Corpo, salute, impegno pubblico

Alcune prospettive di antropologia medica

Andrea F. Ravenda

Università di Bologna

Indice

Capire, agire, impegnarsi: Tullio Seppilli
Biologico/sociale
Antropologia pubblica della salute
I contributi
Bibliografia

Capire, agire, impegnarsi: Tullio Seppilli

«Un’antropologia per capire, per agire, per impegnarsi». La lezione di Tullio Seppilli è il titolo del secondo convegno della Società italiana di antropologia medica (SIAM) che si è tenuto a Perugia dal 14 al 16 giugno 2018. L’evento, dedicato alla figura del fondatore della SIAM scomparso il 23 agosto del 2017, ha offerto l’occasione per un confronto di ampio raggio tra le ricerche e le prospettive teorico-metodologiche della contemporanea antropologia medica italiana[1]. La salute sessuale e riproduttiva, le migrazioni transnazionali, la cittadinanza, i rapporti tra ambiente e rischio sanitario, tra corpo e stato o tra sanità pubblica e riconfigurazione delle pratiche mediche, sono stati alcuni dei temi trattati dai partecipanti nel costante riferimento alle declinazioni proprie del lavoro di Seppilli sistematicamente orientato, come recita il titolo del convegno, alla comprensione, all’azione e all’impegno per un “uso sociale” dei saperi antropologici[2]. Questa prospettiva sull’«uso sociale della ricerca sociale» (Seppilli 2008: 113) appare, infatti, come un tratto distintivo della produzione scientifica e della prassi quotidiana dell’antropologo perugino sempre volta verso la complessa e consapevole coniugazione tra rigorose prospettive teorico-metodologiche, l’azione politica e l’impegno nei processi trasformativi dei contesti sociali. Una funzione pubblica e una forma “non-neutrale” della ricerca sociale e antropologica che «si manifesta non tanto come intrusione di distorsioni ideologiche entro l’ambito dei procedimenti di indagine, quanto a monte, nella gerarchia delle scelte dei campi su cui indagare, e a valle, nell’uso sociale dei risultati» (Seppilli 2008: 111). Ebreo, nato in una famiglia «in qualche modo diversa» (Seppilli 2014a: 67), figlio di un igienista e di un’antropologa[3], con l’avanzare dei regimi nazi-fascisti in Europa il giovane Tullio fu costretto a rifugiarsi a São Paulo, in Brasile, dove visse fino alla fine degli anni Quaranta. Nella città cosmopolita ebbe i primi contatti con la militanza comunista e, allo stesso tempo, iniziò a trovare interesse per la ricerca antropologica poi continuata a praticare in Italia, grazie alla collaborazione con Ernesto de Martino, nel quadro di un marxismo gramsciano che ha sempre rappresentato il suo riferimento di ispirazione teorico e politico (Pizza 2017). Nel case history della sua vita (Seppilli 2014a), infatti, il rapporto tra comunismo e antropologia, sembra costituire un percorso inevitabile nel continuo interscambio tra orizzonte storico ed esperienza concreta fino al «cuore stesso della società, dei suoi problemi e delle sue ingiustizie» (Seppilli 2014a: 73). Un certo modo di “fare antropologia” che, come ricordato di recente da Massimiliano Minelli, emerge certamente dalla scrittura e dalle pubblicazioni dell’antropologo, ma ancor di più sembra esser custodito nel ricordo di uno “stile”, evocato da molti suoi allievi e colleghi (Minelli 2018; Papa et al. 2017; Pizza 2017) come insieme di «memorie di consuetudini e attitudini» e delle «esperienze collettive che hanno accompagnato il suo insegnamento» (Minelli 2018: 106). Rispetto a una produzione ampia e a un lavoro di ricerca diversificato, che spazia dai primi interessi su etnologia ed educazione sanitaria alla lotta anti-manicomiale, passando per l’antropologia visiva/visuale e del teatro, fino alla fondazione della SIAM e della rivista AM, con i più contemporanei lavori di antropologia medica (Seppilli 1996; 2014b), la postura scientifica di Seppilli si è sempre caratterizzata per la costante capacità di dialogo, di confronto istituzionale con il coinvolgimento dei giovani nella costruzione di «relazioni e progetti collettivi» (Minelli 2018: 106) in un proficuo interscambio tra luoghi, persone, ricerche, lotte e azioni comuni. Una dimensione operativa e pubblica della ricerca antropologica che si è materializzata nei frequenti passaggi e nelle intense relazioni tra accademia, istituzioni pubbliche, case del popolo, movimenti e centri sociali.

Nella sintesi di questo percorso al contempo scientifico e politico, individuale e collettivo, la scelta dei “campi su cui indagare” e l’”uso sociale” dei saperi prodotti dalla/nella ricerca ha assunto la funzione di una prospettiva teorico-pratica (Bourdieu 1972) fondante dell’antropologia medica italiana, rispetto alla consapevole «circolarità fra conoscenza e prassi come un rapporto fra due momenti correlati e tuttavia caratterizzati da un certo grado di reciproca autonomia» (Seppilli 2008: 117). Su questa gradazione, la vocazione pubblica dell’antropologia medica proposta da Tullio Seppilli ed evocata negli interventi del convegno di Perugia — alcuni dei quali ospitati in questa sezione della rivista Antropologia Pubblica[4] — si è sempre orientata a partire da un posizionamento critico rispetto alle dinamiche meccanicamente “applicative” di un sapere antropologico alle volte prodotto rapidamente, con semplificazioni metodologiche rivolte, soprattutto «in quest’epoca di trionfante tardo-capitalismo e di connesso neoliberismo, (…) ai programmi di intervento che sta ad altri volta a volta decidere» (Seppilli 2014b: 22). Questa critica che indirettamente chiama in causa il complesso dibattito sull’antropologia applicata o pubblica (Severi 2019) si riferisce a quei contributi antropologici che, in alcuni casi spinti da legittime necessità occupazionali o in altri, da mere istanze di opportunità rispetto alla risoluzione di specifici problemi (Rappaport 1993), rischiano di smarrire il rigore scientifico e lo sguardo critico. Ne consegue una eccessiva curvatura degli approcci teorico-metodologici in base alle richieste e alle tempistiche dei diversi committenti — pubblici o privati — che lascia, in questo modo, ad “altri” la determinazione di orientare sia i campi di ricerca sia gli impieghi dei dati e dei saperi prodotti. Dopotutto i presupposti applicativi nella loro apparente chiarezza presentano tratti di ambiguità tali da aver richiesto in più di una occasione profonde riflessioni critiche sulle coordinate politico-economiche e sui rapporti di forza che delineano tanto l’applicazione, quanto la definizione degli stessi problemi o dei temi sui quali si è chiamati ad intervenire (Kedia, van Willigen, 2005; Guerròn-Montero 2008). In questa direzione, un’attività di ricerca con funzione pubblica, articolata per “capire”, “agire”, “impegnarsi” si propone, come ha ricordato Seppilli fino agli ultimi anni del suo lavoro, rigorosamente critica nel dialogo con le committenze e “oggettiva” proprio perché “non neutrale”, concretamente progettata e “usata” all’interno di specifici quadri di egemonia e potere storicamente determinati con intenzioni operative tese a innescare “processi di consapevolezza e di liberazione”[5].

Biologico/sociale

Nell’ultimo decennio una parte considerevole del dibattito antropologico si è orientato, per certi versi in linea con alcuni dei principali interessi posti fin della fase “classica” della disciplina, verso le complesse variabili — dualistiche, dialettiche — proprie delle relazioni tra natura e cultura, tra dimensioni biologica e sociale, o tra umano e non umano. Le modificazioni ambientali dovute all’invasività delle attività umane nella materiale evidenza del cambiamento climatico, delle emissioni inquinanti, della diffusione di patologie ed epidemie hanno indirizzato le ricerche verso l’esplorazione della dimensione politico-economica e conflittuale del rapporto tra uomo e natura (Ravenda 2018). In maniera connessa, il tentativo di rinnovamento teoretico proposto dalla cosiddetta svolta ontologica (Latour 2015) e dal successo politico-accademico (Swanson 2017; Bauer, Ellis 2018) del concetto di “Antropocene” (Crutzen 2005; Moore 2016), che ha definito l’essere umano e le sue attività come una “forza geofisica” (Chakrabatry 2008), hanno aperto a una grande variabilità di paradigmi analitico-interpretativi e di contesti di ricerca declinati in una prospettiva transdisciplinare. Orientamento che, nello scarto tra riflessione teorica e concreta indagine sulle problematiche (Moore 2016), ha frequentemente chiamato in causa l’esplorazione dei presunti confini e delle contrapposizioni tra le scienze definite “umane e sociali” e quelle “naturali”. Un tema, quello dell’esplorazione dei confini disciplinari e delle interconnessioni biosociali (Singer, Clair 2003) che, come detto, non appare nuovo o di “svolta” nel dibattito antropologico e, soprattutto, in quello proprio dell’antropologia medica che altresì trova, nelle differenti determinazioni storiche del panorama accademico internazionale, una specifica peculiarità fondante proprio rispetto all’inscindibilità e alla costante integrazione tra variabili biologiche e sociali nella centralità epistemologica del corpo come prodotto storico e culturale (Lock, Nguyen 2010; Pizza 2005). L’interrelazione tra dimensione biologica — corpo, salute, malattia — e dimensione sociale — condizioni storico-culturali, politico-economiche, sanitarie — nelle peculiarità caratterizzanti che si materializzano nei differenti contesti è una direttrice di analisi e riflessione che l’antropologia medica ha assunto nel suo contemporaneo paradigma interpretativo e operativo da diversi decenni. La sventura della malattia e le esperienze di salute, dunque, sono considerate ed esplorate come il risultato dell’inscrizione nei corpi di forze sociali e politiche storicamente determinate. Si tratta, in altri termini, dell’incorporazione delle disuguaglianze sociali, delle economie politiche (Foucault 2005) e morali (Thompson 1971), delle disparità nell’accesso alle risorse e ai diritti per la salute e dell’esposizione ai fattori di rischio nei luoghi di vita e lavoro. Nella specificità del panorama italiano, in linea con la tradizione storicista gramsciana e demartiniana, l’antropologia medica sin dal primo “snodo” (Seppilli 1996; 2014b)[6] della sua genealogia ha fatto del rapporto scientifico tra biologico e socio-culturale il principale strumento di analisi e di azione poiché «quando noi studiamo l’uomo, dobbiamo considerare continuamente una intersezione di leggi sociali e di leggi biologiche nella condizione umana: non soltanto una giustapposizione dei due tipi di leggi ma un’intersezione» (Seppilli 1968: 242). Da una tale prospettiva oramai assodata, al contempo epistemologica, metodologica e politica le antropologhe e gli antropologi che si occupano di corpo, salute e malattia hanno anche definito il proprio posizionamento scientifico e operativo rispetto al lavoro dei professionisti sanitari e ai paradigmi della biomedicina esclusivamente concentrata sugli aspetti biologici, ovvero sul riduzionismo biologico del suo approccio conoscitivo e attuativo. Una critica che non si articola nei termini new age di una eccessiva “scientificità” biomedica, ma che tutt’altro rivendica la necessità di un maggiore rigore scientifico che tenga conto dell’«immensa area dei determinanti e dei processi sociali (economico-sociali e socio e psico-culturali)». Come ribadito, infatti, da Tullio Seppilli in occasione del primo convegno della Società italiana di antropologia medica[7]:

La nostra critica alla medicina ufficiale, in sostanza ai suoi limiti, malgrado i suoi enormi e indiscutibili successi, era, e in certa misura rimane, il suo essere scientifica solo a metà, il suo essere appunto “soltanto” bio-medicina (…). Ed è forse bene sottolineare, qui, che questa nostra critica al sostanziale biologismo della nostra medicina ufficiale si inserisce in un orizzonte più generale: il corretto rapporto fra la componente bio e la componente socio (e dunque nel socio anche gli spetti culturali e le soggettività individuali e collettive); l’ineludibile problema, in sostanza, della loro comune “necessità”, della loro reciproca autonomia e, ad un tempo, della loro necessaria costante integrazione (Seppilli 2014:19-20).

“Necessità”, “autonomia” e “integrazione” nell’attraversamento delle connessioni biosociali si costituiscono pertanto come i perni di un’antropologia medica che nel felice ossimoro che la definisce (Pizza 2005:15) e nell’ambiguità di essere una specializzazione sostanzialmente transdisciplinare ha da molto tempo superato le rigide contrapposizioni tra ricerca accademica, azioni operative e impegno politico verso la produzione di un sapere critico e sperimentale potenzialmente sempre buono “da usare” (Rylko-Bauer et al. 2005). Le etnografie condotte all’interno del campo sanitario o biomedico (Bourdieu 1972; Pizza 2005), infatti, sono da diversi anni divenute strumenti utili per la formazione di professionisti sanitari (nel campo medico, infermieristico, dell’ostetricia etc.) così come nella progettazione e valutazione di interventi di attuazione delle politiche sociosanitarie e di welfare. Un contributo cruciale, che tuttavia resta in taluni casi ancora troppo ancorato alla mera conoscenza e valutazione culturalista dei contesti lasciando, dunque, aperta la sfida di una maggiore aggregazione e convergenza tra saperi bio-medici e socio-antropologici nei programmi di salute pubblica, soprattutto nei termini di un ripensamento e di una reale riconfigurazione delle classiche combinazioni tra i modelli statistici e fattoriali dell’epidemiologia, l’epistemologia biomedica e le convenzionali pratiche cliniche (Parker, Harper 2005; Ravenda 2018).

Antropologia pubblica della salute

L’importanza dei determinanti biosociali (e bioculturali) così come il disvelamento dei processi di incorporazione in rapporto alle dinamiche di salute e malattia rappresenta un aspetto centrale non soltanto del paradigma analitico e interpretativo dell’antropologia medica, ma anche del suo carattere operativo e pubblico. Un’ampia varietà di studi e di orientamenti delle ricerche contemporanee, che spaziano dalle etnografie dell’ospedale, alla riconfigurazione delle pratiche e dei saperi medici fino all’analisi dei rapporti eziologici tra fattori di rischio — inquinamento ambientale, stile di vita, alimentazione, condizioni lavorative etc. — e diffusione di patologie (solo per citare alcune delle prospettive contemporanee dell’antropologia medica). Esplorare etnograficamente i contesti in cui i processi socioculturali e politico-economici non soltanto si «aggiungono ma si integrano e si incorporano in forme anche molto complesse con quelli biologici» (Seppilli 2014b: 20) permette di comprendere quanto e in che modo i contorni stessi della salute e della malattia, si costituiscano come esperienze fisico-politiche (Pizza, Ravenda 2012) o, in altri termini, come continua intersezione tra ambiente fisico, produzione di conoscenza scientifica, genealogia storica, dimensione socio-politica e corpi individuali (Ravenda 2018). A tale proposito, molte etnografie hanno messo in evidenza come le relazioni causali connesse alla presenza di malattia scaturiscono dalla specificità dei rapporti tra corpi e istituzioni (Pizza, Johannessen 2009), oltrepassando nella loro articolazione il superficiale (poiché evidente) dato di genesi patologica nel quadro di vere e proprie eziologie socio-bio-politiche (Fassin 2014; Hamdy 2008; Ravenda 2018). Si tratta di prospettive di ricerca e di analisi che ambiscono a coniugare sul campo le dinamiche causali con le determinanti socio-culturali, le prospettive storiche e le azioni politiche, nella misura in cui, come evidenziato da Vin-Kim Nguyen e Karine Peschard, i livelli di corruzione, di conflitto di interesse e di diseguaglianza socioeconomica sono evidentemente collegati con i più negativi indici e risultati di salute in un’intera società (Nguyen, Peschard 2003). Ad esempio nel suo studio sulla diffusione di patologie renali tra le classi sociali più povere in Egitto, l’antropologa Sherine Hamdy (2008) ha messo in evidenza le modalità attraverso le quali queste esperienze di malattia sono comprese e interpretate dalle persone che ne soffrono come metafora dei “mali più grandi” che colpiscono l’Egitto, ovvero in rapporto alle condizioni politiche e socio-economiche che permettono la presenza di acqua e aria inquinata, cibo non sicuro, cattiva gestione dei rifiuti, così come di una cattiva organizzazione e funzionamento delle strutture sanitarie pubbliche nelle quali sono prese in cura. Per Hamdy la netta sfiducia rispetto alle strutture e alle cure mediche messe a disposizione del servizio pubblico connessa alla percezione metonimica della malattia secondo la considerazione che i corpi “propri” e sofferenti rappresentino l’essenza di uno Stato malato, mettono in evidenza quanto e come tutte le eziologie siano sempre politicamente definite e interpretate. In questo senso, la definizione di “eziologia politica” si pone in linea di continuità con un’antropologia medica che favorisce uno slittamento dei suoi principali obiettivi dalla mera contestualizzazione socioculturale della malattia e del corpo, verso una riconfigurazione dei nodi causali tra salute e malattia per una analisi delle implicazioni che i rapporti di forza hanno sulla produzione, diffusione e valutazione di specifiche patologie in determinate società (Nguyen, Peschard 2003; Parker, Harper 2005). Relazioni dinamiche e conflittuali di intimità tra i corpi e i poteri governativi e dello stato che convergono sulle diverse forme dell’esperienza connesse alla nazionalità, alla cittadinanza, alla scienza, al genere, alla violenza (Pizza, Johannessen 2009: 19) rispetto alle quali la ricerca antropologica ha la possibilità di giocare un ruolo decisivo come prassi di ricerca dialogica, localizzata e al contempo multisituata, capace di riconnettere sul campo e nello spazio pubblico fatti, discorsi, dati, persone apparentemente distanti tra loro fino al cuore dei meccanismi biopolitici di funzionamento del campo biomedico (Pizza, Ravenda 2016).

I contributi

All’interno di un tale quadro generale, brevemente tratteggiato nei paragrafi precedenti, i saggi ospitati in questa sezione di Antropologia Pubblica, contribuiscono ad un più ampio progetto di ricollocazione sulle principali riviste italiane di Antropologia, di alcuni degli interventi presentati al convegno SIAM di Perugia. Nella loro diversità argomentativa le autrici offrono spunti comuni rispetto alle “scelte dei campi su cui indagare” orientando lo sguardo antropologico verso l’intreccio tra corpo, salute e impegno pubblico nella specificità di due macro-aree tematiche di grande interesse contemporaneo: le questioni di genere nei processi di incorporazione e di salute (Adami e Mauriello); i nodi causali tra inquinamento, ambiente e salute in aree industriali (Falconieri)[8]. Nel saggio Il corpo del successo. Sessualità, riproduzione e plasmazione di soggettività femminili moderne nelle scuole di Mekelle (Tigray-Etiopia), Désirée Adami si occupa delle retoriche e delle pratiche di soggettivazione attivate nelle scuole superiori di Mekelle rispetto al tema della gravidanza e della salute riproduttiva in un contesto pubblico dove il legame inversamente proporzionale tra istruzione e gravidanza riceve grande attenzione. Se da un lato la scuola rappresenta un percorso privilegiato per uscire dalla povertà, fornendo quella conoscenza tecnico-scientifica che trasforma le donne da “vittime della tradizione” a soggetti autonomi e razionali che partoriscono per scelta, dall’altro l’istruzione formale pone le donne urbane ed “educate” su un percorso di allontanamento dalle “certezze tradizionali” verso un futuro più moderno ma anche più incerto. In linea di continuità rispetto alle complesse dinamiche di relazione tra corpo e genere il saggio di Marzia Mauriello Transgender beauty. Soggettività, genere e corpo nell’esperienza trans a Napoli si riferisce a una ricerca condotta presso la comunità transgender mtf (da maschio a femmina) di Napoli in rapporto alla specifica esperienza dell’autrice come giudice in alcuni concorsi di bellezza per donne trans. Se le conoscenze/i poteri che hanno creato e regolato la condizione trans negli ultimi anni hanno fatto il loro percorso, nella direzione di una maggiore acquisizione di diritti per le persone transgender, il processo di autoriconoscimento per le donne trans che si iscrivono e partecipano ai concorsi di bellezza sembra essere strettamente legato alla costruzione di un organismo “normativo” conforme, ma allo stesso tempo bellissimo, spesso idealizzato in termini di una chimera estetica. In questo senso, sottolinea Mauriello, i concorsi di bellezza per le donne trans sono la cartina di tornasole per esplorare come e quanto un determinato ideale corporeo ed estetico che spesso si trasforma nei dispositivi egemoni delle classificazioni corporee, in un femminile ipertrofico e al contempo trasgressivo, sia percepito come uno strumento di riconoscimento di sé, di realizzazione e di accettazione sociale.

Anche se con un tema e contesto di ricerca differente, il saggio di Irene Falconieri Corpi “in prova”. Petrolio, salute e ambiente nelle indagini della Procura di Siracusa che conclude questa sezione resta focalizzato sulle complesse dinamiche proprie dei processi di incorporazione riflettendo sulle connessioni tra attivismo ambientalista e rischio sanitario nel perimetro industriale di Augusta, Priolo e Melilli (SR). In un’area SIN — Sito di interesse nazionale per le bonifiche — la ricerca si concentra sull’analisi di alcuni procedimenti penali avviati dalla Procura della Repubblica di Siracusa esplorando i modi in cui, a partire dagli anni Novanta, i corpi “malati di inquinamento” siano stati sottoposti a un doppio processo di socializzazione. Da un lato, immessi all’interno di inchieste giudiziarie sono stati oggettivati e valutati per diventare prove materialmente utili per dimostrare l’evidente impatto industriale sull’ambiente e la salute e, dunque le eventuali condotte illecite attribuite alle industrie petrolchimiche presenti sul territorio. Al contempo, nonostante nell’area indagata non si sia creato un attivismo di natura squisitamente giuridica, tali questioni hanno fortemente incentivato l’emersione di una coscienza pubblica sui rischi ambientali e sanitari connessi ai processi di sviluppo industriale. Secondo Falconieri, gli individui e i loro “corpi malati” si sono così metonimicamente trasformati in “corpi sociali” in grado di dar vita a nuove forme di cittadinanza e di partecipazione politica.

Le ricercatrici che hanno contribuito a questo lavoro collettivo che si compone rispetto a un’articolata eterogeneità dei contesti e dei paradigmi teorico-metodologici di riferimento, sono coinvolte nei processi indagati nella misura in cui l’indirizzo dato ai loro campi di ricerca contribuisce alla riconfigurazione dei problemi affrontati assumendo, in questo modo, una funzione pubblica e operativa rispetto alle complesse relazioni che connettono il corpo e la salute con i determinanti e le variabili socio-culturali e politico-economiche. Un’antropologia pubblica della salute, dunque, che ambisce a incontrare le istanze individuali e collettive di partecipazione politica “dal basso” e di democratizzazione dei saperi scientifici per la costruzione di nuove strategie per la salute e per la riqualificazione democratica della convivenza sociale (Pizza, Ravenda 2016). Impegnate direttamente nel processo di trasformazione, queste ricerche possono pertanto essere “usate”, per mediare e ricongiungere le eterogeneità delle esperienze corporee in un laboratorio pubblico capace di produrre nuova conoscenza e metodologie innovative nelle relazioni così come nelle interazioni fra i diversi agenti del campo sanitario per innescare, come avrebbe detto Tullio Seppilli, “processi di consapevolezza e di liberazione”.

Bibliografia

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[1] Il convegno è stato animato dalla partecipazione di circa duecento persone registrate, tra relatori delle plenarie, delle sessioni tematiche e uditori. Il programma completo è visionabile al sito della Fondazione Angelo Celli per una cultura della salute https://www.antropologiamedica.it/secondo-convegno-nazionale-della-siam/ (Sito consultato l’ultima volta il 29/10/2019).

[2] Una specifica sessione del convegno di Perugia è stata dedicata agli “Usi sociali dell’antropologia”.

[3] Il padre di Tullio Seppilli, Alessandro Seppilli è stato un importante igienista e politico italiano, sindaco di Perugia dal 1953 al 1964. Anita Schwarzkopf Seppilli è stata un'antropologa e storica.

[4] I saggi che compongono questa sezione monografica sono l’esito di una selezione dei principali interventi del convegno di Perugia distribuiti tra le principali riviste italiane di Antropologia. Desidero ringraziare il Presidente della SIAM Alessandro Lupo, e il Direttore della rivista AM Giovanni Pizza per avermi dato la possibilità di selezionare i contributi dall’ampia disponibilità del convegno. Allo stesso tempo desidero ringraziare il Direttore di Antropologia Pubblica Bruno Riccio e la redazione della rivista per aver accettato la proposta, contribuendo in maniera determinante e con pazienza alla sistematizzazione del lavoro.

[5] Come egli stesso dichiarava nei suoi curriculum.

[6] Nell’intervento di apertura del primo convegno della Società italiana di antropologia medica (Roma 2013) Tullio Seppilli ha definito la genealogia dell’antropologia medica italiana articolandola in tre snodi: il primo orientato alla considerazione delle componenti culturali nei processi di salute e malattia; il secondo votato ad un’antropologia critica della biomedicina; il terzo, connesso al precedente, orientato alla dimensione pubblica e operativa dell’antropologia medica (Seppilli 2014b).

[7] Il Primo convegno della SIAM dal titolo Antropologia medica e strategie per la salute si è tenuto a Roma, presso la Sapienza Università di Roma dal 21 al 23 febbraio 2013.

[8] Di questa sezione avrebbe anche dovuto fare parte il saggio di Francesco Bachis dal titolo: Sano, sicuro, pulito. Dismissioni industriali e bonifiche nelle aree minerarie del Sulcis-iglesiente. Purtroppo, per problemi organizzativi della curatela, questo contributo che avrebbe certamente equilibrato le aree tematiche della sezione rispettivamente riferite alle questioni di genere-corpo-salute e inquinamento-ambiente-salute è stato rimandato a un numero successivo della rivista. Di seguito l’abstract del contributo di Bachis utile per comprendere il modo in cui è stata pensata complessivamente la sezione monografica: «Crisi e dismissioni industriali producono interconnessioni tra lavori stabili e “visibili” e altri precari e invisibili. Ambiente e salute rappresentano il terreno di negoziazione più interessante tra queste diverse soggettività: le generazioni più giovani sembrano condividere una creta idea dell’importanza di un lavoro sano, sicuro e pulito, che contrappongono a un passato insano, rischioso e “sporco”. A partire da una pluriennale ricerca etnografica nella Sardegna meridionale, l’intervento riflette su come i progetti di bonifica dei siti industriali e minerari producano frizioni e negoziazioni tra le diverse soggettività, alimentando da un lato le promesse di una reindustrializzazione green e dall’altro le speranze di un futuro centrato sulle politiche di patrimonializzazione e valorizzazione turistica».