Progettare insieme

Processi partecipativi a contrasto dell’homelessness tra antropologia e design

Valentina Porcellana

Università di Torino

Cristian Campagnaro

Politecnico di Torino

Table of Contents

Quando un’antropologa incontra un designer
All’inizio erano gli spazi
Il bello che cura. La costruzione di un metodo
Strada facendo
La svolta progettuale: “Costruire Bellezza”
Una nuova sfida: innovare i servizi per innovare i sistemi
Bibliografia

Abstract.  For several years now, we have been combining methods and tools belonging to both anthropology and design, with the aim of testing out innovative solutions to homelessness. From the beginning of our interdisciplinary research in 2009 in several Italian cities, it became evident homelessness comprises far more complex circumstances than just the lack of a home. We have chosen not to be simple observers of a situation of services deterioration but to be agents of change, despite all the ethical and methodological risks that this choice involves. The best way to try to understand something is to change it. In this sense, for us, entering the homelessness services system means to understand the workings of the institution from within and to work with all players to fully meet people’s needs. The change we experienced is the result of an incremental and participatory transformational approach that fosters a positive outlook and moves towards the right to the dignity related to home and aspirations.

Keywords.  Design anthropology; homelessness; participatory action research; anthropology of welfare; co-design.

Quando un’antropologa incontra un designer

«C’è una leggenda metropolitana che circola su come ci siamo conosciuti: è quella che ci siamo incontrati in piazza», racconta Cristian a proposito di come lui, architetto e designer del Politecnico e io, antropologa neoassunta all’Università di Torino, ci siamo trovati a lavorare insieme sui temi dell’homelessness [1]. Era il 2009. Io da pochi mesi avevo intrapreso una ricerca sul sistema di accoglienza per adulti “senza dimora” a Torino, invitata da una cooperativa sociale della città. Ben presto mi ero resa conto non soltanto della precarietà delle condizioni di molte delle strutture di accoglienza, che contribuivano a rendere ancora più critica e alienante la condizione di “senza dimora” e difficile il lavoro da parte degli operatori, ma anche del particolare clima di tensione tra amministrazione comunale e cooperativa. La situazione di conflitto era l’esito della radicale trasformazione dei rapporti tra committente pubblico ed enti del terzo settore avvenuta a partire dal 2000. Dopo due decenni di coprogettazione — l’amministrazione torinese era stata una delle prime a organizzare una rete a contrasto dell’homelessness a partire dagli anni Ottanta del Novecento — il rapporto si era fatto sempre più “verticale” e il ricorso agli appalti e alle concessioni, che avevano sostituito gli affidamenti, aveva creato forti tensioni e inasprito la competizione tra cooperative. Il cambio di dirigenza all’interno del Servizio Adulti in Difficoltà (SAD) del Comune di Torino aveva determinato una svolta decisiva rispetto all’affidamento pubblico dei servizi. A maggio 2009, a pochi mesi dall’inizio del mio lavoro sul campo, la decisione da parte dell’amministrazione di chiudere uno dei dormitori della città era stata l’occasione per far esplodere la protesta da parte degli operatori della cooperativa che si sentivano esclusi dalle scelte che riguardavano il loro lavoro e l’accoglienza delle persone ospitate nei loro servizi. Era stato in quei giorni di continue riunioni interne alla cooperativa e di assemblee pubbliche che era nata l’idea di ripensare, in maniera partecipata, gli spazi di accoglienza. Avevo proposto agli operatori di avanzare una proposta al SAD, dato che la chiusura del dormitorio intorno al quale era cresciuta la protesta non soltanto era inevitabile, ma anche necessaria, date le pessime condizioni in cui l’edificio si trovava. La rielaborazione di quelle prime riflessioni, trasformate in manifesti da un grafico specializzato in comunicazione sociale, era stata presentata in piazza, una sera di giugno, in occasione di una manifestazione in cui gli operatori avevano voluto portare il tema dell’homelessness all’attenzione della cittadinanza.

Anche se forse non ci siamo conosciuti davvero quella sera durante la manifestazione di piazza, poche settimane più tardi Cristian e io ci eravamo incontrati per capire se e come potevamo costruire qualcosa insieme, tra design e antropologia, a partire dalle strutture di accoglienza per persone “senza dimora” e dal loro ripensamento in termini di benessere, sia per gli ospiti sia per gli operatori.

Fin dai primi mesi di lavoro comune, avevamo avuto la consapevolezza che le nostre discipline potessero intrecciare metodi e strumenti per affrontare i temi connessi alla grave emarginazione adulta nelle sue diverse componenti. Eravamo e siamo tuttora convinti che le risposte per fronteggiare il fenomeno debbano essere dinamiche e multidimensionali, che sia necessario costruire reti estese di collaborazioni e di saperi, esplorando tutte le possibilità che possono nascere dall’alleanza scientifica tra ricercatori di discipline diverse e con altri attori: enti pubblici, terzo settore, fondazioni private, cittadini. Con l’intento di lavorare con le persone anziché per o peggio sulle persone, abbiamo cercato di integrare i metodi e gli strumenti dell’antropologia con quelli del design a partire da un progetto che avevamo chiamato “Abitare il dormitorio”.

All’inizio erano gli spazi

“Abitare il dormitorio” è un progetto di ricerca-azione incentrato sul ripensamento partecipato degli spazi dell’accoglienza per le persone in condizione di homelessness, nella direzione della qualità della vita delle persone che vi abitano e vi lavorano. Il presupposto del progetto, su cui abbiamo costruito gli interventi progettuali a Torino e in altre città italiane, è che luoghi e ambienti gradevoli, adatti alle esigenze di chi li fruisce e forieri di opportunità di relazione possano garantire benessere, dignità e sostegno a chi, come le persone “senza dimora”, debbano riacquistare la propria autonomia personale e abitativa. Fin dall’inizio del progetto, inoltre, ci siamo resi contro del fatto che questa prospettiva, che abbiamo sintetizzato nella formula “il bello che cura” (Campagnaro, Porcellana 2013), potesse essere ulteriormente potenziata attraverso un approccio partecipativo e centrato sulla persona come portatrice di risorse e competenze.

I primi anni del nostro lavoro comune erano trascorsi, dunque, a sperimentare un metodo tra antropologia e design. Il paradigma della design anthropology, che oggi ha trovato un suo spazio di riconoscimento interdisciplinare (Clarke 2011; Gunn et al. 2014), non aveva ancora preso una forma compiuta all’inizio del nostro percorso. Inizialmente, quindi, ci percepivamo come piuttosto soli e in parte marginali, anche rispetto alle nostre discipline. Per quanto un posizionamento dai margini consenta punti di vista inediti e apra scenari inattesi, si tratta anche di un luogo scomodo, con il quale è necessario confrontarsi. L’antropologia che abbiamo scelto di declinare non è solo applicata, ma è soprattutto implicata nel contesto sociale, ha un carattere trasformativo e non si limita all’osservazione, che già di per sé non è mai neutrale o priva di conseguenze; essa è intesa in un’ottica di contributo al cambiamento, in particolare nelle situazioni di disuguaglianza e ingiustizia sociale. Come scrive Miriam Castaldo, questo tipo di antropologia è

disposta a ibridarsi, a ridisegnare i propri limiti disciplinari, a farsi compenetrare dal dubbio e dall’incertezza, dalla paura di perdere confini, strumenti e competenze e (s)oggetti faticosamente conquistati nel campo delle scienze sociali; è un’antropologia disposta alla transdisciplinarietà, a mediare l’individualità e a risignificarla, non senza riconoscerne la profonda complessità (Castaldo et al. 2014: 39).

Il design sociale e sistemico, da parte sua, antepone al ruolo più tradizionale di problem solver un approccio “aperto” (Ingold 2001), “creativo, critico e dialogico” (Manzini 2015), caratterizzando la progettazione come “flessibile e adattiva” (Barab et al. 2004), in modo che sia eventualmente replicabile in contesti diversi. Il design ha dunque tentato di abbandonare la via sicura della progettazione intesa come potere e quella del progettista come colui che detiene la “visione del futuro” insieme alla capacità ideativa e tecnica di realizzarlo, a favore di un approccio più orizzontale e dialogico.

In questa accezione, design e antropologia non mettono in campo soltanto i loro metodi, ma “prendono un impegno” (Gunn et al. 2014) con i partecipanti ai processi che, insieme, si co-costruiscono. Seppure in contesti e situazioni diverse, Cristian e io avevamo già sperimentato questo tipo di approccio anche prima di iniziare a lavorare insieme, ma questa scelta si era rafforzata rispecchiandoci uno nell’altra: seppure nella diversità, ci eravamo riconosciuti non tanto come simili, quanto come complementari.

Tra il 2009 e il 2010 l’osservazione che era iniziata all’interno delle strutture di accoglienza della Città di Torino gestite dalla cooperativa che mi aveva contattata inizialmente si era estesa a tutti i dormitori pubblici della città. All’informalità che aveva caratterizzato le visite dei primi mesi si stava sostituendo una progettazione che coinvolgeva l’amministrazione comunale e in particolare la dirigenza del SAD. A circa un anno dall’avvio della mia ricerca si era verificato un interessante riposizionamento: partita da una posizione interna ma “laterale”, come quella che mi aveva garantito la cooperativa, avevo allargato man mano la visuale coinvolgendo altre cooperative e ora potevo finalmente confrontarmi anche con l’amministrazione pubblica, in modo da poter osservare il sistema da varie angolazioni e ascoltare tutti gli attori coinvolti. Questo nuovo posizionamento era dovuto in buona parte alla presenza di Cristian e all’interesse che suscitava il design in un contesto apparentemente così lontano dai suoi interessi, come quello degli spazi e dei servizi di accoglienza per persone “senza dimora”. Man mano, dunque, avevamo coinvolto funzionari e operatori del SAD, insieme a quelli delle cooperative, in diverse iniziative didattiche, in particolare seminari e lezioni aperte ai nostri studenti di design e di scienze dell’educazione. Anche su questo punto Cristian e io ci eravamo trovati d’accordo fin dall’inizio: il coinvolgimento degli studenti faceva parte del nostro modo di intendere la ricerca e i momenti di formazione e i laboratori erano parte integrante del processo di ricerca-azione che stavamo costruendo. Se gli studenti di Disegno industriale stavano affrontando per la prima volta il tema dell’homelessness nel loro percorso di studi, non era molto diverso per gli studenti dei corsi di laurea in Scienze dell’Educazione e in Educazione Professionale. Durante le interviste che avevo realizzato nei mesi precedenti con i coordinatori di alcuni servizi di accoglienza notturna era emerso, infatti, che non erano molti i giovani educatori disposti a mettersi alla prova in questo tipo di strutture.

Invitare in aula gli operatori a parlare del proprio lavoro era stato un modo per affrontare temi poco dibattuti nei diversi percorsi di studio, ma anche una modalità per costruire e rafforzare la fiducia che si stava costruendo con gli attori del sistema, riconoscendoli come veri e propri esperti e restituendo loro il valore dell’esperienza che avevano maturato in decenni di lavoro nell’ambito della grave emarginazione. Nel confronto che avveniva nelle aule universitarie, in un luogo diverso e “neutro” rispetto alle consuete occasioni di incontro tra funzionari del SAD e operatori delle cooperative, era stato possibile per loro percepirsi più vicini di quanto le tensioni degli ultimi anni facessero pensare. Era stato importante riconoscersi come “alleati” contro un fenomeno sempre più ampio e diversificato come quello della grave emarginazione adulta, anziché nemici a causa della burocratizzazione del sistema. Non si trattava, infatti, di trovare “colpevoli” per la condizione in cui versavano le strutture di accoglienza in città, ma al contrario di creare nuove alleanze per poter trasformare ciò che non appariva più adeguato e dignitoso.

Oltre ai momenti didattici, che per superare una visione soltanto locale del fenomeno avevano coinvolto anche la fio.PSD, la Federazione Italiana degli Organismi per le Persone Senza Dimora, stavano prendendo forma alcuni progetti ideati dagli studenti di Cristian, all’interno del corso di Disegno industriale. Gli oggetti, seppure nella loro forma embrionale di prototipi, avevano consentito di rendere visibile a tutti il significato di ciò che stavamo iniziando a sperimentare. Grazie a questo processo di “visualizzazione” noi stessi avevamo colto degli aspetti ai quali non avevamo pensato, poiché «il mezzo visivo diventa, anche per l’autore dell’indagine scientifica, una chiave di accesso alle implicazioni più implicite e indirette del proprio lavoro» (Bougleux 2006: 196). Un’altra modalità di “visualizzazione” era stata la possibilità di visitare insieme agli operatori e agli ospiti gli spazi di accoglienza. Camminare insieme e ascoltare i loro vissuti legati a quei luoghi aveva consentito l’emergere di nuove visioni dall’interno oltre a consentirci di ricostruire in maniera dettagliata la mappa dei servizi di accoglienza della città. Come sostiene Tim Ingold, infatti, camminare non è soltanto muoversi nello spazio, ma è un modo per conoscere l’ambiente «attraverso il contatto con i piedi, ma anche grazie alle vedute e all’ascolto dei suoni che il movimento permette» (Ingold 2001: 73). Questi elementi sarebbero diventati parte integrante del nostro modo di lavorare anche negli anni successivi[2].

Questa prima fase di lavoro si era conclusa con una mostra che presentava 45 progetti che gli studenti di design avevano realizzato dopo il lungo percorso condiviso in aula con gli operatori della cooperativa e con i funzionari del SAD. “Se il design entra in dormitorio. Cosa succede se 120 studenti del Politecnico diventano progettisti per le persone senza dimora”: questo era il titolo del comunicato stampa che l’amministrazione comunale aveva diffuso in occasione dell’inaugurazione della mostra il 15 dicembre 2010.

È abbastanza insolito – aveva commentato l’Assessore ai Servizi sociali – che due facoltà universitarie si mettano in relazione con i servizi sociali della città e che chiedano ai loro allievi di occuparsi di questioni particolari e forse anche dimenticate dalla gente, come l’accoglienza in bassa soglia[3]. La città in questi anni ha cercato di investire le risorse che aveva a disposizione per cambiare le modalità e gli approcci di accoglienza e i lavori dei ragazzi penso che siano un grande stimolo per i nostri operatori per ripensare e innovare ciò che già stanno trasformando[4].

Il percorso progettuale svolto con gli studenti ci aveva reso evidenti alcuni elementi del processo partecipativo a cui avevamo dato avvio. Da una parte, il coinvolgimento diretto degli operatori aveva promosso progettualità attente ai bisogni reali e di estrema concretezza. Al momento della restituzione da parte degli studenti, i progetti erano stati accolti con molto consenso sia da parte degli operatori, sia da parte dei dirigenti e degli amministratori pubblici – come le parole dell’assessore avevano sottolineato – poiché si riconoscevano in essi. Per quanto preliminari, le proposte incarnavano, nelle forme di un progetto possibile, accessibile e adeguato, quelle istanze di cambiamento a cui tutti aspiravano da tempo. Dall’altra parte, il meccanismo partecipativo aveva valorizzato le competenze e le esperienze degli operatori; essi si erano sentiti gratificati dall’ascolto attento e motivato degli studenti e dalla forma stessa dei progetti che avevano tenuto seriamente in conto le loro esperienze lavorative quotidiane e le istanze di benessere e di cittadinanza delle persone “senza dimora”. I progetti e le analisi di scenario che li istruivano avevano una particolare forza perché, pur essendo estremamente aderenti alla realtà, la criticavano dall’interno e suggerivano modifiche pragmatiche e incrementali; avevano inoltre un forte carattere relazionale e comunitario in cui tutti i partecipanti al percorso potevano riconoscersi.

Il bello che cura. La costruzione di un metodo

Chiusa una fase di lavoro, che potremmo definire preparatoria, si stava aprendo la vera e propria fase di sperimentazione del metodo. Nel mese di giugno 2011 il SAD ci aveva proposto di visitare la casa di ospitalità notturna di via Sacchi, non lontana dalla stazione ferroviaria di Porta Nuova, nel centro della città. I locali ospitavano, oltre al dormitorio di prima accoglienza, un ambulatorio sociosanitario e la sede dell’educativa territoriale diurna; gli spazi erano stati concessi in comodato d’uso dalla Rete Ferroviaria e stavano per essere ristrutturati grazie a un finanziamento privato ottenuto dal gruppo di cooperative che aveva in appalto i servizi. Il dormitorio sembrava il luogo adatto per verificare concretamente il metodo partecipativo del “bello che cura” coinvolgendo nella progettazione dei nuovi spazi gli operatori e gli ospiti. Dalla teoria avevamo la possibilità di passare alla pratica, inserendo il nostro intervento all’interno della ristrutturazione generale dei locali. Da una parte conoscevamo ormai a fondo il sistema dei servizi e avevamo creato un rapporto di fiducia con i funzionari pubblici e con gli operatori delle cooperative; dall’altra, la nostra posizione esterna al sistema ci permetteva di proporre soluzioni innovative, “osando proposte al di là dell’esistente” come sosteneva Cristian.

Tra l’estate e l’inverno del 2011 avevamo organizzato una serie di focus group all’interno della struttura coinvolgendo i funzionari del SAD e gli operatori dell’équipe che gestiva il servizio, in modo da raccoglierne la storia, le consuetudini e le criticità. Nonostante la riprogettazione delle strutture architettoniche fosse già stata stabilita, alcuni elementi potevano ancora essere discussi, come l’arredo e la decorazione degli interni, temi su cui avevamo coinvolto anche gli ospiti e gli studenti. Man mano che i mesi passavano, anche il nostro intervento prendeva forma. Nei primi giorni di marzo 2012 era stato organizzato il workshop “Social colors of housing”: in questa occasione gli operatori dell’équipe, gli ospiti di via Sacchi e alcuni studenti del Politecnico avevano preso parte alla scelta e alla realizzazione della decorazione interna del dormitorio[5]. Al termine di un animato processo di brainstorming e di condivisione di idee, gli studenti avevano rielaborato in cinque diversi progetti le proposte emerse. Le preferenze degli ospiti avevano prevalso: sulle pareti sarebbe stata raccontata la storia di un uccellino che, lungo i corridoi e all’interno delle stanze, cresceva e diventava un’aquila pronta a prendere il volo. Nonostante operatori e designer preferissero soluzioni più “astratte”, gli ospiti erano rimasti fermi nella loro decisione: l’uccellino disegnato all’ingresso, proprio al di sopra della scrivania degli operatori, che spiccava il volo dalle mani che lo proteggevano, fino a diventare forte e vigoroso, raccontava la loro storia.

Oltre alla progettazione, gli ospiti – retribuiti per il loro impegno attraverso l’attivazione di uno specifico tirocinio – si erano impegnati anche nella realizzazione delle decorazioni, nel montaggio dei nuovi arredi e nella documentazione fotografica del percorso, grazie alla partecipazione di un fotografo professionista, dipendente del Comune. Sotto la guida di un giovane writer, la squadra di lavoro aveva iniziato a dipingere le pareti; alla fine della settimana di workshop tutti apparivano soddisfatti. Gli studenti avevano potuto provare la propria capacità creativa in un contesto di necessità reale; gli ospiti erano stati protagonisti del rinnovamento degli spazi in cui vivevano, partecipi di un progetto sociale condiviso in cui le loro competenze erano state valorizzate; gli operatori potevano entrare in una struttura che rispondeva, almeno in parte, alle loro esigenze. Noi, d’altra parte, avevamo potuto mettere alla prova il nostro metodo interdisciplinare e partecipativo. All’inaugurazione, il 30 maggio 2012, non mancava nessuno, nemmeno il sindaco. Arjun Appadurai (2014) l’avrebbe definita una “azione di politica della visibilità”, in grado di capovolgere, almeno momentaneamente, l’invisibilità in cui erano costrette troppe persone in città.

Il nostro intervento in via Sacchi aveva interessato la dirigenza della fio.PSD che, nei mesi successivi, ci aveva proposto di collaborare ad altri progetti a livello nazionale attraverso la stipula di un protocollo di intesa tra la Federazione e i nostri dipartimenti universitari. Tra il 2012 e il 2014 l’impegno era stato quello di riprogettare diversi luoghi dell’accoglienza diurna e notturna anche a Verona, Agrigento e Milano. Pur nella diversità dei contesti e delle sfide progettuali che abbiamo incontrato, la priorità è sempre stata ripensare i servizi come dispositivi relazionali, capaci di essere “ambienti attivatori”,

dove relazioni positive possono promuovere il benessere di tutti i partecipanti; […] dove le persone possono sperimentare un senso di appartenenza, […] dove tutti coloro che sono coinvolti contribuiscono al benessere degli altri; […] posti dove le persone possono imparare nuovi modi di relazionarsi; […] posti che riconoscono i contributi di tutte le parti nelle relazioni di aiuto (Cockersell 2014: 71).

L’approccio adottato dal gruppo di ricerca, e che abbiamo condiviso con le organizzazioni con cui abbiamo progettato gli interventi, è stato quello di partire dalle persone ‒ utenti dei servizi e operatori ‒, dalle loro aspirazioni ed esperienze per sviluppare i progetti e realizzarli, ma anche gestirli e mantenerli nel tempo, al di là delle fasi di avvio. Per fare questo è sempre stato necessario riconoscere i diversi attori coinvolti come co-creatori di un’idea di cambiamento verso la bellezza come diritto di benessere e di cittadinanza. A questa idea di partecipazione, che ci appariva necessaria per ragioni di giustizia e democrazia, ma anche per ragioni di economia e di efficacia dei processi, abbiamo finalizzato metodi, processi e strumenti che abbiamo testato e affinato nel tempo. Questo è avvenuto in un continuo dialogo, riflessivo, critico e costruttivo, all’interno del nostro gruppo di lavoro – che nel frattempo si era ampliato coinvolgendo giovani designer e antropologi – con gli operatori sociali e con le loro organizzazioni.

Nel concreto, le progettualità degli interventi, architettonici e di design, hanno previsto diversi obiettivi specifici riguardanti gli ambienti: rileggere e configurare gli spazi esistenti o di nuova costruzione coniugando le caratteristiche strutturali e compositive con le necessità di benessere, privacy e socialità; attrezzare gli ambienti con arredi, accessori e oggetti adeguati alle funzioni loro assegnate e alle necessità quotidiane dei fruitori; coinvolgere nel progetto e nella realizzazione gli abitanti di quei luoghi al fine di promuovere senso di appartenenza, cura e attenzione; aprire a cittadini, studenti, volontari le attività di co-creazione, promuovendo nel “fare insieme” forme di reciprocità e di coesione.

Accompagnare la trasformazione dei centri di accoglienza per le persone “senza dimora” verso una dimensione di dignità e rispetto significa mettersi in ascolto, dare voce alle aspettative dei beneficiari, accoglierle, custodirle e trasformarle in atti di progettualità di cui essi stessi si sentano artefici; significa valorizzarne le capacità e le esperienze, anche quelle più quotidiane, attraverso un lavoro creativo collettivo capace di generare un contesto di confronto e un’occasione di apprendimento reciproco fra i partecipanti. Significa inoltre stimolare il protagonismo di tutti, facendo emergere le personalità di ognuno e intrecciando positivamente le differenze; significa inoltre operare nella consapevolezza dei limiti e delle resistenze dei sistemi e verso un cambiamento che non resti una promessa e un’illusione, ma che sia azione concreta e fattiva. Dovendo descrivere il suo coinvolgimento nel percorso di ricerca-azione, M., un funzionario del SAD, parla della fatica di questo processo, soprattutto nelle sue fasi iniziali, ma anche dello stimolo ad immaginare che ne ha ricavato:

Il progetto scardina delle logiche di intervento, che adesso è davvero necessario scardinare. In questa fase o troviamo una nuova modalità di lavoro con le persone o prima o poi soccombiamo, per la carenza di organico, per l’aumento dei casi. Un punto di crisi che può anche favorire lo sviluppo di modalità diverse, che non significhino però l’arretramento del pubblico rispetto a diritti e doveri[6].

Tutte le azioni che abbiamo sperimentato in questi anni rispondono a questa strategia partecipativa e inclusiva, ma anche dinamica, aperta e “scalabile” in base alle condizioni di contesto e al sistema di attori coinvolto. Il modello, seppure flessibile, si snoda in quattro fasi fondamentali durante le quali design e antropologia conducono i processi e le azioni, vi partecipano concretamente, si scambiano ruoli e condividono strumenti, supportandosi reciprocamente e dialogicamente. La prima fase è quella in cui viene analizzata e formalizzata la domanda di progetto; la seconda prevede la co-costruzione di visione collettiva che indica il cambiamento e il percorso da percorrere; la terza riguarda il co-design degli interventi e, infine, dove possibile, la pratica partecipata di trasformazione dei luoghi attraverso un processo di co-costruzione. Ognuna di queste fasi beneficia del workshop come momento di lavoro aggregante, intenso e inclusivo: esso si svolge negli stessi luoghi del progetto ed è caratterizzato da tempi stra-ordinari durante i quali i partecipanti sono coinvolti in attività con cui pensare e produrre quelle trasformazioni utili a restituire dignità ai luoghi e agio alle persone. I workshop sono eventi che creano spazi di partecipazione e di riflessione collaborativa tra tutti i portatori di interesse, accompagnandoli in una dimensione entusiasmante di possibilità e di creatività.

Sara Ceraolo, designer che ha contribuito al progetto fin dalle sue prime fasi, ha evocato l’immagine di una “invasione positiva” per raccontare la presenza di un gruppo “straniero” in frenetica attività nei luoghi della struttura, che progressivamente cambia sotto la spinta trasformativa delle azioni di co-design e co-costruzione (Campagnaro et al. 2018). I concept, ovvero gli elaborati finali del processo, concretizzano i pensieri collettivi in prestazioni, forme e colori e, in una prospettiva di innovazione design driven (Verganti 2009), rappresentano promettenti opportunità da cui partire per innovare gli scenari dell’accoglienza abitativa.

Oltre ai possibili esiti, un elemento particolarmente significativo dell’esperienza di “Abitare il dormitorio” è il processo: l’incontro di competenze, sensibilità, esperienze biografiche diverse produce il migliore habitat per generare e promuovere una cultura del rispetto e dell’inclusione. All’interno dei workshop, i partecipanti danno e ricevono con la stessa intensità, imparano e insegnano, perché la collaborazione dialogica che si genera è «uno scambio in cui i partecipanti traggono vantaggio dall’essere insieme» (Sennett 2012: 15).

Per analizzare il processo nel suo divenire sono stati utilizzati strumenti di analisi e raccolta dati quali le interviste qualitative, i focus group e i videotour all’interno degli spazi[7]. Questi dati integrano le informazioni raccolte attraverso l’osservazione partecipante che vede designer e antropologi stare nei contesti e osservarli dall’interno, in modo da cogliere i diversi punti di vista e metterli in valore. È così che, perseguendo gli esiti trasformativi auspicati da tutti e valorizzando il contributo pratico e teorico di ogni partecipante, diventa possibile promuovere soluzioni e interventi riconoscibili e sottoscrivibili come comuni e condivisi da coloro che fruiranno di questi spazi “migliorati”.

Strada facendo

Verona, Milano e Agrigento, insieme a Torino sono, come accennato, le città in cui abbiamo sperimentato “Abitare il dormitorio” tra il 2012 e il 2014. Ognuna di queste esperienze rappresenta una tappa significativa in un processo di affinamento degli strumenti e delle azioni congiunte delle due discipline, impegnate a interrogarsi sul significato di questi progetti all’interno di una cornice di trasformazione dei servizi e dei sistemi. Ciascuna sperimentazione può essere intesa come la declinazione dell’intervento in termini di scala e di risultati, esempio di come la modellizzazione di un metodo debba tenere conto delle situazioni specifiche e dei contesti.

Presso la “Locanda del Samaritano”, a Verona, la collaborazione e la partecipazione alla costruzione della domanda iniziale da parte di operatori, ospiti e volontari del dormitorio e del centro diurno aveva evidenziato tre specifici temi rispetto a cui progettare spazi e oggetti: il pomeriggio, che trascorreva tra vita collettiva ed esigenze di privacy, il momento della cena nella mensa comune “mangiata in fretta e con la testa sul piatto” e la notte da condividere in una stanza a più letti con persone sconosciute. Dopo una prima breve, ma intensa, “immersione” nella vita della cooperativa, Cristian e io eravamo pronti a farci raggiungere da un nutrito gruppo di studenti di design e da cinque antropologi con esperienze in campo educativo che avrebbero dato vita, insieme a noi e agli attori veronesi, a un workshop residenziale di cinque giorni. La rapidità e l’intensità con cui si era svolto il laboratorio avevano agito efficacemente sulle resistenze al cambiamento che caratterizzano tutte le organizzazioni. Il valore del processo stava proprio nella moltiplicazione delle potenzialità di ognuno, poiché il workshop – denso di persone, di relazioni, di pensieri – contribuiva ad attivare e ad accelerare i processi. Ciascuno dei temi emersi dall’osservazione, dai focus group e dai videotour realizzati in preparazione del workshop, ulteriormente indagati nel corso della settimana di residenza degli studenti, aveva dato vita a degli oggetti concreti, realizzati insieme agli ospiti e agli operatori del dormitorio. Le grandi poltrone “Ugo” e “Amanda” – perché tutti i partecipanti, oggetti compresi, hanno un nome proprio –, erano state costruite recuperando bancali e creando cuscini. Con le loro sponde alte, esse davano forma all’esigenza di riservatezza che era emersa e ricreavano quello spazio personale all’interno di un ambiente affollato. Nella sala mensa, i tavoli su cui si condividevano velocemente i pasti per rispettare i turni previsti erano diventati rotondi per smussare le differenze e accogliere senza gerarchie e capi tavola. Al centro, ciascuno aveva un buco per ospitare una pianta che cresceva e diventava una traccia costante di cura e attenzione. Nelle stanze dell’accoglienza notturna, il “sistema letto” comprendeva anche un armadio, un comodino e un separé che permettevano di organizzare e proteggere le proprie cose garantendo una certa riservatezza.

Il 27 aprile 2013, nonostante una giornata di fitta pioggia, erano centinaia le persone, comprese le autorità politiche e religiose, presenti all’inaugurazione. Le parole di M., uno degli ospiti della struttura che aveva partecipato all’intero processo, erano state stampate anche sul bollettino del centro di accoglienza distribuito durante l’evento:

Il workshop è stata un’esperienza meravigliosa: sia per l’idea in sé che per il dialogo, lo scambio che si è creato con i ragazzi venuti qui. Erano così simpatici, educati, con loro abbiamo parlato di tutto, non solo del lavoro. G. e io siamo stati con loro per tutto il tempo, ed è stato importante accorgerci che c’era davvero uno scambio, che anche loro stavano imparando qualcosa da noi. La domenica, anche se il workshop era finito, sono rimasti qui apposta per stare insieme a noi. Alla fine, tutti erano commossi. Quando succedono queste cose, da fuori magari non sembra così importante, ma per noi è tantissimo: è tanto anche una sola parola. Quando qualcuno viene da fuori e ti tratta semplicemente come un essere umano, alla pari o com’è successo questa volta anche di più che alla pari, ti fa sentire che sei importante, ti aiuta a capire che anche tu puoi dare qualcosa agli altri. Magari capitasse più spesso!

Ad Agrigento il progetto si era confrontato con una domanda molto diversa che aveva a che fare con l’idea che «creare ambiti di vita normalizzanti per le persone (senza dimora), implica un attivo lavoro con il territorio: il lavoro con i proprietari; la mediazione con il vicinato e il sostegno nella conoscenza del quartiere»[8]. L’intervento all’interno del grande edificio del centro storico della città che ospitava un progetto di housing sociale aveva fatto emergere la necessità di aprirsi al quartiere, alle relazioni con i “vicini di casa” in modo che i servizi di accoglienza non fossero percepiti come un corpo estraneo e separato rispetto al contesto. Il segno più evidente del progetto di “ricucitura” tra dentro e fuori era stata una piccola porta colorata di rosso che si apriva su un cortile aperto alla città e un mancorrente, anch’esso colorato di rosso, che da una scalinata pubblica conduceva alla soglia dell’edificio. Segni minimi, ma significativi per indicare che qualcosa stava avvenendo e che l’apertura di un housing sociale corrispondeva a un più ampio progetto di rinnovamento del quartiere che prevedeva l’erogazione di servizi di vicinato presso un luogo storico che ritornava della città e che avrebbe accolto, servito e fatto incontrare tutti i cittadini.

Milano è la città in cui il progetto “Abitare il dormitorio” è stato sottoposto alle maggiori sollecitazioni di processo e di sistema. Nel corso di una lunga collaborazione con la Fondazione Progetto Arca, il metodo partecipativo si è confrontato con diversi contesti, progettando con e per categorie di beneficiari differenti – persone “senza dimora” con problemi di dipendenza, giovani richiedenti asilo, madri sole con bambini – e agendo nel rispetto dei differenti mandati dei servizi. È stato necessario da una parte rispettare una certa coerenza tra interventi declinati su luoghi diversi di una stessa organizzazione e, dall’altra, di caratterizzare e riconoscere le specificità degli ambienti così come scaturivano dalla co-progettazione. Anche l’idea di straordinarietà, di tempo sospeso tipico delle azioni progettuali sperimentate altrove è stata fortemente sollecitata dalla ciclicità degli interventi. Essi presupponevano processi simili che ripetendosi nel tempo avrebbero potuto indebolire quell’idea di “invasione creativa” e trasformativa a favore della routine. La progettazione degli interventi – il trattamento pittorico delle pareti interne, gli arredi degli spazi comuni e il sistema di orientamento e comunicazione – e la loro realizzazione sono avvenuti con modalità aperte e accessibili, in modo da permettere il coinvolgimento diretto degli ospiti delle diverse strutture. Scegliendo tecniche e modalità costruttive semplici e rapide, ancorché efficaci, è stato possibile non escludere chi era appena arrivato e non aveva partecipato alle fasi precedenti del processo.

La svolta progettuale: “Costruire Bellezza”

In ciascuna delle esperienze vissute in questi anni, il cambiamento di paradigma che abbiamo proposto a enti e istituzioni e, nel concreto, agli operatori che lavorano nei servizi e agli utenti stessi, è il passaggio “dal bisogno al desiderio” (Porcellana 2016). Introiettare il paradigma della mancanza significa, secondo Miguel Benasayag (2002), concepirsi come “esseri della mancanza” e non riuscire a pensare il presente nella sua pienezza. La proposta ha stimolato, fin da subito, domande, riflessioni, curiosità, così come ha suscitato resistenze, sia nelle persone sia nelle istituzioni. I primi esiti positivi, però, ci avevano dato la conferma che era possibile prendersi cura di sé e degli altri in maniera diversa. Soprattutto quando le esperienze hanno avuto breve durata, eravamo consapevoli di quanto la “memoria di forma” potesse tornare a dare al servizio e alle azioni quotidiane l’assetto precedente al nostro intervento. Non avevamo la presunzione di pensare che pochi giorni di lavoro, seppure molto intensi, potessero modificare l’esistente, ma eravamo convinti che sperimentare concretamente soluzioni alternative contribuisse a pensare possibilità “altre”, a nutrire l’immaginazione e la capacità di aspirare (Appadurai 2011). Nel 2014, su richiesta dell’amministrazione comunale torinese, eravamo pronti a sperimentare una serie di workshop in occasione della riapertura del dormitorio pubblico di via Ghedini, nella zona nord della città, dopo un periodo di chiusura e di lavori strutturali.

Proprio allora, però, aveva preso avvio, senza che noi ne fossimo pienamente consapevoli, almeno inizialmente, un’ulteriore fase della ricerca che, secondo l’analisi di Neresini, corrisponde al momento della “svolta creativa”. La svolta può avvenire per superare un momento di stallo o essere frutto di «una nuova associazione tra elementi noti provocata da un evento, o da una serie di eventi, “casuali”» (Neresini 1994: 66). Nella nostra esperienza, il “caso politico” delle tende del dormitorio di via Ghedini, come avremo modo di descrivere più avanti, e l’inserimento del nostro progetto all’interno di una più ampia sperimentazione che coinvolgeva il quartiere in cui aveva sede il dormitorio, si erano rivelati quegli elementi non previsti che avevano impresso un nuovo corso al progetto. Avevamo candidato il nuovo progetto, intitolato “Costruire Bellezza”, tra le azioni di sistema finanziate da Caritas Italiana attraverso il Comitato promotore S-Nodi Gabriele Nigro. Cristian ricorda così quella fase del nostro lavoro:

Stranamente la nostra proposta a S-Nodi non era stata quella di mettere a posto il dormitorio di via Ghedini, ma di provare a vedere se fossimo in grado di replicare costantemente quello stato di benessere che avevamo visto nelle persone facendo delle cose che fossero strettamente connesse alle loro competenze. Lo “spostamento” progettuale è stato: proviamo a lavorare sui workshop dimenticandoci dello spazio. Proviamo a farlo a partire dalle persone, da quello che sanno fare; proviamo a proporre loro di farsi coinvolgere in questo processo dando quello che sanno dare e sviluppando dei prodotti, dei servizi, dei momenti straordinari, in cui il fine ultimo non è realizzare qualcosa come in “Abitare il dormitorio”, ma realizzare qualcosa che faccia stare bene le persone e le faccia sentire dentro un processo, riconosciute per quello che sanno fare. A Verona abbiamo lavorato sulle competenze delle persone per realizzare dei luoghi adeguati e ha dato come frutto il benessere delle persone. Qui paradossalmente abbiamo invertito le cose: il pretesto è diventato lo spazio o qualunque altra cosa facendo la quale lavoriamo e valorizziamo le competenze, producendo quello stato di benessere. Che poi ha una ricaduta anche sugli spazi, ma può anche non averla[9].

Un elemento di forte discontinuità rispetto alle esperienze già vissute altrove era la durata. Ben presto, infatti, si era resa evidente la necessità di rendere il laboratorio torinese permanente; dopo l’iniziale preoccupazione rispetto all’impegno che ciò avrebbe comportato, avevamo intravisto l’opportunità di imprimere un reale cambiamento al contesto istituzionale. Quella che può sembrare una “casualità”, un evento non previsto, in realtà è frutto di una prolungata immersione sul campo e dà il via a un processo più o meno lungo di sperimentazione e validazione delle prime intuizioni. «Non è poi infrequente che l’intuizione iniziale abbia bisogno di ulteriori conferme in itinere e che, di conseguenza, la fase del suo consolidamento sia attraversata da altre riconfigurazioni creative del quadro cognitivo, che la consolidano ma che, nel mentre, ne chiariscono i contenuti, in parte la modificano» (Neresini 1994: 67). A luglio 2014, dunque, aveva preso avvio, all’interno del dormitorio pubblico di via Ghedini 6 a Torino il laboratorio permanente “Costruire Bellezza” (CB) frutto della collaborazione tra l’amministrazione comunale, i nostri due dipartimenti universitari, una cooperativa sociale e il Comitato promotore S-Nodi.

La prima questione in cui ci eravamo imbattuti era, appunto, chi dovesse pagare le tende della struttura che era pubblica, ma che era stata aggiudicata in appalto per tre anni a una cooperativa sociale. Quando ci era stato chiesto di acquistare noi le tende con i fondi del progetto, ci eravamo resi conto della necessità di proporre un cambiamento di prospettiva. Un progetto di ricerca, per quanto applicato al sociale, non poteva pagare le tende di un dormitorio. O, almeno, non poteva essere quello lo scopo, né la soluzione. Così, la prima attività di CB era stata dedicata alle tende, che sarebbero state realizzate dalle ospiti del dormitorio, coinvolte attraverso tirocini, nell’ambito di un laboratorio di sartoria sotto la supervisione di una tutor. Si trattava di una sarta professionista, ex ospite delle strutture di accoglienza notturna, che era disponibile a collaborare con noi. Il progetto avrebbe retribuito l’impegno della tutor e l’acquisto della materia prima; il SAD avrebbe finanziato i tirocini dei partecipanti “senza dimora”; la cooperativa avrebbe messo a disposizione un educatore, gli spazi del dormitorio e alcuni strumenti di lavoro. Inoltre, grazie al finanziamento ottenuto attraverso S-Nodi, potevamo retribuire alcuni giovani designer e antropologi per lavorare con noi all’interno dei laboratori. In accordo con i partner di progetto e con i primi partecipanti, al workshop di sartoria avremmo affiancato un laboratorio di falegnameria, con lo scopo di realizzare alcune delle sedie progettate dagli studenti del Politecnico, e un laboratorio permanente di cucina, che avrebbe garantito di poter chiudere le due mattinate di lavoro previste ogni settimana con il pranzo, affinché nessuno fosse costretto a lasciare le attività per mettersi in fila davanti a una delle mense cittadine.

I primi mesi del progetto erano stati per noi – che pure credevamo di sapere già tutto sui servizi per persone “senza dimora” a Torino – un vero e proprio apprendistato. Entravamo in CB alle 8.30 e non sapevamo a che ora saremmo usciti. Dopo il laboratorio, in cui l’attenzione era centrata sul “fare insieme” agli altri partecipanti, stavamo ore a discutere tra noi e con gli educatori del SAD e della cooperativa per confrontarci su che cosa avevamo visto, su come avevano reagito le persone, su come avevamo reagito noi stessi, su cosa potevamo fare per migliorare il giorno dopo e su come fare per tenere conto del punto di vista di tutti. Il fatto era che l’approccio partecipativo, di ricerca-azione, non consente di stabilire a priori gli esiti e, nonostante le esperienze già maturate, il contesto di via Ghedini, il suo carattere di permanenza e il nostro posizionamento interno ai servizi pubblici erano una novità anche per noi stessi.

Piccoli rituali quotidiani avevano iniziato a dare forma al progetto. Il momento della colazione si era rivelato, fin dai primi giorni, molto importante. Esso consentiva, varcata la soglia del laboratorio, di superare la stanchezza della notte e di entrare in uno spazio di tregua. Superare quella soglia significava dimenticare per una mattina le preoccupazioni, il proprio status, la solitudine e tornare a essere attivi, propositivi, capaci. Non era sempre facile iniziare la giornata, erano molti i frammenti di storie da ascoltare e accogliere, ma la presenza di persone diverse, soprattutto dei giovani studenti, aiutava a stemperare, magari con una battuta, anche i momenti più tesi. Dopo la colazione ci si divideva in gruppi, in base agli interessi, alle attitudini e alle competenze di ciascuno finché il pranzo, cucinato a rotazione dopo aver fatto la spesa al mercato del quartiere, chiudeva le mattine di lavoro. Ancora oggi entrando in laboratorio o riguardando le fotografie scattate in via Ghedini in questi quattro anni di attività, rivediamo scene quotidiane che, apparentemente, non hanno niente a che vedere con un laboratorio scientifico: persone che cucinano e che mangiano insieme, grandi pentole, vassoi di dolci, lunghe tavole apparecchiate. Mani che si intrecciano facendo insieme tende, sedie, pasta fresca. Persone che si abbracciano e sorridono, pezzi di legno, polvere, tute per non sporcarsi, vasetti di marmellata, vernici. Eppure, mettendosi nell’ottica della partecipazione e della collaborazione, di colpo «numerosi fenomeni che sembrano strani trovano una spiegazione» (Latour, Woolgar 1988: 43) e le attività prendono senso, anche da un punto di vista scientifico.

All’interno del laboratorio, la creatività è intesa come la capacità di combinare in modo nuovo elementi preesistenti; essa non appare come dote innata di qualcuno, ma, così come la bellezza, è una possibilità che prende forma grazie all’ambiente e alle relazioni. In un contesto stimolante, tutto diventa possibile, anche il raggiungimento dell’obiettivo più sfidante. Il concetto stesso di contesto può essere letto in maniera fluida, come il prodotto dell’interazione di coloro che vi agiscono. In questo senso CB è un contesto/laboratorio creativo che produce ed è prodotto dall’azione collettiva. Gli oggetti realizzati in CB sono un pretesto per “fare insieme”: «la mediazione culturale degli artefatti costituisce sia un vincolo alla creatività e spontaneità dell’attività umana, sia un’apertura di possibilità concrete di partecipazione all’attività di pari, dei maestri e dei predecessori» (Grasseni, Ronzon 2004: 155-156).

Nell’aprile 2016, a due anni dall’avvio del laboratorio, la volontà di ufficializzare la sperimentazione da parte dell’amministrazione comunale ha portato a siglare un protocollo di intesa tra la Direzione Politiche Sociali della Città di Torino e i nostri dipartimenti universitari. Nel documento si sottolinea l’esigenza di

dare continuità al proficuo rapporto di collaborazione instaurato in questi anni […] in particolare per la promozione e la divulgazione della cultura del progetto multidisciplinare orientato a promuovere l’inclusione attiva delle persone in stato di grave emarginazione sociale e vulnerabilità nelle comunità locali e a valorizzarne le capacità artigianali ed espressive[10].

Tra gli obiettivi specifici, il documento richiama la necessità di riattivare il protagonismo e di contribuire alla riacquisizione di una cittadinanza attiva da parte delle persone con fragilità. Tra gli strumenti e i metodi individuati come parte integrante di un processo di conoscenza e di ricerca sul fenomeno della grave emarginazione adulta sono esplicitamente citati la “progettazione partecipata” e “l’integrazione delle competenze, abilità e complementarietà dei diversi soggetti”. Attraverso gli strumenti che le sono propri, dunque, l’amministrazione comunale ha riconosciuto e sostenuto, anche economicamente, la sperimentazione, trasformandola in un’attività interna alla struttura di accoglienza e valorizzando tutti gli attori coinvolti. Da una parte è stata garantita la possibilità di continuare a fare ricerca e di tentare di innovare il sistema di contrasto all’homelessness, dall’altra di riconoscere CB come un nuovo servizio per adulti in difficoltà.

Spesso ci siamo interrogati su quanto il nostro laboratorio confermi, più che scardinare, il sistema in cui la persona “senza dimora” si trova nella necessità, più che nell’opportunità e nella scelta, di frequentare il “tirocinio socializzante” in via Ghedini (Porcellana 2019). Benché non abbiamo risolto del tutto l’ambiguità, il laboratorio, per le sue caratteristiche interne e per l’impianto con cui è stato pensato e continuamente ridiscusso in itinere, ci sembra rispondere a delle esigenze importanti espresse dagli stessi partecipanti. Intanto, come riconoscono anche gli operatori, il progetto “sposta la lancetta del potere” verso l’utente, facendo intravvedere alle persone delle opportunità diverse per la propria vita. Dall’altra parte, è interessante e non scontato che CB abbia trovato spazio – uno spazio di libertà e di sperimentazione – al di là della burocratizzazione e dell’irrigidimento dei servizi. Dal nostro punto di vista, questi esiti, per quanto parziali, dimostrano che il sistema può essere modificato se c’è la volontà di farlo e la pazienza, nei termini in cui è definita da Appadurai[11], per incidere sui sistemi in termini trasformativi.

Una nuova sfida: innovare i servizi per innovare i sistemi

Nel 2018, i nostri dipartimenti hanno siglato un nuovo accordo con l’amministrazione comunale torinese finalizzato a «promuovere un processo di riorientamento delle prassi consolidate nel sistema dei servizi al fine di favorire protagonismo, agio, dignità e benessere di tutti gli attori del sistema»[12]. Stiamo vivendo questo nuovo impegno di ricerca-azione con grande senso di responsabilità, come una sfida sociale, politica oltre che scientifica, ma anche come un riconoscimento di tanti anni di lavoro. Nei termini di Latour e Woolgar (1988), possiamo parlare del “ciclo di investimento della credibilità” che ha portato l’amministrazione a un nuovo investimento simbolico, nonché economico, nei nostri confronti che accresce la credibilità del gruppo di ricerca. Stare “dentro i servizi” (Tarabusi 2010) così a lungo e avere maturato un’esperienza condivisa con persone fisiche e soggetti istituzionali si sta rivelando fondamentale per consentire a tutti di poter immaginare di andare oltre l’esistente e di attuare un cambiamento reale, addirittura radicale, all’interno del sistema di contrasto all’homelessness della città di Torino. L’approccio partecipativo resta lo strumento attraverso il quale coinvolgere tutti gli attori in modo che possano riconoscersi nelle diverse fasi di ideazione e di realizzazione di questa ambiziosa, ma più che mai necessaria trasformazione.

Il progetto biennale, tuttora in corso, è l’esperienza progettuale più complessa con cui il gruppo di ricerca si sia confrontato in questi dieci anni di lavoro comune. Si tratta, infatti, di accompagnare un intero sistema di attori pubblici, del privato sociale e del terzo settore ‒ oltre 50 operatori dei vari enti del sistema di contrasto all’homelessness torinese sono coinvolti nelle attività di co-progettazione ‒ a rileggere e ripensare, in modo collettivo e reciprocamente vantaggioso, il proprio modo di organizzarsi, di erogare i servizi e di accogliere le persone “senza dimora”[13]. Nella prima fase è stato costruito un impianto critico e riflessivo partecipato che rilegge, attraverso mappe, grafici e descrizioni qualitative, le diverse dimensioni del sistema di servizi, ne evidenza le aree di miglioramento, incrementale e radicale, in termini di mandato, politiche, sistemi, strategie, infrastrutture e azioni. In una fase successiva, è stata elaborata una visione comune e condivisa di cambiamento che, in generale, dà il senso e il significato di una trasformazione fortemente centrata sulla persona come portatrice di diritti e di risorse. Le riflessioni si sono concentrate intorno a cinque assi tematici che riguardano le modalità di accompagnamento e di “presa in carico” da parte dei servizi sociali, le risorse abitative, i percorsi di inclusione sociale, l’accesso ai beni materiali e le misure di prevenzione primaria. Tutti i temi sono declinati nella prospettiva del protagonismo, dell’autodeterminazione e della garanzia dei diritti dei beneficiari degli interventi. Intorno a questi assi si innesterà la fase progettuale, anch’essa di carattere collettivo e collaborativo, richiesta dagli attori stessi per individuare e attuare pratiche e azioni innovative. È emersa, infatti, una diffusa volontà di cambiamento e una predisposizione alla partecipazione concreta nel disegnare il cambiamento del sistema di policy e nel co-produrlo in una prospettiva di co-responsabilità. Gli attori dei processi hanno espresso apprezzamento per le modalità collaborative e di condivisione che molti avevano già vissuto insieme a noi sui temi della riqualificazione degli spazi (“Abitare il dormitorio”) e sullo sviluppo delle competenze (“Costruire Bellezza”). Questo approccio ha a che fare con l’idea di una comunità di pratica (Wenger 2006) che decide di mettere da parte gli atteggiamenti competitivi e sceglie di beneficiare delle reciproche competenze ed esperienze[14]. Suddivisi in gruppi nel corso di sessioni di lavoro tematiche, essi sono chiamati a condividere e discutere le proprie visioni attraverso diversi momenti di focus group, attività di problem solving e co-progettazione. Resta importante l’azione di regia e di rielaborazione da parte del gruppo di ricerca che sistematizza i dati emersi dai lavori in plenaria, così come la restituzione in itinere degli esiti a cui si giunge di volta in volta. Ciò che è stato rafforzato rispetto alle esperienze precedenti è l’impianto tecnico di strumenti che variano a seconda dei temi in discussione e facilitano i partecipanti a focalizzarsi su specifiche domande e a rappresentarle in modo efficace rispetto ai diversi temi di lavoro. Una caratteristica dei processi che in questi anni abbiamo condotto è quella di avere due dimensioni di significato: la prima è strumentale alle trasformazioni che si concretizzano in risposta a specifici problemi; la seconda è funzionale a un processo di lettura e di decodifica della realtà. Entrambe le dimensioni sono utili e interrelate in funzione dell’azione, rappresentando il senso stesso del metodo progettuale di design anthropology. Se è vero che i progetti nascono da un lavoro di ascolto e di osservazione attento, intensivo e non giudicante che modella le visioni, è altrettanto vero che l’ulteriore conoscenza del sistema, dei suoi limiti e delle sue risorse si può dedurre proprio da un’osservazione altrettanto attenta e partecipante del processo stesso di sviluppo e concretizzazione delle idee progettuali.

In questo senso, sul piano dei contenuti progettuali, emerge da parte dei partecipanti l’aspettativa di un cambiamento, immaginando servizi maggiormente focalizzati sulle capacità delle persone “senza dimora” a cui far corrispondere una maggiore flessibilità del sistema e delle infrastrutture. Si tratta di far fronte ad una crescente differenziazione dei profili delle persone che si affacciano ai servizi sociali a cui l’impianto attuale non riesce più a rispondere. Tutto questo produce malessere negli utenti e frustrazione negli operatori. Tuttavia, nonostante il desiderio di trasformare l’esistente, il lavoro collettivo ha evidenziato una generale difficoltà nel pensare alternative radicali e sistemiche che vadano al di là del puntuale miglioramento del proprio quotidiano ridisegnando l’intero impianto del sistema e dei suoi funzionamenti.

Per non lasciare questo gravoso compito ai soli “professionisti del sociale” è necessario, come suggeriscono Appadurai (2011) e Sen (2007), “capacitare” tutti, compresi gli utenti dei servizi, studenti, volontari a costruire un nuovo clima di fiducia. A partire da ciò che ciascuno ha da offrire, tutti, senza distinzione, diventano essenziali nella costruzione di una rete di cui ciascuno si sente un nodo importante. Secondo l’approccio delle capacità, ogni persona è considerata come un fine, per cui il compito della società dovrebbe essere quello di garantire «che tutte le persone abbiano alcuni diritti fondamentali semplicemente in virtù della loro umanità, e che sia un dovere basilare delle società rispettare e sostenere tali diritti» (Nussbaum 2012: 66). Per garantire questi diritti, è necessario mettere le persone nelle condizioni di poter scegliere: capacità e libertà di scelta sono profondamente correlate. Questi elementi riguardano sia gli individui, sia interi sistemi. Quanto i servizi di welfare e il modello di assistenza vanno nella direzione di sostenere la libertà delle persone e quanto invece il sistema, così com’è strutturato, cronicizza, giudica o infantilizza? Come sottolinea Martha Nussbaum, infatti, «sono davvero numerosi gli ambiti in cui l’attenzione per la dignità dovrebbe ispirare le scelte politiche alla tutela e al sostegno dell’agency, anziché scelte che infantilizzano le persone e le trattano come destinatari passivi di assistenza» (Nussbaum 2012: 60). Come ci hanno dimostrato le esperienze di questi anni, quando le persone recuperano la speranza del cambiamento e si sentono sostenute da qualcuno che crede nelle loro potenzialità, possono effettivamente vedere nuove opportunità per la propria vita. Lo stesso vale per gli operatori sociali che trovano una nuova motivazione per il proprio impegno personale e professionale.

C’è una domanda posta da Nussbaum che ci interroga circa il far emergere desideri, alimentare la speranza e l’immaginazione: quali vere opportunità di agire e di scegliere offre la società? Noi riteniamo che la crisi, a tutti i livelli, non possa che essere vinta dalla capacità di immaginare qualcosa di nuovo, di mettersi alla prova nel tentare di modificare ciò che non funziona e che tutto questo passi attraverso la consapevolezza di sé e dei propri diritti. Non si tratta infatti di alimentare soltanto desideri individuali, ma di affermare diritti universali. Secondo Nussbaum, un buon ordinamento politico dovrebbe garantire a tutti i suoi cittadini la vita, l’integrità fisica, i sensi, l’immaginazione e il pensiero, i sentimenti. Sono altresì indispensabili il gioco, il controllo del proprio ambiente politico e materiale e il rapporto con le altre specie viventi, avendone cura. Dovrebbero essere garantiti anche la “ragion pratica”, cioè «essere in grado di formarsi una concezione di ciò che è bene e impegnarsi in una riflessione critica su come programmare la propria vita» e il senso di appartenenza, cioè «avere legami con altre persone […] che ti considerano con rispetto e come uguale e che sono decise a prendersi cura di te e a portare avanti progetti insieme a te» (Nussbaum 2012: 40; 97-98). Grazie alle diverse esperienze di ricerca-azione partecipativa abbiamo sperimentato quanto progettare insieme abbia costruito una rete di fiducia. In questi anni, “di fiducia in fiducia”, la rete di contatti, di attori e di opportunità si è allargata e ha consentito alle persone di abbandonare certi habitus che bloccavano le loro esistenze, agli operatori di sperimentarsi in nuovi ruoli, ai funzionari dell’amministrazione di immaginare nuovi scenari, a noi e ai nostri studenti di vivere la ricerca in modo diretto, concreto, quotidiano. Grazie a un dialogo continuo e a un coinvolgimento duraturo si iniziano a vedere i risultati “di sistema”, i segnali di un cambiamento possibile all’interno della macchina burocratica: trasformazioni a livello di procedure, ma soprattutto cambiamenti culturali. Insieme stiamo maturando l’attenzione alla bellezza, alle capacità delle persone, dei contesti e delle istituzioni invece di reiterare il modello assistenziale e di risposta standardizzata ai bisogni. È un notevole cambiamento di paradigma che nasce dal confronto lungo e paziente tra “diversi”. Nonostante le differenze, le difficoltà e le resistenze al cambiamento nessuno si è arreso alle difficoltà della comunicazione e del confronto. Forse il linguaggio della bellezza, unito a un atteggiamento rispettoso e aperto, ha costituito la base di fiducia su cui si è fondato il lavoro comune.

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[1] La letteratura antropologica sul tema dell’homelessness è ormai molto vasta, soprattutto in ambito anglofono e francofono. In Italia, oltre a numerosi e importanti contributi sociologici, anche di taglio etnografico, sono stati pubblicati lavori antropologici sul tema tra cui Tosi Cambini (2004; 2009); Scandurra (2005; 2014); Porcellana (2016; 2017); Stefanizzi (2017).

[2] Il tema del camminare e del movimento attraverso lo spazio è stato ampiamente affrontato all’interno all’antropologia urbana e non solo. Il ricorso ad Ingold deriva dall’approccio “esperienziale” che condividiamo con l’antropologo britannico.

[3] Per servizi a bassa soglia o di prima accoglienza si intendono i servizi ad accesso diretto da parte dell’utenza, solitamente caratterizzati da pochi requisiti di ingresso.

[4] Intervista all’Assessore ai Servizi sociali del Comune di Torino raccolta da Valentina Porcellana a Torino in data 15/12/2010.

[5] Il workshop rientrava nel programma della 12a edizione di “Design workshop” organizzata dal Corso di laurea in Design e Comunicazione del Politecnico di Torino.

[6] Intervista a M., funzionario del SAD del Comune di Torino raccolta da Silvia Stefani, antropologa del gruppo di ricerca-azione, a Torino in data 12/11/2015.

[7] Per alcuni esempi di videotour all’interno di ricerche antropologiche svolte in Italia si vedano Dei 2009; Pontecorvo, Giorgi, Monaco 2009; Porcellana, Campagnaro 2018.

[8] Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Linee di indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta in Italia,http://www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita/poverta-ed-esclusione-sociale/Documents/Linee-di-indirizzo-per-il-contrasto-alla-grave-emarginazione-adulta.pdf (documento consultato in data 23/03/2019).

[9] Intervista a Cristian Campagnaro raccolta da Silvia Stefani a Torino in data 12/05/2015.

[10] Deliberazione della Giunta Comunale di Torino n. mecc. 2016 01704/019 del 12 aprile 2016.

[11] Appadurai (2011) parla della pazienza come di una strategia politica che è necessario contrapporre alle politiche dell’emergenza che si basano sul consenso immediato, abdicando a soluzioni strutturali, condivise e durature.

[12] La “Proposta di intervento per il contrasto alla grave emarginazione adulta e alla condizione di senza dimora (PON Inclusione Azione 9.5.9 – PO I FEAD Misura 4)” coinvolge quattro designer, due antropologhe e due sociologhe. Corsivo nel testo originale.

[13] Con tempi e modalità diverse sono stati coinvolti anche gli utenti e beneficiari dei servizi.

[14] Il processo, non privo di resistenze e di momenti di stallo, è continuamente rinegoziato tra i partecipanti, anche a livelli organizzativi e istituzionali diversi.