mia amica che era mia compagna di banco quando frequentavamo il grado IX. Adesso lei è sposata e ha tre bambini, il che è normale a questa età nella mia società (...). A volte penso che sono una debole, che non dovrei comportarmi così come se avessi un fidanzato, ma ci sono delle ragioni per cui indosso un finto anello di fidanzamento. Perché loro pensano che sono una debole, che non sto a mio agio con i ragazzi, ecco cosa pensano altrimenti. Ma io non mi sento a mio agio con quello che pensano gli altri. È successo che in certe occasioni pubbliche, durante alcune cerimonie, le persone mi hanno chiesto "oh ma non sei ancora sposata? E sei ancora single? Hai qualche problema?" Ecco cosa pensano[23].

Sebbene l’istruzione quale chiave di successo sia stata incentivata e propagandata con forza, il numero di giovani donne che prosegue nella carriera accademica e posticipa matrimonio e maternità ad un’età “socialmente in ritardo” è ancora minoritario e fatica a trovare una piena posizione sociale.

Le contraddizioni delle parole di Helen non vanno lette come incoerenza personale, come indecisioni riguardo le proprie scelte. Esse, piuttosto, vanno esaminate alla luce delle più ampie trasformazioni socio-economiche che investono la realtà locale e gli istituti culturali che guidavano il passaggio di status e con esso un pieno e sicuro riconoscimento sociale. Il problema per Helen e per altre giovani come lei non riguarda semplicemente come raggiungere alcuni aspetti di una femminilità moderna, ma piuttosto come costruire un possibile spazio di una maternità opportuna all’interno dei valori parzialmente conflittuali che sono disponibili. Quella retorica di stampo neoliberale che pone il futuro della donna – e con esso, più in generale, quello della nazione – nelle sue mani e che dipende dall’ appropriatezze delle sue scelte, si scontra col tessuto connettivo comunitario, per cui valori di più lunga durata sono difficili da scalfire. La sottile convivenza tra logica individuale, che porterebbe all’affermazione di un sé moderno e sviluppato e una logica comunitaria, che riconosce un sé “morale”, sembra avere una scadenza temporale che ancora una volta si riversa sul corpo riproduttivo delle donne. Una giovane ragazza tra i 25 e i 28 anni, istruita e con una propria indipendenza economica, se da un lato rappresenta un modello di successo per le più giovani e un riuscito esempio dello sforzo statale in direzione dell’empowerment delle donne, dall’altro è anche una figura distopica rispetto alle più tradizionali aspettative sul genere femminile.

Ancora una volta le parole di Helen riflettono tale anomalia e l’angosciante preoccupazione di non riuscire a trovare una possibilità di conciliazione:

Chiedo sempre alle persone quale sia l’età giusta per sposarsi e per fare figli. "oh è 27/28 anni ma non di più", mi dicono tutti. Quindi come vedi ho solo due anni prima di riuscire a trovare la persona giusta e iniziare ad avere una mia famiglia! A volte prego Dio: ‘mandami la persona giusta!’. Ma finché non avrò incontrato la persona giusta non ho bisogno di stare con qualcuno che poi non farà parte della mia vita futura, perché non ho bisogno di sprecare il mio tempo. Pensi che io sia felice di essere single? Si ha bisogno di qualcuno, di parlare con qualcuno ogni giorno, di salutare qualcuno ogni giorno, devi vivere per qualcuno! Questa è la parte che mi manca a dire il vero, ma adesso non posso avere una relazione, non è il tempo giusto[24].

Il continuo riposizionarsi tra un desiderio e l’altro, tra una preoccupazione e una sua smentita, crea quasi un senso di vertigine e ammanta il discorso di un’angoscia palpabile, ma rende finalmente chiaro il bisogno di protezione rappresentato da quell’anello di fidanzamento che Helen indossa e che la mette al riparo da (pre) giudizi imbarazzanti. Quell’anello, inoltre, le consente per il momento di superare simbolicamente le contraddizioni della sua condizione attuale, vale a dire quella di una donna che ha già raggiunto l’età sociale per il matrimonio e la maternità pur continuando a rimandare sia l’uno sia l’altra, in vista di una sincronizzazione di eventi che sono piuttosto incerti nel loro divenire. Le insicurezze che lacerano la ragazza riguardano sia il raggiungimento di una vita futura desiderabile e desiderata sia, di riflesso, l’affermazione di sé stessa come di una donna matura moderna, ma anche moralmente accettata.

Conclusioni

Negli ultimi tre decenni, l’empowerment femminile nei paesi in via di sviluppo è entrato a far parte dei punti programmatici di base delle agende nazionali così come di quelle internazionali legate al mondo umanitario e della cooperazione. Una delle vie privilegiate verso il potenziamento del genere femminile è stato l’incremento dell’istruzione e la promozione della salvaguardia della salute riproduttiva, concetto che ha guadagnato diffusione negli anni ’80 del Novecento come simbolo di una prospettiva nuova sui diritti delle donne e della pianificazione familiare.

«The premise of this perspective is the principle that every woman has a right to reproductive health, that is, to regulate her fertility safely and effectively; to understand and enjoy her own sexuality; to remain free of disease, disability, or death associated with her sexuality and reproduction; and to bear and rear healthy children» (Dixon-Muller 1993: 269).

Alla base di questi principi opera un processo di medicalizzazione del corpo fisico che riduce il sesso alle sue componenti biologiche e ai suoi processi fisiologici, con la conseguente azione profilattica.

Quello che ho messo in risalto nelle pagine di questo saggio, tuttavia, è una diversa forma di soggettivazione che si realizza all’interno dell’istituzione scolastica, e soprattutto nei livelli alti dell’istruzione a Mekelle. Qui la razionalità scientifica del sapere proveniente dai libri cede il passo a una ri-attualizzazione delle “tradizionali” norme di genere. Alle ragazze che perseguono un alto titolo di studio è chiesto di “piegarsi” alla femminilità normativa, che prevede la “modestia” sessuale come presupposto per un futuro migliore per se stesse e per la nazione intera.

La rivitalizzazione a livello istituzionale della castità della donna ha diverse implicazioni. La femminilizzazione del controllo delle azioni sessuali fa sì che queste ragazze continuino ad avere il “fardello morale” della sessualità (Mjalaand 2016) e la totale responsabilità delle conseguenze legate alla sfera sessuale (tanto nei suoi aspetti procreativi, quanto di salvaguardia della salute fisica), un obbligo che non pone alcuna “sfida” alla mascolinità dominante, lasciando piuttosto il sistema patriarcale indisturbato. Inoltre, l’incontro con l’educazione formale pone le donne, urbane e istruite, in un percorso di allontanamento dalle certezze tradizionali verso un futuro più moderno ma più incerto, reso tale anche dai profondi cambiamenti economici attraversati dalla nazione in questi ultimi decenni dopo le riforme in direzione del libero mercato.

Le ragazze che continuano la propria carriera scolastica acquisiscono un’auto-identità, un habitus, che serve come base per le loro aspirazioni future e che orienta le loro azioni in riferimento alla scolarizzazione e alla maternità. La relazione tra disciplina (corporea), modernità e successo – per come è forgiata dall’educazione formale in generale, e dall’insegnamento extra curriculare in particolare – rappresenta un orizzonte chiave nelle traiettorie di vita delle giovani donne educate, e nella plasmazione della propria soggettività. Le donne istruite incorporano uno schema dell’onorabilità e del successo centrato su di un ordine normativo degli eventi che segnano i vari passaggi della loro vita, dove le azioni sessuali, il matrimonio e la maternità seguono la formazione di una carriera tanto scolastica quanto lavorativa.

Un corollario del costante processo di rendere l’educazione formale e la riproduzione così strettamente intrecciate è il fatto che gran parte di questa retorica poggia su basi fortemente ideologiche. Gli argomenti affrontati, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, ruotano spesso intorno alla nazione, alla famiglia e alla tradizione. Per esempio, il fatto che l’Etiopia sia un paese “sottosviluppato”, in cui certe forme di modernizzazione non sono ancora penetrate, è un leitmotiv che ritorna spesso nelle conversazioni con gli insegnanti e con i coordinatori scolastici, così come nei dialoghi con le giovani studentesse, e in questa cornice ideologica l’educazione è presentata come la soluzione all’arretratezza del paese. Anche se, apparentemente, tali asserzioni sembrano avere poco a che fare con la fertilità e con la formazione di una famiglia e dell’assunzione del ruolo materno, in realtà queste retoriche hanno un impatto importante su queste giovani donne e sugli sforzi posti al controllo della loro sessualità e riproduzione. Venendo modellate come “agenti dello sviluppo”, corpi moderni e “modernizzatori”, e percependosi come tali, le giovani donne istruite incorporano un peculiare senso della dignità e del successo, ed è questo senso, pratico e immaginato, che rende possibile una più bassa fertilità e una posticipazione della maternità.

Per le donne, l’alta istruzione apre nuove possibilità per l’agentività personale, creando conflitti nelle aspirazioni future a livello individuale e come donne etiopi. A queste ragazze è chiesto di abitare due corpi etici che sembrano riconnettersi a due opposte femminilità. Da un lato, è chiesto loro di realizzare i competitivi obiettivi dello sviluppo e della modernità. Le donne istruite ed economicamente indipendenti sono viste come modelli per la futura generazione di donne dall’ideologia politica dominante, e fintanto che le loro ambizioni individuali rispettino i bisogni di progresso e sviluppo percepiti della nazione. Dall’altro, alle donne è posto come fondante il ri-accordarsi alle tradizionali aspettative sul genere femminile che, ancora una volta, pongono la riproduzione alla base di una “buona femminilità”. Il racconto di Helen esemplifica bene questa polarità di retoriche e ci restituisce un quadro vivido delle implicazioni che si riversano nei loro corpi, nelle molteplici dimensioni fisiche, sociali e politiche (Lock, Scheper-Hughes 1990). Il suo continuo oscillare tra il desiderio e la necessità di vedere realizzati quegli aspetti che contraddistinguono una soggettività moderna e le preoccupazioni per il rivestimento di quei ruoli (di moglie e di madre) che tradizionalmente segnalano un passaggio di status, pongono in essere un conflitto in cui l’onorabilità della donna stessa e un suo pieno riconoscimento sociale sono in gioco. Tra l’etica della modernità e quella dei valori comunitari di più lunga durata c’è una tensione di non facile conciliazione, che rende il futuro di queste donne e i passi per raggiungerlo ancora più incerti e aperti al dibattito.

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[1] La ricerca è parte del progetto di Dottorato in Storia, Cultura, Religioni dell’Università La Sapienza di Roma, ed ha visto un impegno complessivo sul campo di sette mesi tra il 2015 e il 2016. La metodologia utilizzata è stata quella propria della ricerca antropologica: osservazione partecipante, colloqui informali e interviste in profondità semi strutturate. In totale ho realizzato 86 interviste, in inglese e in lingua tigrina o amarica – grazie all’assistenza di interpreti locali – , che sono state poi trascritte e catalogate. Gli informatori chiave sono stati individuati tra gli studenti universitari e delle scuole superiori, i leader scolastici, gli operatori sanitari statali e i responsabili di associazioni umanitarie. Nello specifico, il lavoro di campo si è concentrato in sei scuole superiori (due private, due pubbliche e due con diverso orientamento religioso) e in uno dei campus universitari della città - il cosiddetto Business Campus, nel quartiere residenziale di Hawelti (il secondo per grandezza e numero di studenti). L’attività di ricerca nelle scuole si è limitata all’interazione verbale con i leader delle associazioni studentesche che avessero una rilevanza peculiare rispetto ai temi da indagare (gender club, reproductive health club e HIV/AIDS club) senza, tuttavia, aver avuto la possibilità di assistere personalmente alle loro riunioni. Nell’università, al contrario, la frequentazione assidua e personale di alcuni studenti si è affiancata alla partecipazione agli incontri collettivi organizzati dai club studenteschi (principalmente dal gender club e del reproductive health club) e ai programmi di educazione alla salute riproduttiva gestiti dalla locale ONG Family Guidance Association of Ethiopia, indirizzati ai rappresentanti dei club universitari.

[2] Si tratta di “An Essay on the Principle of Population as It Affects the Future Improvement of Society”.

[3] Il sistema educativo etiope è diviso in gradi e prevede un periodo d’istruzione inferiore (Primary Education) della durata di otto anni (I-VIII grado), cui seguono due anni d’istruzione secondaria (General Secondary Education) raccolti nei gradi IX e X, alla fine dei quali è previsto un esame nazionale il cui conseguimento fornisce l’ accesso agli ultimi due anni d’istruzione superiore (XI e XII grado).

[4] Nei documenti della Conferenza sulla Popolazione e lo Sviluppo delle Nazioni Unite tenutasi a Il Cairo nel 1994, ad esempio, si legge: (...) «l’educazione è uno degli strumenti più importanti di rafforzamento delle donne con le conoscenze, le abilità e la sicurezza necessarie per partecipare pienamente al processo di sviluppo» (United Nations 1994: sec. A. 4.1- 4.2).

[5] Fino all’inizio del XX secolo, l’istruzione era monopolio quasi esclusivo della Chiesa ortodossa etiopica ed era riservata ai maschi (Tekeste Negash 1990). Dobbiamo aspettare il 1908 per l’istituzione della prima scuola pubblica locale e il 1931, un anno dopo l’incoronazione di Haile Selassie ad imperatore, perché le ragazze fossero di fatto integrate nell’educazione formale pubblica, sebbene la quasi totalità di loro appartenesse alla classe superiore.

[6] Sull’educazione femminile quale strategia imperiale di rigenerazione nazionale e di potenziamento e difesa del governo autocratico si vedano i lavori di Guidi (2016; 2018).

[7] Citato in Tsegay (1999: 82).

[8] Sebbene ci possano essere situazioni in cui le donne appena sposate aspettino prima di partorire il primo figlio, è unanime l’aspettativa che una coppia coniugata assuma immediatamente il ruolo di genitore. Per la donna, l’entrata nella categoria socialmente riconosciuta di madre, significa completare il suo processo di transizione verso la maturità. Ad esempio, Lesthaeghe, nella sua revisione dell’organizzazione sociale dell’Africa Sub-Sahariana, afferma: «the reproductive function itself is so crucial to both individual woman and to the two kinship groups concerned that the status of adulthood for women is almost completely contingent on motherhood» (1989: 37-38).

[9] Ben al di là di questo riduzionismo ad un “corpo individuale” (Lock, Scheper-Hughes 1990) autonomo, oggettivo e razionale, a cui ci hanno abituato la moderna scienza medica e le razionalità di pianificazione proprie dei programmi internazionali di sviluppo (Adam, Leigh Pigg 2005), le “carriere” riproduttive seguono percorsi in cui le visioni culturalmente modellate della maternità (e della paternità) quali pratiche sociali, interagiscono con dinamiche contingenti, situazioni particolari e altri attori sociali, come le rispettive famiglie dei futuri genitori, che giocano un ruolo cardine nel modellare aspettative, modalità e tempistiche del fare figli (Cornwall 2007).

[10] I discorsi sull’astinenza sessuale, nel contesto locale, sono indirizzati ai giovani quale categoria sociale nella sua interezza. Tuttavia, sono principalmente le giovani donne i soggetti privilegiati di queste retoriche così come delle attività extracurriculari che si incentrano su tali tematiche. Ad esempio, il club di salute riproduttiva e quello relativo alle questioni di genere, obbligatori in ogni scuola a partire dal grado VIII, sono spazi di esclusiva pertinenza femminile.

[11] Intervista a Helen, insegnante e coordinatrice del gender club alla Merciful Paradise School (Mekelle), raccolta dall’autrice a Mekelle in data 9/06/2016.

[12] Intervista a Genet, coordinatrice del gender club alla Adi Aki School (Mekelle), raccolta dall’autrice a Mekelle in data 13/06/2016.

[13] Le insegnanti, così come le studentesse intervistate, non intendono rifiutare la maternità quale esperienza paradigmatica (Amadiume 1997) nel percorso di maturità come donne. Piuttosto, queste giovani vedono la maternità come appropriata solo in un insieme limitato di contesti sociali (istruzione, lavoro ben remunerato, indipendenza economica), che tuttavia possono essere lenti a consolidarsi. In questione, dunque, non è il ruolo di madre, ma la sua tempistica, vale a dire, la sua assunzione all’interno di eventi riconosciuti socialmente come coordinati.

[14] Questo processo rimanda al concetto di biopolitica “delegata” sviluppato da Memmi (2003; 2004).

[15] Occorre specificare che i club non prevedono l’adesione obbligatoria di tutta la popolazione studentesca femminile. Essi raccolgono almeno due studentesse per ogni classe che servono da “modelli” per le altre ragazze non direttamente interessate a partecipare alle attività extrascolastiche, ma che tuttavia tramite iniziative indirizzate all’intera scuola durante momenti specifici dell’anno fanno “esperienza” di questi spazi attraverso una partecipazione periferica (Lave, Wenger 1991) all’insegnamento extracurriculare.

[16] Le wereda sono «entità amministrative dipendenti direttamente dalla Regione ed equiparate al consiglio comunale della città. All’interno dei loro confini, infatti, i relativi funzionari sono competenti per quanto riguarda ogni settore della vita sociale» (Lucchi 2009: 54). Hadnet si trova nella zona meridionale di Mekelle.

[17] L’autrice sviluppa il concetto di “congiuntura vitale” nella sua analisi empirica sul sistema di onore delle donne Beti del sud del Camerun. Con questa espressione intende: «socially structured zones of possibility that emerge around specific periods of potential transformation in a life or lives. They are temporary configurations of possible change, critical durations of uncertainty and potentiality» (2006: 22).

[18] Il video è sicuramente un incentivo verso il ricorso all’aborto sicuro e una propaganda negativa contro le figure tradizionali che gestivano gli eventi intimi e sociali della vita delle donne, come appunto le interruzioni di gravidanza, causa, tra altri fattori strutturali, dell’elevata mortalità materna nel paese. Esso, però, è anche una “lezione di vita”, che indica alle giovani la giusta traiettoria nel percorso verso la maturità, incentrato su una riproduzione responsabile e ordinata.

[19] Intervista a Elsa, insegnante di scienze della salute presso lo Sheba College (Mekelle), raccolta dall’autrice a Mekelle in data 2/06/2016.

[20] Intervista a Helen, nota 11.

[21] Intervista raccolta dall’autrice a Mekelle in data 28/06/2016.

[22] Intervista raccolta dall’autrice a Mekelle in data 28/06/2016.

[23] Intervista raccolta dall’autrice a Mekelle in data 28/06/2016.

[24] Intervista raccolta dall’autrice a Mekelle in data 28/06/2016.