Dibattito: L'antropologia applicata tra "tecniche di mercato" e "pratiche politiche"

Riflessioni sui migranti, Migrantour e Noi

Miguel Mellino

Università degli studi di Napoli “L’Orientale”

Francesco Vietti

Università degli Studi di Milano Bicocca

Table of Contents

Dibattito: Miguel Mellino
Bibliografia
Dibattito: Francesco Vietti
Bibliografia

Dibattito: Miguel Mellino

Il progetto Migrantour rappresenta sicuramente uno degli esempi più originali ed efficaci di ciò che potremmo chiamare, non senza il rischio di una certa semplificazione, “un’antropologia applicata delle migrazioni in Italia”. Ho avuto modo di conoscere più da vicino il progetto mediante la presentazione offertaci da Francesco Vietti al convegno organizzato dalla SIAA a Cremona nel Dicembre del 2018. Prima di quel momento, ne avevo una conoscenza piuttosto superficiale, legata all’incontro occasionale con alcune persone – migranti, antropologi, operatori ecc. – che vi avevano in qualche modo partecipato. Dati i temi della mia ricerca – non solo migrazioni, ma soprattutto razzismo e antirazzismo – Migrantour mi ha suscitato curiosità sin dall’inizio. La pubblicazione in questo numero di Antropologia Pubblica dell’articolo Migrantour – Intercultural Urban Routes di Francesco Vietti mi offre dunque l’opportunità di esprimere alcune perplessità non tanto sul progetto in sé, quanto su alcuni dei suoi principali presupposti teorici e pratici: sia riguardo le migrazioni, l’etnicità, i processi di gentrificazione urbana, e il cosiddetto approccio “interculturale”, sia in riferimento agli usi pratici e pubblici dell’antropologia come sapere/strumento politico e sociale (e quindi non solo istituzionale). Dal mio punto di vista, un confronto aperto su questi argomenti può esserci di grande utilità di fronte alle nuove sfide che ci sta ponendo l’attuale congiuntura politica in Italia, proprio riguardo alcuni conflitti e questioni attorno cui ha preso corpo il progetto Migrantour.

La prima obiezione è di carattere piuttosto generale, ma contiene al suo interno il resto dei punti che intendo qui sollevare. Da una prospettiva strettamente etico-epistemologica, l’approccio antropologico “inattuale” che ci propone Migrantour nel tentativo di contribuire alla “decostruzione dei modelli dominanti per ciò che riguarda l’identità etnica, la rappresentazione dell’alterità, i processi di patrimonializzazione culturale, il turismo responsabile, l’introduzione critica a una visione interculturale delle città e dei suoi quartieri”, è sicuramente condivisibile, ma appare piuttosto “slegato” da una considerazione più critica e approfondita della costituzione materiale più ampia, ovvero dei processi economici, sociali e politici più generali, entro i quali si sono materializzati negli ultimi decenni i diversi contesti migratori e multiculturali (io direi postcoloniali) in Italia e in Europa. È vero che già nelle pagine iniziali dell’articolo ci viene sottolineata una certa preoccupazione dei suoi ideatori nel «gestire le tensioni tra l’approccio teorico critico della propria iniziativa e le concrete interazioni con le strutture di potere e le forze di mercato che pervadono il proprio campo d’azione» (Vietti 2018: 127). E tuttavia il progetto, promuovendo una valorizzazione della “diversità (inter)culturale” e della “globalizzazione dal basso” un po’ astratta e acritica, si potrebbe dire decontestualizzata o ridotta a semplici enunciazioni di principio, corre il rischio di contribuire a una “estetizzazione” e/o “esotizzazione” post-coloniale dei processi migratori e delle cosiddette “identità etniche” che resta tutta interna anch’essa a una certa logica di mercato e a un certo regime di governo migratorio. Detto altrimenti, gestione (e retorica) securitaria, criminalizzante e regressiva e gestione (e retorica) “multiculturalista”, “interculturale” o semplicemente “progressista” o “umanitaria” (Fassin 2018) delle migrazioni e dei quartieri “etnici”, da una parte rispondono non solo a due modelli di sfruttamento e di gerarchizzazione della cittadinanza “diversi” e altrettanto “neoliberali” nella sostanza, ma appaiono assai intrecciati e interdipendenti sia nella materialità quotidiana dei territori urbani (proprio a causa delle loro disgiunture gerarchiche interne) sia nella stessa logica del management migratorio europeo degli ultimi anni. Per dirla in modo semplificatorio, si tratta di due diversi aspetti dello stesso “ordine del discorso”: “la città chiusa, segregata, segmentata e sottoposta a un regime di controllo antidemocratico” e la “città aperta, che presuppone un diverso modo di pensare e abitare lo spazio urbano”, nel contesto di un più ampio management post-coloniale e neoliberale dei territori e delle popolazioni (per dirla attraverso la definizione di razzismo data da Foucault in Bisogna difendere la società), rappresentano due esiti necessariamente interdipendenti di un unico regime di sfruttamento. Se le cose stanno davvero cosi, è quasi d’obbligo richiedersi: in che senso Migrantour riesce a dare un contributo davvero politicamente alternativo rispetto agli stessi obiettivi che esso si pone, e soprattutto rispetto ai regimi migratori dominanti? Dove risiederebbe la sua singolarità e alternatività rispetto alle narrazioni dominanti sulle migrazioni? Come anticipato, a me pare che manchi una riflessione più di ampio raggio su quelle dinamiche economiche, sociali e politiche entro cui si sono strutturati e continuano ristrutturarsi continuamente i processi migratori nei territori metropolitani italiani ed europei. È curioso, per esempio, che nell’articolo non si parli affatto di razzismo, oppure lo si lasci tacitamente intendere, o come un fenomeno legato alla sola dimensione delle rappresentazioni e delle appartenenze culturali, da correggere con una buona dose di quella “educazione interculturale” promossa dal Migrantour, o come una strategia retorica diffusa nel tessuto sociale da Salvini o da altri soggetti politici regressivi. Il razzismo dovrebbe essere assunto invece come una componente storico-strutturale della società italiana, come l’involucro materiale e oggettivo entro cui si vengono a plasmare tutte le interazioni complessive tra le popolazioni migranti e gli “autoctoni” o i “nativi”, e non soltanto come un deficit ideologico-culturale da colmare con rappresentazioni più etiche o, si potrebbe anche dire, con una sorta di buon senso antropologico. Nei termini di Pierre Bourdieu, si può sostenere che il razzismo costituisca una sorta di “struttura strutturante” di tutte le società europee. E una volta assunto in questi termini, sarebbe più difficile sostenere che una buona (auto)rappresentazione delle migrazioni, o una “buona circolazione sociale della conoscenza” sui processi migratori, sono di per sé sufficienti ad “aprire la città”. La durezza razziale - materiale delle città post-coloniali europee non può essere aperta semplicemente con un antirazzismo morale o pedagogico. Si deve necessariamente accompagnare da altri processi di soggettivazione o presa di parola dei soggetti migranti, o contribuendoli a creare o rendendoli più visibili. Stando ai rapporti del Censis 2018, l’88 per cento dei quasi sei milioni di migranti residenti in Italia con regolare permesso di soggiorno riesce a trovare lavoro soltanto in nicchie ad alto sfruttamento, sette su dieci frequentano solo stranieri o membri della propria comunità e riducono l’interazione con gli italiani a incontri meramente formali e occasionali. Per di più, l’unico luogo in cui questo 11% della popolazione è sovra-rappresentato è nelle carceri, dove la sua percentuale sul totale dei detenuti arriva al 34% (Sbraccia 2010). Sono dati che ci parlano non solo di un razzismo strutturale e istituzionale all’opera nella società italiana, ma anche di elevatissimi tassi di marginalità, di segregazione (lavorativa, abitativa, ecc.) e di accesso differenziato, selettivo e gerarchico ai diversi canali della mobilità sociale da parte dei figli dell’immigrazione sul territorio nazionale. Per di più si tratta di una parte della popolazione che è difficile definire anche come “migrante”. Quello che voglio dire qui è che le pratiche teoriche e politiche antirazziste (o “interculturali” se si vuole) non riescono a riformulare se stesse in funzione di una congiuntura politica del tutto inedita, nello specifico non riescono ad andare oltre un tipo di critica antirazzista di tipo “ideologico-culturale”, per riprendere il ragionamento del sociologo francese Eric Fassin (2018). Mentre l’esperienza vissuta dagli stranieri regolari e residenti da tempo nel paese, così come dalle seconde generazioni di migranti, sta rivelando l’esistenza di una crescente “razzializzazione sociale ed economica” dei territori metropolitani, il progressismo antropologico continua a combattere le sue lotte come se il razzismo dipendesse unicamente da un mero “identitarismo culturale”, ovvero da una semplice manipolazione ideologica incentrata su un insieme di rappresentazioni “sbagliate”, poiché apertamente discriminatorie, stigmatizzanti e inferiorizzanti.

Da questo punto di vista, il programma di Migrantour potrebbe offrire un contributo davvero importante al rovesciamento o alla decolonizzazione di un certo immaginario discorsivo dominante che continua a rigettare i soggetti migranti fuori dalla realtà sociale quotidiana, ovvero ai confini territoriali, agli hotspot, ai campi profughi, all’accoglienza, ecc. E tuttavia, senza un’assunzione più diretta di queste “rigidità materiali strutturali” del tessuto sociale nazionale come elemento problematico e costitutivo di ogni pratica teorica e politica, Migrantour rischia di restituirci una visione “mistificante” per così dire, della condizione migrante. Oppure di collocarsi pericolosamente vicino a quella sorta di narrazione politico-mediatica dominante attraverso cui vengono spesso codificate le aggressioni razziste in Italia, ultime in ordine le vicende di Torre Maura e di Casal Bruciato a Roma, ovvero all’associazione della violenza razzista a certi contesti sociali e a determinati soggetti e gruppi, ovvero alla “barbarie” delle periferie (in una costruzione altrettanto classista-razzista dei poveri), alla presenza di migranti e Rom, alle curve degli stadi e ai soli partiti apertamente “xenofobi”. Si tratta di una narrazione non soltanto autoassolutoria, nel senso che è difficile non pensarla come un’altra forma di sublimazione della propria presunta rispettabilità-moralità-superiorità delle classi medie-bianche-liberali-progressiste locali, ma soprattutto “fuorviante”, poiché non fa che rigettare il razzismo in soggetti e situazioni costruiti come “eccezionali” rispetto a non si sa bene quale norma di società “civile” e “democratica”. È chiaro che Migrantour nasce anche per contrastare questo tipo di narrazione, ma ponendo la questione della lotta alle discriminazioni come una questione di buona conoscenza ed educazione, contrapponendo un’immagine positiva a un’altra negativa delle migrazioni, e senza un’ulteriore considerazione di tutti questi fenomeni, rischia di “dire” ciò che la buona coscienza bianca, liberale, umanistica e occidentale (forse i potenziali utenti del Migrantour) si vorrebbe sentir dire sulla condizione migrante, sulla convivialità etnica, sulle differenze, sul razzismo, ecc (Cfr Bouteldja 2018). Sarebbe interessante capire in quale misura nella pratica le auto-narrazioni dei migranti restano autonome dal contesto, ovvero riescono a sottrarsi dal luogo di enunciazione entro cui vengono sollecitate a “parlare” dall’immaginario antropologico umanistico dominante (Cfr Puwar 2004; Fassin 2018).

Dalla nostra ottica, poi, lo stesso tipo di perplessità suscita l’idea dell’accompagnatore interculturale come professione “migrante”. Molto sinteticamente, mi sembra opportuno chiedere in che senso questa figura non è costruita dagli stessi meccanismi di dominio/esclusione di razza, genere e classe già più volte sottolineati rispetto al lavoro di “mediazione culturale”, come si sa svolto in buona parte da donne. Davide Zoletto (2009), per esempio, ha posto questo problema in modo frontale nel suo: «nei fatti queste competenze della figura professionale “mediatrice” non sono che una delle facce contemporanee dell’esclusione di donne che sono tre volte subordinate: perché straniere, perché immigrate, perché donne. Mediatrici come badanti» (2009: 60). La critica di Zoletto è importante perché mette bene a fuoco in che modo un ruolo narrato e costruito (sempre dalla società d’accoglienza) come uno strumento di empowerment migrante finisce per confermare lo stesso dispositivo di subordinazione (razziale, di classe e di genere) che in teoria intende combattere. Anche qui l’invito non è fare tabula rasa delle competenze e dei risultati acquisiti dai diversi sviluppi territoriali del progetto, ma semplicemente a problematizzare un po’ di più alcuni dei suoi presupposti più importanti.

Per finire, vorrei sollevare altre due questioni: quella del “turismo responsabile” e quella degli usi pubblici dell’antropologia o della cosiddetta antropologia applicata. Per quanto riguarda la prima, a me pare che il progetto necessiti di una riflessione più aggiornata riguardo il ruolo del turismo alla luce dell’impressionante espansione negli ultimi anni di ciò che viene oramai definito “capitalismo digitale” (Srnicek 2018) o “capitalismo della sorveglianza” (Zuboff 2019). Come sappiamo, da qualche anno a questa parte, il turismo, per dirla in modo semplice, non è più quello che era dieci anni fa: oggi la “turistificazione” delle città è uno dei tentacoli fondamentali degli attuali processi di gentrificazione urbana (Cfr Semi 2015). È così che la “turistificazione” è un elemento alla base di ciò che si può chiamare una crescente “razzializzazione” non solo dello spazio urbano, ma anche della stessa “forza lavoro” su cui vengono a strutturarsi i diversi processi di gentrificazione. Dato questo quadro, non è molto chiaro in che senso si possa parlare oggi di “turismo responsabile” nelle città. Tanto le valutazioni positive (o comunque “scientifiche”) del turismo come fenomeno sociale così come le sue critiche più radicali hanno l’obbligo di un importante aggiornamento: sia le analisi oramai classiche dell’antropologia del turismo tradizionale, sia le critiche alla cultura turistica alla Zygmunt Bauman, per così dire, appaiono certo ancora utili, ma in buona parte sorpassate.

Infine, è sicuramente degna di nota, soprattutto in un paese come l’Italia, la costruzione di un progetto che prevede un’applicazione pratica remunerativa per l’antropologia e quindi un’uscita lavorale per gli antropologi. E tuttavia presentata in questo modo, ancora una volta a prescindere da una riflessione più articolata sui processi economici, sociali e politici entro cui si trova a operare, l’antropologia rischia di essere ridotta a una semplice “tecnica di mercato”. La domanda è: qual è il costo di un’antropologia applicata intesa in questo senso? Non si rischia di diventare dei meri agenti di gestione, vale a dire di promuovere una concezione del tutto tecnocratica dell’antropologia non tanto già come disciplina o sapere sociale, bensì come mera “tecnologia estrattiva”? Non si rischia di comprimere la competenza dell’antropologo a un insieme di tecniche formali di indagine? Personalmente, ho deciso di diventare antropologo perché in Argentina, il luogo da cui provengo, come nel resto dell’America Latina, l’antropologia è stata da sempre sentita e concepita come un sapere militante finalizzato all’emancipazione e soggettivazione dei gruppi socioculturali più oppressi e marginali. La sua applicazione, se così si può dire rovesciando in qualche modo la colonialità di questa espressione, non poteva che riguardare la difesa con le “armi della scienza” delle comunità indigene rurali e urbane, così come la partecipazione a politiche pubbliche di gestione mirate al miglioramento delle condizioni di vita di queste popolazioni marginali. Per dirla in modo chiaro: l’impegno morale, politico e scientifico, se così lo si vuole definire, non era semplicemente con alcune questioni sociali o con il sapere in modo astratto, bensì con una parte della popolazione, con i gruppi e soggetti coloniali. A me piacerebbe pensare l’inattualità dell’antropologia come sapere politico e sociale proprio a partire da questa tradizione, ovvero da un bagaglio politico ed epistemico sedimentatosi nella storia della diffusione/riappropriazione/decolonizzazione della disciplina al di sotto della latitudine dell’Equatore. Altrimenti, come in passato, si rischia semplicemente di utilizzare i soggetti (in questo caso i migranti) per legittimare una disciplina, i suoi “professionisti” e la sua posizione dentro del campo “istituzionale” del sapere. Se finisco con queste parole, è perché non mi è chiara la tensione politica che alimenta il progetto Migrantour. E qui torno all’inizio: in che modo Migrantour riesce “a gestire le tensioni tra l’approccio teorico critico della propria iniziativa e le concrete interazioni con le strutture di potere e le forze di mercato che pervadono il proprio campo d’azione”? Le mie osservazioni vogliono contribuire a un approfondimento in questo senso.

Bibliografia

Bouteldja, H. 2018 [2016]. I bianchi, gli ebrei e Noi. Verso una politica dell’amore rivoluzionario. Milano. Sensibile alle foglie.

Fassin, D. 2018 [2010]. La ragione umanitaria. Una storia morale del presente. Roma. Deriveapprodi.

Fassin, E. 2017. Racisme d’Etat, politiques de l’antiracisme. https://blogs.mediapart.fr/eric-fassin.

Foucault, M. 1998. Bisogna difendere la società. Milano. Feltrinelli.

Semi, G. 2015. Gentrification. Tutte le città come Disneyland. Bologna. Il Mulino, Bologna.

Puwar, N. 2004. Space Invaders. Race, Gender and Bodies Out of Place. London. Berg.

Srnicek, N. 2018 [2016]. Capitalismo digitale. Google, Facebook, Amazon e l’economia del Web. Milano. LUISS.

Vietti, F. 2018. Migrantour – Intercultural Urban Routes. Un progetto di antropologia applicata tra migrazioni, turismo e patrimonio culturale. Antropologia Pubblica, 4(2): 124-140.

Zoletto, D. 2009. Straniero in classe. Una pedagogia dell’ospitalità. Milano. Raffaele Cortina.

Zuboff, S. 2019. The Age of Surveillance Capitalism. London. Profile Books.

Dibattito: Francesco Vietti

Ricevo e leggo il ricco testo di Miguel Mellino mentre mi trovo sull’isola di Lesbo, in Grecia, per un periodo di studio e ricerca. La mia percezione di una prossimità fisica e simbolica rispetto a molti dei temi sollevati dal suo intervento è dunque più che mai tangibile: qui nell’Egeo i dispositivi del governo neo-liberale delle migrazioni mostrano in modo evidente come il discorso umanitario sia interdipendente da quello securitario; le gerarchie dei diversi regimi di mobilità articolano le stridenti disparità di potere che si verificano nei border encounters tra abitanti locali, migranti e turisti; la militarizzazione della frontiera esterna dell’Unione Europea si proietta immediatamente sulla costruzione dei confini interni alle nostre società e città, fratture che segmentano il territorio e spingono in modo strutturale gli immigrati verso la subalternità economica e la marginalità abitativa. È quello che Barak Kalir, collega dell’Università di Amsterdam intervenuto qui a Lesbo un paio di giorni fa per un lecture nell’ambito della summer school “Cultures, Migration, Borders”, ha efficacemente definito departheid: un regime politico e burocratico repressivo che costruisce i migranti come soggetti “illegali”, e dunque “deportabili”, e che è strutturato su una visione coloniale e razzializzante della loro alterità (Kalir 2019).

Mellino ci invita a riflettere proprio su come tale sguardo critico e decostruttivo dei «processi economici, sociali e politici più generali, entro i quali si sono materializzati negli ultimi decenni i diversi contesti migratori e multiculturali in Italia e in Europa» sia acquisito, o risulti al contrario “slegato” dai presupposti etico-epistemologici del progetto Migrantour – Intercultural Urban Routes, iniziativa per la quale da alcuni anni ricopro il ruolo di coordinatore scientifico. Ringraziando Miguel per l’attenta e appassionata analisi attraverso cui ha posto sul tavolo della discussione numerosi punti di grande pertinenza, vorrei in questa occasione dialogare su alcuni aspetti che mi paiono rilevanti nel quadro del più ampio dibattito corrente sull’antropologia pubblica e applicata.

Innanzitutto: pur comprendendo l’efficacia retorica del porre la questione nei termini di contrapposizione binaria tra un’antropologia intesa come “tecnica di mercato” o come “pratica politica”, non ritengo che tale approccio dicotomico sia del tutto adeguato a cogliere l’ampio e variegato spettro di situazioni che gli antropologi impegnati sul campo si trovano ad attraversare. Nella mia esperienza, il lavoro progettuale richiede una costante elaborazione di tattiche di resistenza, negoziazione, contestazione, rielaborazione delle tensioni generate dalle ambivalenze della pratica di una disciplina che è al tempo stesso “tecnologia estrattiva” e “sapere militante”. La comunità antropologica ha recentemente focalizzato la sua attenzione sulle molteplici implicazioni della condizione di ambivalenza, sviluppando un interessante dibattito cui vorrei qui rimandare (Berliner et al. 2016). Gli antropologi applicati vivono quotidianamente “nelle contraddizioni”: una condizione spesso non piacevole, ma che può rivelarsi generativa e che, come hanno scritto Kierans e Bell, la nostra disciplina dovrebbe coltivare in chiave analitica e metodologica: «Cultivating an analytic of ambivalence might be our best strategy for understanding what is going on – and arguably teaches us more about the character of social relations than a prefigured moral stance can» (2017: 38).

Migrantour, come ogni altro progetto di antropologia applicata, richiede agli antropologi coinvolti un costante esercizio di confronto con diversi livelli di governance istituzionale, con professionisti di altri settori lavorativi, con le richieste dei finanziatori e le aspettative dei beneficiari delle attività. La possibilità di aprire e sostenere una conversazione tra questi diversi attori, che operano con logiche e finalità molto diverse tra loro, si fonda in effetti sulla capacità di sviluppare e maneggiare tecniche di gestione che consentano di ottenere obiettivi politici.

Il richiamo di Mellino ai dati del rapporto Censis 2018, che certificano la segregazione dei lavoratori stranieri in nicchie occupazionali ad alto tasso di sfruttamento e senza alcuna interazione con il contesto sociale circostante, mi offre l’opportunità di approfondire il punto con un esempio concreto. Il riconoscimento della figura professionale dell’accompagnatore interculturale è stato ottenuto nel corso degli anni attraverso una continua mediazione da un lato con le associazioni di guide turistiche attive a livello locale e nazionale, preoccupate del possibile configurarsi di una pratica abusiva della professione; e dall’altro con i finanziatori europei del progetto, che a seconda della tipologia dei fondi erogati attuano restringimenti sull’eleggibilità dei beneficiari in base a criteri legati alla cittadinanza. L’azione congiunta dei diversi partner di Migrantour, che hanno operato ciascuno nel proprio campo d’azione (le ONG sul piano istituzionale, i tour operator su quello del mercato) ha permesso di configurare un nuovo profilo professionale legittimato anche al di là dello specifico ambito progettuale (Chiurazzi et al. 2019). Si tratta, a mio avviso, di un risultato eminentemente politico: la presa di parola dell’accompagnatore interculturale nella produzione del discorso relativo al patrimonio culturale e alle trasformazioni del territorio urbano.

Mi si permetta qui di riportare, evidentemente a livello aneddotico, le parole di un’accompagnatrice interculturale di Bruxelles. Gili, nata in Congo 49 anni fa, prima dell’emigrazione si è formata e ha lavorato come avvocato. Coinvolta nel progetto Migrantour a partire dal 2018, in occasione di un intervento pubblico tenuto all’Università di Torino lo scorso febbraio, si è così espressa:

Io ero abituata a essere stimata per il mio lavoro, e anch’io avevo stima di me stessa, prima di partire. Quando sono arrivata in Belgio ho dovuto imparare a stare zitta, a vergognarmi di quello che ero diventata agli occhi delle persone che incrociavo per strada. Posso dire che ho camminato a lungo con la testa china. Con il Migrantour ho di nuovo alzato lo sguardo. Non è qualcosa che gli altri hanno fatto per me, è non è stata l’unica cosa ad accadere. È stata parte di un cambiamento, di un processo che ho fatto per me stessa e su me stessa. Ma ora posso dire che quando accompagno le persone per Bruxelles, e mostro come alcuni dei palazzi e monumenti della città siano legati al razzismo e alle violenze che sono state compiute nel mio paese durante l’occupazione coloniale, sono di nuovo orgogliosa di quella che sono. Alcune delle persone del gruppo mi ascoltano con attenzione, altre sono costrette a farlo e si infastidiscono, non importa. La mia voce arriva a tutte forte e chiara.

Nel linguaggio dell’ideologia neoliberale che ispira i progetti europei, la testimonianza di Gili verrebbe probabilmente categorizzata come un esempio di empowerment. Ma guardando alla ben più nobile tradizione di studi evocata da Mellino in chiusura del suo intervento, non potremmo piuttosto leggerla come la traccia di un percorso di emancipazione e liberazione di una soggettività oppressa? Che poi questa, per farsi strumento di una lotta collettiva, abbia necessità di consolidarsi attorno all’idea di una “comunità patrimoniale”, come ho suggerito nell’articolo pubblicato sul precedente numero di Antropologia Pubblica, o piuttosto faccia ricorso a una qualche declinazione di “essenzialismo strategico” in chiave post-coloniale (Spivak 2004), implica delle fragilità che non possono essere negate. Del resto, la stessa Spivak ha ben evidenziato a suo tempo come certi errori siano necessari per ottenere tangibili cambiamenti sociali.

Vorrei soffermarmi infine su un aspetto su cui la sollecitazione di Mellino è particolarmente stimolante. Spero pertanto che altri colleghi interessati all’antropologia del turismo vorranno intervenire per contribuire ad aggiornare un dibattito la cui letteratura di riferimento è in effetti piuttosto datata, almeno per quanto riguarda l’Italia. Mi riferisco al nesso tra “turistificazione” e gentrificazione dello spazio urbano e della conseguente difficoltà a immaginare, a livello applicativo, forme di “turismo responsabile” che non siano implicitamente ancelle della lotta del capitalismo contro il “diritto alla città” (Harvey 2012).

Prendiamo l’esempio di Porta Palazzo, rione torinese dove è nato il primo itinerario Migrantour nel 2009 e dove anch’io vivo da molti anni. Certamente proporre oggi delle passeggiate turistiche in questo quartiere, rispetto a dieci anni fa, ha implicazioni ben più complesse. Per avere un quadro aggiornato della portata dei cambiamenti in atto, può essere certamente utile far riferimento al quadro che Giovanni Semi (2019), uno dei ricercatori più esperti in merito alle trasformazioni di questo territorio e più in generale dei processi di gentrification, ha recentemente tracciato su Il lavoro culturale. Nel condominio dove abito, e nel cui cortile dal 1995 si trova una delle principali sale di preghiere islamiche della città, negli ultimi tempi il flusso di persone temporaneamente residenti nei sei appartamenti disponibili sul sito di Airbnb si è fatto sempre più intenso. Un nuovo centro commerciale ha aperto nel cuore della piazza, mentre nei dintorni numerosi stabili vengono sgomberati per far spazio a nuove strutture ricettive per turisti e studenti. Quando gli attivisti anarchici ancora attivi in zona distribuiscono volantini denunciando quanto sta accadendo, inevitabilmente mi chiedo: Migrantour è parte del problema? Una possibile risposta l’ha scritta Sergio, 56 anni, di Pinerolo, compilando il questionario di valutazione al termine di una passeggiata di inizio giugno:

Io sono cresciuto nel quartiere, ma vivo fuori Torino da tanti anni. Mi sono iscritto al tour perché ultimamente Porta Palazzo è sempre al tg regionale, quindi volevo vedere con i miei occhi le novità. Il giro mi è piaciuto, ma su molti aspetti ci sto ancora pensando su, perché ha un po’ ribaltato tutto quel che mi aspettavo di trovare di bello e di brutto nel quartiere.

Un’esperienza turistica dunque che pone domande, fornisce elementi di riflessione e mina qualche certezza sulle “magnifiche sorti e progressive” della cosiddetta “riqualificazione”. Un esito per il quale non posso che ringraziare i docenti che hanno preparato gli accompagnatori interculturali torinesi a leggere la complessità del rapporto tra migrazioni e trasformazione urbana, dallo stesso Giovanni Semi a Pietro Cingolani e Barbara Sorgoni, e auspicare che altri colleghi, a partire da Miguel, vogliano accettare il mio invito a partecipare a momenti di discussione e formazione con i coordinatori del Migrantour nelle diverse città in cui il progetto è attivo.

Vorrei concludere tornando in qualche modo al punto di partenza del mio ragionamento e ricordando quanto scrisse Erve Chambers, che alcuni decenni orsono maturò una vasta esperienza nel campo dell’antropologia applicata al turismo. Un richiamo al senso che per ogni antropologo ha il vivere in uno stato di disagio dovuto alla perenne necessità di affermare il valore del proprio lavoro e al tempo stesso di decostruire continuamente le proprie certezze. Una lezione non solo per chi è impegnato nel Migrantour, ma ritengo per tutti coloro i quali vogliano seriamente confrontarsi con le applicazioni del sapere della nostra disciplina:

We are engaged in a struggle to demonstrate our worth in a world that seems disinterested if not hostile, and we are at the same time obligated to chip away at every foundation of our enterprise. Having begun to convince others that there is a valuable certainty in our work, we are ourselves less sure of where that certainty lies. This, I suggest, is a good course to be on, even if discomforting. It is the stirring of our critical sense (Chambers 1987: 329).

Bibliografia

Berliner, D., Lambek, M., Shweder, R., Irvine, R., Piette, A. 2016. Anthropology and the study of contradictions. Hau: Journal of Ethnographic Theory, 6 (1): 1–27.

Chambers, E. 1987. Applied Anthropology in the Post-Vietnam Era: Anticipations and Ironies. Annual Review of Anthropology, 16: 309-337.

Chiurazzi, R. Pozzi, G., Vietti, F. 2019. «L’accompagnatore interculturale. Turismo, migrazioni e patrimonio nella città che cambia», in Il ritorno a casa degli Ulissi. Le professioni al tempo della rigenerazione urbana. Bizzali, L. (a cura di). Pisa. Pacini Editore: 65-72.

Harvey, D. 2012. Il capitalismo contro il diritto alla città. Verona. Ombre Corte.

Kalir, B. 2019. Departheid. The Draconian Governance of Illegalized Migrants in Western States. Conflict and Society: Advances in Research, 5: 1-22.

Kierans, C., Bell, K. 2017. Cultivating ambivalence: Some methodological considerations for anthropology. Hau: Journal of Ethnographic Theory, 7 (2): 23-44.

Semi, G. 2019. Cosa succede a Torino? Il lavoro culturale, 21 febbraio 2019, http://www.lavoroculturale.org/cosa-succede-a-torino.

Spivak, G. C. 2004 [1999]. Critica della ragione postcoloniale. Roma. Meltemi.