Antropologia ed educazione tra ricerca e azione sul territorio

Esperienze con i popoli indigeni in Brasile

Ana Maria Gomes

Universidade Federal de Minas Gerais (UFMG), Brasile

Indice

Passi per una experimental togetherness
Esperimenti di esperienza: rovesciare posizioni e riconfigurare luoghi di incontro
Percorsi accademici e inventività indigena: alla ricerca di un inquadramento etnografico in tempi di cambiamento
Commenti finali: tra sconcerti epistemici e comparazione
Bibliografia

Abstract.  For over twenty years, indigenous students, sapiens, shamans, along with experts holding specific knowledge, and political leaders have been continuously present and active in the University. These presences gave place to (exemplary) ethnographic scenes, hereby reported in dialogue with statements of political, cosmopolitical and epistemological nature about knowledge practices that involve different people, and different cultural traditions. Focusing either on knowledge practices that occur during meeting and training in the University, or on similar interactions regularly carried out in indigenous territories, the paper explores the arrangements and adjustments of relationships between different indigenous people and communities. In addition, by looking at the training programs for indigenous teachers, it aims to highlight the core intentions of educational public policies, and to explore the conceptual shifts and suspensions of meaning that destabilize what we can assert about the manners and meanings of “our knowledge”, as produced in relation with different indigenous partners.

Keywords.  Cosmopolitics; knowledge practices; indigenous people of Brazil; indigenous education; affirmative action.

Le riflessioni e questioni che saranno presentate in questo testo nascono dalla relazione tra immersione e movimento, come un tentativo di produrre ciò che Marilyn Strathern ha chiamato “momento etnografico” (Strathern 1999: 6). L’imperativo di prendere le distanze e riflettere, di produrre nuovi modi di percepire e, quindi, nuove conoscenze e nuovi discernimenti, si impone in modo particolarmente intenso a partire dagli avvenimenti politici più recenti[1]. Trattasi di un momento di intensi cambiamenti politici in Brasile, che si sta dirigendo verso una ripresa dell'autoritarismo in forma accentuata e veloce e che si è rivelato uno dei momenti più gravi della nostra storia, con la perdita di diritti e garanzie sociali di base. Penso che questi elementi si riflettano in ciò che ho cercato di produrre e, soprattutto, nel modo in cui ho deciso di definire le priorità del mio impegno sociale e istituzionale.

Nell’Universidade Federal de Minas Gerais (UFMG), il contesto istituzionale in cui lavoro, questa congiuntura storico-politica è stata segnata anche dalla chiusura di un ciclo molto intenso di attività che ci sembravano consolidate: il corso di laurea specifico, creato nel 2006, per la formazione di insegnanti indigeni; la creazione di un settore antropologico nella Facoltà di Scienze della Formazione; e l'istituzione di diverse proposte di azioni affermative all'università (in sintonia con quanto stava accadendo in Brasile), dove queste politiche avanzavano verso il raggiungimento di carattere più completo e stabile, dopo oltre 20 anni di costanti sforzi e impegni[2]. Oggi abbiamo una struttura istituzionale che ospita regolarmente circa 140 studenti indigeni[3], con un Comitato Consultivo Indigeno istituito per la gestione condivisa e paritaria con altri organi universitari. In questo scenario, ci proponiamo di accogliere nell'università, al di là delle parti istituzionali previste e con posizioni precedentemente istituite, la presenza di un gruppo più ampio di persone, che comprende esperti dei saperi tradizionali e diverse autorità della conoscenza, leader politici e rappresentanti di diversi segmenti sociali, oltre agli studenti indigeni e quilombolas, ai giovani dei movimenti sociali rurali e di genere, e a quelli delle periferie delle metropoli urbane. Mi concentrerò in particolare sulla partecipazione indigena all’interno di questo ampio scenario, quadro che cerco di analizzare assumendolo in quanto impegno etnografico, ossia, come sforzo per indagare possibili direzioni di senso, possibili letture dei molti scontri interni ed esterni che tale quadro inevitabilmente ci impone.

Ciò che cercherò di presentare sono alcuni flash riguardanti questo momento di transizione e come, insieme ad alcuni colleghi, cerchiamo di situarci al suo interno. Attraverso un dialogo continuo con Jean Lave (2011), parto dall’interpretazione preliminare della pratica etnografica come processo (o progetto) di apprendimento continuo. Intendo assumere anche l'idea di una "proposta etnografica cosmopolitica", nella forma suggerita da Marisol de La Cadena (2015), che riprende la definizione proposta da Isabelle Stengers (2005).

Un brano di Stengers mi sembra suggestivo per alludere a questo quadro nel suo insieme. In un certo senso, il passaggio ripropone ciò che stiamo vivendo oggi nell'UFMG (e in molte altre istituzioni, come dimostrazione su scala ridotta di ciò che sta accadendo in diversi casi in Brasile):

I have called “cosmopolitics” the kind of experimental togetherness that makes peace a challenge and not the condition for a polite conversation. “Politics” recalls that this proposition stems from our Western tradition that linked what it abstracted as “reason” with what it invented as “politics,” which has meant, since Plato, the problem of who is entitled to speak and on what grounds when the question of our common destiny is at stake. The prefix “cosmo” takes into account that the word common should not be restricted to our fellow humans, as politics since Plato has implied, but should entertain the problematic togetherness of the many concrete, heterogeneous, enduring shapes of value (SMW, 94) that compose actuality, thus including beings as disparate as “neutrinos” (a part of the physicist’s reality) and ancestors (a part of reality for those whose traditions have taught them to communicate with the dead) (Stengers 2002: 248).

C’è un ulteriore aspetto de La proposta cosmopolitica, che mi interessa rievocare: la produzione di un interstizio, una sorta di sospensione che trova un evocativo riferimento nell’immagine dell’“idiota” come personaggio concettuale, come qualcuno cioè che mette in dubbio le certezze, che rifiuta l'accordo immediato imponendoci di rallentare i nostri movimenti (anche mentali). In questa sospensione, l'autorità della conoscenza può essere messa in discussione: «Sappiamo, la conoscenza esiste, ma l'idiota richiede che rallentiamo, che non ci riteniamo autorizzati a credere di possedere il significato di ciò che conosciamo» (Stengers 2005: 995).

Da questa prospettiva – di un insieme problematico e sperimentale – presenterò alcune situazioni che illustrano i nostri contesti di lavoro e di vita, nell’intento di rallentare e muoverci al loro interno seguendo queste due questioni: chi ha il diritto di parlare e per quali motivi; non ci è permesso credere di possedere, o di decidere, il significato di ciò che sappiamo. Le situazioni sono organizzate seguendo due possibili diversi ordini di questioni, presentate a partire da alcune scene, o da scenari emblematici. Un primo ordine riguarda questioni più marcatamente epistemologiche e pragmatiche, o di circolazione delle conoscenze e delle persone; il secondo riguarda il livello che riferirò come istituzionale, anche per identificare come questo livello possa incidere sulle prime questioni riportate.

La mia posizione nel produrre queste riflessioni è anche contrassegnata da recenti comprensioni su una caratteristica comune a tutti i miei setting di ricerca: il passaggio da una condizione di non scolarizzazione ad un massiccio coinvolgimento delle ultime generazioni in intensi processi scolastici. Ciò vale sia per i bambini delle favelas che ho incontrato negli anni ’80 in Brasile (a Belo Horizonte/MG) per le strade e le vie comunitarie; sia per i gruppi di bambini/e, ragazzi/e Sinti e Rom che ho frequentato in Italia (a Bologna e Bolzano) negli anni ’90; sia, infine, per i gruppi, ragazzi e ragazze di diversi popoli indigeni in Brasile (di Minas Gerais e Roraima) i cui spostamenti seguo dagli anni 2000.

Con la presa di distanza che il tempo ha prodotto, mi sono resa conto che il percorso che ho intrapreso in termini di esperienza sul campo mi ha portato a una doppia intersezione, nello spazio e nel tempo. Ho iniziato a praticare l'etnografia nel contesto urbano, il che implicava la conoscenza delle sue matrici nella ricerca con i cosiddetti “nativi” (a cui si riferiva Malinowski nel 1922) e, di conseguenza, la valutazione delle implicazioni e dei necessari slittamenti concettuali quando la ricerca veniva condotta in ambiente urbano, nella società del ricercatore. In seguito, in Italia, ho vissuto un'esperienza di ricerca urbana con dei collettivi umani che mettono alla prova tutte le categorie dell’antropologia – i vari gruppi “zingari” – ma la cui esistenza è fortemente associata alla nascita e alla crescita del moderno mondo urbano europeo. In seguito, sono arrivata alla convivenza con le popolazioni indigene in Brasile – “i nativi”, nel senso stretto del termine – già nel periodo di revisione programmatica dell'antropologia riguardo la pratica dell'etnografia e, in particolare, con la forte influenza dell'etnologia indigena sudamericana nel panorama nazionale ed internazionale. Pertanto, un incrocio tra tempo e spazio, tra approcci che vanno dal più vicino al più lontano, in direzioni diverse – fino ad arrivare a confrontarmi, da quando sono arrivata all'UFMG, negli ultimi 20 anni, con un’inusitata contingenza, anch’essa in doppia direzione: trovare le scuole nei villaggi indigeni e trovare gli studenti indigeni nell’università.

Non ho intenzione di rivisitare in dettaglio, in questa sede, ciascuno di quei contesti ed esperienze vissute. Mi concentrerò sulla terza, e contemporanea, fase. Dai due contesti precedenti, riprenderò brevemente alcuni particolari che hanno influenzato tutto ciò che è stato fatto sin da allora. Come ha già sottolineato Lave (2019), un progetto etnografico può essere visto come una sorta di preambolo per il seguente, ed è questa la ragione per cui riprendo questi spunti.

Nel corso degli anni ’80, mentre conducevo la ricerca sulla vita quotidiana dei bambini nelle favelas, ho seguito il dibattito interno all'antropologia urbana che ha insistito sul bisogno di rivedere la nostra posizione di etnografi nel contesto delle grandi metropoli, per mettere in questione i presupposti sottostanti alle forme di conoscenza che tale esperienza urbana può produrre. Abbiamo dovuto prendere le distanze da questa presunzione, al fine di conoscere la molteplicità delle vite urbane. Il lavoro sul campo mi ha mostrato che la scuola elementare era vissuta dagli stessi bambini e bambine delle favelas come un ambiente femminile, in cui erano evidenti le posizioni distinte tra ragazzi e ragazze. Un secondo aspetto: nonostante il lungo tempo quotidiano trascorso dai bambini a scuola (una novità per quella generazione), sono rimasta sorpresa dalla mancanza di diretti riferimenti alle esperienze scolastiche: in nove mesi di lavoro sul campo, l'argomento della scuola è emerso spontaneamente soltanto due volte nelle conversazioni e nei giochi dei bambini.

In altri termini si è resa visibile l'importanza di ciò che è accaduto fin dagli anni '80, quando l'istruzione obbligatoria è stata universalizzata in Brasile. Le scuole secondarie sono state occupate nel 2013 dagli studenti, per contrastare diverse azioni del governo federale e, in alcuni casi, statale. Questo è uno dei movimenti di resistenza più significativi contro gli enormi e autoritari cambiamenti politici che i brasiliani si trovano ad affrontare oggi (Carvalho, Medaets, Mezie 2019). Qualcosa è cambiato, potremmo anche dire, sistemicamente. Non sappiamo abbastanza di questi cambiamenti, poiché la ricerca non si è ancora occupata dalle esperienze scolastiche in quest’ottica più ampia relativa ai recenti movimenti. Qui abbiamo molte connessioni tra le politiche specifiche per la scolarizzazione degli indigeni ed esperienze e lotte all'interno delle più ampie politiche educative in Brasile, che esplorerò più avanti.

Già nel periodo italiano, negli anni '90, ho lavorato con donne, uomini e bambini “zingari”, concentrandomi sulle loro esperienze vissute nelle grandi città europee. Ciò mi ha fornito un percorso privilegiato per accedere a un punto di vista esterno riguardo alla cosiddetta “moderna società urbana”. Gli “zingari” sono descritti come coloro che “hanno rifiutato la proletarizzazione”; un gruppo etnico emerso nella moderna Europa esattamente in interazione con – e in reazione contro – le sue caratteristiche principali. Innanzitutto, abbiamo l'idea di proprietà e valore economico riguardo agli oggetti, alle attività e alla terra stessa. Questa “separazione nell'immersione” (Piasere 2002), questa esperienza di continua vicinanza senza arrendersi alla società dei gagé era un ambiente unico per (ri)conoscere la società urbana moderna, attraverso le relazioni dei vari gruppi “zingari” con i mondi e i modi dei non “zingari”. La convivenza prodotta in questo ambiente particolare mi ha reso ulteriormente consapevole della mia posizione, e mi ha portato alla scoperta scioccante in cui mi descrivevo come “un patetico esemplare del mondo del lavoro”. Mondo del lavoro in cui, secondo un'adolescente Sinti, “la scuola è obbligatoria; ma il lavoro no”[4] (Gomes 1998).

L'etnografa arrivata in Brasile all'inizio degli anni 2000 aveva, quindi, conoscenza critica del contesto educativo brasiliano da un lato, e dall’altro, era diventata più sensibile e consapevole delle specificità della moderna società urbana, quando iniziò a lavorare con le popolazioni indigene. Il quadro giuridico creato dalla Costituzione (1988) e dalla Legge Quadro dell’Educazione Nazionale (LDB, 1996), che insieme portarono alla possibilità di una “istruzione specifica, differenziata, interculturale, bilingue”, ha generato una grande varietà di concrete esperienze di scolarizzazione. Da allora, l'intenso processo di scolarizzazione ha coinvolto praticamente tutti i gruppi indigeni, da coloro che hanno trovato in questo nuovo quadro la possibilità di sviluppare finalmente ciò che avevano già cercato di provvedere alle loro comunità (come gli xakriabá[5], popolo dal quale provengono molti giovani indigeni che oggi frequentano le università, alcuni di loro già iscritti al master e dottorato); a popoli, come gli yanomami[6], che nello stesso periodo hanno iniziato i primi passi per dare inizio a un progetto educativo equiparabile a una scuola elementare (secondo i loro interessi). D’altra parte, nonostante il quadro giuridico a garanzia della specificità di questa offerta scolastica, c'è una tensione permanente provocata dai dispositivi istituzionali che tendono all’omologazione ai modelli scolastici dominanti, spesso attraverso procedure normative che regolamentano gli operati amministrativi e i finanziamenti. È stato questo quadro contraddittorio che ci ha riuniti – indigeni e non indigeni; studenti, insegnanti, ricercatori e diverse figure delle comunità – sia in attività nel campus universitario, sia in quelle regolarmente sviluppate nei territori indigeni[7], con una crescente circolazione di tutte le figure tra questi due poli. Questo è il contesto etnografico al quale rivolgo ora uno sguardo attento, nel tentativo di attivare quel rallentamento proposto da Stengers.

Passi per una experimental togetherness

La descrizione di una prima scena accademica può offrici un quadro iniziale. L’episodio è avvenuto quando un insegnante indigeno, Isaac Ashaninka, partecipò ad una conferenza di Marshall Sahlins all'UFMG. Nel 2007, Sahlins è stato invitato all'UFMG, dove ha ricevuto il titolo Doctor Honoris Causa, in concomitanza con la creazione del programma di dottorato in Antropologia e Archeologia e con l’avvio delle attività del nostro corso di laurea specifico per insegnanti indigeni.

Il programma includeva l'evento ufficiale di conferimento del titolo; e una lezione magistrale per il pubblico accademico. Avevo un gruppo di studenti indigeni nel mio corso al momento della cerimonia ufficiale. Abbiamo deciso che saremmo andati tutti alla cerimonia. Il discorso di Sahlins per quel giorno è stato tradotto e fatto circolare in anticipo e, con gli studenti, ne abbiamo discusso prima della sua presentazione.

Il giorno della cerimonia ufficiale la sala era gremita di studenti indigeni, fatto di cui Sahlins era consapevole ed entusiasta al punto di farvi riferimento durante il suo discorso. Inoltre (particolare importante che esplicita una vera e propria presa di posizione/dichiarazione politica) – il testo è stato proiettato in portoghese mentre Sahlins parlava in inglese. Dopo la cerimonia, fu lui stesso a chiederci di invitare alcuni rappresentanti indigeni (studenti e anziani) a incontrarlo personalmente alla reception più tardi quella sera.

Il giorno della conferenza magistrale, le notizie su Sahlins erano circolate tra gli studenti e i rappresentanti indigeni e la maggior parte di loro intendeva partecipare. Tuttavia, a differenza di quanto accaduto per la prima comunicazione, il secondo testo di Sahlins non fu preliminarmente reso disponibile e nessuno si aspettava questa “nuova situazione”. Il titolo della conferenza era Il re straniero, un testo oggi abbastanza celebre (Sahlins 2008). L'argomento era complesso, cito qui dal suo abstract:

Stranger-king formations in Indonesia and Oceania are set in the larger context of similar polities the world around. Across these societies, the same structures of the potency of alterity appear in a variety of political forms – the experiential archetype of which, it is argued, is the transaction of vitality between consanguinal and affinal kindreds. The conclusion is that elementary forms of kinship and politics are one.

Nell’aula, tutti i posti in prima fila erano occupati dagli indigeni, mentre per la fruibilità dei contenuti era stata predisposta la traduzione simultanea. L'argomento fu progressivamente presentato in un denso linguaggio accademico e la traduzione, sfortunatamente, fu un disastro completo. Le persone che avrebbero dovuto seguire la conferenza in portoghese erano completamente perse, compresi molti dei nostri studenti, indigeni e non indigeni. Dopo 40 minuti di questa incomprensibile situazione molti indigeni si alzarono per andarsene, seguiti da molte altre persone tra il pubblico, il che provocò disagio e sconcerto tra studiosi e colleghi.

Ero seduta in fondo all’auditorium in compagnia di Isaac Ashaninka, un noto giovane insegnante indigeno dell’Acre (uno Stato nel nord-ovest dell'Amazzonia), che era stato invitato a lavorare all'UFMG con gli studenti indigeni in qualità di esperto e studioso del suo popolo[8]. Isaac rimase fino alla fine della lezione, seguendo la traduzione calmo e concentrato con il suo auricolare (non sa parlare inglese). Alla fine, gli chiesi cosa ne pensasse della lezione di Sahlins. Lui sorrise e mi rispose con calma: «Ha ragione lui, il potere viene dal fuori».

La sua così netta ed immediata comprensione mi colpì. Non riuscivo a immaginare nessuno dei nostri studenti non indigeni, senza una rigorosa e precisa preparazione precedente, che potesse essere così accurato nel sintetizzare la tesi di Sahlins.

Le due scene, pur sinteticamente descritte e in mancanza di dettagli che non è possibile riferire in questa sede, evocano diversi tipi di pratiche discorsive e di regimi di enunciazione. Sarebbe necessario un deciso impegno per registrare tutti i passaggi che si sono succeduti in momenti e con articolazioni diverse, per rendere possibile soffermarsi a ripensare e chiedersi: chi è stato a parlare; quale posizione ha assunto; in quale lingua e quale statuto ha assunto il discorso pronunciato? Le mediazioni linguistiche, come ha osservato un arguto insegnante indigeno, Damazinho Maxakali, sono sempre unidirezionali. L’interculturalità, secondo lui, si rivelava come l’esercizio di fare ascoltare il portoghese, tutto il tempo, a quelli che non lo parlano. Questo rapporto disuguale da lui percepito tra le lingue indigene e non indigene si riproduce nei diversi livelli e tra le diverse lingue.

Complessivamente, la scena ci consente di ripensare i due diversi momenti: il primo, quando le interazioni sembravano sotto controllo, quando venivano fornite le "mediazioni necessarie" e ciascuno dei personaggi poteva "godersi" la situazione in modo “corretto”. Niente era stato sorprendente, tutti sembravano contenti. Non era avvenuto nessun attraversamento delle frontiere. Nel corso della seconda interazione, al contrario, è emerso qualcosa di veramente importante, qualcosa ha provocato l’apertura di fratture nell'apparente accordo a supporto della scena. Mi sono resa conto che Isaac aveva seguito l'argomento da una posizione molto specifica, come ascoltatore indigeno. Lui parlava dalla posizione di esperto, a proposito di qualcosa che in qualche maniera già conosceva.

Questa percezione ci ha reso consapevoli dell'importanza di produrre altre situazioni del genere: in cui è possibile che persone diverse possano connettersi in situazioni inaspettate, anche se partono da diversi sistemi di conoscenza, da posizioni diverse rispetto ad alcune conoscenze specifiche e persino da lingue diverse.

La mia prima reazione in quel momento fu pensare che Isaac avrebbe dovuto star seduto accanto a Sahlins, nel ruolo di discussant della sessione – considerando quanto fosse immediata la comprensione che aveva espresso. Isaac avrebbe potuto parlare di questo stesso argomento dal suo punto di vista, in base all'esperienza del suo popolo e alle relazioni che intrattiene con i bianchi e con i loro vicini indigeni[9]. Il rapporto con gli altri, oppure “l'economia simbolica dell'alterità” (Viveiros de Castro 1996) è un tema ricorrente nelle etnografie amazzoniche e nelle narrative mitiche. E sarebbe stato molto interessante avere questo contrappunto tra conoscenze diverse che sembravano convergere a un certo punto. Tuttavia, in verità, lui guardava la scena da una grande distanza. E sappiamo tutti che non è così semplice indurre/produrre questo tipo di convergenza.

Allo stesso tempo, ciò che Isaac è stato in grado di percepire nella lezione avrebbe potuto essere reso invisibile o addirittura diventare irrilevante, considerando i molteplici incroci all'interno della situazione: tra diverse lingue (inglese, portoghese e ashaninka), tra specifici luoghi di conoscenza, tra posizioni di enunciazione e potere estremamente diversificate. La scena è comunque emblematica nel descrivere le situazioni con cui abbiamo a che fare con le presenze che si sono moltiplicate nell'università e nei villaggi indigeni. Sono grandi le difficoltà di modificare le demarcazioni e gli inquadramenti degli incontri, di considerare le possibilità di interazione che consentano la visone reciproca sui processi condotti da entrambe le parti – non solo dai non indigeni e dalle loro istituzioni verso gli indigeni, ma viceversa[10] – anche se non è ancora del tutto chiaro ciò che viene esplicitato. Sebbene ci sia, a livello programmatico e progettuale, un dichiarato tentativo (o una dichiarazione di intenti) di produrre possibili convergenze, o di cercare possibili articolazioni tra questi differenti processi[11].

«Sappiamo, la conoscenza c'è. Ma non siamo autorizzati a credere di possedere il significato».

Esperimenti di esperienza: rovesciare posizioni e riconfigurare luoghi di incontro

Le prossime due situazioni si riferiscono ad attività che sviluppiamo sulla falsariga di ciò che Leonardo Piasere, nel descrivere la pratica dell'etnografia, ha definito come un “esperimento di esperienza”.

Nel 2012 ha avuto luogo un primo esperimento, un incontro sui temi della scolarizzazione e delle tradizioni indigene, o dell'educazione tradizionale indigena, occasione in cui è stata proposta un'inversione nelle posizioni e nei ruoli di enunciazione. La maggior parte dei presenti all'incontro (40 su 60) erano indigeni, di 16 differenti popoli da ogni angolo del paese, ed erano loro che guidavano le attività. Gli antropologi hanno assistito alle presentazioni e la loro presenza aveva lo scopo di facilitare le interazioni tra i partecipanti, dando priorità alle interazioni tra i rappresentanti dei 16 popoli presenti all'incontro. Gli antropologi dovevano, cioè, agire in modo secondario e complementare rispetto alle interazioni tra gli indigeni stessi, in uno scenario “seminariale”, realizzato però in un piccolo albergo in montagna, un ambiente ritirato e calmo, con spazi interni per fare le riunioni, ma anche con la possibilità di riunirsi all’aperto.

Dopotutto, cos'è "educazione tradizionale" e cosa significa un suo possibile rapporto con la scuola? Sotto la spinta di quest’interrogativo sono emerse diverse risposte, molte delle quali hanno riguardato la selezione dei rappresentanti di ogni popolo autorizzati a parlare e le modalità attraverso le quali hanno deciso di parlare (quattro dei popoli hanno invitato rappresentanti anziani, considerati alte autorità; altri hanno scelto insegnanti o persone considerate esperti sull’argomento).

Di questo evento, riferirò soltanto una scena che coinvolge due diversi popoli che vivono in regioni molto distanti: gli xerente (popolo di lingua akwen del Brasile centrale) e gli ye’kwana (popolo di lingua karib, dell’Amazzonia). E riferirò brevemente gli ulteriori svolgimenti, tra gli ye’kwana, a partire da questo primo incontro.

La scena – che colpì profondamente tutti – si riferisce al pianto rituale di Dona Isabel xerente, in ginocchio davanti Seu Vicente Castro, lo sciamano ye'kwana, una scena che ci porta a pensare alle possibili relazioni tra i diversi popoli indigeni (piuttosto che concentrare l’attenzione soltanto sulle relazioni con i non indigeni). Il discorso fortemente politico di Dona Isabel xerente [12] riguardo al dominio del territorio e ai pesanti cambiamenti avvertiti sempre più nella vita quotidiana del villaggio provocò forti reazioni. Alternando il portoghese e lo xerente, Dona Isabel sottolineò la difficoltà nel mantenere il controllo sociale tradizionale in relazione ai molti cambiamenti che hanno avuto luogo nei villaggi xerente, alle continue invasioni delle loro terre, ai problemi della conduzione della vita quotidiana e delle cure ad essa inerenti, anch'esse in parte rientranti nell'ambito dei servizi sanitari. La gravità del discorso pronunciato da Dona Isabel richiedeva, in consonanza con simili scene tra gli xerente, che fosse seguito da un pianto rituale. Pure in assenza di un'autorità maschile del suo stesso popolo, Dona Isabel xerente fece il pianto rivolgendosi all'autorità maschile presente, lo sciamano ye'kwana, Seu Vicente Castro. Con questo atto rituale si concluse il discorso di Dona Isabel e sua nipote, un'insegnante che l'aveva accompagnata alla riunione, aggiunse velocemente alcuni commenti improvvisati.

Questa scena evoca la possibilità di un processo di scambio e conoscenza reciproca tra le stesse popolazioni indigene, possibilità che sembra essere abbastanza remota eccetto per le persone che sono attiviste nei vari movimenti. La categoria "indigeno", in quanto termine giuridico diventato di uso corrente, è in costante ricostruzione e non riguarda una comune percezione stabilizzata tra quelli a cui si riferisce. Persino la dinamica delle interazioni tra le popolazioni vicine e le relazioni sociali segnate per la liminalità linguistica e culturale è ancora poco conosciuta (Gow 2014). La polarizzazione nel rapporto con i bianchi domina l'intero scenario, sia che si tratti di produzione accademica, proposte di azioni o politiche riguardanti i popoli. Come ha sottolineato M. Goldman (2014), rivolgere l’attenzione a ciò che ha chiamato "la relazione afro-indigena", nel tentativo di dare visibilità alle situazioni di contatto tra nativi americani e quilombolas, permette di mettere in luce come tali interazioni si diffondono nelle più svariate configurazioni in contesti regionali specifici. Questo è un argomento nuovo e poco conosciuto in Brasile, che ha anche una sua correlazione nello scenario universitario.

Inoltre, nel 2012 è stato avviato un percorso con gli ye'kwana, che ha avuto continuità attraverso un programma di produzione di materiali scritti nelle lingue indigene da fare circolare nelle comunità e nelle loro scuole. Abbiamo assistito progressivamente al riposizionamento di Seu Vicente Castro in relazione alla registrazione di narrazioni mitiche, soprattutto in video. Nell’incontro del 2012, Seu Vicente non ci permise di scrivere di fronte a lui. Iniziò il suo discorso, poi lo interruppe e ci interrogò sul perché stessimo scrivendo. Immediatamente posammo le penne e assumemmo una chiara posizione di ascolto, senza più produrre registrazioni scritte. Egli, però, permise che la scena fosse registrata in video, con l'impegno, controllato da suo nipote, che le registrazioni non sarebbero state rese disponibili ad un pubblico esterno senza una sua preventiva autorizzazione.

Gli ye'kwana si avvicinano alla scuola in modo singolare, perché sono guidati dalla previsione, presente nelle loro narrative mitiche, di una rinascita dell'umanità dopo una grande distruzione prodotta dal contatto con i bianchi, in particolare dall'uso della scrittura e dai libri dei bianchi (Andrade 2012). In questa rinascita, tutte le conoscenze saranno importanti per la ricostruzione del mondo.

Per quel nostro incontro, Seu Vicente decise di fare una presentazione insolita – ha narrato il mito della creazione, ma con un lungo preambolo in cui ha spiegato la sua presenza lì (Andrade, Yuduwana 2017). Ha chiarito che non era venuto all'evento a causa dell'invito, ma perché aveva sognato che avrebbe dovuto fare qualcosa di importante a Minas Gerais.

Se torniamo al bellissimo libro di David Guss (1990) sugli ye’kwana, vediamo quanto fosse insolita questa situazione. Guss racconta la sua sorpresa nello scoprire che nel villaggio non c'erano tempi espliciti e strutturati per la narrazione. Ha dovuto diventare un intrecciatore di cestelli per arrivare ad ascoltare la narrativa mitica che intendeva registrare. Lo storytelling è emerso come parte di un insieme articolato di attività che includevano contemporaneamente diversi aspetti, e non solo quelli discorsivi, che sono stati organizzati attorno alla produzione di oggetti artigianali dagli ye’kwana, abili produttori di artefatti tra i più sofisticati reperibili tra gli amerindi.

Il percorso intrapreso con gli ye’kwana solleva la questione di come affrontare le diverse forme di enunciazione, di cui abbiamo conoscenza sul campo e attraverso varie etnografie, ma che diventano -- irrilevanti? non appropriate? irraggiungibili? irrealizzabili? Quale aggettivo dovrebbe essere usato per caratterizzare l'assenza assoluta di queste forme di enunciazione nelle situazioni in cui ci troviamo all'interno delle università; e spesso anche quando ci incontriamo nei villaggi indigeni per affrontare argomenti relativi alle nostre attività congiunte?

Questa situazione, tuttavia, non ha impedito un accordo attorno alle attività con gli ye'kwana per quanto riguarda la produzione di materiali nella loro lingua. Sebbene a partire da presupposti diversi, entrambe le parti sono arrivate a quello che Mauro Almeida (2003) ha definito un accordo pragmatico[13]. L'intero processo di produzione di qualsiasi “artefatto” (sia un libro, oppure un video), dalla definizione dell’ortografia alle decisioni più complesse, è discusso nelle comunità sempre con un'ampia partecipazione; questa è una forte caratteristica degli ye'kwana. Così come è stata loro la decisione di avviare la registrazione video di tutte le narrative mitiche – una decisione guidata dallo stesso Vicente Castro, che attualmente dirige le produzioni.

Il secondo esperimento di cui vorrei rendere conto ha avuto luogo nel 2015, con il seminario "Mangiare come persone" [Comendo como Gente][14], che abbiamo intenzionalmente caratterizzato come “un incontro di antropologia ed educazione”. L'argomento di base era il cibo e la commensalità: mangiare correttamente (al momento giusto, le pietanze giuste e con le persone giuste) per modellare corpi appropriati, dove la centralità della produzione del corpo si traduce in gran parte in ciò che potrebbe essere riconosciuto come intento educativo (se il termine può essere applicato qui) nelle diverse cosmologie amerindie.

In questo incontro, il rapporto tra antropologi e i loro partner sul campo – di solito una situazione molto intima e isolata – è stato rivisitato ed è stato, in un certo senso, esposto e reso visibile davanti agli altri casi. Nel seminario, il discorso antropologico è stato presentato dai ricercatori fianco a fianco, in una comunicazione condivisa insieme agli "indigeni/interlocutori nativi". In effetti, risultava ben chiaro che erano gli esperti indigeni che "educavano" gli antropologi, come ha affermato Dominique Gallois. Ogni presentazione avveniva in coppia, di fronte ad altre coppie di antropologi/esperti indigeni – in tutto una dozzina di presentazioni di questo genere, di dodici differenti popoli. L'evento ha prodotto una forte reazione e coinvolgimento in tutti i partecipanti, dagli antropologi senior alle generazioni intermedie di neolaureati; fino ai dottorandi e ricercatori in formazione.

Dal punto di vista degli indigeni, la grande novità dell'incontro è stata la possibilità di osservare le relazioni tra diversi antropologi e i loro interlocutori-partner indigeni. Come in una reverse ethnography (Wagner 1975), l’aspetto che ci hanno segnalato come più significativo è stata la possibilità di avere accesso a situazioni ed interazioni simili a quelle che vivono e che, così dispiegate in serie e rese visibili, hanno permesso loro di comprendere meglio il modo in cui le pratiche di conoscenza sono prodotte tra le università e i villaggi indigeni, nelle relazioni con antropologi e altri ricercatori o altre parti interessate. Queste pratiche sono note a loro attraverso le interazioni – uniche – che mantengono con quelli che sono i loro diretti interlocutori (a volte con più di un ricercatore, ma sempre limitati all'esperienza del proprio popolo e nei suoi villaggi). Assistere a questo complessivo insieme di coppie in azione ha prodotto un altro tipo di percezione e di effettiva conoscenza sulla natura di questi rapporti.

Nonostante tutti i cambiamenti attuali ai quali alludiamo con queste scene, è importante tenere conto che l'immersione etnografica "classica" – andare sul campo e provare l’esperienza della presenza etnografica completamente coinvolta in una determinata comunità – rimane possibile e continua ad essere attivata da studenti e ricercatori non indigeni, che hanno prodotto molte interessanti tesi e dissertazioni in questo periodo. Ciononostante, nell’altra direzione, ciò che offriamo in cambio ai nostri partner indigeni – quando sono loro che si spostano “sul campo”, ossia, vengono nelle università – è un'immersione impoverita e difficile nel nostro contesto di vita e di lavoro, se pensiamo al modo in cui gli studenti e le persone delle varie comunità indigene vengono a conoscenza di come si organizzano e funzionano le nostre istituzioni.

Un parallelo interessante è nato dal confronto tra ciò che gli indigeni ci hanno riportato su questo incontro “all’inverso” e l'articolo di Peter Gow (2011) che nasce da una domanda posta da Daimã, una donna yudjá, in una situazione singolare verificatasi nella casa di Tânia Stolze Lima, con la quale ha una collaborazione da decenni. La domanda che Daimã propone a Gow può essere una diretta provocazione sulle osservazioni fatte dai nostri ospiti al seminario del 2015: «You are the white person of the piro indigenous people, just as Tânia is the white person of the yudjá indigenous people. I have noticed that most white people do not like us indigenous people very much. So why do you like indigenous people?[15]» (Gow 2009: 21).

Come osserva Gow, si trattava di una questione etnografica in cui i ruoli erano invertiti e in cui il confronto tra le relazioni degli antropologi con i loro partner serviva da sfondo per la formulazione di una domanda fatta in modo tanto diretto da destabilizzare l'interlocutore (qualcosa di simile a ciò che è stato riferito dagli altri partecipanti al seminario, potremmo dire). Ciò ha costretto l'interlocutore a prepararsi a rispondere. La prima risposta di Gow fu che gli indigeni avevano "qualcosa che noi abbiamo perso", aggiungendo che lui non sapeva esattamente di cosa si trattasse, ma che sperava che gli indigeni lo sapessero e glielo dicessero. Inoltre, la domanda di Daimã ha evocato per lui ricordi d'infanzia dei quali, sebbene molto forti, l’antropologo non è riuscito a identificare immediatamente il motivo scatenante. L'articolo è il resoconto dettagliato della produzione della risposta, poiché impiegò molto tempo per arrivare ad una prima formulazione. L'articolo presenta anche l'analisi dell'origine della risposta (la sua ontogenesi) al fine di chiarire ciò che la domanda ha messo in moto in relazione ai suoi ricordi – ben oltre ciò che avrebbe potuto essere previsto dall'autore.

Nelle parole di Gow:

So I had Daimã’s question, my reply, a childhood memory, and the certainty that they were all in some way connected, but I had nothing concrete yet. I knew I could feel something, but I did not know what it was. I was not yet aware of what my reply to Daimã’s question meant[16] (Gow 2009: 23).

«Sappiamo, la conoscenza c'è. Ma non siamo autorizzati a credere di possedere il significato...».

Percorsi accademici e inventività indigena: alla ricerca di un inquadramento etnografico in tempi di cambiamento

In questa prossima situazione, passiamo a quel livello di questioni che ho prima riferito come istituzionale, e che riguarda la nostra attività più ordinaria, cioè il corso di formazione per insegnanti indigeni. Al FIEI, come abbiamo accennato prima, la gestione condivisa è attualmente affidata al Consiglio Consultivo Indigeno, la cui attuazione configura l'istanza direttiva più alta del corso, introducendo la rappresentanza dei leader indigeni accanto al collegio dei docenti (istanza prevista nel quadro istituzionale dell'università). La composizione mantiene la logica paritaria tra indigeni – studenti e leader politici – e non indigeni. Cioè, se dobbiamo essere attenti alla raccomandazione della Convenzione ILO 169, la consultazione con le popolazioni indigene in uno scenario di presenza continua – come è il caso dell'UFMG in questi ultimi venti anni – deve essere condotta in modo sistematico e organico in relazione alle attività sviluppate.

Questa prima digressione serve a situare un quadro che, sebbene apparentemente amministrativo-burocratico, è in realtà eminentemente politico e che è importante tenere presente per introdurre i vari scenari in cui avvengono le interazioni. In altre parole, oltre alla presenza nelle terre indigene (in particolare in alcuni villaggi e comunità in cui sono svolte delle attività di ricerca e di “terza missione”[17]), la convivenza con le comunità e le persone indigene è sempre stata contrassegnata da un'intensa presenza degli stessi indigeni nei luoghi e negli spazi universitari, nonché dalla nostra presenza assieme a loro in altre istituzioni, condividendo situazioni e attività con cui i programmi universitari si sono interfacciati.

Questo scenario più ampio — che riguarda le attività nei villaggi (sempre molto più gratificante — e più in linea con il repertorio di azioni e atteggiamenti che di solito vengono associati all'esperienza di ricerca sul campo) — include quindi la continua interazione con gli indigeni all'interno dell'università stessa e in situazioni correlate. Questa gamma di movimenti e situazioni, in altre parole, ci ha fatto passare da una percezione dell'incontro "nel villaggio", con tutta l'intensità che l'immersione provoca e conduce sulle interazioni, a questa molteplicità di incontri e transiti. I miei interlocutori-partner indigeni spesso mi segnalano la rilevanza e la necessità di questa attenzione alla dimensione più ampia.

Per cercare di produrre uno sguardo che possa raccogliere il modo peculiare in cui ogni popolo (e talvolta ogni comunità) gestisce le proprie relazioni con il mondo non indigeno, attraverso questa presenza nelle attività realizzate presso l’UFMG, introduco un approccio iniziale alla produzione delle monografie di conclusione del corso FIEI.

Una breve panoramica di ciascuno popolo serve a comprendere il quadro attuale.

Il popolo Xakriabá ha compiuto intensi e enormi sviluppi nel loro processo di scolarizzazione (Gomes, Silva, Santos 2013.). In 20 anni si è assistito a un cambiamento per cui dall'avere alcuni villaggi senza una sola persona alfabetizzata al punto da poter frequentare il corso specifico per formare maestri indigeni, si è passati ad una situazione in cui ora abbiamo oltre 500 giovani che hanno finito il liceo nelle scuole di villaggio e stanno cercando di essere ammessi all'università. La scala demografica delle popolazioni indigene è sempre ridotta, e un'azione continua in termini di politiche di formazione produce rapidamente cambiamenti marcati e molto espressivi. Oggi abbiamo più laureati nei villaggi che posizioni per insegnanti da assumere nelle scuole. E abbiamo la prima insegnante Xakriabá che si è diplomata al FIEI che ha appena assunto l'incarico al Liceo statale del municipio locale come insegnante di sociologia (è stata l'unica nella regione che ha vinto il concorso indetto dall’Assessorato Statale alla Pubblica Istruzione).

Il popolo xakriabá ha una tradizione di leadership centralizzata e il suo ruolo nel Consiglio Consultivo Indigeno rispecchia questa organizzazione interna, che è in grado di abbracciare le questioni del corso e presentarsi ed essere rappresentati sempre in modo unificato.

Il popolo pataxó, la cui presenza è stata progressivamente allargata ai pataxó della parte meridionale dello stato di Bahia, ha progressivamente cambiato la propria partecipazione, aumentando la presenza di studenti provenienti da molti diversi villaggi. I pataxó di Bahia hanno anche richieste per la formazione di insegnanti ancora disattese e un quadro politico-amministrativo in cui viene imposta la necessità di essere diplomati come criterio antecedente all'appartenenza indigena (il conseguimento del diploma diventa quindi più urgente). I villaggi hanno i loro cacique, esiste un Consiglio di Caciques, ma non c'è centralizzazione in una stessa leadership di questo gruppo. Questa condotta non unificata nei territori si riflette nella forma di partecipazione al Consiglio, che si trova spesso a gestire alcune questioni che sarebbero di "ordine interno" (come denunciare qualcuno che ha ottenuto impropriamente le firme dei leader nei loro protocolli per l’ammissione all'università).

Il popolo maxakali ha atteso a lungo (pazientemente) le condizioni per la sua entrata nel corso e nel 2017, finalmente, in un processo selettivo accidentato che si è rivelato in seguito molto più problematico e incurante rispetto i riferimenti interni delle loro comunità, ha visto l’ingresso di quattordici persone, di cui quattro donne. Nell’ultimo periodo, inoltre, la sovrintendenza educativa regionale ha avviato un processo di riconoscimento delle attività scolastiche indigene oltre il livello della scuola elementare, invitando gli insegnanti a presentare “i contenuti didattici specifici della scuola maxakali”. Con i consulenti assunti dall’Assessorato, è in corso l'elaborazione di una formazione a livello di scuole medie specifica per maestri maxakali al fine di condurre alla conclusione gli studi che precedono l'ingresso all'università. La loro partecipazione al Consiglio Consultivo dovrebbe rispettare le caratteristiche di un'organizzazione politica prettamente locale, dispersa tra i gruppi familiari, che si sono stabiliti in connessioni regionali sparse in tutti i loro territori.

All’interno di questo insieme (sperimentale!), forse è più appropriato dire che ciò che ha permesso di innescare un'azione congiunta è stato un accordo pragmatico (Almeida 2003) al quale si può fare riferimento, come la formazione degli insegnanti a livello universitario, ma che effettivamente opera con diverse ipotesi e implicazioni che si affiancano senza necessariamente essere condivise e interagenti. Nonostante tutto ciò, dobbiamo però assumere che i nostri interlocutori-partner indigeni insistano e decidano – strategicamente – di essere presenti all'università e di portare anche lì la gestione delle relazioni che hanno sempre condotto con i non indigeni.

Ho provato a proporre una sorta di “mappa del FIEI”, una rappresentazione dei territori in disputa all’interno del corso, per provocare quel rallentamento suggerito da Stengers. Una “mappa” per cercare di afferrare o essere toccato dalla provocazione che qualcosa di più importante è sul campo, che non si tratta soltanto di ciò di cui ci occupiamo direttamente: un corso di laurea per la formazione di insegnanti, ancorché indigeni, con le sue solite dispute tra territori disciplinari e gruppi accademici aggregati dalle dinamiche interne all’istituzione (anche se questo è, senza dubbio, una decisiva componente di questa mappa). Ci siamo chiesti, dunque, questa complessa configurazione dei "territori accademici" cosa rende possibile per studenti e ricercatori indigeni? Come si muovono all'interno di quelle che appaiono per lo più come (nostre) costrizioni?

In effetti, il corso ha, in una certa misura, preservato la possibilità per gli studenti di fare proposte trans-disciplinari. Vale a dire che viene dichiarata la libera circolazione per argomenti di ricerca, a prescindere dalla specifica abilitazione per l’insegnamento in cui ognuno è iscritto (al momento, queste abilitazioni sono ancora di accento disciplinare, cioè, aggregano discipline per area di conoscenza: scienze naturali; scienze umane e sociali; lingue, arti e letterature; matematica). Tale possibilità ha i suoi vantaggi e problemi ricorrenti, ma ha indubbiamente generato una certa libertà d'azione, che rispecchia ciò che abbiamo ora riferito come gestione delle relazioni: il modo in cui gli studenti fanno le loro scelte e, quindi, stabiliscono progressivamente, lungo gli anni, la configurazione di una possibile agenda di ricerca per ciascun popolo.

Questa possibilità di circolazione si sta espandendo mentre gli studenti stessi si fanno portavoce dei loro interessi. Posso dire che abbiamo quasi invertito l'ordine delle cose: è il personale docente, o l'università stessa, che impone i suoi (lenti) tempi di apprendimento (non di insegnamento!) e i diversi popoli indigeni, nostri interlocutori, riescono a gestire le loro relazioni all'interno di questa demarcazione delimitata e/o definita internamente. In verità, loro spingono i confini e le dinamiche dei "territori accademici" per superare la rigidità dei loro limiti.

Quindi, cosa si può leggere su questa "mappa dell’accordo pragmatico"? Innanzitutto, l'asse che definisce la centralità o la priorità programmatica del corso: la lotta per il mantenimento dei territori e delle lingue indigene. Sebbene nel documento ufficiale il nodo centrale sia la formazione degli insegnanti, la successiva discussione occorsa nella fase di implementazione delle attività ha portato a questa scelta strategica, che si esprime, tra altri aspetti, nella relazione di gestione condivisa attraverso la presenza dei leader nel Consiglio Consultivo Indigeno.

Un secondo ordine di richieste riguarda il contributo che le diverse comunità indigene portano in università, a partire dalle esperienze delle scuole nei loro villaggi e dalla gestione della scolarizzazione in ogni luogo (quando si tratta di scuole comunali) o regione (quando si tratta di scuole statali), e i suoi possibili sviluppi nella discussione in corso sulla riforma del curriculum del FIEI, riforma che si protrae per oltre cinque anni senza chiara definizione.

Infine, uno sguardo alle monografie prodotte dagli studenti indigeni consente di mettere in luce l’attenzione riservata alla gestione delle relazioni basate sull'organizzazione sociale e sulla capacità inventiva di ogni popolo indigeno, attraverso temi che si impongono e che diventano più sorprendenti nella produzione delle monografie. Per quasi tutti i popoli viene proposta la revisione e, in una certa misura, la riscrittura della storia, tema che ha portato, nel 2015, all’organizzazione di un seminario sulla “Storia dal punto di vista indigeno”.

Come esempio, riportiamo la recente monografia di una delle studentesse sulla storia della delimitazione della terra indigena Barra Velha (pataxó/BA), in cui la metodologia di lavoro ha portato non solo alla registrazione delle narrazioni degli anziani riguardo ciò che è accaduto con il cosiddetto "Fuoco del 51" (episodio violento in seguito al quale i pataxó furono costretti a disperdersi in direzione a Minas Gerais), ma anche per identificare pratiche di esercizio della memoria con i bambini, che hanno realizzato diverse illustrazioni ispirate alle narrazioni ricostituite dalla studentessa/ricercatrice. Infatti, poiché a condurre la ricerca è la figlia di uno dei leader, il quale nel periodo dell'invasione violenta aveva 4 anni, abbiamo qui una catena generazionale di ricostruzione della memoria collettiva, che viene costituita attraverso i vari lavori di ricerca (la sua è una tra altre monografie), ma che deve ancora essere meglio identificata e rivelata, e presentata agli stessi Pataxó.

Allo stesso modo, gli xakriabá procedono alla produzione di un'edizione rivista ed ampliata del libro che racconta la lotta per la terra – Il tempo passa e la storia rimane (Xakriabá 1998). Anche qui la discussione coinvolge le generazioni più anziane, gli insegnanti nel ruolo di mediatori, e i bambini e gli adolescenti nelle scuole. La creazione di forme di esercizio collettivo della memoria, insieme al compito che questi ricercatori si sono affidati sulla riscrittura della storia, ci sembrano essere un movimento cruciale, che emerge in molti dei lavori di ricerca che vengono eseguiti con l’uso di linguaggi diversi, oltre alla scrittura propriamente detta. L’utilizzo dei mezzi audio-visivi cresce ed è uno dei temi forti di formazione che collega il corso all’università ai giovani delle scuole nei villaggi. Come ha dimostrato Célia Xakriabá nella sua tesi di master (Correa 2018), la proposizione di diversi “attivatori della memoria” è stata la strategia centrale nei workshop che sono stati condotti per la sua ricerca e che poi sono stati riproposti nelle scuole.

Se guardiamo all’insieme delle monografie, abbiamo anche temi relativi alla sostenibilità ambientale e territoriale; alle tradizioni e pratiche culturali (come eco, forse, delle politiche del patrimonio, ma anche come strumento di circolazione "dentro e fuori" di diversi aspetti come rituali, tecniche e tecnologie, produzione di artefatti ed oggetti vari); alle pratiche legate alla salute; alle lingue indigene (bilinguismo per alcuni; ricostruzione di lingue ancestrali per altri).

Commenti finali: tra sconcerti epistemici e comparazione

Le varie situazioni ed esperimenti che ho presentato, sui quali dobbiamo esercitare il rallentamento (slow down) proposto da Stengers, indicano la necessità per noi di esporci a (e proporci sotto) circostanze originali e innovative in relazione a ciò che sappiamo: spostare, invertire, ribaltare posizioni. In questa stessa direzione, come antidoto alle pratiche del "same-ing", Helen Verran ci propone di "coltivare lo sconcerto epistemico" (Verran 2012: 143). De la Cadena, seguendo Verran, afferma: «Invece del riconoscimento, lo sconcerto epistemico genera perplessità e ha il potenziale per farci pensare, sfidando cosa e come sappiamo» (De la Cadena 2015: 276).

Allo stesso modo, è importante cercare di creare circostanze originali nelle proposte che facciamo ai nostri partner, ai vari indigeni, giovani o anziani. Qui gli scenari e i contesti non hanno limiti: c'è, a nostro avviso, l'obbligo di pensare ai luoghi e alle forme in cui proporci all'interno dell'università, nonché a come frequentare i villaggi indigeni. Oltre all'università, ci sono molti spazi in cui si incontrano già diverse figure indigene e non indigene (nel caso del Brasile questo è ricorrente), molto spesso in relazione alla messa in atto di politiche e progetti che hanno implicazioni dirette sulle terre indigene e sulle loro comunità.

Fare di questo scenario un'impresa etnografica significa, come ho sottolineato, assumere l'etnografia come un "esperimento di esperienza" (Piasere 2002). Tuttavia, non si tratta più dell'etnografia sugli altri – popoli o persone, e anche altri esseri – ma dell'etnografia con gli altri, "in presenza degli altri" (Stengers 2005), in cui “l'essere là e l'essere qui” che caratterizza la forma canonica della pratica etnografica devono essere riarticolati e le interfacce (non) previste tra i diversi sistemi di conoscenza devono essere rivisitate.

Ho riferito l'espressione evocata all'inizio che illustra bene la situazione in cui ci troviamo: andare verso uno "stare insieme sperimentale" (experimental togetheness). Come uno slittamento semantico tra le lingue, l'idea di un insieme sperimentale può essere assunta come pratica di convivenza, le cui articolazioni non coincidono e non sono determinate esclusivamente dalle pratiche di conoscenza che assumiamo in modo più esplicito.

Vorrei concludere, con Stengers, con un riferimento alla sfida di imparare dagli altri e all’esercizio implicito della comparazione, riprendendo però il senso originale del termine comparare:

“Returning to comparativism as a method of learning, I would conclude that there is only one general rule, which may be derived from both Péguy and the experimenters, as in both cases what matters is that rapports be created between terms in their “full force,” with no “foul play” weakening one and ensuring the position of the other. This is why, when those one wishes to learn from are what we call “humans,” common humanity is a trap, since it defines divergence as secondary. Those you address must be empowered to evaluate the relevance of your interest, to agree or refuse to answer, and even to spit in your human, too human, face. This demands that you present yourself in terms of your own divergence — of what matters to you, and how. “Learning from” requires encountering, and encountering may indeed imply comparison, but there is no comparison if the encountered others are defined as unable to understand the point of the comparison. We are returned here to the Latin etymology of “comparison”: compar designates those who regard each other as equals — that is, as able to agree, which means also able to disagree, object, negotiate, and contest” (Stengers 2011: 62-63).

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[1] Originariamente, il testo è stato preparato dopo un anno sabbatico in cui ero stata lontana dai posti in cui di solito vivo e lavoro, quando mi è stato possibile rivisitare le comunità di Sinti emiliani e lavorare con colleghi antropologi italiani, in particolare con Leonardo Piasere; seguito da un periodo presso il Dipartimento di Antropologia dell'Università di St. Andrews (Scozia). Anche se questa versione è stata ultimata due anni dopo, per diverse ragioni, l’intento originale si è mantenuto e, per alcuni aspetti, si è persino accentuato nel suo carattere di testo autoriflessivo, non in senso personalistico, ma come assoluta esigenza di un esercizio di comprensione dello scenario contemporaneo.

[2] L’UFMG è tra le più grandi università federali brasiliane, classificata nei ranking di valutazione tra le migliori del paese. Il Pro-Rettorato per gli Affari degli Studenti è stato creato per rispondere all'implementazione del sistema di riserva di posti di carattere sociale ed etnico-razziale nei corsi di laurea, come previsto nella Legge n. 12.711/2012 per tutte le istituzioni federali, università ed istituti tecnici. Quando si tratta di istituire queste procedure, è necessario considerare il peso del meccanismo istituzionale di una grande università, installata 90 anni fa (per il Brasile, ciò vuol dire tra le più antiche) e per il quale storicamente gli studenti sono stati principalmente selezionati dai segmenti socio-economici privilegiati della popolazione, in particolare per i corsi con maggiore richiesta. Nel 2017, il Consiglio Universitario ha approvato all'unanimità l'introduzione di quote e/o posti aggiuntivi per gruppi sotto-rappresentati in tutti i programmi di master e dottorato.

[3] Se consideriamo tutti gli ingressi, oltre il corso di laurea specifica per insegnanti indigeni – “Formazione Interculturale per Educatori Indigeni” (FIEI) – sono circa 200 studenti, con svariati regimi di presenza nel campus.

[4] Si trattava allora di giustificare le sue assenze dal posto di lavoro, mentre in precedenza era conosciuta per la frequenza molto regolare della scuola, aspetto piuttosto insolito in quei tempi.

[5] Circa 10.000 persone, che usano il Portoghese come lingua vernacolare; la loro terra sta nel nord-ovest del Minas Gerais (altopiano del Brasile centrale, all’interno del bioma definito cerrado), una regione conosciuta come os gerais, o sertão, che soffre per la siccità cronica.

[6] Circa 40.000 persone, che vivono nella foresta equatoriale nella regione amazzonica (stato di Roraima, ai confini con il Venezuela), che hanno sei diverse lingue vernacolari yanomami.

[7] L’organizzazione didattica del corso di laurea specifico prevede che gli studenti vengano spostati in città per cinque settimane ad ogni semestre e che regolarmente i docenti svolgano attività formative semestrali nei villaggi indigeni. Quindi, il movimento tra l’università ed i villaggi è diventato parte costitutiva e ordinaria delle attività di tutti.

[8] La presenza degli studenti indigeni del FIEI al campus ha una cadenza semestrale, e dura circa cinque settimane. In ogni semestre, abbiamo studiosi indigeni (anziani, esperti, sciamani, leader politici e altre autorità) che vengono a sviluppare alcuni argomenti per gli studenti indigeni in seminari specifici, aperti anche ai non indigeni.

[9] Gli Ashaninka sono un popolo caratterizzato da intense relazioni intrattenute con i loro vicini (Gow 2011).

[10] Mi riferisco qui all'idea di "pacificare i bianchi", come proposto nel volume curato da Albert e Ramos (2000) Pacificare i bianchi: cosmologie di contatto nell'Amazzonia settentrionale.

[11] In quegli anni iniziali, in seguito, abbiamo ricevuto Marilyn Strathern all’UFMG e ho avuto occasione di porle la domanda su come insegnare antropologia agli studenti indigeni, se sia come insegnare ai non indigeni. Strathern non ha risposto immediatamente, ha chiesto del tempo, e soltanto in un secondo momento, alcuni giorni dopo, mi ha riportato sua risposta: “non è la stessa cosa perché la loro ignoranza è differente della nostra ignoranza”.

[12] Gli xerente, auto-riferiti ak’wen, formano assieme agli xavante, auto-riferiti a'wen, del Mato Grosso, il ramo centrale delle società di lingua Jê. Gli xakriabá, attualmente situati a Minas Gerais e gli akroá (estinti), sono considerati anche loro un popolo ad essi collegati linguisticamente e culturalmente. Con una popolazione di circa 4.000 persone, sono abitanti del cerrado, negli altopiani del Brasile Centrale.

[13] «Esistono diversi sistemi cognitivi e procedurali che sono complementari o in conflitto. Ma esiste una commensurabilità pragmatica tra questi sistemi quando vengono confrontati. Ci sono nozioni di verità che sono accettabili localmente sia da coloro che credono nel caso, sia da coloro che credono nella stregoneria. La nozione di un "accordo pragmatico" significa solo che due contendenti sanno che un certo oracolo o una lotteria possono portare la morte — sebbene questa sia "ontologicamente" distinta per ognuno di loro». (Almeida 2003: 18). Nel caso della produzione di materiale scritto, ci sono questioni controverse talvolta chiare e incisive, e siamo certi che le premesse che guidano i partecipanti possono essere estremamente diverse — ed è quando siamo in procinto di "lavorare o produrre insieme" che ne siamo consapevoli.

[14] Il titolo del seminario (Comendo como Gente) è lo stesso del noto libro di Aparecida Vilaça, in cui gioca con l'ambiguità del termine "como". In portoghese, il titolo potrebbe essere letto sia nel senso di "mangiare come le persone", sia come riferimento al cannibalismo "mangiare (o mangio) le persone".

[15] «Sei la persona bianca del popolo piro, proprio come Tânia è la persona bianca del popolo yudjá. Ho notato che alla maggior parte dei bianchi non piacciamo molto noi indigeni. Allora perché ti piacciono gli indigeni?»

[16] «Quindi, avevo la domanda di Daimã, la mia risposta, un ricordo d'infanzia e la certezza che fossero tutti in qualche modo collegati, ma non avevo ancora nulla di concreto. Sapevo di poter sentire qualcosa, ma non sapevo cosa fosse. Non ero a conoscenza di cosa significasse la mia risposta alla domanda di Daimã».

[17] Nel contesto universitario brasiliano per indicare la terza missione si usa il termine “extensão” per riferirsi a tutte la attività promosse da istituzioni universitarie destinate a creare un rapporto con le comunità in cui l’università è inserita e in generale con la società in senso più ampio, per diffondere il sapere anche fuori dalle mura dell’accademia mettendolo a disposizione di differenti gruppi e collettività. Nel caso in questione, queste attività, organizzate su svariati temi, dalle questioni ambientali a quelle economiche, anche su progetti culturali e formativi, hanno avuto continua espansione lungo questi vent’anni — nel mio caso specialmente tra gli Xakriabá. Tali attività hanno contribuito a sviluppare le proprie capacità organizzative di ogni popolo indigeno e ciò, oggi, può essere accompagnato attraverso l’attuazione pubblica di due giovani leader, Edgar Xakriabá, diventato un riconosciuto fotografo indigeno e Célia Xakriabá, attivista politica all’interno dei movimenti indigeni e delle donne.