Conversazione con Sara Ongaro

Antropologia, imprese ed economie locali

Bruno Riccio

Università di Bologna

Selenia Marabello

Università di Bologna

Sara Ongaro è responsabile Comunicazione e Marketing della Cooperativa Quetzal e ha speso le sue competenze antropologiche in ambito professionale con un impegno nella formazione, ricerca sociale e nel mondo del commercio equo e solidale. Ha dedicato attenzione a pratiche economiche marginali, alternative e a favore di gruppi di donne, riattivando costantemente competenze maturate in diversi ambiti d’esperienza tra cui, in particolare, la conoscenza e la pratica antropologica, la militanza femminista e la nonviolenza. L’intervista è stata realizzata a Bologna il 4 marzo del 2019.

Bruno Riccio: Hai studiato antropologia culturale e poi hai fatto tutt’altro. Quando e come hai ripreso a ragionare sul tuo fare antropologia?

Sara Ongaro: Di recente ci sono state diverse occasioni per riflettere su quel che ho fatto negli ultimi ventisei anni: sono stata invitata a tener dei seminari in ambito universitario sulla relazione tra antropologia ed economia, a prender parte al World Anthropology Day (WAD) di Milano e, infine, questa intervista. La settimana scorsa, preparando il seminario per la WAD, mi accorgevo di quanto non ci sia stato nulla di programmato.

Nel 1995 a Modica abbiamo fondato la cooperativa Quetzal di commercio equo e solidale. La cooperativa inizia a fare cioccolato dopo il viaggio di alcuni soci presso un produttore di cacao in Ecuador dove, nel laboratorio di quest’ultimo, si erano ritrovati di fronte alla massa di cacao che, per un modicano, è un elemento piuttosto familiare. A Modica, infatti, dopo aver comprato la massa di cacao in pasticceria, la cioccolata si prepara in casa con una ricetta giunta nel 1600 dal Centro America. Il cioccolato modicano è un prodotto post-conquista e noi abbiamo unito due storie: quella di riscatto dei contadini del commercio equo di prodotti come cacao e zucchero di canna e quella di una tradizione culinaria locale ben radicata. Nel gruppo dei fondatori, a quel tempo, portavo anche le competenze maturate proprio durante i miei studi antropologici. Avevo riflettuto a lungo sulla conquista dell’America e studiato Todorov, ricorreva anche il Cinquecentenario e Massimo Squillacciotti, che per l’appunto ci aveva guidato durante l’anno, mi propose di andar a tenere una lezione sul tema in un corso di aggiornamento per insegnanti. Dopo trent’anni da quella lezione oggi mi ritrovo in altro modo a occuparmi di un prodotto che viene da quella storia violenta, cambiandola in qualche modo di segno, producendolo con prodotti del commercio equo e ricordandoci sempre che siamo debitori della nostra identità, anche di quella “più tipica”. In quegli anni dovevamo inoltre scegliere un nome per la cooperativa, e mentre si potrebbe pensare che la ragione del nome Quetzal sia collegata al cioccolato, questo, invece – simbolo del Guatemala – deriva da una relazione avviata in precedenza con un’associazione di tessitrici indigene di quel paese. Certo non è la storia tipica di chi immette un prodotto sul mercato, e raccontandolo vorrei evidenziare che abbiamo pianificato poco ma ci sono diversi elementi, incontri e questioni che, come gruppo, abbiamo incrociato e poi sviluppato quando ci sembrava che avessero un senso e che potessero esser utili; non le vedevamo con un senso complessivo legato a riflessioni antropologiche.

La consapevolezza sulla stratificazione storico-antropologica è emersa di fronte alla domanda che ci pone chi viene a trovarci in laboratorio: “Perché a Modica c’è questo cioccolato?”, ma la vera domanda è: “Perché soltanto a Modica è rimasta quella che era la ricetta del cioccolato fino al 1700?”

Riflettere su questa domanda è un lavoro prettamente antropologico oltre che d’analisi storica. Chi arriva oggi a Modica trova una cittadina di provincia. Ma, per secoli, è stata la capitale di una Contea importante, dove vi era una presenza consistente di aristocrazia locale legata alla corona di Spagna. Nel 1600, in netto anticipo rispetto ad altre zone siciliane e altri contesti che ora diremmo italiani, a Modica ci fu una vera e propria rivoluzione: si mette fine al latifondo e nasce la borghesia agraria, grazie ai contratti agrari di enfiteusi iniziati un secolo prima. Il cacao, in arrivo, s’inserì come bene di lusso ma fu l’unica zona in cui il consumo abituale si allargò anche alle famiglie borghesi che avevano uno stile di vita simile a quello nobiliare.

Il far cogliere gli eventi storici, la stratificazione sociale connessa alla disponibilità della terra e all’accesso ai prodotti, così come rispondere ai turisti proponendo delle riflessioni su come l’uso di beni di lusso o del cacao abbia contribuito a disegnare le relazioni tra classi sociali, è frutto della mia sensibilità antropologica. E questo non è solo un sentire personale. Spesso quando parlo con gli studenti, gli insegnanti o i turisti raccontando della nostra cooperativa, del commercio equo, del cioccolato che produciamo, sono in tanti a dirmi: “Ma scusa tu chi sei? Cosa fai normalmente?” La comunicazione è obiettivamente diversa da quella che potrebbe fare un commerciante, qualcuno che si occupa di cioccolato modicano o, ancora, un volontario che fa una lezione sul commercio equo. E quando dico che ho studiato antropologia, allora dicono “Ah ecco!”: è come se le persone percepissero che c’è un’attenzione non comune su alcune questioni.

Selenia Marabello: Sara vorrei che tu continuassi a descrivere il tuo percorso professionale dando spazio, però, anche alle tue scelte e agli interessi maturati negli studi antropologici. Ci conosciamo da quando frequentavamo l’Università di Siena negli anni Novanta e, a dire il vero, penso che valga la pena rintracciare, a beneficio dei lettori e di diverse generazioni di antropologi che sono interessati ai temi dell’antropologia pubblica, fatti, eventi, studi che hanno orientato il tuo lavoro creando margini d’intervento professionale basati sulle competenze antropologiche.

SO: Dopo un incontro fortuito e ancor prima di frequentare il Liceo della città dove sono nata, ho deciso che avrei studiato antropologia a Siena. Durante gli studi universitari, per circa un anno ho fatto un’esperienza di volontariato in Sicilia (presso una struttura d’accoglienza per donne in difficoltà), dove sono poi tornata per svolgere la mia ricerca di campo per la tesi di laurea. La tesi riguardava le modalità di costruzione dell’identità femminile nella città di Modica con tutte le dinamiche e le differenze di un momento di grande trasformazione. A Siena fra alcuni studenti di antropologia maturò un interesse verso gli women’s studiessostenuto sporadicamente da alcuni docenti fra cui Luciano Li Causi; vi era, invece, un confronto più articolato con le filosofe e in particolare con Maria Luisa Boccia.

L’interesse specifico verso gli women’s studies e l’economia, che già mi interessava, ha preso forma davvero dopo la laurea quando nel 1996 ho avuto modo di frequentare, per l’intero anno, un master presso l’Università di York. Quell’anno è stato davvero importante. Ho avuto modo di studiare con Haleh Afshar una economista iraniana, femminista che mi ha segnato moltissimo e con cui abbiamo avuto uno scambio intellettuale eccezionale.

In Inghilterra ho conosciuto e apprezzato l’apertura all’interdisciplinarietà: cosa avevi studiato non era così importante né, tantomeno, indicava una qualche appartenenza. Lì cercavo, semplicemente, la strada che mi interessava di più e ho iniziato il percorso che poi si è tradotto nella mia tesi di master su donne e globalizzazione. Quello è stato un passaggio fondamentale: studiare altre discipline e cambiare il punto di vista. Ero interessata alle trasformazioni del lavoro post-fordista e alle nuove tecnologie riproduttive e ho cominciato a studiarle, cercando di coglierne l’intreccio. Al rientro in Italia, dopo aver incontrato Renate Siebert, che ha avuto un ruolo nella pubblicazione in italiano del mio studio pubblicato con il titolo Le donne e la globalizzazione[1], sono stata chiamata da gruppi, associazioni femministe e interlocutori molto diversi e interessati a un tema di cui, a quel tempo, si parlava poco.

E per me anche quella fu un’esperienza forte, di metodo: vedere che con un libro, con le cose su cui hai riflettuto, puoi confrontarti fuori dall’accademia. È stata un’esperienza davvero importante in cui vedevo quanto il lavoro e la riflessione procedevano e si arricchivano grazie allo stimolo dello scambio, in quel caso con gruppi di persone che avevano l’interesse politico per quei temi. Allo stesso tempo con sempre più chiarezza emergeva ai miei occhi la potenza del lavoro intellettuale anche al di fuori dell’università.

Dopo l’Inghilterra ero tornata a vivere in Sicilia dove volevo capire meglio come alcune zone, abitate dalla preistoria fino agli anni Cinquanta del Novecento, si erano repentinamente spopolate. In particolare ero interessata a studiare “le cave” che sono i canyon della Sicilia orientale, ero interessata perché vedevo molte similitudini rispetto ai temi dello sviluppo e alle dinamiche che costringono e spingono le popolazioni ad andar via da un territorio. Per farvi un esempio specifico: quando arriva lo sviluppo e si costruiscono gli acquedotti delle città, ci sono aree in cui l’acqua sparisce perché è canalizzata a beneficio delle città e questo induce processi di spopolamento, degradazione e abbandono di intere aree. Con questo progetto di studio mi sono candidata e ho vinto il mio dottorato all’interno di un dipartimento di studi sociologici che poi, per diverse ragioni legate all’erogazione dei fondi, alle fratture interne alle discipline che, invece, in Inghilterra avevo volutamente superato e attraversato e, infine, a uno scarso interesse da parte di alcuni docenti per le economie locali, ho interrotto volontariamente.

In seguito tornata in Sicilia, ho fondato, con delle colleghe antropologhe, una cooperativa che per oltre cinque anni, nei primi anni duemila, si occupava di ricerca e formazione in diversi territori siciliani: la cooperativa, di cui anche Selenia era socia fondatrice, aveva il nome DAERA[2]. È stata una grande esperienza, abbiamo fatto molta formazione e delle ricerche tra cui, in particolare, due vinte dopo bando competitivo di enti di rilevanza nazionale. Prescindendo dai risultati ottenuti dalla cooperativa, che sono obiettivamente rilevanti, penso che il vero valore della cooperativa DAERA vada ricondotto al metodo di lavoro elaborato.

BR:Considerando che oggi ci sono diversi gruppi e associazioni che lavorano con strumenti antropologici vorrei capire meglio come lavorava a quel tempo DAERA e, in particolare, vorrei che ci concentrassimo su tre diversi piani: primo la negoziazione (con i committenti, gli interlocutori, i presidi); secondo la formazione, la comunicazione e il linguaggio con diversi interlocutori e, infine, il terzo che tu definisci il metodo.

SO: Comincerei con il dire che questo gruppo, fondato sull’amicizia oltre che sulla stima reciproca maturata negli anni di studio, ha reso sostenibile questo lavoro, così esteso e frammentato dal punto di vista territoriale. Vivevamo in quattro città diverse della Sicilia orientale e lavoravamo in luoghi che distavano, gli uni dagli altri, anche 200 chilometri. Ciascuna era impegnata in attività formative con laboratori di circa 50 ore e dovevamo farne diversi in concomitanza, riuscendo spesso a totalizzare dieci laboratori ciascuna. Lo dico per chiarire l’impatto di quell’esperienza e la potenzialità d’intervento. La formazione, che spesso era co-condotta in aula, si basava su una programmazione comune delle attività e delle scelte di contenuto e/o di metodo. Vi era una programmazione iniziale e puntuale con la scelta dei contenuti specifici e dei materiali da proporre che veniva elaborata trascorrendo – insieme – brevi periodi in una delle città tra quelle in cui vivevamo. La programmazione comune, la co-conduzione e il radicamento su diverse aree e città hanno permesso alla cooperativa di essere particolarmente duttile nella relazione con i committenti, i territori e le diverse condizioni di lavoro. Molto del nostro tempo era dedicato alle negoziazioni con i committenti, non sempre facili, che spesso erano enti locali, dirigenti scolastici, ma anche enti di rilevanza nazionale come nel caso delle ricerche commissionate. Ovviamente proprio la pluralità di questi committenti esigeva negoziazioni diverse, talvolta mirate solo a far capire che le nostre proposte formative miravano non soltanto a trasferire contenuti ma, piuttosto, render davvero partecipi gli insegnanti e/o gli studenti di un processo di conoscenza. Questo elemento, per nulla scontato, che rendeva problematico l’estenuante orario di lavoro/formazione a cui gli insegnanti erano sottoposti, era spesso tema di discussione con i dirigenti. Dal nostro punto di vista proporre questioni, temi inerenti le prospettive antropologiche in contesti di sovrapposizione di offerte, dove gli insegnanti non riuscivano né a seguire con costanza né, tantomeno, a sperimentare in aula tecniche e contenuti loro proposti, era poco sensato, oltre che controproducente. La negoziazione in questi casi consisteva nel far comprendere il metodo di lavoro, i contenuti e chiedere una buona organizzazione dei tempi. Gli insegnanti erano sommersi di cose da fare: che senso ha proporre una formazione senza alcuna possibilità, da parte del singolo insegnante, di elaborare, sperimentare e/o integrare temi e approcci nel modo di far didattica? Quello che spesso vedevamo nelle scuole e nel sovraccarico non era funzionale al nostro lavoro, per il quale essere presenti a tutto il percorso era fondamentale altrimenti… non c’era un percorso! Sapevamo che la nostra proposta formativa era faticosa, ma il processo di acquisizione per noi era inscindibile dalle questioni poste e dibattute nei gruppi. Dal punto di vista dei contenuti fondamentalmente sotto la dicitura “pari opportunità” proponevamo studi di genere, a ripensarci oggi saremmo additate come distruttrici dell’ordine sociale! Allora molto probabilmente eravamo considerate, almeno dai dirigenti che ci assegnavano i laboratori, irrilevanti. Dico questo perché non è poi così scontato che nei primi anni duemila in moltissime città e piccoli paesi della Sicilia orientale fossimo riuscite a organizzare formazioni per insegnanti e studenti su temi quali genere, orientamento sessuale, affettività e sessualità.

Le negoziazioni, pur talvolta difficili, erano praticabili. Molto più complicate sono state quelle relative a un bando per l’assegnazione di una ricerca sulla violenza contro le donne a Siracusa. Tutte noi, che avevamo alle spalle studi di genere o women’s studies e avevamo lavorato con diversi ruoli con gruppi di donne, abbiamo elaborato un progetto vero e proprio per la gara di affidamento ma, nonostante un punteggio qualità molto alto, l’assegnazione è stata possibile solo tramite un passaggio in tribunale. Così alla prima ricerca ci siamo trovate subito a dover far un ricorso al TAR che, grazie anche al supporto di un legale di fiducia, abbiamo vinto. È del tutto evidente che questo primo avvio ha segnato tutto il lavoro di ricerca con i servizi del territorio la cui collaborazione è stata spesso faticosa, se non del tutto ostile. Ciò su cui DAERA metteva davvero molte energie era l’idea che le ricerche potessero non rimaner chiuse nei cassetti. Anche se questo, poi, accadeva il più delle volte!

I nostri lavori presupponevano una continuazione, attivare dei gruppi su un territorio, li affiancavamo e, talvolta, li preparavamo ad esigere, ad andare avanti in un percorso. Non ci sembrava possibile lavorare altrimenti, ci sembrava un modo sensato per dare qualcosa a un territorio, per essere utili a mettere in moto delle energie, delle idee o intenzionalità. Ci siamo però scontrate con territori difficili, con istituzioni poco disponibili e, soprattutto, ci siamo dovute scontrare con il fatto che talvolta si è solo strumentali ad aprire delle speranze che poi vengono, quasi nell’immediato, riposte senza seminare un cambiamento.

Mi avevi chiesto, Bruno, della comunicazione che per me è stata molto importante anche per tutto il discorso metodologico sulla ricerca-azione, sulla partecipazione efficace e sui modi di costruire relazioni con i gruppi coinvolti nella ricerca e/o nei percorsi formativi. Già dal 1993, quando facevo servizio volontario dentro una casa di accoglienza per donne, grazie a un percorso sulla nonviolenza ho avuto modo di riflettere e acquisire strumenti di lavoro che poi sono stati utilizzati all’interno del gruppo di DAERA, così come con i suoi interlocutori esterni divenendo, almeno in parte, patrimonio di quel gruppo di lavoro, oltre che terreno di sperimentazione continua con gruppi, professionisti, volontari di diversi settori e con esperienze diversissime (volontari Caritas, magistrati, insegnanti, funzionari della Pubblica Amministrazione, gruppi e associazioni di donne etc.).

SM: Sara ripensando alle forme in cui hai sperimentato la comunicazione con pubblici eterogenei mi viene in mente il tuo libro[3], scritto a quattro mani con un cuoco, che tratta i divari economici e accesso alle risorse o, ancora, l’impegno nel Comitato Progetti. Mi sembra che tu ti sia sempre posta in una posizione di confine, sempre un po’ aperta.

SO: Direi: grazie all’antropologia! L’antropologo per antonomasia è quello che se deve andare a fare ricerca con “i cannibali”, anche se sta a New York, lo fa senza scomporsi troppo.

SM: Quello che dici pone una questione su cosa significa porsi in termini antropologici anche quando si fa marketing per il commercio equo e solidale per una bottega, o quando si fanno le valutazioni progetto per intere aree del globo. Vorrei che ci parlassi di più della tua esperienza nel Comitato Progetti di Altromercato dove eri nel gruppo di valutazione per l’Asia. Vi era un’idea pre-costituita di quale ruolo l’antropologa avrebbe dovuto giocare nella valutazione dei progetti?

SO: Il Comitato Progetti (CP), che è un organo di Altromercato composto da volontari, ha l’incarico di visitare i produttori per verificare che rispondano effettivamente ai criteri del commercio equo solidale. Teoricamente ha una funzione ispettiva, anche se quando ero nel gruppo – eravamo circa undici persone ed io ero nel sottogruppo che si occupava di Asia – nessuno di noi aveva questa impostazione “da controllore”.

Ovviamente dovevamo verificare che non ci fossero elementi incompatibili con il commercio equo e i suoi criteri, però eravamo interessati a capire l’organizzazione della struttura, perché era diventata quel che era, con una sensibilità che trovavo prevalente non soltanto tra gli antropologi ma anche tra gli economisti o i cooperanti del gruppo. Era l’attenzione a capire le forme e le ragioni dell’organizzazione dei produttori. Per esempio eravamo concordi nel valutare positivamente il coinvolgimento dei bambini in attività lavorative insieme agli adulti, perché è una forma di educazione e trasmissione, vitale per una comunità. Hai la sensibilità di distinguere un bambino sfruttato nel lavoro minorile da un altro che collabora con piccole parti di lavoro, agricoltura o artigianato, collaborazione spesso cruciale per la famiglia. E soprattutto se il commercio equo ha il solo obiettivo di aumentare le entrate dei produttori, significa che la generazione successiva non avrà più agricoltori né artigiani, ma solo impiegati che desiderano abbandonare le campagne e trasferirsi in città: è questo cambiamento sociale che vogliamo sostenere? Queste domande intrecciavano temi di analisi antropologica e la forma in cui si dava era, alla fine, una sorta di consulenza ad Altromercato per fornire una garanzia ai consumatori ma, auspicabilmente, anche delle riflessioni ampie e delle indicazioni su progetti e linee di sviluppo da proseguire e/o da interrompere. Quanto poi se ne tenesse conto è un altro “paio di maniche”, perché la logica commerciale (scegli ciò che si riesce a vendere e togli ciò che non ha più mercato, nonostante tanti corsi di formazione, etc.) finiva col prevalere. Questa è una sconsolata conclusione sull’efficacia della consulenza stessa. E tuttavia non credo fosse inutile perché ci permetteva di parlare, di avere una certa autorevolezza nel mondo del commercio equo. Per esempio, facevamo molti incontri con le Botteghe, i volontari o i consumatori ed eravamo comunque un anello di collegamento fra Altromercato e i suoi produttori, con loro scambiavamo considerazioni e valutazioni. Avevamo anche fatto un lavoro di rivisitazione degli strumenti di valutazione dei produttori del commercio equo e solidale. Da una parte ci siamo scontrati con l’estrema difficoltà di reperire dati oggettivi in contesti spesso molto informali o estremamente burocratizzati e, dall’altra, come considerarli rispetto al nostro obiettivo di capire davvero un contesto, valutandone la pertinenza e il senso per orientare il nostro giudizio.

Senza una curiosità conoscitiva e sensibilità antropologica, che evitino di appiattire i dati, la valutazione potrebbe esser semplificata: basta sapere qual è il salario minimo nazionale, quante donne sono elette nelle assemblee dell’organizzazione, quante ore i bambini sono a scuola, ciò però non dice nulla sulle reali dinamiche sociali di quel gruppo e sulla qualità delle “cose misurate”.

In quel lavoro, ovviamente, osservavamo continuamente quanto le logiche economiche stavano modellando le organizzazioni che avevano avviato processi produttivi nel quadro del commercio equo e solidale. In Asia, soprattutto, le molte organizzazioni produttive erano diventate davvero grandi, assumevano neolaureati formati secondo i canoni dell’economia neoliberista e assistevamo alla trasformazione della tradizione locale dell’artigianato che era molto influenzata da ciò che circolava nelle grandi fiere internazionali. La grande capacità mimetica asiatica era un tema antropologicamente molto interessante su cui ragionare: il commercio equo serve a conservare una “cultura” senza poi essere sostenibile (perché oggetti prodotti rimangono invenduti) o deve pensare alla vita dei produttori anche se e quando producono oggetti “tipici” del Sud America?

Un elemento interessante che emerse con chiarezza fu la spinta dei valutatori a problematizzare. Noi ci siamo detti che dovevamo necessariamente riuscire a comunicare il commercio equo come qualcosa in progress: “non possiamo affermare che il commercio equo è già questa cosa, per cui i bambini non lavorano mai, gli adulti lavorano sempre non più di otto ore”. Spesso tra i gruppi e le organizzazioni visitate vedevamo uno sforzo rispetto al cambiamento di una società, ma obiettivamente erano lontani da quello che dovrebbe essere l’ideale. Come valutatore, dunque, scegli se bocciarlo perché non si è ancora arrivati “all’ideale” oppure appoggiare il progetto pensando che il compito del commercio equo sia quello di accompagnare gruppi specifici di produttori a maturare scelte organizzative ulteriori.

Non puoi comunicare sempre al grande pubblico che il commercio equo è “il paradiso”, ma puoi comunicare che è un processo continuo, dando conto dei cambiamenti e degli sforzi. Non è che mi devi solo credere, ma ti racconto cosa ho visto e lo colloco all’interno di un contesto socio-culturale, racconto la sua peculiarità rispetto a quello che accade intorno, descrivo le varie dinamiche sociali ed economiche in atto, cerco di capire le relazioni di potere. Possiamo monitorarlo fra qualche anno e ti racconto i cambiamenti. E su questo c’è stata sempre una grande difficoltà, perché il committente avrebbe preferito che gli dicessi quali tra i produttori combaciavano, o meno, con il modello ideale. Si riteneva più plausibile tacere i dettagli problematizzanti. E noi eravamo contro questa modalità semplificatoria di comunicazione, ritenendola tra l’altro pericolosa: chiunque può smentire quello che hai raccontato!

BR: È interessante, questa riflessione mi ricorda le analisi contro-intuitive di Stirrat[4], infatti attribuiamo spesso questo tipo di comunicazione alle grosse organizzazioni internazionali. Vederle riprodotte nel mondo di Altromercato o delle ONG, è inaspettato.

SO: Il problema è quando il tuo bel report complesso si confronta con una comunicazione che diventa scandalistica, che cerca a tutti i costi lo scoop. Se tu “fai uscire” qualsiasi notizia critica, c’è chi vuol fare polemica con intento distruttivo e dice “allora non è vero che il commercio equo fa questo e quello: è uguale al commercio normale!” Da qui la difficoltà di comunicare un contesto che ha bisogno di molte più parole, analisi, spiegazioni e di una continuità dell’osservazione. Questo è complicato. Le cose nette sono più semplici. Stare fuori dall’accademia forse porta a scontrarsi in maniera più frontale con le modalità “mordi e fuggi”, “bianco e nero” della comunicazione. Ma possiamo e dobbiamo comunicare anche in altro modo, con altre attenzioni.

BR: Queste condivisibili istanze sei riuscita a veicolarle quando ti sei trovata nel Consiglio di Amministrazione di Altromercato?

SO: Dopo l’esperienza nel Comitato progetti dal 2004 al 2009, sono entrata a far parte del Consiglio di Amministrazione (CdA) di Altromercato (2013-2016) dove ci siamo occupati anche della creazione di strumenti per valutare i progetti “equo solidali” in Italia e non più solo nel Sud del mondo. Un bel lavoro di traduzione di criteri astratti in situazioni in cui si cercava di tenere conto di aspetti molto specifici, locali, variabili, pena la non comprensione dei fenomeni. Basti pensare alla valutazione di cooperative che lavorano dentro le strutture di detenzione, sottoposte a una serie di regolamenti e norme molto vincolanti e limitanti nell’accesso alle informazioni o, piuttosto, cooperative che lavorano in terreni confiscati alla criminalità. Lavorare su queste applicazioni operative (definire criteri e indicatori per valutarli) significa addentrarsi nella fatica e nella sfida di passare da discorsi teorici e ricchi di tutta la complessità possibile a elementi oggettivi e misurabili di cui c’è bisogno per comunicare a un grande pubblico. Ma il reale, come ben sappiamo, è difficilmente ingabbiabile perché infinitamente molteplice.

A posteriori posso dire che nel committente del CP non c’era la consapevolezza che l’osservazione avesse bisogno di tempi lunghi, di andare oltre la compilazione di una checklist e potesse portare critiche e messa in discussione delle dinamiche del commercio equo. Anche perché noi eravamo fondamentalmente “volontari”, cioè militanti però, in un certo senso, troppo qualificati e molte osservazioni andavano ben oltre quel che ci veniva richiesto. La conclusione dell’esperienza credo sia comunque significativa: nel 2009 ci siamo dimessi quasi tutti!

SM: Quando gli antropologi entrano dentro le organizzazioni, anche quelle dove apparentemente ci sono militanti e forse più spazi per intervenire, finiscono per stare sempre in posizioni interstiziali, scomode.

SO: Peraltro la nostra posizione cercava di tutelare anche i produttori.

BR: Qui abbiamo due altri elementi importanti: il pungolare e il senso critico di un processo elaborativo, non semplicemente anti-sistemico o “ben-altrista”, e l’altro, quello del dare voce. Questa è la nostra cifra e identità: tu terzomondista, utopico, movimentista alla fine silenzi le voci dei diretti interessati quanto può farlo il professionista dell’organizzazione internazionale con il colletto bianco. Anche lì siamo antropologi e diamo voce, anche scomoda, al soggetto.

SO: A questo proposito vorrei citare un’altra esperienza che avevo fatto in Brasile. Ero stata chiamata dalla Commisao Pastoral da Terra della Regione Guajarina (Para) per fare una ricerca antropologica. In Brasile c’è una legge sulla titolazione collettiva della terra e la Costituzione riconosce la titolarità se si dimostra che la comunità vive in una certa area ed è indigena, o vi è una discendenza da Quilombos[5], gli schiavi neri scappati dalle piantagioni che avevano organizzato comunità libere isolate, o, ancora, se è una comunità che vive delle risorse – non trasformate – del suo territorio: pesca, caccia, raccolta di frutti selvatici, l’agricoltura non è compresa. Quindi queste sono le tre motivazioni che la Costituzione riconosce, istruendo un processo di verifica che utilizza le relazioni degli antropologi. Mi chiamarono per lavorare in una comunità sulla laguna del Tocantins e mi dissero: “questa comunità è evidentemente indigena, ma ne ha perso la memoria, e quindi devi fare una ricerca per aiutarci a ottenere la titolazione della terra, ci serve una relazione che dica che sono indigeni”. Io non sono stata lì mesi, solo un mese e mezzo, ma non ho trovato nessunissima traccia che potessero essere indigeni. C’è ovviamente la grande difficoltà che non ci sono documenti scritti di sorta, però tutto quello che ero riuscita a trovare indicava il loro probabile arrivo quarant’anni prima. Era una zona completamente abbandonata, dove gli indigeni erano stati sterminati già nel ‘700 e, nel secolo scorso, erano state impiantate alcune grandi piantagioni (“abusive”) dove lavoravano delle famiglie. Si poneva, quindi, una questione molto delicata. Loro sostenevano: “gli antropologi in Brasile fanno questo lavoro, certificano l’esistenza di comunità indigene o discendenti di schiavi fuggitivi e questo ci devi dare”. Ma io ritenevo di non poter dichiarare questo, visto che non esisteva nessuna evidenza che lo testimoniasse, avrò cercato male e poco – paradossalmente avrebbe anche potuto essere vero – ma non c’era modo di dimostrarlo. Alla fine quello che sostenni fu che quella era esattamente una comunità extrativista, non faceva agricoltura, ma c’erano residui di piantagioni abbandonate di cui loro raccoglievano i frutti spontanei. Pescavano nel fiume e vivevano di questo. Era corretto che gli fosse riconosciuta la titolarità della terra sull’area dove vivevano e raccoglievano impedendo, di fatto, l’eventuale acquisto da parte di un privato che avrebbe con molta probabilità scacciato le popolazioni locali. E così mi sono salvata. Ma è esattamente la situazione in cui mi trovai con un committente risentito, e peraltro la cui causa io appoggiavo totalmente. Mi accusarono di aver offeso gli antropologi brasiliani.

BR: Volevo chiederti delle politiche dell’identità professionale: ci hai raccontato che hai fatto formazione, ricerca-azione, consulenza, hai scritto un libro, hai creato e realizzato progetti, sono i tanti modi di essere antropologo che mettiamo in gioco. Ognuno di noi, anche in base alla propria personalità, ha un modo di accomodare queste politiche dell’identità professionale, qual è il tuo?

SO: Non me lo sono mai posto come antropologa, neanche quando ho pubblicato il libro Le donne e la globalizzazione, tutto sommato l’avevo scritto ancora in un ambito universitario (ma fuori da dipartimenti di antropologia), per quanto guardassi già ad altri contesti come i gruppi femministi e sentissi loro come riferimento, come interlocutore. Tutte le altre volte scrivevo delle cose o parlavo semplicemente come esperta di commercio equo e solidale, o di nonviolenza, cioè di cose specifiche. È solo da una rilettura ex post che posso “ritrovarci” l’antropologia.

Non ho mai programmato quale strumento usare o a cosa dedicarmi se non spinta da un desiderio, da una necessità, da incontri e curiosità. Spesso l’argomento è coerente con un metodo di ricerca, a partire da un interesse per le forme che prevedono lo scambio, l’interazione, le forme collettive della costruzione del sapere.

BR: In fondo hai suggerito di capitalizzare le esperienze, anche il nostro modo di conoscere gli esseri umani richiede di capitalizzare la nostra esperienza di ricerca, ma l’oggetto di ricerca è l’esperienza degli altri.

SO: Penso che l’antropologo/a si situi davvero dentro le esperienze degli altri sino a condividerle anche se, poi, mantiene una posizione che permetta di interrogarle…in Inghilterra facevo cinque lavori, uno per risistemare l’archivio di una ONG, uno alla mensa dell’asilo del campus a distribuire il cibo ai bimbi per un’ora, un altro facendo le pulizie in un college, poi facevo delle lezioni in un’altra università di York e infine c’era l’assistenza a domicilio a persone anziane, disabili etc… anche per mezz’ora dovevi andare dall’altra parte della città per svolgere il servizio richiesto… Alla fine, proprio grazie a questa esperienza ho scelto di fare una tesi sulle dinamiche di genere nella globalizzazione! Perché io lo facevo da studentessa, ma incontravo le mie colleghe anche di 40 o 50 anni per cui quello alla mensa, nell’assistenza domiciliare, a fare le pulizie era “il lavoro”, con estrema parcellizzazione e precarizzazione. Fu un’esperienza grandiosa a fini conoscitivi! Secondo me è la postura antropologica che ti fa vivere qualsiasi esperienza ti capiti (anche quella ordinaria e quotidiana) con un atteggiamento per cui è sempre la tua importantissima esperienza personale, purché avvii una trasformazione di te che esperisci, che permette di farne un oggetto di riflessione aiutandoti a farla; ragionare sulla non casualità dell’esperienza può avere un senso anche per la tua ricerca o tesi.

Qualche tempo fa sono stata contattata da un’agenzia di formazione per fare un intervento rivolto ai managers della L’Oreal. Mi è stato sostanzialmente detto che avevo la massima libertà ma: “se riesci a venire con le scarpe di un certo tipo, è meglio!” (io, di solito, indosso dei sandali) e mi sono ritrovata a far questa formazione a Milano, in un albergo accanto all’Expo, in cui nella hall c’erano solo uomini con tuniche lunghe e keffiyeh ripiegate secondo i diversi stili dei Paesi del Golfo.

Per fortuna in queste situazioni riesco a tirare fuori altre competenze e strumenti: il teatro dell’oppresso mi ha aiutato molto. Devi essere pronta, alla fine tutto è una recita, l’importante è che agganci chi hai davanti, anche quando il contesto intorno non è in sintonia con quello che tu idealmente saresti e che ti fa stare a tuo agio. Con le persone viene più facile, il contesto per me è più difficile, la sala, la forma intorno: le persone chiunque siano, un poliziotto o un manager, il mio interesse è arrivare a loro, comunicare perché ho delle cose interessanti da sapere anche per loro. Forse sì, è fondamentale pensare che il punto di vista che puoi comunicare può servire a chi hai davanti, anche se per ora non lo immaginano, anzi direi che spesso lo respingono in partenza… c’è anche una sorta di sfida. Anche con i sandali e senza trucco si può essere molto competenti e autorevoli. È un po’ un esercizio di spiazzamento, un esercizio di antropologia cui ogni volta sottopongo il pubblico, senza dichiararlo.

BR: Anche Fabietti in Antropologia Culturale. L’esperienza e l’interpretazione[6], scriveva che quando facciamo etnografia facciamo anche un po’ teatro, per entrare in relazione.

SO: Penso che non serva solo a entrare in relazione, io la prendo sempre come un’esperienza di crescita per me, di scoperta di cose nuove…con i tacchi indossati per parlare ai managers ho avuto modo di muovermi nello spazio, non credo ci siano esperienze, per quanto negative e faticose, che non ti insegnino qualcosa. Non so quanti anni fa ho iniziato ad avere davanti pubblici che mi sembravano insostenibili, ma quando vedi che funziona la prima volta, può funzionare sempre.

BR: La comunicazione efficace con pubblici eterogenei richiede, nel dietro le quinte, molto lavoro elaborativo. Non credi che riuscire a comunicare significhi essere semplici e intellegibili senza essere semplicistici o semplificatori?

SO:Di nuovo penso che per semplificare bisogna capire chi abbiamo di fronte, provare a mettersi nei suoi panni, immedesimarci in ciò che può comprendere, immaginarci i suoi schemi mentali, le sue paure, le cose che non vorrà mai ascoltare e quelle che invece lo stimolano, il punto estremo a cui lo puoi portare. Se poi non ce la fai, pazienza! Dico “di nuovo” perché è sempre un lavoro antropologico… Altra cosa importante per semplificare e “non vendersi” è mantenere la nostra posizione situata: ti parlo a partire dalla mia esperienza, da quello che sono, che ho capito, dal perché ho indagato certe cose e ti racconto come l’ho fatto. Non sto mentendo, sto usando degli strumenti strategicamente.

Quello che indago non è mai separato da me, cambia sempre qualcosa di me, se non altro il modo in cui vedo le cose e di questo devo dare conto. E l’efficacia è il riuscire a provocare anche nell’altro qualche cambiamento, una maggiore consapevolezza. Ma spesso non sta a noi misurarla, non ne abbiamo neanche la possibilità.

SM: Sposterei l’attenzione dalla comunicazione alla costruzione di progetti che mettono a tema le scelte etiche, le condizioni di lavoro, i patrimoni arborei e le economie locali. In particolare ti chiedo di raccontarci meglio il tuo impegno nella ricostruzione e supporto delle filiere di produzione locale su cui stai lavorando perché penso ci aiuti a cogliere non solo diversi aspetti del tuo impegno professionale ma, più in generale, permetta di far circolare idee sul far pratico di questioni importanti per l’antropologia.

SO: Volgere lo sguardo al territorio modicano, dove abbiamo avviato la cooperativa di commercio equo, è stato abbastanza naturale e l’abbiamo fatto sin dall’avvio di Quetzal. Proprio per questa ragione avevamo ritenuto importante non solo occuparci di commercializzazione (come il commercio equo ha fatto per buona parte della sua storia), ma anche di produzione per mostrare un esempio di economia diversa, pulita, corretta, che “dava” lavoro. Il tema dei diritti resta complesso sul nostro territorio anche in agricoltura, da lì la sfida, colta nel 2016, di provare ad applicare i principi del commercio equo anche all’agricoltura siciliana: cosa significa a casa nostra, e non in Africa o in America Latina, parlare di prezzo giusto per i produttori, svincolato da prezzi imposti dal mercato, ma remunerativi del lavoro in campagna? Come discuterlo con i produttori? Cosa significa, dal punto di vista dei diritti dei lavoratori, controllare tutta la filiera affinché non ci sia lavoro irregolare e sottopagato? Come si costruisce una squadra di raccoglitori? Quali contratti si possono applicare? Quanto questo si combina con l’idea di lavoro che le persone hanno? Come si arriva a mettere insieme dei produttori affrancandosi dai monopoli dei commercianti? A tutto questo si accompagnano i ragionamenti sulla qualità del prodotto che intrecciano la biodiversità locale con le caratteristiche nutrizionali delle stesse, con l’uso sociale delle diverse varietà, con il ricchissimo patrimonio gastronomico locale. E tutte queste riflessioni come entrano nella relazione con i consumatori? Come diventano comunicazione e marketing? Come influenzano l’idea che i consumatori urbani hanno della terra, della campagna, del cibo, delle persone che lavorano per produrlo?

Abbiamo scelto di lavorare su prodotti davvero rilevanti per la nostra area in termini di produzione, di paesaggio, di consuetudini alimentari e di trasformazione. Abbiamo iniziato dalla mandorla e speriamo di arrivare alla carruba.

È in qualche misura una scelta politica: oggi i nuovi mandorleti sono quasi tutti di mandorle di varietà nuove, californiane, più interessanti commercialmente (con rese più alte e meccanicamente raccolti), ma meno adatte al territorio (devono essere irrigate), con valore nutrizionale inferiore (più fibre, meno amigdalina e olio).

Non posso evitare di tenere insieme elementi estremamente pratici e concreti che pongono problemi stimolanti (le leggi, le macchine da comprare, i prezzi da costruire), considerazioni politiche (preservare un patrimonio e leggerne le interconnessioni, mostrare che è possibile limitare l’ingiustizia del lavoro irregolare e sottopagato), riflessioni antropologiche (dal valore della tradizione, alla comunicazione con i clienti dove la diffusione di conoscenza diventa cuore del marketing). Anche qui per tenere insieme questi elementi ci vuole una sensibilità, che io personalmente ho trovato in tanti contadini semplicemente curiosi che hanno accumulato un patrimonio di conoscenze anche storiche, di osservazioni acute, di analisi del loro territorio e della società, oltre che di consapevolezza sugli intrecci, per nulla banali, tra modernità e tradizione rendendoli in grado di produrre azioni e pensieri sensati e condivisibili. L’antropologia permette più facilmente di leggere le interconnessioni, ma non ha l’esclusiva.

SM e BR: Con la tua presenza al World Anthropology Day o al Convegno SIAA di Catania, hai avuto modo di incontrare diversi antropologi e ri-ascoltare ricerche in ambito applicativo, ci piacerebbe avere un tuo parere, dal tuo specifico vertice d’osservazione, su cosa dovrebbe esser parte della formazione di un antropologo. Che spazio intravedi tra antropologia accademica e professionale?

SO: Premetto che io sono fuori dal mondo degli antropologi, dai temi che si stanno dibattendo e, sebbene i tempi dei convegni siano necessariamente limitati, ho avuto difficoltà a cogliere quali fossero le domande antropologiche che venivano poste. Ho bisogno di sentire domande che tirino fuori qualcosa di interessante, di nuovo rispetto alla mera descrizione di relazioni, dinamiche, problemi. O perlomeno mi basta sentire una problematizzazione dei vari soggetti, del loro punto di vista. Una buona etnografia fornisce elementi per individuare ciò che non si vede immediatamente, che non è scontato, non solo che è nascosto perché subalterno e occultato, ma che ha bisogno di essere intuito e poi descritto.

Credo che tanti antropologi stiano davvero lavorando molto, affiancandosi ai servizi, rispetto a migranti e non solo, per esempio accompagnando gli operatori a sperimentare sguardi utili a cogliere, nella loro alterità, qualsiasi essere umano, migrante o indigeno che sia, perché davvero “nessuno da vicino è normale”.

Rispetto alle aziende è un terreno più complicato, perché l’uso strumentale delle osservazioni dell’antropologo è possibile. Diciamo che per l’antropologo che mira a lavorare in questo ambito sarebbe ottimale allenarsi a guardarsi dall’esterno, mentre fa quel lavoro, misurando le relazioni di potere fra sé, la committenza, eventuali terzi osservati e indagati, il collocarsi nelle dinamiche dell’azienda e del lavoro assegnato. Penso anche che i giovani antropologi debbano esser maggiormente guidati alla scrittura di testi non accademici, report per committenti pubblici e privati. Prima dicevo del bagaglio di riflessioni su etica e deontologia, tenendo sempre presente l’origine dell’antropologia come strumento del colonialismo, la presenza di soggetti con più o meno potere. Probabilmente più che temere “di vendersi” a contesti aziendali, dovrebbero studiare, con un confronto su casi concreti, dilemmi, situazioni ambigue di fronte a cui gli antropologi, in quanto tali, spesso si trovano.

Credo che l’antropologia possa servire a dare strumenti al potente per fregare l’altro soggetto, ma possa dare anche strumenti di comprensione al più debole per liberarsi. Da vera mediatrice la pratica antropologica può dare a entrambe le parti strumenti di comprensione per agire con più equilibrio, per allargare il proprio orizzonte e uscire dall’impasse che spesso nell’azione si crea.



[1] Ongaro, S. 2001. Le donne e la globalizzazione. Domande di genere all’economia globale della riproduzione. Soveria Mannelli. Rubettino.

[2] La cooperativa DAERA era composta prevalentemente da antropologhe che si erano conosciute negli anni di formazione presso l’Università di Siena, non possiamo non menzionare le altre due antropologhe che hanno fondato e lavorato con noi che sono Marilia Di Giovanni e Tiziana Cicero.

[3] Barone P., Ongaro, S. 2006. Pane & Cioccolata. Pensieri in forma di ricetta tra Modica e il mondo. Ragusa. Motta Arti Grafiche.

[4] Stirrat, R. 2000. Cultures of Consultancy. Critique of Anthropology, 20 (1): 31-46.

[5] Malighetti R. 2004. Quilombo do Frechal. Identità e lavoro in una comunità brasiliana di discendenti di schiavi. Milano. Raffaello Cortina.

[6] Fabietti, U. 2008. Antropologia Culturale. L’esperienza e l’interpretazione. Roma-Bari. Laterza.