Negoziazioni, dilemmi, opportunità fra antropologia e promozione della salute

Lucia Portis

ASL Città di Torino, Dipartimento di prevenzione

Rosanna D’Ambrosio

ASL Città di Torino, Dipartimento di prevenzione

Table of Contents

Premessa
La salute come concetto operativo
Le conferenze internazionali sulla promozione della salute
Le politiche italiane di sanità pubblica
Antropologia e promozione della salute
Verso i progetti: la formazione congiunta
Il progetto sul consumo dannoso di alcol
Il progetto sull’alimentazione salutare a prezzi contenuti
Negoziazioni, dilemmi, opportunità
Le prospettive
Bibliografia

Abstract. Changing people’s behaviour regarding health is an important challenge, particularly when the interventions are assembled on subjects whose cultural repertoires and/or partner-economic situations are different from those of the operators. Any project of health promotion should begin from the systematic analysis of the health determinants and the life-style of the select target. Many anthropologists have criticized such projects because they give too great emphasis to the cognitive processes and scarce attention to the roots of the human behaviour in cultural contexts. On this basis our article will try to bring into focus what advantages and problems are implicated within the presence of an anthropologist in the department of prevention of a sanitary firm. For this reason, two processes of strategies construction regarding health promotion have been introduced in the community concerning the problems of alcohol abuse and the healthy diet. Both have implicated an initial analysis of the context and the synergy with “others” subjects characterized as stakeholders. They have shown how the presence of the anthropological knowledge is able to deconstruct customs and consolidated practices of healthcare workers. This article will show opportunities and dilemmas about anthropology presence and the outlook about health promotion.

Keywords. Health Promotion; Community Work; Health Anthropology; Alcohol Abuse; Healthy Diet.

Premessa

Cosa accade quando, in un servizio dedicato alla promozione della salute, due professionalità, con epistemologie ed esperienze differenti, provano a lavorare insieme partendo ognuna dalle proprie specificità? Questa è la domanda alla quale proveremo a rispondere in questo articolo illustrando le pratiche messe in atto e come queste abbiano generato riflessioni e dilemmi cui spesso non è facile rispondere. L’antropologia professionale, disciplina che va oltre la ricerca per dare risposte concrete a problemi reali, deve necessariamente sapersi adattare e negoziare i propri modus operandi per progettare insieme ad altre figure professionali.

Questo significa lasciare spazio a modalità operative diverse, senza rinunciare alla propria specificità, con la consapevolezza che ogni contesto ha repertori culturalipropri che richiedono tempo per essere compresi e che i cambiamenti non possono essere immediati, necessitano di percorsi lunghi, a volte tortuosi, che implicano la fatica del riconoscimento delle reciproche competenze.

L’articolo illustrerà inizialmente come è nata la promozione della salute e quali sono oggi le relative politiche internazionali, nazionali e locali, per poi passare ai progetti e alle pratiche. Infine proporrà ai lettori le riflessioni, i dilemmi e le opportunità che l’inserimento dell’antropologia in un contesto di salute pubblica può generare.

La salute come concetto operativo

L’espressione “promozione della salute” apparve per la prima volta nel Rapporto Lalonde del 1974[1]. Il documento rilevava come all’incremento dei fondi a disposizione dei sistemi sanitari rivolti alla cura delle malattie non corrispondesse un incremento nei livelli di salute della popolazione. La promozione della salute avrebbe dovuto quindi occuparsi di quei molteplici fattori che provocano le malattie. Venne introdotto il concetto di “campo di salute”, descritto da quella che oggi viene ricordata come la “margherita di Lalonde”, i cui petali rappresentano i quattro campi da cui dipende la salute: influenze ambientali, influenze genetiche e biologiche, stili di vita individuali, natura ed estensione dei servizi sanitari. Tale concezione presupponeva che le politiche sanitarie non potessero ridursi alla sola cura, ma che gli obiettivi dovessero utilizzare nuovi concetti come fattori di rischio e di protezione, utili a identificare comportamenti individuali, e fattori socioeconomici che producevano danni al benessere o lo proteggevano.

Tutto questo favorì una concezione di salute come diritto/dovere dei cittadini e fonte di azioni concrete e mandò in crisi l’egemonia culturale, fino allora indiscussa, della medicina clinica. Si affacciarono dunque sulla scena le discipline umanistiche che iniziarono ad occuparsi di salute (Lemma 2005).

L’OMS nel 1986 definì la promozione della salute sia come percorso che consentiva alle persone di acquisire un maggior controllo dei fattori determinanti della propria salute e di migliorarla, sia come un processo socio-politico globale che investiva non solo le azioni finalizzate al rafforzamento delle capacità e delle competenze degli individui, ma pure l’azione volta a modificare le condizioni sociali, ambientali e economiche in modo da mitigare l’impatto che esse avevano nella salute del singolo e della collettività.

Le conferenze internazionali sulla promozione della salute

Numerose le Conferenze Internazionali che hanno avuto come tema la promozione della salute. La prima, tenutasi il 6-12 settembre 1978 ad Alma Ata (Kazakistan, già Unione Sovietica), venne organizzata dall’OMS, dall’Organizzazione Pan Americana della Salute, dall’UNICEF, e patrocinata dall’ Unione Sovietica. A conclusione dell’evento fu prodotto il documento storico della Dichiarazione di Alma Ata (Alma Ata Declaration on Primary Health Care) in cui si esprimeva una presa di posizione in favore dell’intervento sanitario sul territorio tramite le cure primarie. Questa linea di azione fu rivoluzionaria perché in completa contrapposizione con la direzione delle cure mediche che, in generale, si concentrava sul campo ospedaliero e specialistico. La conferenza affermava fermamente che la salute, come stato di benessere fisico, sociale e mentale[2] e non solo come assenza di malattia e infermità, è un diritto fondamentale dell’uomo e l’accesso a un livello più alto di salute è un obiettivo sociale che presuppone la partecipazione di numerosi settori socio-economici, oltre che di quelli sanitari. Il suo motto fu: “Salute per tutti entro il 2000”.

Il 21 novembre del 1986 si riunì a Ottawa, in Canada, la Prima conferenza internazionale sulla promozione della salute, che produsse la cosiddetta “Carta di Ottawa”. Nel documento l’OMS sancì che l’aumento dei livelli di salute di una comunità non dipende soltanto dall’intervento della medicina, ma richiede l’azione di altri professionisti [3]

Dopo Ottawa sono state realizzate altre sei conferenze internazionali che hanno sviluppato e approfondito varie tematiche come la necessità di far diventare la salute una responsabilità centrale per tutti i governi nazionali, regionali e locali, un punto chiave per la società civile e le comunità, un’esigenza di buone pratiche nel settore dell’impresa privata.

Oggi l’espressione “promozione della salute” assume significati diversi a seconda dell’interpretazione prevalente e dell’epistemologia professionale di chi agisce le pratiche: in alcuni casi assume i significati di educazione alla salute, intesa anche come azione di empowerment individuale e collettivo; in altri casi i significati attengono alla prevenzione dei rischi, soprattutto in area medica; in altri casi ancora, quando si tratta di azioni rivolte all’ambiente e alla sicurezza, di tutela della salute. In tutti e tre i casi le azioni di promozione della salute spesso si disinteressano del contesto sociale e della sua organizzazione, giacché il paradigma biomedico è comunque imperante, esso «affonda saldamente le radici in una tradizione filosofica di tipo realista che si muove fondamentalmente sul piano ontologico: essa richiede l’impegno a fondare la conoscenza sulla ricostruzione delle strutture e dei meccanismi che presiedono il funzionamento del corpo umano» (Lemma 2005: 52). Il soggetto a cui si fa riferimento è un essere biologico e quindi le strategie di promozione della salute vanno nella direzione di individuare l’agente eziologico responsabile del possibile danno sia esso microbico, ambientale o comportamentale.

Nel panorama italiano è in atto un dibattito tra chi sostiene che occorra sempre di più misurare e basarsi sulle evidenze scientifiche e chi ritiene che la salute (e di conseguenza la promozione della salute) sia soprattutto una questione politica e culturale, prima che tecnica. Nel primo contributo del Manuale critico di sanità pubblica (2015) si legge:

La questione della salute è dunque una questione complessivamente cultuale e politica, ben prima e ben più che dettagliatamente tecnica. […] Un aumento delle attività di prevenzione delle patologie e di promozione della salute è grandemente favorito dall’aumento della cultura diffusa di una popolazione (Calamo-Specchia 2015: 25).

In conclusione, quindi, la salute si trasforma in qualcosa di concreto ed entra nello spazio politico oltreché sociale, l’idea di salute oltre ad essere una costruzione culturale è una questione politica poiché lì si sedimentano i significati elaborati sia dal senso comune, sia dai saperi ufficiali; è un costrutto che mette in relazione un insieme di agenti che si incontrano: cittadini, operatori, amministratori (Fassin 1996). Lo spazio politico della salute determina la gestione operativa della salute, definita “salute pubblica” governata dallo Stato che pone il problema della possibilità di accesso alle risorse e alle strategie che garantiscono il benessere (Pizza 2005).

Le politiche italiane di sanità pubblica

Per quanto riguarda l’Italia, la Costituzione italiana (articoli 2 e 3) sancisce il principio personalistico, ossia la priorità del valore umano rispetto a tutti gli altri valori e il principio di uguaglianza sostanziale tra i cittadini, mentre gli articoli 32 e 41 affermano che la salute deve essere tutelata al di sopra di ogni altro valore. La legge 833/1978, che istituisce il Servizio sanitario nazionale, si rifà ai concetti di prevenzione e di promozione della salute in due norme diverse, la prima negli obiettivi della legge e la seconda nella parte dedicata a prestazione e funzioni I d.lgs. n. 502/92, 517/93 e 229/99, che promuovono la regionalizzazione e l’aziendalizzazione del sistema sanitario, prevedono tra le strutture anche i Dipartimenti di prevenzione (DP) che diventano il modello di gestione operativa di tutte le attività di prevenzione. I Dipartimenti di prevenzione oggi si occupano di diversi settori della sanità pubblica con lo scopo di: assicurare l’assistenza sanitaria collettiva, tutelare, promuovere e migliorare la salute, il benessere dei cittadini e la qualità dell’esistenza, prevenire le malattie connesse ai rischi negli ambienti di vita e di lavoro. Prevedono l’esercizio delle funzioni di analisi, promozione, orientamento, assistenza e vigilanza sull’insieme dei problemi di salute della popolazione e su tutti i fattori determinanti[4] della salute.

Nel 2004 viene istituito il Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie (CCM), un organismo di coordinamento tra il ministero e le regioni per le attività di sorveglianza, prevenzione e risposta tempestiva alle emergenze di salute pubblica. La prevenzione diventa così strategia politica ed operativa e nel 2005 viene varato il primo Piano nazionale di prevenzione dove, per la prima volta, si vincolano risorse del Fondo sanitario nazionale agli obiettivi del piano, che vengono valutati e certificati. Il successivo governo vara il piano “Guadagnare salute”, ossia il primo patto sociale integrato che corrisponde ai principi dell’OMS “La salute in tutte le Politiche” (Greco 2015).

L’ultimo Piano nazionale della prevenzione 2014-2018 è stato pubblicato nell’autunno del 2014 per gli anni 2014-2018; all’interno vengono delineate queste finalità:

Ridurre il carico di malattia, rafforzando il contributo da parte del servizio sanitario al sistema di welfare e rendendo questo più sostenibile, anche in relazione agli andamenti demografici italiani, incidendo sulla riduzione della mortalità prematura da malattie croniche non trasmissibili e sulla riduzione degli incidenti e delle malattie professionali nonché la promozione dell’invecchiamento attivo (compresa la prevenzione delle demenze); rafforzare e confermare il patrimonio comune di pratiche preventive. Si tratta di investire in un patrimonio culturale di grande rilevanza sociale e che nel corso degli anni, anche in relazione agli atti di pianificazione nazionale e ai conseguenti sforzi attuati dalle istituzioni e dai professionisti del sistema sanitario, ha portato l’Italia a considerare come bene comune la pratica di interventi preventivi quali quelli a salvaguardia della salute dei lavoratori, quelli relativi alla prevenzione oncologica e alle vaccinazioni; rafforzare e mettere a sistema l’attenzione a gruppi fragili. Questa scelta si implementa sia come lotta alle diseguaglianze sia come messa a sistema di interventi (magari già offerti in modo diseguale) per la prevenzione di disabilità; considerare l’individuo e le popolazioni in rapporto al proprio ambiente. Si tratta di promuovere un rapporto salubre fra salute e ambiente contribuendo alla riduzione delle malattie (in particolare croniche non trasmissibili) ma anche sviluppando tutte le potenzialità̀ di approccio inter-istituzionale del servizio sanitario (Ministero della salute 2014: 10-11).

Alle finalità seguono i macro-obiettivi: la riduzione del carico prevenibile ed evitabile di morbosità, mortalità e disabilità delle malattie non trasmissibili; la prevenzione delle conseguenze dei disturbi neurosensoriali; la prevenzione delle dipendenze da sostanze; la prevenzione degli incidenti domestici; la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali; la riduzione delle esposizioni ambientali potenzialmente dannose per la salute; la riduzione della frequenza delle infezioni e malattie infettive prioritarie.

La Regione Piemonte ha a sua volta emanato il Piano regionale della prevenzione 2015-2018 (prorogato al 2019) recependo le raccomandazioni e gli obiettivi di quello nazionale:

Questo Piano Regionale di Prevenzione 2015-2018 (PRP) intende mettere in opera tutti gli sforzi necessari per proteggere il quadro delle garanzie sociali faticosamente costruite fino ad oggi, per continuare a rispettare la vision già enunciata nel Piano Nazionale della Prevenzione (PNP) ed i principi che devono improntare l’operato della sanità pubblica: la centralità della salute, intesa come bene comune universale e quindi anche come diritto inalienabile di ogni individuo e interesse della collettività; l’equità sociale e le uguali opportunità di salute per tutti; il coinvolgimento degli enti locali per sfruttare al meglio il potenziale di salute presente in tutte le politiche anche non sanitarie; la comunicazione e l’ascolto; l’integrazione tra tutti i servizi del sistema socio-sanitario e la collaborazione con tutte le componenti istituzionali del tessuto sociale e il volontariato; l’efficacia e l’appropriatezza, con l’applicazione rigorosa dei principi dell’evidenza scientifica, dell’azione per priorità di salute e della trasparenza delle scelte; la sobrietà e la sostenibilità degli interventi; la responsabilizzazione e la partecipazione di tutti gli operatori (Regione Piemonte 2014: 3).

Il Piano privilegia un approccio di setting (scuola, comunità e ambienti di vita, comunità e ambienti di lavoro, contesti sanitari) per consentire il rafforzamento delle alleanze e sinergie con le altre realtà che si occupano di salute. Inoltre sottolinea che gli interventi da attuare in ciascun territorio devono essere programmati all’interno di piani locali di prevenzione che ciascuna ASL deve redigere annualmente per il proprio ambito di riferimento seguendo le indicazioni regionali a proposito di setting e di programmi.

L’intento degli amministratori è far diventare la promozione della salute e la prevenzione un ambito intersettoriale coinvolgendo altri soggetti sia pubblici, come la scuola o le amministrazioni comunali, sia privati, come le associazioni di commercianti, i gestori di locali, i supermercati, le associazioni culturali e di promozione sociale, etc.

Antropologia e promozione della salute

Cambiare il comportamento di salute delle persone è una sfida notevole, in particolare modo quando gli interventi si concentrano su soggetti i cui repertori culturali e le situazioni socio-economiche sono diverse da quelle degli operatori, di conseguenza qualsiasi progetto di promozione della salute dovrebbe partire dall’analisi sistematica dei determinanti e degli stili di vita del target. I modelli tutt’oggi più accreditati si basano sulla comprensione del comportamento degli individui all’interno dei paradigmi dell’epidemiologia, della psicologia sociale e di quella della salute. Secondo questi modelli le percezioni dei soggetti circa la gravità di un rischio per la salute, i vantaggi e gli svantaggi di azioni preventive e le possibili barriere[5] determinerebbero la volontà di cambiare. Il cambiamento perciò dovrebbe essere dettato dalla corretta conoscenza, sempre biomedica, riguardo la gravità dei disturbi o l’efficacia di particolari comportamenti o terapie. La ricchezza di significati associati alla malattia e alla salute in repertori culturali locali si riduce così a favore delle conoscenze biomediche ritenute scientificamente valide (Good 1995).

In questo frangente l’antropologia può fornire un apporto critico e la possibilità di un’analisi culturale approfondita, utile alla pianificazione e allo sviluppo di interventi di promozione della salute e prevenzione più congrui ed efficaci. Un approccio dialogico (Tedlock 2002), che presuppone la restituzione dell’osservazione e dell’analisi dei problemi, può costituire un punto di partenza per una discussione nella quale sono comprese le voci dei soggetti la cui salute è in gioco. Tale confronto può provocare un aumento della comprensione, tra il gruppo dei destinatari e gli operatori, sui meccanismi culturali riguardanti la salute. Il dialogo può aprire riflessioni anche sulle rappresentazioni degli operatori sanitari e su come si deve affrontare il problema di salute. Ad esempio, nel lavoro di Krusmeich, Wies, Reddy e Meijer-Weitz (2011) le donne dominicane hanno suggerito di sottolineare alcune nozioni culturali della maternità (cioè le donne come madri responsabili) per la promozione dell’allattamento al seno. In questo modo i rapporti di genere sarebbero rimasti inalterati e l’allattamento al seno sarebbe stato accettato. Allo stesso modo, nel contesto sudafricano, gli infermieri di comunità hanno suggerito agli uomini che il loro clan sarebbe stato più prestigioso se avesse prodotto una prole sana e questo era in contrasto con le infezioni sessualmente trasmesse (IST e HIV). L’idea di una discendenza sana associata al prestigio avrebbe potuto quindi promuovere l’uso del profilattico.

Porter mette in luce la differenza tra epidemiologia e antropologia: la prima introduce una separazione tra il ricercatore e l’oggetto della ricerca per determinare i problemi di salute di una data popolazione, la seconda attiva una connessione tra i due attraverso la relazione con i soggetti coinvolti. Per di più la soggettività dell’antropologo è parte della ricerca e questo lo spinge a riflettere su varie implicazioni prima di giungere alle conclusioni.

Nelle politiche di sanità pubblica sarebbe opportuno che entrambi gli approcci venissero utilizzati:

So, empirical, positivist science uses separation (objectivity) as a means to view events and works within a ‘rational framework’ whereas anthropologists, and particularly medical anthropologists, are interested in the whole human being and therefore also in other aspects of what it means to be human, like ‘intuition’ for example. Both are valid perspectives, but how do these two different approaches relate to each other and how do they communicate to help create appropriate public health policy? The stronger and ‘healthier’ the link, the better the public health policy created (Porter 2006: 135).

Verso i progetti: la formazione congiunta

Per andare in questa direzione abbiamo ideato nel 2017 un percorso di formazione che coinvolgeva tutti i professionisti socio sanitari[6] che svolgevano un’attività di promozione della salute e prevenzione; a questi si aggiungevano gli stakeholder [7] potenzialmente interessati a co- costruire progetti. L’idea partiva dalla consapevolezza che gli stili di vita di una comunità sono il punto di partenza e il punto di arrivo di un processo di trasformazione e la promozione della salute deve operare soprattutto nel contesto sociale per modificare i significati e situare i problemi soggettivi all’interno di una più ampia visione culturale (Ingrosso 1984).

La comunità è formata anche da dimensioni diverse da quelle territoriali, le quali raggruppano persone che altrimenti costituirebbero gruppi eterogenei o disparati. Queste persone sono accomunate dall’essere momentaneamente in uno stesso luogo e dall’avere interessi e bisogni comuni. Nella contemporaneità è caduta quindi l’idea di poter incontrare comunità piccole, omogenee, isolate, esse sono, al contrario composte e attraversate da una pluralità di soggetti che si raggruppano in configurazioni sociali provvisorie e mobili (Callari Galli 2007; Laverack 2018)[8].

Di conseguenza, la comunità può divenire l’oggetto su cui si concentrano le attività di promozione e prevenzione e, contemporaneamente il campo del lavoro antropologico, secondo la metodologia della ricerca/azione, ossia una “ricerca per agire” che si concentra sulla risoluzione di un problema sia in termini di spiegazione di fatti, sia di progettazione di interventi in contesti specifici (Mantovani 2000). Come mette in luce Matilde Callari Galli (2007), nella comunità fluida e a definizione variabile diventa importante individuare le “unità di analisi”, ovvero gli spazi e i tempi nei quali avvengono i fenomeni sociali su cui si vuole intervenire.

Gli stakeholder invitati erano soggetti intermedi[9] appartenenti a diverse “unità di analisi”: locali notturni, supermercati, ristoranti, scuole, coinvolti direttamente nella comunità, capaci di generare processi innovativi e di rappresentare in qualche modo gli interessi dei destinatari finali.

Abbiamo iniziato questo percorso con la convinzione che, per generare cambiamenti significativi negli stili di vita, occorrono interventi condotti in partnership tra soggetti intermedi e operatori della sanità pubblica e che, nel processo di ideazione e realizzazione, entrambi devono avere pari dignità e riconoscimento di competenze e potere.

Per di più, come già detto in precedenza, i progetti in questo ambito devono considerare sempre le condizioni di partenza della popolazione target e le resistenze esterne o interne al cambiamento, questo tipo di conoscenza può essere raggiunta attraverso la relazione con gli stakeholder che assumono il ruolo di testimoni privilegiati

Per quanto riguarda il setting comunità e ambienti di vita del Piano locale di prevenzione sono state invitate organizzazione e istituzioni sia del settore pubblico (Comune di Torino e rappresentanti delle diverse circoscrizioni cittadine), sia del privato sociale (supermercati, associazione dei commercianti, associazioni dei gestori di locali notturni, associazioni di promozione sociale) e con loro sono state individuate alcune possibili direzioni di sviluppo. In questo articolo ci soffermeremo su due di queste, generative di progetti relativi al consumo dannoso di alcol e all’alimentazione. Gli stakeholder sono stati coinvolti in un percorso di progettazione partecipata[10] che ha richiesto tempi lunghi[11] prima di addentrarsi nella fase di realizzazione, ma che ha permesso a tutti gli attori di potersi esprimere e di portare contributi fattivi, ognuno per le proprie competenze e settori di interesse.

Il progetto sul consumo dannoso di alcol

Questo progetto è stato avviato a partire da due considerazioni: da una parte la constatazione che molti interventi in ambito preventivo sul consumo dannoso di alcol fossero rivolti esclusivamente alla popolazione adolescenziale o postadolescenziale, sia che si trattasse di interventi a scuola, sia che fossero coinvolte le comunità; dall’altra, che vi fossero numerose difficoltà da parte dei professionisti socio-sanitari a collaborare con i gestori dei locali notturni dell’area metropolitana.

Sono stati attivati tavoli di riflessione e progettazione con l’ASCOM Confcommercio, per quanto riguarda il progetto “Porta la bottiglia a casa”, e con l’EPAT (Esercizi pubblici associati Torino e provincia) per il progetto “Locali che promuovono salute”. Entrambi i progetti hanno fatto parte dello stesso percorso di progettazione partecipata e sono iniziati con una review della letteratura e la ricerca di percorsi simili già realizzati in altre realtà nazionali e internazionali.

L’analisi della letteratura ha evidenziato che in Italia il peso dei processi di globalizzazione e i cambiamenti culturali della tarda modernità hanno influenzato i comportamenti di consumo di alcol che si sono avvicinati, soprattutto nei giovani, a quelli di matrice perlopiù nord europea. Accanto al permanere di consuetudini tipicamente mediterranee, legate al consumo di alcol per accompagnare il cibo durante il pasto, assistiamo oggi a nuove modalità che ci devono interrogare in merito ai rischi per la salute e all’aumento dell’incidentalità stradale come il binge drinking [12] (Collicelli 2012; Beccaria 2013). Sono presenti alcuni fattori predisponenti che ci inducono a riflettere sulla necessità di agire nei contesti del mondo del loisir notturno con i diversi attori. Innanzitutto la cultura del bere italiana, che tende a sottostimare i rischi correlati ai consumi e agli abusi alcolici, particolarmente radicata nella realtà piemontese in cui la produzione vitivinicola ha un ruolo predominante nell’economia. In secondo luogo l’ampia diffusione dell’uso di bevande alcoliche in contesti aggregativi e sociali che comportano, per necessità di mobilità, ampio uso dell’automobile o di motocicli; la diffusione e accettazione sociale di comportamenti “inadeguati” alla performance necessaria per una guida sicura, conseguenti a una mancata percezione del rischio alcol-guida; l'insufficiente conoscenza della normativa del Codice della strada che prevede sanzioni e sospensione della patente per coloro che vengono fermati alla guida con alcolemia superiore a 0,5 g/l.

Inoltre la vita notturna rappresenta un fenomeno della tardo-modernità legato al divertimento e nello stesso tempo una delle principali sfide per la salute pubblica. Le ricerche e le osservazioni evidenziano l’alto consumo di alcol e di altre sostanze sia nei luoghi del loisir (discoteche, locali notturni), sia nei grandi eventi istituzionali. L’intrattenimento notturno rappresenta, quindi, una fonte di rischio per la salute sulla quale occorre intervenire adottando misure efficaci attraverso la messa in atto di sinergie e collaborazioni tra diversi enti.

Per quanto riguarda la ricerca di progetti di collaborazione con i locali notturni sono numerose le iniziative sul territorio nazionale, molto spesso circoscritte alla formazione degli addetti alla sicurezza o alla vendita di bevande alcoliche. Inoltre nei discorsi dei professionisti che operano nel mondo della notte si rilevano difficoltà di relazione dovute all’apparente differenza di finalità[13]: mentre per gli esercenti è importante vendere il prodotto, e quindi le bevande alcoliche, per gli operatori è importante che non si verifichino abusi di quest’ultime[14]. È chiaro dunque che occorre trovare strategie in grado di superare questa impasse.

Un esempio interessate di progetto che mette insieme azioni di promozione della salute e riduzione dei danni connessi all’uso di droghe e alcol, strategie di mediazione dei conflitti tra popolazione residente e locali notturni, politiche pubbliche legate al mondo della notte è il Fixpunkt Party Team di Berlino[15]. Qui la costituzione di un tavolo permanente tra professionisti socio-sanitari, gestori di locali notturni e amministrazioni pubbliche ha consentito di superare differenze e dissidi per giungere a una politica condivisa sul divertimento notturno.

Per quanto riguarda la collaborazione con i ristoranti, non abbiamo trovato altri progetti che vedessero insieme il privato e la sanità pubblica, mentre da una ricerca sul web sono emerse diverse iniziative promosse da enti locali e ristoratori che hanno in comune l’intento di promuovere la vendita del vino e un consumo moderato. Sul sito vinoveritas.it, che si occupa di diffondere la passione per il vino di qualità, si legge:

La preoccupazione di non finire la bottiglia, e il rischio di incappare in etilometri sulla strada del ritorno, sono due fattori che influenzano non poco sulla scelta del vino al ristorante. Solitamente si ripiega acquistando il vino al calice (buona fortuna!) oppure optando su un vino un po’ più economico, minimizzando il senso di colpa nel caso non lo si riuscisse a finire. Per ovviare a questo problema, e soprattutto spingere i consumatori ad acquistare vino in un periodo in cui la sensibilità al prezzo è elevata, sono nate alcune iniziative che permettono ai clienti di portarsi a casa la bottiglia di vino acquistata per il pasto. Teoricamente questo è già legalmente possibile, ma l’imbarazzo di chiedere al cameriere di potersi portare a casa la bottiglia è una barriera psicologica spesso invalicabile. Ecco quindi che nascono iniziative volte ad incentivare questa pratica, nella speranza che possa diventare una usanza e non più una stravaganza di pochi esercizi commerciali (https://www.vinoveritas.it/portare-casa-vino-ristorante/, sito internet consultato in data 13/02/2019).

Una di queste iniziative è “Avanzo divino”, un progetto della Provincia di Piacenza iniziato nel 2009 con l’intento della valorizzazione delle produzioni vitivinicole locali e un consumo consapevole:

Un’iniziativa che vuole contribuire a promuovere la diffusione e la valorizzazione le produzioni vitivinicole locali, nell’intento di preservare la valenza culturale, sociale ed economica che il vino occupa nella società odierna e nella cultura mediterranea, favorendo altresì un modo di bere vino moderato e consapevole attraverso un consumo responsabile e di qualità (https://www.bereilvino.it/2009/11/avanzo-divino-iniziativa-della-provincia-di-piacenza-per-far-conoscere-il-vino-piacentino/, sito internet consultato in data 13/02/2019).

L’altra è “Buta Stupa”, promossa inizialmente da alcuni ristoranti piemontesi e diffusasi in seguito sul territorio nazionale, anche qui l’accento è posto sul fatto che si può scegliere un vino costoso senza doversi preoccupare di non finirlo:

Buta Stupa nasce allo scopo di ovviare a quello che è oggi un problema sempre più tangibile e pressante, ossia quello del rincaro dei prezzi dei beni di consumo, cui certo non sfugge quello del vino. Abbiamo creduto fin da subito a questo progetto lavorandovi con impegno ed elaborando intorno ad esso una serie di iniziative avviate proprio partendo dal sito, con promozioni pubblicitarie e partecipando agli eventi legati al vino. E ora vogliamo darvi di più. Nella scheda di ogni locale, identificato per categoria e per regione, troverete la descrizione dei servizi che essi offrono. Il primo dei quali sarà ovviamente Buta Stupa! Perché a chi non piace portarsi a casa dal ristorante la bottiglia di vino non finita? Il vino è prezioso, e allora perché sprecarlo? (http://butastupa.eu/, sito internet consultato in data 13/02/2019).

La necessità di prevedere iniziative di questo tipo parte dal presupposto che la cultura del vino italiana, definita anche “cultura bagnata”[16], non prevede l’ipotesi che il vino si possa “avanzare”: è ritenuto, quindi, poco dignitoso, quasi da “pezzenti”, chiedere la bottiglia non terminata, ed esiste una diffusa ritrosia nel poter usufruire di questa possibilità, anche molti ristoratori sono restii a pubblicizzare questo tipo di iniziative che in altri luoghi del mondo sono consuete. Come evidenza un'utente che si firma Paola Cortellucci in un commento al post citato poco sopra e ospitato sul blog di “Vino veritas”:

È vero, diciamolo, che bisogna un po' violentarsi per riportare a casa quello che si è effettivamente pagato. Ci sono pochi locali, pochi ristoratori seri che non storcono il naso nel momento che si chiede il dovuto: che siano gli avanzi per il cane, che tanto mangiamo noi, come la mezza bottiglia (https://www.vinoveritas.it/portare-casa-vino-ristorante/#comment-114, sito internet consultato in data 13/02/2019).

In seguito alle riflessioni scaturite durante gli incontri del tavolo di progettazione e l’analisi della letteratura, sono stati delineati due progetti. Il primo, relativo al loisir notturno, prendeva le mosse dal manuale NightSCOPE del Centro di Salute Pubblica dell'Università di Liverpool John Moores, dove si sostiene che:

L’implementazione di un’azione forte e sostenibile per creare ambienti di vita notturna sani e sicuri richiede l’impegno di una vasta gamma di agenzie. I problemi riguardanti la salute che sorgono nel mondo della notte devono essere chiari e di prioritaria importanza per tutti i soggetti coinvolti nella vita notturna e l’azione indirizzata ad essi deve essere integrata in pianificazioni strategiche locali (Hughes et al. 2011: 2).

Sono state individuate le azioni, che il manuale definisce come più congrue e valide per la prevenzione dei rischi connessi all’uso di alcol nei locali notturni, ritenute possibili anche nella realtà italiana: creazione di alleanze tra soggetti diversi (forze dell’ordine, servizi sanitari, trasporti e amministrazione pubblica, associazioni di cittadini), per identificare e affrontare i problemi che via via si possono presentare; formazione degli addetti alla somministrazione, intrattenimento e sicurezza (tale formazione ha come obiettivo la conoscenza e il rispetto di pratiche responsabili per intervenire efficacemente nelle situazioni problematiche, inoltre è importante che il personale sia in grado di intervenire nella gestione di situazioni ad alto rischio di morbilità e mortalità); realizzazione di zone di decompressione (chill out), laddove questo sia possibile, ben areate, con posti a sedere e musica a basso volume; controllo della temperatura e la ventilazione per evitare surriscaldamento e atmosfere fumose; distribuzione di acqua gratuita per evitare colpi di calore; installazione di distributori di profilattici all'ingresso dei bagni; monitoraggio delle zone ad alto rischio (come i bagni) per evitare sovraffollamenti e aggressioni

A queste azioni se ne aggiungeva una, molto innovativa per la realtà italiana, ossia la possibilità di offrire la colazione in una zona chill out prima dell’uscita dal locale. Quest’intervento esigeva il posticipo della chiusura dei locali alle cinque o sei di mattina e nasceva dalla constatazione che la maggior parte dei giovani avventori lasciava il locale in tarda notte, in uno stato di alterazione dovuto all’uso di alcol e/o sostanze stupefacenti, e si recava alla propria abitazione utilizzando l’automobile. Questa proposta è stata sottoposta al vaglio del Comune di Torino, che nel 2017 aveva emesso un’ordinanza di chiusura dei locali alle due del mattino, adducendo motivazioni di ordine e di salute pubblica. Spesso i proclami, e le conseguenti decisioni, seguono logiche di propaganda politica che poco hanno a che vedere con questioni legate alla prevenzione dei rischi. Infatti la chiusura anticipata dei locali aggrava la situazione perché induce la popolazione del mondo della notte a mettersi alla guida in condizioni di alterazione, oppure a proseguire il consumo di alcol in strada con ripercussioni sull’ordine pubblico. Ad oggi stiamo ancora attendendo una risposta per poter realizzare questa iniziativa che va nella direzione della salvaguardia del benessere di tutta la cittadinanza. I gestori dei locali notturni iscritti all’EPAT hanno però acconsentito alla proposta di stilare un codice deontologico dove saranno evidenziate le condizioni necessarie per consentire ai frequentatori di divertirsi in sicurezza: locali ben areati, consumo di alcol moderato e consapevole, acqua disponibile, bagni sorvegliati. Questo traguardo ci sembra la misura di quanto sia vincente la strategia della negoziazione e della “convergenza cognitiva”, una strategia di comprensione condivisa e di comunicazione efficace che permette di travalicare i confini professionali (Bonetti 2018).

Il secondo progetto, che riguardava i ristoranti, ha avuto meno seguito. Soltanto tre esercenti hanno aderito alla campagna “Porta la bottiglia a casa”; a loro è stato chiesto di facilitare il comportamento attraverso la scrittura sul menù di questa possibilità e l’offerta di una borsetta porta bottiglia. Queste semplici facilitazioni, secondo il parere dei vari attori coinvolti, possono portare a un cambiamento dell’universo simbolico degli avventori, che come prima descritto, spesso trovano poco appropriato questo gesto. Per questo motivo è stato chiesto ai ristoratori di utilizzare una scheda per rilevare il numero di bottiglie portate a casa: l’intenzione è quella di analizzare i dati e di tentare di estendere l’iniziativa. Siamo consapevoli che queste pratiche hanno bisogno di tempo e costanza affinché diventino consuetudini. Riteniamo comunque un successo l’inizio della sperimentazione e l’adesione dell’ASCOM all’iniziativa “Rimpiattino”[17] proposta dalla FIPE (Federazione Italiana Pubblici Esercizi) che dimostra un incremento di sensibilità in merito ai temi della salute e della sostenibilità ambientale.

Il progetto sull’alimentazione salutare a prezzi contenuti

L’alimentazione è un fatto culturale, ogni soggetto mangia seguendo norme sociali, più o meno esplicite, che fissano cibi commestibili e cibi considerati vietati. Il gusto è storicamente e socialmente determinato e cambia nel tempo. Singoli cibi assumono significati simbolici in riferimento a talune caratteristiche di diverso ordine: sapore, effetti, costi, provenienza; ne consegue che le forme di alimentazione sono socialmente prodotte e dunque eterogenee (Seppilli 1994; Guigoni 2009).

Per di più le percezioni rispetto allo stato di benessere o malessere sono influenzate da repertori culturali individuali e collettivi, da rappresentazioni sociali e da consuetudini radicate nel tempo. I bisogni, e di conseguenza le interpretazioni, cambiano, come sostiene Geoges Canguillem: «L’astigmatismo e la miopia sarebbero normali in una società agricola o pastorale, ma anormali nella marina o nell’aviazione» (Canguillem 1998: 165).

Nelle società contemporanee il cibo è diventato sempre di più l’elemento fondamentale di uno stile di vita salutare atto a combattere le malattie croniche, tant’è che a Vienna nel 2013 si è tenuta la prima conferenza ministeriale dedicata a queste tematiche organizzata dall’OMS Europa, nell’ambito della strategia Health 2020. La dichiarazione finale impegna gli stati membri a rendere facile per le famiglie l’acquisto e il consumo di frutta, verdura e di altri alimenti che proteggono dalle malattie croniche, di cibi confezionati e bevande con ridotto apporto calorico, e presenza di grassi saturi, senza zuccheri e sale aggiunti; a rafforzare il ruolo dei servizi sanitari nel prevenire le malattie croniche e nel promuovere comportamenti sani; a riconoscere e sostenere le alleanze e le reti attivate con gli attori della comunità locale impegnati in azioni di promozione della salute rivolte alle famiglie, ai bambini e agli anziani[18].

Il progetto “Cibo salutare a costi sostenibili” è nato dall’esperienza delle dietiste del SIAN[19], le quali avevano constatato la diffusa opinione, da parte dei loro pazienti, che il cibo salutare avesse prezzi poco accessibili, diffusasi in seguito al proliferare di negozi di cibo biologico decisamente non a buon mercato.

Per decostruire questa idea e motivare le persone, anche quelle prive di possibilità economiche tali da recarsi quotidianamente nei negozi di cibo biologico, a nutrirsi in modo salutare abbiamo iniziato a collaborare con i supermercati Coop al cui interno operano alcune dietiste che si sono dichiarate disponibili a progettare iniziative che andassero in questa direzione. In un secondo momento è stato coinvolto anche il Corso di laurea in Dietistica dell’Università di Torino.

Il progetto congiunto si è avvalso delle teorie relative al marketing sociale, ovvero la proposta di azioni che consentissero ai soggetti di acquisire abilità e competenze per scegliere in modo consapevole cosa è meglio per la propria salute. Gli obiettivi del marketing sociale sono molteplici e implicano il favorire un cambiamento cognitivo attraverso una maggiore conoscenza del problema e delle sue possibili soluzioni, l'incentivare alcune scelte a scapito di altre, l'abbandonare o modificare stili di vita nocivi e favore di abitudini più salutari ed infine il modificare opinioni profondamente radicate rispetto ad alcuni temi/situazioni. Nel marketing sociale la concorrenza non è tanto rappresentata da prodotti o soggetti, quanto dalle idee e dai comportamenti che si vogliono modificare offrendo possibili alternative (Kotler, Roberto 1988; Maibach et al. 2002).

Sono state previste quindi due azioni, la prima a novembre 2017 e la seconda a ottobre 2018 precedute da alcune giornate di osservazione dei comportamenti di spesa dentro un grande ipermercato Coop della città[20].

La prima azione prevedeva la presenza di banchetti sparsi in punti strategici all’interno dell’ipermercato e la proposta di una spesa “accompagnata” con consigli sugli alimenti da acquistare. All’ingresso dell’ipermercato un professionista sanitario (dietista, medico, antropologa) accoglieva e descriveva ai clienti l’iniziativa invitandoli a visitare i banchetti dove erano presenti gli studenti.

La spesa “accompagnata” permetteva agli operatori di ricevere informazioni sugli stili alimentari dei soggetti coinvolti attraverso una relazione a legame debole[21] e di riflettere sui comportamenti considerati errati superando un ingenuo culturalismo che individuava la scelta nutritiva soltanto in base alla cultura o alla classe sociale di appartenenza[22]. Inoltre erano state previste diverse azioni teatrali all’interno dell’ipermercato e nella galleria commerciale per attirare l’attenzione del pubblico sull’iniziativa.

La seconda azione è stata dedicata alle famiglie con bambini da zero a sei anni e prevedeva un banchetto all’ingresso della galleria commerciale con materiale informativo sull’alimentazione dei bambini, la presenza di una pediatra e alcune dietiste per counselling brevi, un altro banchetto con distribuzione di cibo “salutare” e una postazione per l’informazione sulle manovre da effettuare in casi di ostruzione delle vie aeree dei bambini. Anche quest’ultima serviva ad attirare l’attenzione del pubblico verso questo tipo di iniziativa.

Per entrambe le azioni sono stati distribuiti questionari di gradimento che hanno dimostrato l’interesse verso questa tipologia di progetti.

Per gli studenti e le studentesse del Corso di laurea in Dietistica queste sono state azioni molto stimolanti poiché esulavano dalla loro pratica consueta. Infatti, come vedremo anche in seguito, questo tipo di corso affronta tradizionalmente soltanto la relazione clinica duale e non vi è alcun accenno al lavoro con la comunità.

Negoziazioni, dilemmi, opportunità

L’inserimento del sapere antropologico all’interno delle strategie di promozione della salute ha suscitato resistenze, riflessioni, innovazioni e dilemmi. Per far parte integrante di sistemi complessi, quale è un’équipe multiprofessionale (dove operano esperti diversi: psicologi, medici, assistenti sanitari, infermieri), occorre agire con circospezione per comprendere il punto di vista degli altri. Comprendere non vuol dire essere d’accordo o non poter esprimere opinioni divergenti, bensì cogliere la reciproca posizione per poter instaurare un dialogo costruttivo. Come evidenzia John D.H. Porter: «Public health requires research that is multi, inter and trans disciplinary. To do this, there is a need for each discipline to respect the “dignity of difference” between disciplines in order to help create appropriate and effective public health policy» (Porter 2006: 133).

Soltanto un approccio transdisciplinare (Bernstain 2015) può generare qualcosa di nuovo all’interno delle politiche pubbliche, a sostenere che questo è possibile, nonostante le diverse posizioni epistemologiche e di potere, è la scrittura di articolo a quattro mani, che mette a confronto il punto di vista medico e quello antropologico.

Vorremmo a questo punto riflettere sui dilemmi scaturiti da questa collaborazione. Il primo è quello del lavoro di campo etnografico. Gli antropologi conoscono le peculiarità di questa metodologia, divenuta una tradizione della disciplina, che richiede un’immersione totale e lunga in un dato contesto, come scrive Olivier de Sardan:

L’inchiesta di tipo antropologico vuole avvicinarsi il più possibile alle situazioni naturali dei soggetti – vita quotidiana, conversazioni –, in una situazione di interazione prolungata tra il ricercatore stesso e le popolazioni locali, al fine di produrre delle conoscenze in situ, contestualizzate, trasversali, volte a render conto del “punto di vista dell’attore”, delle rappresentazioni ordinarie, delle pratiche consuete e dei loro significati autoctoni(Olivier de Sardan 2018: 89).

Quando questo viaggio cognitivo viene intrapreso in territori vicini a casa deve comportare una maggiore attenzione alla relativizzazione dello sguardo e delle categorie interpretative perché maggiore è la propensione all’identificazione senza riflessione. Lo straordinario, in questo caso, va ricercato non nell’estraneità evidente dell’altro, ma nella capacità di rendere l’altro diverso da sé per poterlo narrare. Lo sforzo è quello di osservare se stessi in relazione all’altro, di riconoscere e decentrare gli aspetti che paiono più familiari per trovare l’inusuale anche nel consueto. Occorre assumere uno sguardo estraneo nel guardare cose familiari. Certamente il fatto che l’antropologa scrivente fosse stata assunta molti anni prima come educatrice professionale ha facilitato l’ingresso nel campo[23], giacché quando si è implicati in un contesto come lavoratori si è già “dentro”. Lo stare “dentro” è diverso dal ruolo dell’osservatore partecipante, il proprio posizionamento è condizionato dalla necessità del proporre e del fare. L’esercizio costante è quello dell’auto-osservazione, della “bisociazione cognitiva”, ossia la comprensione del fatto che un concetto, una pratica, un’asserzione, può appartenere contemporaneamente a più sistemi di significato (Sclavi 2000), e che quindi occorre costantemente essere consapevoli dei propri universi di riferimento che producono le modalità dello “stare” in un dato contesto. Di conseguenza il lavoro di campo per un’antropologa inserita in un servizio è quello di tutti i giorni, fatto di incontri, pratiche, proposte, errori e negoziazioni. Un’autoetnografia (Ellis et al. 2011) “lavorativa” durante la quale l’esperienza personale contribuisce alla comprensione situata e parziale dei fenomeni sociali e culturali (Adams et. al. 2015).

Lo “stare” contempla la possibilità della contaminazione tra saperi. Un medico impara che il contesto di riferimento è importante e che occorre dare spazio e potere a soggetti diversi, un’antropologa impara a comprendere i linguaggi e le metodologie della ricerca quantitativa inerenti alla salute pubblica. L’autoetnografia “lavorativa” include anche la consapevolezza che non tutto si può realizzare, che esiste una cornice istituzionale di cui tener conto costantemente poiché detta le regole del fare e del non fare. I progetti che si realizzano hanno quindi la forma della ricerca/azione, in questo modo la pratica dello stare sul campo, dell’osservazione e dell’auto-osservazione si legano all’azione che va sempre nella direzione della trasformazione. Certamente è necessario un tempo per la riflessione, per la raccolta dei dati, per l’osservazione del fenomeno, ma questo tempo deve essere molto più veloce di quello della ricerca etnografica ortodossa.

Questo è il secondo dilemma: i tempi della sanità pubblica sono rapidi, non è possibile passare un anno a osservare prima di ideare un progetto e agire. Quindi occorre negoziare, soprattutto con sé stessi, la necessità di ridurre questo tempo. Ridurre non vuol dire rinunciare, bensì utilizzare altre modalità per arrivare alla comprensione di un contesto, come per esempio ricerche effettuate in ambiti simili, progetti già avviati con risultati positivi, periodi di osservazione più brevi. Anche il lavoro di équipe è importante in questo frangente: osservare in tanti, prendere in considerazione esperienze e saperi diversi, consente di riflettere a partire da più punti di vista per arrivare a una migliore e più rapida comprensione dei fenomeni e dei contesti.

Per quanto riguarda i due progetti descritti in precedenza sono state adottate diverse strategie: le osservazioni degli operatori sul campo, l’analisi di progetti simili, le ricerche nazionali e internazionali già effettuate in quei settori, anche se non prettamente antropologiche. Questo ci ha permesso di iniziare il percorso di progettazione in breve tempo, anche se poi i tempi di attuazione si sono dilungati per la presenza, voluta, di attori diversi. Quando si percorrono le vie della progettazione e realizzazione partecipata i tempi si allungano necessariamente poiché occorrono spazi di riflessione tra i diversi punti di vista, obiettivi e valutazioni. Lavorare con i gestori dei locali notturni, con i ristoratori, con i supermercati significa fare un passo indietro per lasciare all’altro la possibilità di esprimersi, sapendo che gli intenti sono a volte molto lontani da quelli della sanità pubblica e che anche tra gli operatori vi possono essere epistemologie professionali molto diverse. Questa impasse si può superare soltanto attraverso percorsi di negoziazione che la progettazione partecipata permette.

Il terzo dilemma è quello della valutazione. La semiosfera in cui si muovono e agiscono i professionisti socio-sanitari è pesantemente condizionata dalle parole della scienza. Se una pratica non è stata verificata scientificamente attraverso metodologie quantitative, che ne misurano la validità in termine di cambiamento degli stili di vita, viene considerata inattendibile (la scienza medica ha da anni rivendicato l’importanza della misurazione degli esiti in tutti gli ambiti della salute). Inoltre il paradigma finanziario che domina anche la salute pubblica richiede di rispondere alle domande relative ai costi/benefici di tutto ciò che viene messo in atto.

Scrive Francesco Calamo-Specchia:

Perlomeno a partire dalla prima rivoluzione industriale, una delle tendenze di fondo nell’evoluzione delle società sviluppate sembra essere quella di sostituire con una valutazione quantitativa “immanente” ogni giudizio che si richiami a qualsivoglia dimensione valoriale, e a tenere in gran sospetto ogni criterio di analisi che trascende la numerabilità. Nella sua più recente versione, tale tendenza ha generato una vera e propria, e sempre più crescente, ossessione per espressioni come “qualità” e “eccellenza” e simili; che declina però questi termini entro i confini semantici di un’interpretazione puramente ponderale e numerica, forzando ogni ossimoro (Calamo-Specchia 2015: 651).

Questa interpretazione si trasforma nell’esigenza di “misurare” sempre le pratiche che hanno a che fare con la salute e la malattia, spesso con sistemi di valutazione ingenui che non sono ritenuti sufficienti per validarne l’efficacia. Si genera quindi un paradosso: nei servizi si valutano quantitativamente le pratiche in modi che non vengono ritenuti sufficientemente scientifici da chi si occupa a livello accademico di promozione della salute e valutazione, ciò nonostante si continua a misurare, anche quando gli operatori reputano questo sistema inutile e gravoso. Si misura perché occorre dimostrare di avere raggiunto un numero sufficientemente alto di persone, si misura per giustificare il tempo/lavoro impiegato nei progetti. Il solo criterio di efficacia degli interventi relativi alla salute, però, non può essere generalizzato perché l’attività di promozione non è un farmaco e non si può valutate nello stesso modo: «la ragione della sua attivazione non è dunque tanto nella sua efficacia, difficilmente dimostrabile dal punto di vista oggettivo, quanto appunto la sua necessità colta dalla collettività» (Calamo-Specchia 2015: 659). In questo senso, secondo alcuni operatori, i progetti si giustificano a priori perché inerenti al bene comune e a un irrinunciabile guadagno valoriale.

La questione della valutazione ci pare quindi cruciale, perché esemplificativa di un’invasione della razionalità tecnica, scientifica ed economica in un settore come quello dei cambiamenti dei comportamenti umani ben poco razionale e difficile da comprendere attraverso un’interpretazione numerica. Inoltre, se da un lato troviamo l’accusa di una parte della comunità scientifica di agire secondo il primato della creatività, dall’altro troviamo operatori che tentano di apparire “scientifici”, ma allo stesso tempo non reputano essenziale l’attività di valutazione. Anche in questi progetti ci siamo poste il problema della valutazione e abbiamo creato questionari e schede di rilevazione, consapevoli sia delle contraddizioni e ambivalenze che questa tematica mette in evidenza, sia della difficoltà di costruire un impianto di valutazione che tenesse conto dell’imprevedibilità e della complessità dei comportamenti umani.

Peraltro la necessità di rilevazioni numeriche che diano conto del lavoro svolto è difficilmente superabile in una sanità che ha sposato la visione aziendalistica e impone la misurazione e la relativa monetizzazione delle attività.

Il quarto dilemma è la consuetudine degli operatori sanitari al lavoro di cura con soggetti singoli che paiono avulsi dal loro contesto di vita.

Il concetto di comunità, come abbiamo esplicitato in precedenza, presuppone l’andare oltre la visione territoriale, considerando anche aggregazioni momentanee basate su interazioni dinamiche (Laverack 2018) come una scuola, un supermercato, un locale notturno. Lavorare con le comunità significa individuare gli interlocutori più rappresentativi, quelli che possono influenzare le scelte o prendere le decisioni. Passare quindi dal singolo alla comunità può rappresentare un’impresa piena di ostacoli perché le epistemologiche professionali indirizzano verso una relazione prettamente duale, dove spesso neanche la famiglia viene compresa. Al termine del primo evento nel supermercato Coop gli studenti e le studentesse del Corso di laurea in Dietistica erano fortemente stupiti che si potesse svolgere un’attività diversa da quella clinica. Questo ci fa riflettere sui percorsi di studi dei professionisti della cura dove l’attenzione al contesto di provenienza dei soggetti e la possibilità di lavorare nelle e con le comunità sono assenti o residuali. In questo senso, il punto di vista antropologico può rappresentare certamente un’opportunità anche se si scontra con il sapere biomedico. Le opportunità di cambiamento sono presenti, si tratta di accettare percorsi fatti di piccoli passi e di negoziazioni continue. I progetti sopra descritti non sarebbero stati possibili se tutta l’équipe non fosse stata sensibile e pronta ad accettare le sfide che un lavoro con i soggetti intermedi comporta. È molto più semplice chiudersi nel proprio studio e avere a che fare con un soggetto singolo. In quel caso il potere che il proprio posizionamento clinico assume è preponderante, mentre in tavoli di lavoro misti, dove la progettazione è davvero partecipata, il potere è condiviso. Inoltre i progetti di promozione della salute che insistono soltanto sui soggetti de-contestualizzati rischiano di perpetrare le disuguaglianze perché raggiungono una fetta di popolazione già sensibilizzata. Pratiche che informano indistintamente sui rischi relativi agli stili di vita o attività proposte in modo standardizzato generano un gap tra i destinatari possibili.

Infine, ultimo dilemma, che si collega alla possibilità che l’antropologia possa essere davvero un’opportunità per i servizi sanitari, è la necessità di una critica costruttiva. Una certa antropologia medica, soprattutto accademica ci ha abituato a una modalità critica che non esitiamo a definire nichilista; infatti, come scrive Fabio Dei: «l’antropologia medica ha visto consolidarsi a partire dagli anni Ottanta un indirizzo dichiaratamente critico centrato sulla visione di uno Stato patogeno e violento» (Dei 2017: 31). Sembra che, per dimostrarsi non assoggettati al potere biomedico, occorra considerare tutte le pratiche effettuate dai servizi sanitari come dannose e oppressive. Nulla si salva senza peraltro proporre alcuna alternativa possibile: «è bene che i poveri tagliatori di canna brasiliani non si facciano curare perché gli accademici radicali nordamericani possano parlare di rivoluzione» (Dei 2017: 33).

Ovviamente questo posizionamento è impossibile se si lavora nei servizi, in quel caso occorre venire a patti con il sistema biomedico perché qualcosa, anche piccolo, posso mutare. Peraltro gli operatori non si considerano per nulla asserviti al potere, molti di loro lavorano con passione e impegno costante, credono in ciò che fanno; gli antropologi non possono considerarsi gli unici depositari della “verità”, o di ciò che accade dietro le quinte, come se esistesse sempre qualcosa che non viene detto o che gli operatori “altri” non riescono a vedere.

Questo è un atteggiamento che respinge l’altro, considerato sempre sottomesso al “potere”, qualsiasi esso sia, che implica l’impossibilità della negoziazione, del lavorare in équipe con altri professionisti. Se l’antropologia medica o della salute non è disponibile ad assumere un atteggiamento più umile e collaborativo non potrà mai diventare una professione riconosciuta nel mondo dei servizi sanitari[24]. Questo non significa certamente rinunciare a mettere in evidenza i propri punti di vista o le proprie competenze, al contrario significa farlo in modo che gli altri le possano ritenere utili.

A questo proposito, le innovazioni prodotte dall’ingresso dell’antropologa come coordinatrice del setting “Comunità e Ambienti di vita”[25] riguardano la necessità della comprensione del contesto prima dell’avvio di un qualsiasi progetto e quindi la trasformazione delle attività in percorsi di ricerca/azione. Questo cambiamento di prospettiva non è né scontato, né semplice: quando è stato proposto alle dietiste del SIAN un periodo di osservazione nei supermercati per comprendere i comportamenti di spesa ci sono state molte resistenze, non se ne capiva il bisogno poiché, come esperte, loro ritenevano di sapere tutto ciò che era necessario per realizzare l’intervento. L’osservazione è stata quindi realizzata negoziando tempi e modi che, di conseguenza, non sono stati quelli tipici dell’etnografia. Per mettere in atto il progetto inoltre sono stati necessari numerosi incontri che non potevano essere definiti focus group, ma che avevano lo scopo di cogliere quello che le dietiste avevano osservato, attraverso i colloqui con i loro pazienti, circa le difficoltà di alimentarsi in modo considerato salutare. Altra innovazione è stato comprendere che occorre incontrare le persone, anche le più restie o quelle con i maggiori problemi, là dove vivono o si incontrano, “sostare” nei contesti, uscire dai servizi e addentrarsi in luoghi sconosciuti. Anche questo non è banale perché significa abbandonare la sicurezza che un luogo famigliare comporta. Imparare a cedere parte del proprio potere e avvicinarsi all’altro con un atteggiamento di profonda comprensione, ossia mettere fra parentesi le proprie matrici professionali e culturali, è qualcosa che si sperimenta nella pratica e che richiede coraggio e pazienza.

Non da ultimo, l’introduzione del pensiero antropologico ha consentito di superare la deriva culturalista (la definizione dei comportamenti umani soltanto in termini di appartenenza culturale). Questo atteggiamento che tende a stereotipizzare l’altro, collegando le sue scelte di vita unicamente ad atteggiamenti culturali, non permette di prendere in considerazione altri elementi quali la storia di vita del soggetto, le sue condizioni socio-economiche, l’health literacy e il genere.

Le prospettive

Due cose importanti sono accadute durante la scrittura di questo articolo: la prima è che l’antropologa scrivente è stata trasferita definitivamente all’interno del Dipartimento di prevenzione con un ruolo che da contratto non può essere quello dell’antropologa, ma lo è di fatto grazie alle collaborazioni avviate precedentemente e alla riconosciuta utilità delle sue competenze. Questo consentirà di ampliare i progetti del setting “Comunità e Ambienti di vita” e di realizzare momenti di osservazione e analisi di contesti e fenomeni. La seconda è che la Regione Piemonte sta iniziando la riflessione per l’ideazione del nuovo Piano di prevenzione regionale. Sarebbe importante che proposte come la necessità dell’analisi culturale, dell’approccio dialogico con le comunità e della progettazione partecipata entrassero a far parte del Piano. Il mettere al centro gli universi culturali dei soggetti e delle comunità vuol dire superare il sapere egemone (e l’etnocentrismo) tipico della biomedicina e allontanarsi dalle certezze tipiche di un certo pensiero scientifico che può risultare ingenuo poiché non considera la complessità e le differenze di approccio sulle questioni legate alla salute e alla sua promozione. Come già affermato in precedenza, occorrerebbe mettere in atto percorsi di ricerca/azione che aiutino a comprendere la realtà sociale, sempre molto sfaccettata e composita, dei comportamenti che si vorrebbero modificare. Senza questa comprensione si rischia di ideare e realizzare progetti standardizzati che spesso non vanno nella direzione auspicata.

Facciamo l’esempio delle collanine di ambra, utilizzate da alcuni genitori per alleviare il fastidio legato alla dentizione dei bambini, una pratica legata alla cristallo-terapia che è stata adottata da personaggi del mondo dello spettacolo[26] e che da allora si è diffusa, forse per emulazione, in diversi strati della popolazione. In rete sono numerosi i siti[27] dove impazza la discussione sulla sua utilità; di fatto i pediatri la sconsigliano per il rischio di soffocamento ed è considerata un pericolo dai professionisti che si occupano di prevenire gli incidenti domestici. Le reazioni a questa pratica sono spesso di demonizzazione o derisione, non vengono prese in considerazione le opinioni e le consuetudini dei genitori e non si riflette sulle motivazioni che li spingono ad adottare tale pratica, definita semplicemente come bizzarra o causata da ignoranza. Un caso simile è il rilevato aumento di ustioni in bocca nei bambini molto piccoli la cui causa è dovuta al riscaldamento del biberon nel forno a microonde e all’abbandono della vecchia consuetudine di accertare il grado di calore del latte sulla mano.

La considerazione che facciamo è che, in questi casi come in altri, occorrerebbe mettere in atto percorsi di ricerca per comprendere i comportamenti, prima di demonizzarli, al fine di progettare interventi, con l’aiuto di diversi attori (genitori, pediatri, gestori di siti), seguendo l’indicazione di Marmot (2010) sulla politica di inversione dei comportamenti standard [28].

Inoltre bisogna considerare che il concetto di rischio è fluido e come sostiene Åsa Boholm:

We all know, however intuitively, that ‘risk’ is extremely contextual and fluent, what is or what is not considered a ‘risk’ depends to a large extent on other things. Social relationships, power relations and hierarchies, cultural beliefs, trust in institutions and science, knowledge, experience, discourses, practices and collective memories all shape notions about risk or safety. ‘Risk’ is not an intrinsic property of things. It is a relational term that emerges out of contexts depending on shared conventionally established meanings, that is to say, ‘culture’. Social anthropology with its analytical capacity to bring into the open and problematize taken-for-granted assumptions and given meanings, in combination with its ethnographical methods can contribute by untangling the intrinsic situatedness of risk» (Boholm 2003: 175).

È necessario quindi prendere in considerazione tutte queste variabili e rappresentazioni quando un nuovo comportamento considerato a rischio si affaccia sulla scena sociale, evitando così facili semplificazioni.

C’è bisogno di esplorare, di comprendere, di riflettere per provare a promuovere la salute senza dimenticare che siamo dentro un paradosso: in una realtà sociale pervasa dal neoliberismo che spinge verso la responsabilità individuale e senza politiche inclusive e risorse economiche, gli operatori sanitari si sentono soli e sono consapevoli del rischio di medicalizzazione dei comportamenti umani[29]. Abbiamo tutti la sensazione di apparire come piccoli don Chisciotte che combattono contro i mulini a vento pensando che siano giganti. Questa sensazione di impotenza non ha possibilità di superamento senza strategie politiche e costruzione di sinergie con altri soggetti pubblici e privati. L’inserimento del pensiero antropologico può far emergere criticità e paradossi all’interno delle pratiche e la necessità della ricerca all’interno di qualsiasi azione.

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[1] Marc Lalonde era il Ministro della Salute e dell’Assistenza del governo canadese.

[2] Significativa risulta essere la definizione data da Alessandro Seppilli nel 1966, che definisce la salute come «condizione di armonico equilibrio funzionale, fisico, psichico dell'individuo dinamicamente integrato nel suo ambiente naturale e sociale» (Forino 2014: 297). La salute non è più intesa come stato, ma come equilibrio mutevole e viene messo l’accento sul carattere dinamico del rapporto tra individuo e ambiente.

[3] https://www.dors.it/alleg/0400/1986_Carta_Ottawa_OMS_ita.pdf (Sito internet consultato in data 10/2/2019).

[4] I determinanti della salute sono i fattori che influenzano lo stato di salute di un soggetto o di una comunità e possono essere raggruppati in varie categorie: comportamenti personali e stili di vita; fattori sociali che possono rivelarsi un vantaggio o uno svantaggio; condizioni di vita e di lavoro; accesso ai servizi sanitari; condizioni socio-economiche, culturali e ambientali; fattori genetici (Maciocco, Santomauro 2014). Questo modello incorre in due errori concettuali: stabilisce una gerarchia tra i fattori non prevedendo un’influenza reciproca, non include i processi, le interazioni, le politiche, gli attori che espongono a rischio i soggetti o al contrario li proteggono (Tarlov 1966).

[5] Le barriere vanno da fattori materiali (mancanza di trasporto, denaro, tempo), alle norme sociali (per esempio quanto è importante il giudizio degli altri su un comportamento) all’auto-efficacia (la stima della propria capacità di eseguire un comportamento).

[6] Tra i professionisti coinvolti vi erano: psicologi, assistenti sociali, educatori professionali, medici, assistenti sanitari, infermieri.

[7] Prendiamo in prestito dalle teorie economiche questo termine poiché ci sembra il più adeguato alla definizione di questi soggetti, gli stakeholder infatti sono tutti colori i quali possono influenzare o sono influenzati dal raggiungimento degli obiettivi di un’organizzazione” (Freeman 1984).

[8] Il concetto di comunità avrebbe bisogno di una trattazione più ampia che esula dalle finalità di questo articolo.

[9] Le agenzie intermedie (associazioni, istituzioni locali, scuole) interagiscono con la comunità attraverso azioni sia istituzionali che informali (Lemma 2005).

[10] La progettazione partecipata in ambito sociale e sanitario è una prospettiva metodologica che prevede la collaborazione dei vari attori (cittadini o gruppi sociali destinatari di un’iniziativa, amministratori e tecnici) i quali, attraverso spazi e momenti di elaborazione, sono coinvolti nell’ideazione o nella realizzazione comune di un progetto con ricadute positive sui partecipanti e il loro gruppo di appartenenza (Martini, Torti 2003).

[11] Il tema del tempo sarà ripreso nel terzo paragrafo.

[12] Il concetto di binge drinking, inteso come il consumo di 6 o più drink in un’unica occasione, è stato introdotto nelle rilevazioni dell’ISTAT dal 2003.Secondo i dati del 2016 tale comportamento riguarda il 15,9% della popolazione generale e il 25% dei consumatori. La popolazione giovane (18-24 anni) è quella più a rischio per il binge drinking, frequente soprattutto durante momenti di socializzazione, come dichiara il 17,0% dei ragazzi (21,8% dei maschi e 11,7% delle femmine) (https://www.istat.it/it/archivio/198903, sito internet consultato in data 2/5/2019).

[13] L’antropologa scrivente ha coordinato per tre anni un progetto di prevenzione dei rischi nel mondo della notte dove ha potuto osservare le dinamiche tra operatori socio-sanitari e gestori dei locali e oggi coordinata il gruppo regionale Safe Night che si occupa di uniformare i diversi interventi delle ASL e del privato sociale in questo ambito.

[14] I progetti di promozione della salute nel mondo della notte si pongono in un’ottica di riduzione dei rischi e non di proibizione.

[15] http://www.fixpunkt-berlin.de/index.php?id=projekte (Sito internet consultato in data 16/06/2019).

[16] Per cultura bagnata si intende un modello di consumo di alcol tipico dei paesi europei del mediterraneo (in contrapposizione con la cultura asciutta dei paesi anglosassoni). In questi paesi il consumo di alcol è collegato all’alimentazione ed è tradizionalmente moderato e socialmente tollerato. Il vino accompagna i pasti ed è presente nei momenti celebrativi (Guarino 2010).

[17] Rimpattino propone ai ristoranti di dotarsi di due contenitori molto accattivanti per cibo e vino al fine di infrangere la barriera culturale e proporre ai clienti la possibilità di impacchettare alimenti e vino avanzati, ed è così che la domanda : “potrei avere un rimpiattino?” sarà frequente nei ristoranti del bel paese (https://www.adnkronos.com/soldi/economia/2018/10/10/stop-sprechi-doggy-bag-diventa rimpiattino_iaAryb0SFCxaT8mt4X5XVL.html, sito internet consultato in data 23/05/2019).

[18] https://www.dors.it/page.php?idarticolo=495 (Sito internet consultato in data 16/02/2019).

[19] Servizio di igiene degli alimenti e della nutrizione.

[20] L’osservazione dei comportamenti di spesa aveva l’obiettivo di rilevare le differenze di gusto e le scelte alimentari a seconda delle caratteristiche degli avventori. Essa è stata effettuata alle casse del supermercato attraverso una scheda di rilevazione.

[21] Le relazioni a legame debole possono essere definite come opportunità per scambi di messaggi significativi, nel “qui e ora” (Ranci 2001).

[22] Anche il linguaggio “correzionale” indica una rappresentazione, spesso molto rigida, di conoscenze e comportamenti corretti a scapito di altri sbagliati.

[23] In questo momento, in Italia, non è possibile l’inserimento della professione dell’antropologo all’interno della sanità pubblica, conseguentemente tutti gli antropologi che operano in questi contesti hanno contratti atipici o sono stati assunti attraverso l’esternalizzazione di servizi, oppure possiedono un’altra laurea (con l’unica eccezione di alcune antropologhe assunte come “tecnico antropologo” presso L’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e per il contrasto delle malattie della Povertà). Quest’ultimo caso crea situazioni paradossali per cui gli antropologi mettono in campo le loro competenze, quando questo viene consentito, con un contratto che formalmente fa riferimento ad altre competenze.

[24] L’antropologa scrivente fa parte del Consiglio direttivo dell’ANPIA (Associazione Nazionale Professionale Italiana di Antropologia), è quindi impegnata nella applicazione, divulgazione e utilizzo nel mondo del lavoro, della società, e della politica dell’antropologia sociale.

[25] L’antropologa scrivente è stata nominata referente del setting “Comunità e Ambienti di vita” del Piano locale di prevenzione dell’ASL città di Torino nel 2016.

[26] Sono famosi i casi della figlia della modella Gisele Bündchen e del figlio di Chiara Ferragni e Fedez.

[27] Si vedano ad esempio https://www.nostrofiglio.it/ e https://www.bambinopoli.it/ (siti internet consultati in data 05/03/2019).

[28] La politica di inversione dei comportamenti standard cerca di influenzare l’universo simbolico di una popolazione target attraverso strategie politiche integrate che partendo dal marketing sociale, combinino azioni normative, educative, economiche e tecnologiche.

[29] Come afferma Tullio Seppilli, la medicalizzazione dei comportamenti quotidiani può introdurre «pesanti stimoli ansiogeni, si toglie spazio alla “spontaneità”, si problematizzano e si delegittimano, come “rischiose”, consuetudini significative per l’equilibrio della nostra vita» (Seppilli 2004: 67).