Chi impara da chi?

Fare antropologia con la scuola tra ricerca e azione

Zaira T. Lofranco

Università degli studi di Bergamo e di Milano Statale

Virginia Ginesi

dirigente dell’I. C. di Chiuduno, BG

Maria Luigia Reinini

Docente I. C. di Chiuduno, BG

Table of Contents

Introduzione
Etnografia e restituzione per creare le basi di un senso condiviso
Programmare per l’Istituto riflettendo criticamente sull’intercultura e sulla mediazione
Progettare e realizzare un laboratorio per la classe sulle competenze di cittadinanza “alternativa”
Conclusioni
Bibliografia

Abstract. In the last two years ago Italian schools have been considered a crucial arena where to bring anthropology into. Nonetheless, this study suggests that the value of anthropology in the public sphere and in education settings could be better acknowledged if we show what anthropologists and other school professionals can achieve working together. In this perspective, this contribution gives an account of the collaboration among an anthropologist, a headmaster and a teacher. The focus is the elaboration of a shared meaning of their mission through researching, planning and implementing intercultural activities in a public school in the Italian province of Bergamo.Framing their activities in a cooperative learning approach, where the teaching and learning roles are shared, the authors demonstrate how working with both cultural and professional diversity in schools can re-shape the whole educational project.

Keywords. Antropologia; scuola; mediazione; cittadinanza; apprendimento collaborativo.

Introduzione

La presenza dell’antropologia nella scuola italiana[1] ha guadagnato un ruolo di primo piano nel dibattito interno alla disciplina negli ultimi tre anni[2]. Questo dibattito non è stato solo teorico, ma è stato intrecciato all’esigenza di guadagnare legittimità nello spazio pubblico. Ne sono scaturite iniziative istituzionali volte a portare l’antropologia nella scuola soprattutto attraverso due canali: quello dell’inserimento della disciplina nei curricula di un numero maggiore di corsi di studio e quello della formazione antropologica degli insegnanti (Papa 2016). In questa congiuntura gli antropologi hanno maturato una riflessione sull’indubbio valore aggiunto che la propria disciplina può acquisire se portata, non solo fuori dall’accademia, ma in un contesto come la scuola preposto alla formazione di nuovi cittadini. Come ha sottolineato l’antropologa Cristina Papa, promotrice di queste importanti iniziative istituzionali:

«Favorire la presenza dell’antropologia nella scuola non risponde quindi soltanto a una comprensibile aspettativa degli antropologi di guadagnare spazi di legittimità per la propria disciplina ma anche a un compito di utilità sociale, a cui non possiamo sottrarci, quello di combattere le derive discriminatorie quando non razziste sempre più evidenti non solo in Italia ma anche in Europa, che si fondano sulle chiusure identitarie e sulla naturalizzazione delle differenze» (Papa 2016: 46).

In linea con questa affermazione, possiamo dire che trasmettere agli insegnanti un concetto di cultura complesso e de-essenzializzato e trasferire loro il metodo etnografico da utilizzare come strumento pedagogico sia fortemente auspicabile (Gobbo, Simonicca 2014). Tuttavia, ciò non appare di semplice realizzazione al di fuori di una trasformazione della prospettiva con cui la scuola guarda agli antropologi e questi ultimi guardano alla scuola. Come sanno le antropologhe e gli antropologi che hanno lavorato a vario titolo nelle scuole italiane, attualmente la consapevolezza dell’utilità della disciplina per il settore educativo ˗ e a maggior ragione per la società ˗ non è uniformemente diffusa tra il personale scolastico. L’antropologo non gode a scuola dello stesso riconoscimento accordato a figure “esterne” la cui presenza è ormai consolidata nella quotidianità scolastica, quali lo psicologo, il pedagogista, ecc... È quindi nell’ottenere questo riconoscimento e nel costruire “un senso condiviso” dell’utilità dell’antropologia a scuola, che risiede la prima grande sfida culturale e politica che gli antropologi devono affrontare.

A tal fine l’inserimento dell’antropologia nella formazione degli insegnanti è certamente un passo fondamentale. Tuttavia, sulla base di un’esperienza di ricerca etnografica da cui è scaturita una collaborazione con il personale scolastico, si vuole provare a suggerire una strategia aggiuntiva. Al fine, infatti, di favorire il riconoscimento dell’utilità dell’antropologia nei contesti educativi si ritiene che gli antropologi non solo siano chiamati ad insegnare alla scuola o ad imparare sulla scuola, piuttosto abbiano la necessità di imparare con la scuola.

Questa affermazione è radicata nella convinzione che la diffusione dell’utilità del sapere antropologico nei contesti applicativi passi inevitabilmente per l’apprendimento di cosa gli antropologi e le altre expertise professionali impiegate in quei contesti possono fare insieme. Ciò implica la condivisione di un capitale conoscitivo e di competenze che non è preesistente e non coincide esattamente e unicamente con la “cassetta degli attrezzi” che l’antropologo unilateralmente traferisce alla scuola, né con quella che la scuola trasferisce all’antropologo. Al contrario, questi strumenti e competenze operative sono il frutto di un’interazione, non sempre armoniosa, di una negoziazione all’interno della quale lo stesso antropologo ha da imparare.

L’antropologo, infatti, è coinvolto, al pari del personale scolastico, nel livellare le asimmetrie conoscitive relative alle modalità operative, agli strumenti, ai linguaggi, ai vincoli materiali ed etici delle professioni “altre”. In aggiunta, antropologi e personale scolastico sono sullo stesso piano nell’affrontare un’impreparazione condivisa di fronte all’inedita esperienza di ripensar-si, ovvero ripensare le loro competenze in interazione e al servizio di nuove attività. Si impara e ci si forma reciprocamente, quindi, nella programmazione e nell’implementazione di attività la cui “innovatività” è data dal nuovo sguardo con cui le si analizza, sia che si tratti di ripensare iniziative già esistenti, sia che si tratti di crearne di nuove (Pescarmona 2014).

Ovviamente siamo in presenza di un progetto realizzabile in maniera graduale e di cui si pongono le basi sin dal momento di ingresso nel contesto scolastico degli antropologi, che ancora troppo spesso avviene solo per la realizzazione di ricerche commissionate ed utilizzate dal mondo accademico.

Come Biscaldi ha sottolineato, facendo eco all’auto-riflessione avvenuta nell’antropologia a partire dagli anni ’80, le modalità trasparenti di accesso al campo pongono le basi per la creazione di una relazione con i nostri interlocutori indispensabile alla co-costruzione del senso dei dati prodotti in interazione con loro (Biscaldi 2015:14).

L’applicazione di questi principi etnografici ed etici ha animato il lavoro di molti antropologi italiani impegnati nel produrre una conoscenza sempre più raffinata sulla scuola, non più intesa come un contesto monolitico, ma culturalmente complesso, dinamico, in cui è possibile distinguere diversi piani d’analisi (Simonicca 2011; Piasere 2012; Bonetti 2014; Benadusi 2012).

Tuttavia, come ci ricorda ancora Biscaldi, l’etnografia responsabile e trasparente pone anche le basi per una ricerca che vada al di là della produzione di sapere che si concluda con la pubblicazione della monografia a beneficio del pubblico accademico. La ricerca può infatti avere seguito nella comunicazione dei risultati nella sfera pubblica, in cui l’antropologo prende la parola e contribuisce con le sue analisi all’elaborazione condivisa di soluzioni ai problemi della contemporaneità (Biscaldi 2015:15).

In questo contributo si vuole spingere oltre questa riflessione e suggerire che l’assunzione e la legittimazione di questo ruolo pubblico dell’antropologo/a può concretizzarsi, non solo stimolando una riflessione sulla diversità che abita la quotidianità scolastica, ma elaborando insieme ad altre expertise professionali strumenti per innovare il servizio educativo al fine di dare voce a questa diversità.

Questo rinnovato compito ci porta a rielaborare l’intera impresa educativa traendo ispirazione dall’impostazione del cooperative learning, illustrato da diversi studiosi, e coincidente con un metodo di apprendimento condiviso, non solo a classi culturalmente eterogenee, ma a gruppi di lavoro formati da figure professionali diverse (Gobbo 2008; Lamberti 2010). Come Gobbo ha sottolineato, il cooperative learning non è uno strumento utile di per sé ad annullare le diversità di ruoli o a livellare le asimmetrie di potere (Gobbo 2008: 68). Esso può però servire a mettere in questione l’autorità che ognuno pensa di detenere in assoluto nell’insegnare all’Altro. I ruoli di discenti e insegnanti sono assunti in maniera situata e, più in generale, condivisi all’interno delle attività progettate e implementate. A livello più contenutistico, lo spirito dell’apprendimento collaborativo, che nelle classi eterogene permette di rifuggire alla logica dell’assimilazionismo nelle relazioni e nei conflitti, può essere anche utile a negoziare approcci e interpretazioni delle attività educative interculturali anche da parte di professionalità diversamente coinvolte in esse (Lamberti 2010: 10).

Nelle pagine che seguono vogliamo darvi conto del graduale processo di inserimento dell’antropologo nel contesto di un Istituto Comprensivo della provincia bergamasca, iniziato con finalità di ricerca. Si dirà di come l’attività di ricerca e di restituzione dei suoi risultati abbia costituito l’occasione per conoscersi e riconoscersi professionalmente e di come ciò abbia posto le basi per la “condivisione di senso” che ha trasformato la ricercatrice e i suoi interlocutori in collaboratori all’interno dello spazio scolastico.

Successivamente verranno presentati dei reali momenti di criticità e di conseguente negoziazione delle competenze presentatisi in attività di progettazione per l’Istituto e per la classe, che hanno coinvolto l’antropologa Zaira Lofranco in interazione con la dirigente dell’Istituto Comprensivo di Chiuduno (BG), Virginia Ginesi e con l’insegnante di Lettere Maria Luigia Reinini, attualmente funzione strumentale di istituto per l’intercultura[3].

Etnografia e restituzione per creare le basi di un senso condiviso

Raccontare di una collaborazione significa raccontare di una relazione e del suo sviluppo. Non si tratta pertanto di ripercorrere le tappe di un percorso predefinito e tantomeno di un iter che può essere universalmente rappresentativo delle relazioni tra antropologi e scuola.

L’avvio di questa relazione nel nostro caso è avvenuto durante la realizzazione di una ricerca post-dottorato sulla mediazione interculturale nelle scuole della bergamasca, commissionata all’antropologa dall’Università locale[4].

L’antropologo in casi come questo propone “unilateralmente” di iniziare una relazione con il personale scolastico e non entra a scuola come consulente chiamato e “riconosciuto”. Le finalità di ricerca e non applicative pongono spesso gli antropologi (a scuola come altrove) nella posizione di dover spiegare il valore aggiunto del loro lavoro che non appare auto-evidente agli occhi degli interlocutori.

Nei contesti scolastici, inoltre, l’“auto-promozione” di una ricerca antropologica condotta con modalità etnografica richiede uno sforzo ancora maggiore a causa dello scarso riconoscimento che l’antropologia ha nei percorsi formativi del personale scolastico e nelle collaborazioni professionali da esso intrattenute con figure esterne.

Questi aspetti hanno reso complesso l’avvio di una relazione con il personale scolastico in vari istituti della provincia in cui l’antropologa ha sperimentato un diniego della collaborazione per la realizzazione della ricerca, nonostante il mandato istituzionale da parte dell’Università e, in alcuni, casi, l’autorizzazione da parte del Dirigente scolastico dell’Istituto.

Degno di nota è anche il fatto che l’antropologa esplicitasse nella sua richiesta di contatto con la scuola le finalità e l’oggetto della ricerca, che coincideva appunto con l’osservazione di attività in cui venivano coinvolti i mediatori (in classe e fuori) e la realizzazione di qualche intervista al personale scolastico coinvolto in esse. Difficilmente, però, questa proposta veniva colta come l’intervento di un professionista competente con il quale interagire per poter migliorare il servizio. Più spesso il ricercatore antropologo veniva accostato al tirocinante “apprendista” su cui i docenti svolgevano un compito di tutorato che essi consideravano già gravoso. In diversi casi proprio la presenza di tirocinanti mandati dall’Università nella scuola è stata addotta come motivazione per il rifiuto alla collaborazione.

Il punto di svolta nell’avvio del lavoro è stato l’approdo all’Istituto Comprensivo di Chiuduno, in cui la presenza dell’antropologa è stata legittimata sulla base di una prassi consolidata di apertura a collaborazioni con il territorio di cui anche l’Università era riconosciuto un attore importante. La dirigente dell’Istituto ha frequentemente spiegato nei nostri momenti di riflessione a posteriori come in realtà la sua “apertura” alle figure “esterne” trovava giustificazione nel Piano dell’offerta formativa (POF) della scuola ed in altre linee guida trasmesse dal Miur alla scuola, in cui si riconosce agli istituti autonomia di ricerca e si dà una definizione del sapere non solo da trasmettere, ma co-costruito, negoziato prima di tutto con gli alunni e poi con i professionisti[5]. Tuttavia, i dinieghi ricevuti in altri istituti fanno riflettere sull’interpretazione non uniforme di questa legislazione scolastica e sul fatto che anche in quel caso, come in altri settings etnografici, i soggetti “interni” elaborano e legittimano o rifiutano la presenza degli “esterni” sulla base di criteri valoriali da essi ritenuti fondanti la propria comunità scolastica (Althabe 1990).

Queste dinamiche hanno permesso nel nostro caso l’avvio della ricerca e contestualmente della relazione collaborativa in cui antropologa e il personale scolastico hanno iniziato a ri-conoscersi.

L’antropologa è lì per studiare la mediazione interculturale, ma impara anche le modalità operative, l’organizzazione e i ritmi dell’attività scolastica. A tal fine osserva e decostruisce stereotipi, scoprendo la scuola come contesto in cui esistono e convivono diverse sensibilità alla ricerca e alla diversità culturale e professionale. Inoltre, l’antropologa impara a tener conto di tempistiche, modi di procedere, protocolli, linguaggi e codici della scuola e di quell’istituto in particolare.

Occorre riconoscere tuttavia che per il personale scolastico di un Istituto “aperto” all’interazione con gli esterni l’antropologo da subito non appare un esterno come gli altri. Il metodo etnografico della ricerca emerge come “novità” rispetto alle modalità d’indagine attuate da altri ricercatori entrati nella scuola. Soprattutto i tempi lunghi dell’etnografia, che permettono di sviluppare la relazione, sono apparsi un elemento distintivo di questa disciplina. Come ha rivelato a posteriori un’insegnante «All’inizio non avevo capito che saresti rimasta con noi così a lungo. Avevamo ospitato una volta un ricercatore che stava scrivendo qualcosa sulle mamme indiane, ma era venuto una sola volta ad una nostra assemblea». Nella quotidianità anche il personale scolastico impara “sul campo” cosa fa un antropologo e come lo fa. La metodologia empirica, tuttavia, non sempre è bastata a dare legittimazione a questa figura e al sapere da essa prodotto. Non sono mancate resistenze alla collaborazione e allo sforzo di mettersi in gioco reciprocamente, motivate dall’idea che l’antropologo nonostante tutto esprima una prospettiva “teorica” e “astratta” sulla scuola, al contrario degli insegnanti che la vivono “in pratica”.

In aggiunta, come in altri contesti di ricerca, la domanda cruciale che rimane sullo sfondo fintanto che l’antropologa si limita ad osservare, chiedere e prendere appunti è «cosa penserà/scriverà di noi?» e «a chi e a cosa serve quello che fa?».

Il momento di restituzione in cui l’antropologa prende la parola è il momento in cui si risponde parzialmente a questi interrogativi, ma è anche un altro momento cruciale per la legittimazione del ruolo dell’antropologo, che getta i presupposti per una collaborazione non più finalizzata alla ricerca ma all’azione comune. Nel nostro caso la restituzione ha avuto luogo in un workshop organizzato all’Università con l’esplicita finalità non solo di restituire il risultato della ricerca ai diversi soggetti che vi avevano partecipato come interlocutori. La formula del workshop aveva, infatti, la finalità di organizzare la restituzione in maniera dialogica per trasformarla in un momento di riflessione collettiva sulle pratiche di mediazione che avevano luogo sul territorio provinciale[6].

Il luogo della restituzione dice molto su chi dà la parola all’antropologo e quindi sul riconoscimento del suo lavoro. La restituzione organizzata all’Università e non a scuola ha permesso all’antropologa di autolegittimarsi a prendere la parola, e di fare della restituzione uno spazio di negoziazione e riconoscimento di ruoli tra i diversi soggetti che contribuiscono alla strutturazione dell’habitus della mediazione interculturale nella bergamasca: scuola, associazioni e mediatori. Prendendo la parola, infatti, l’antropologa cerca di allargare il “campo di forze” che struttura il processo di mediazione per includere il contributo della riflessione accademica/antropologica.Così facendo, ella introduce anche alcune figure come i mediatori, ai quali solitamente si assegna un ruolo operativo e non riflessivo e propositivo. La restituzione come “presa di parola” ha provato a sovvertire alcune di queste gerarchie e a pareggiare le asimmetrie.

Dal punto di vista del personale scolastico inoltre, l’invito a recarsi all’Università per presentare il proprio operato nell’ambito della mediazione ha dato rilevanza e dignità al lavoro svolto dalla scuola. Come la dirigente stessa ha affermato:

«Il fatto che l’antropologa abbia espresso un’attenzione, una voglia di approfondire il nostro operato, ha valorizzato estremamente la progettualità della scuola, non tanto per l’apprezzamento ricevuto, ma soprattutto perché poter parlare con qualcuno che è curioso di capire che cosa sta dentro al nostro lavoro è incoraggiante per i nostri insegnanti, spesso chiusi dentro le mura di un ambiente dove si lavora veramente tanto, ma dove è difficile trovare riconoscimento a tutta la fatica che si fa»[7].

Pertanto, la restituzione in modalità dialogica e non monologica non ha generato semplicemente una giustapposizione di punti di vista diversi. Essa si è posta come un’esperienza mutuamente formativa, ma anche come un luogo di riconoscimento dei reciproci ruoli e competenze professionali che vanno intesi come complementari e non esclusivi. Per queste ragioni la restituzione non è coincisa con il momento conclusivo di una ricerca, ma con l’avvio di una relazione collaborativa con tutti i soggetti coinvolti ed in particolar modo con la scuola, che si è protratta nel tempo (7 anni) e si è concretizzata in attività congiunte che continuano ancora oggi attraverso un’opera di negoziazione incessante. Da quel momento in poi, infatti, l’antropologa è stata coinvolta direttamente nelle attività di programmazione e riprogrammazione dei progetti educativi della scuola.

Programmare per l’Istituto riflettendo criticamente sull’intercultura e sulla mediazione

Il “debutto” dell’antropologa nel nuovo ruolo di collaboratrice e non solo di ricercatrice nella scuola ha avuto luogo in un incontro di verifica del progetto denominato M1 ˗ Mediazione interculturale per l’accoglienza delle classi 1^. Il progetto, i cui sviluppi erano stati oggetto dell’osservazione dell’antropologa durante la ricerca etnografica, è stato realizzato nelle scuole primarie e secondarie di 1^grado dell’Istituto comprensivo di Chiuduno dal 2012, grazie al finanziamento dei Piani di diritto allo studio. Come spiega la Dirigente scolastica, il progetto è stato ideato per fornire supporto ed accoglienza ai genitori stranieri che iscrivono i figli alle classi prime di ciascun ordine di scuola. Esso prevede un pacchetto di ore di mediazione riservato all’accoglienza e all’accompagnamento dei genitori stranieri nelle assemblee di classe e nei colloqui individuali, in modo che possano conoscere, chiedere, esprimere aspettative e pareri, attivare un iniziale dialogo con l’istituzione scolastica italiana. Questo progetto intende considerare la famiglia straniera come “risorsa” e la mediazione linguistica e culturale come strumento per conoscersi e ri-conoscersi, e si propone di aprire uno spazio di negoziazione per costruire uno sfondo condivisibile di riferimenti culturali/educativi tra scuola e famiglie, per ridurre le distanze, per favorire una partecipazione consapevole, partendo dalla convinzione che, come si legge nella Programmazione d’Istituto che descrive il progetto, «non si possono aiutare gli alunni senza aiutare i genitori a capire ciò che i loro figli vivono a scuola».

Questo progetto viene coordinato e monitorato ogni anno dalla Commissione Intercultura, composta dalla Funzione Strumentale e dai docenti referenti “per gli alunni stranieri” dei quattro plessi dell’Istituto, da un docente referente per ciascuna classe prima elementare e media, dalla coordinatrice del servizio di mediazione e dai mediatori incaricati[8]. La Commissione si riunisce prima dell’avvio di ogni anno scolastico, per ri-condividere le finalità e il senso del progetto, programmare e concordare il lavoro da svolgere, e al termine del percorso per la verifica annuale, che raccoglie i risultati positivi e le criticità emerse, al fine della riprogettazione e miglioramento del percorso per l’anno successivo.

Sono proprio le fasi della programmazione, monitoraggio e verifica i momenti di “pensiero” che la Dirigente scolastica e la Funzione Strumentale per l’intercultura ritengono fondamentali per l’efficacia del progetto. Esse sostengono che proprio grazie a questa continua cura della riflessione “sul fare” è stato possibile finora garantire la tenuta e la prosecuzione di M1 nell’Istituto.

La Dirigente scolastica ha affermato in proposito che nella quotidianità scolastica gli insegnanti sono coinvolti in una sorta di “agire pressante”, determinato da esigenze varie e personalizzate che richiedono una risposta immediata, a volte anche lontana da quanto è stato programmato o dalle competenze predeterminate della professione docente. Per questo è importante ritagliare momenti di riflessione sull’agire, in cui prendere il giusto distacco dall’esperienza e confrontarsi con i diversi soggetti che ne hanno preso parte.

In queste fasi, oltre che nell’osservazione di alcuni momenti operativi ˗ assemblee e colloqui ˗, è stata coinvolta l’antropologa, che ha partecipato al tavolo di lavoro come uno dei soggetti invitati alla riflessione.

Questa partecipazione è stata legittimata dalla Dirigente scolastica dal modus operandi della scuola, la cui apertura alla collaborazione di altri soggetti al percorso formativo è stata ritenuta “doverosa” per cercare di evitare l’autoreferenzialità che spesso caratterizza il sistema scolastico, in cui si rischia di farsi condizionare dalla propria autovalutazione. A questo scopo la scuola riconosce l’importanza anche dell’occhio critico, prima di tutto delle famiglie, primi interlocutori esterni della scuola, ma anche di contributi come quello dell’antropologa che sono stati definiti «più alti e più professionali»[9]. Ciononostante, le modalità di partecipazione dell’antropologa non sono state immediatamente chiare a tutti i partecipanti agli incontri di verifica e progettazione. Questa confusione è stata sicuramente generata dal ruolo di osservatrice precedentemente svolto, che ha creato una serie di aspettative anche sulle sue modalità di partecipazione alle riunioni di progetto e sulla tipologia di sapere di cui sarebbe stata portatrice. Nel primo incontro di verifica, infatti, l’antropologa è stata pubblicamente presentata al personale scolastico come colei che “ci osserva” ma anche come colei che valuta l’operato della scuola. Questo inquadramento come osservatrice passiva e figura che giudica chi invece “agisce” ha costituito il presupposto per la sua prima presa di parola, finalizzata al chiarimento del senso della sua presenza in quel contesto. L’antropologa ha pertanto affermato che il suo ruolo non era quello di valutare l’operato della scuola, né ella intendeva esprimere un sapere “superiore” o avulso dalla quotidianità scolastica. Al contrario, le conoscenze del contesto scolastico che l’antropologa si accingeva ad esprimere erano state prodotte in dialogo con il personale scolastico, con i mediatori e con l’utenza scolastica.

Durante la riunione queste dichiarazioni si sono andate concretizzando con l’utilizzo da parte dell’antropologa della conoscenza maturata “etnograficamente” delle fasi di implementazione del progetto, che ha reso visibile il tentativo di collegare l’osservazione della quotidianità scolastica con un tipo di riflessione più teorica sui processi migratori e sull’intercultura.

L’occasione è stata creata dall’esternazione dalla delusione espressa da alcune insegnanti per l’assenza dei genitori stranieri nelle assemblee plenarie e in particolar modo per la mancata partecipazione alle assemblee finalizzate all’elezione dei rappresentanti di classe. Secondo alcuni partecipanti i genitori stranieri sono spesso in ritardo anche ad incontri in cui viene convocato – e pagato – il mediatore. Essi vanificherebbero così le scarse risorse di cui la scuola dispone e lo sforzo organizzativo fatto per coinvolgerli. Su queste basi si è osservato che i genitori stranieri sono abituati all’assistenzialismo e si conveniva sull’opportunità di una loro responsabilizzazione poiché «le cose bisogna meritarsele»[10].

A questo punto l’antropologa è intervenuta proponendo degli stralci dell’etnografia per decostruire alcune versioni stereotipate dell’utenza straniera. È stato fatto concreto riferimento a colloqui avuti con mamme tunisine e marocchine di alunni della scuola, in cui erano emerse le loro difficoltà oggettive alla partecipazione attiva in orari pomeridiani quando i figli sono a casa. Tali difficoltà apparivano insite nella condizione di alcune famiglie migranti e nella loro condizione di dislocazione, che le costringe a funzionare come famiglia nucleare che non può contare sull’aiuto di parenti ed amici rimasti nel Paese d’origine. Nei paesi situati in provincia di Bergamo, la costituzione di comunità di migranti solidali tra loro in terra straniera, che è associato al modello delle così dette “catene migratorie”, veniva confutata dalla solitudine e dalle difficoltà testimoniate dalle mie interlocutrici[11]. L’ostacolo principale che questo comportava per le mamme convocate dalla scuola per assemblee plenarie pomeridiane, di durata maggiore rispetto ai colloqui individuali, era la gestione dei figli, soprattutto quelli piccoli che nel migliore dei casi venivano lasciati in custodia ai fratelli o alle sorelle adolescenti. Questa problematica è stata ritenuta particolarmente rilevante anche in altri spostamenti dei genitori richiesti dalla vita scolastica e familiare, come il ritiro dei figli da due edifici scolastici diversi allo stesso orario.

L’etnografia prodotta durante una delle assemblee per l’elezione dei rappresentanti di classe è stata lo spunto di riflessione sulle ragioni di una mancata partecipazione attiva dei genitori stranieri alle assemblee di questo tipo. Intervistate al momento in cui veniva loro richiesto di votare per uno dei due genitori italiani candidati, alcune mamme indiane hanno osservato che avevano difficoltà a scegliere dal momento che non li conoscevano. Il mancato inserimento delle mamme in questione nel tessuto sociale scolastico e locale rendeva loro difficile comprendere i meccanismi di rappresentanza e di delega dei propri interessi al di fuori di un rapporto di conoscenza pregressa e di fiducia. Al contrario alcune mamme marocchine residenti da più tempo in paese e più inserite nel gruppo genitori di classe sono state addirittura invitate a candidarsi, ma hanno comunque espresso la loro reticenza. A preoccuparle non era la raccolta di istanze comuni, dal momento che esse riuscivano a colloquiare in italiano con gli altri genitori e a partecipare alle chat del gruppo classe su Whatsapp. A fare da deterrente era la loro scarsa conoscenza della lingua italiana scritta che le avrebbe messe in difficoltà nello scrivere i verbali, come la scuola richiede ai rappresentanti.

Attraverso questi esempi la conoscenza etnografica è stata proposta come sapere che lega la riflessione più generale alla quotidianità scolastica. Ciò è servito non solo a legittimare il ruolo dell’antropologa e del sapere antropologico in quel consesso, ma soprattutto come spunto di riflessione e invito alla problematizzazione, a partire da un’analisi situazionale delle casistiche concrete che permette di decostruire le analisi stereotipate, limitanti nello sviluppo del progetto. Riportando gli episodi etnografici, l’antropologa ha provato ad insinuare il dubbio sulla oggettività di affermazioni che presentavano l’assenteismo e l’abitudine all’assistenzialismo, come caratteristiche dei genitori “stranieri”. Si è cercato in questo modo di presentare in maniera intuitiva, e non attraverso una lezione teorica, un approccio critico all’intercultura intesa come interpretazione culturalista e aprioristica dei comportamenti e dei fraintendimenti che possono accadere in contesti scolastici. Come già osservato da diversi studiosi dei contesti educativi, a partire dall’indagine etnografica di un hic et nunc, le interpretazioni interculturali dei fatti devono essere messe in relazione con interpretazioni alternative che interculturali non sono (Quassoli 2006: 94).

La modalità etnografica delle argomentazioni si è dimostrata, per tale ragione, molto utile a decostruire stereotipi e fornire elementi per interpretazioni alternative a partire da vissuti reali e senza esprimere un giudizio sulle affermazioni delle insegnanti, e provando soprattutto a generare riflessioni utili alla ri-programmazione del progetto.

La modalità interattiva con cui l’etnografia viene condotta è stata usata per veicolare un invito alla relazione, alla comunicazione con i genitori, ove possibile/necessario utilizzando il mediatore come professionista in grado di attivare una comunicazione bidirezionale con la famiglia. In questo modo si è inteso suggerire che la mediazione interculturale al centro del progetto potesse essere più proficua se impiegata non solo per trasmettere ai genitori “stranieri” cosa i loro figli vivono a scuola, ma anche per cercare di conoscere ciò che la famiglia vive fuori dalla scuola e provare di conseguenza a trasformare il servizio scolastico.

Tuttavia, l’apporto costruttivo di questa incursione etnografica nell’assemblea di verifica del progetto è stato limitato dalla difficoltà, espressa da alcune insegnanti, di tradurre in strategie operative queste osservazioni analitiche.

Ripartendo proprio dalla questione cruciale del ruolo del mediatore nel progetto, l’antropologa è intervenuta, provando questa volta a formulare in maniera propositiva le sue osservazioni etnografiche. Ha tratto spunto dalla problematica del posizionamento e del ruolo del mediatore in assemblea, che era ricorrente nelle riunioni di monitoraggio del progetto e che aveva spesso causato un dibattito tra mediatori ed insegnanti. In una delle riunioni di verifica del progetto un mediatore aveva richiesto che le insegnanti lo presentassero in assemblea, poiché egli era stato ripreso da alcuni genitori italiani, convinti che stesse chiacchierando e non traducendo simultaneamente. La Commissione allora si era attivata per impartire alle referenti di plesso direttive affinché all’inizio di ogni assemblea il mediatore fosse seduto accanto alle insegnanti e fosse presentato a tutti i genitori. Successivamente è stato anche previsto che il mediatore non si accostasse ai genitori stranieri durante l’assemblea plenaria, ma traducesse per loro una versione semplificata della presentazione, mostrata a tutti in un secondo momento in cui i genitori sarebbero stati separati per gruppi linguistici.

Sulla scorta di queste precedenti osservazioni e aggiustamenti, l’antropologa ha riportato la sua riflessione stimolata da un episodio a cui ha assistito durante una delle assemblee. Una mediatrice romena dopo essere stata presentata dall’insegnante fa un gesto che rivoluziona la prassi: prende la parola e si rivolge a tutti i presenti ˗ e per una volta non solo a quelli del suo gruppo linguistico ˗ evidenziando l’importanza di pronunciare correttamente i nomi degli alunni stranieri. A questo fine legge ad alta voce i nomi degli alunni romeni presenti in classe con la corretta pronuncia.

Riportando l’accaduto, l’antropologa ha evidenziato come sia necessario prevedere dei momenti di presa di parola del mediatore in assemblea plenaria. Il coinvolgimento del mediatore, come attore e non più come strumento della comunicazione, è suggerito come atto simbolico che possa catalizzare un cambio di prospettiva sul modello interculturale che potrà guidare la riprogrammazione del progetto M1. Quest’ultimo sarà da intendersi non come una mera facilitazione della comunicazione scuola-famiglia straniera, ma come messa in discussione delle prassi consolidate in questo ambito.

Queste osservazioni hanno stimolato un’autoriflessione nella stessa Dirigente:

«Nella nostra esperienza di monitoraggio del progetto M1, è stata l’antropologa a farci riconoscere il valore dell’intervento della mediatrice culturale in assemblea, quando ha sottolineato l’importanza di imparare a dire correttamente il nome e il cognome dei bambini stranieri, senza storpiarli. É insieme a lei che abbiamo rilevato quanto la nostra comunicazione sia ancora molto unidirezionale, e ci sia bisogno di mettere in atto con sistematicità delle modalità concrete di facilitazione perché i genitori stranieri riescano a prendere la parola e a partecipare più attivamente»[12].

Nel suo confronto con la Dirigente, questa autoriflessione, tuttavia, è stata presentata dall’antropologa come un risultato parziale. L’aneddoto della mediatrice che prende la parola in assemblea aveva come obiettivo più profondo quello di suggerire l’importanza di riconoscimento dell’etnocentrismo (e quindi della non ovvietà) di alcune modalità organizzative della scuola rispetto alla quale una parte dell’utenza è considerata “straniera”.

Questo riconoscimento, tuttavia, deve essere seguito da un ulteriore sforzo per la rielaborazione della mediazione come processo destinato a tutta l’utenza, affinché l’operato della scuola sia pensato come interculturale non solo in rapporto alle famiglie “straniere”.

Progettare e realizzare un laboratorio per la classe sulle competenze di cittadinanza “alternativa”

La collaborazione tra l’insegnante e l’antropologa si è concretizzata nella programmazione e nella realizzazione di un’attività laboratoriale destinata ad alunni delle classi prime della scuola secondaria di primo grado, i cui genitori hanno scelto che i loro figli non si avvalessero dell’insegnamento della religione cattolica.

L’ora settimanale di alternativa alla religione cattolica, nota nel linguaggio scolastico con la formula abbreviata di “ora di alternativa”, è un contenitore educativo in cui si trovano alunni nati da matrimoni misti o, nella maggior parte dei casi, alunni CNI ˗ con cittadinanza non italiana ˗. Tra questi ultimi è importante distinguere tra alunni NAI ˗ non alfabetizzati in lingua italiana ˗ ed alunni nati in Italia da genitori stranieri o traferitisi in Italia in età pre-scolare.

La prospettiva di partenza dell’insegnante e dell’antropologa su questa ora è stata ovviamente diversa.

Nel progettare le attività, l’insegnante si è posta in linea con le direttive d’Istituto che seguono la Raccomandazione 2006 sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente del Consiglio dell’Unione Europea. Quest’ultima individua otto competenze chiave che vanno potenziate negli alunni ˗ sociali e civiche; consapevolezza ed espressione culturale; comunicazione nella madrelingua, imparare ad imparare, ecc. ˗ le quali sono state riprese e incluse dal Ministero dell’Istruzione italiana nelle competenze di cittadinanza da valutare e da certificare al termine del primo ciclo dell’istruzione. Seguire questi protocolli per l’insegnante è anche funzionale a portare a termine un compito estraneo all’antropologa fuori dall’Università, ovvero formulare una valutazione del livello d’apprendimento dei ragazzi.

Per l’antropologa l’ora di “alternativa” appare interessante perché è uno spazio istituzionalmente creato per contenere la differenza religiosa, linguistica, spesso fatta coincidere con la cittadinanza degli alunni. Inoltre, è proprio nell’indicazione curricolare che intende potenziare le competenze relative alla cittadinanza ˗ genericamente o etnocentricamente definita ˗, che l’antropologa scorge un’interessante traccia per stimolare l’espressione della particolare forma di cittadinanza di questi alunni.

Queste due prospettive professionali differenti hanno tuttavia trovato un punto di convergenza nella decisione di progettare insieme un laboratorio di doppiaggio di film d’animazione in lingua italiana. L’attività era già sperimentata dall’insegnante, la quale aveva fatto seguire al doppiaggio altre attività quali la verifica della comprensione della trama e la personalizzazione dei dialoghi. Fintanto che l’insegnante aveva programmato il laboratorio individualmente, questo era stato finalizzato a potenziare la conoscenza a vari livelli della lingua italiana pensata come lingua standard. Per l’antropologa, invece, il doppiaggio rappresentava l’affermazione attraverso la voce delle soggettività e delle varianti linguistiche espresse da questi alunni- cittadini “alternativi”.

La progettazione del laboratorio è diventata un’occasione di formazione reciproca tramite l’avvicinamento e l’interazione tra di questi due punti di vista.

Per l’antropologa si è trattato di ripensare soprattutto la sua metodologia alla luce delle tecniche didattiche abilmente individuate dall’insegnante, che si sono rivelate indispensabili per porgere i contenuti alla classe e stimolare la riflessione. Per l’insegnante è diventata un’occasione per ripensare le consuete tecniche didattiche alla luce della prospettiva antropologica e della metodologia etnografica.

La scelta del film d’animazione da doppiare, per esempio, ha costituito un momento concreto di negoziazione delle diverse competenze professionali. Il film d’animazione Il Libro della Giungla 2 era stato inizialmente scelto dall’insegnante a partire dal contesto geografico-culturale in cui è ambientata la storia: l’India, paese d’origine di una parte degli alunni. Dopo avere congiuntamente esaminato la trama del film alla luce della letteratura antropologica sulla mobilità umana e sulle così dette seconde generazioni, si è deciso di utilizzare la storia per stimolare una riflessione a partire dalla comune esperienza di alunni che devono definirsi a partire da contesti di appartenenza plurimi e non per forza definiti sulla base di criteri nazionali. Come hanno rilevato le antropologhe Fulvia Antonelli e Giovanna Guerzoni, per i ragazzi di seconda generazione le comunità di migranti sono spesso più immaginate che reali (Antonelli, Guerzoni 2009: 16). La loro identificazione con esse può essere contestata perché percepita come arbitraria e frutto di un approccio etnicizzante imposto dall’esterno (Antonelli, Guerzoni 2009: 17).

Nel sequel del Libro della Giungla, Mowgli ormai adolescente si trova nella problematica situazione imposta dall’esterno di dover scegliere tra il mondo della giungla, nel quale è stato allevato da neonato, e il mondo degli umani, nel quale è stato portato da ragazzino.

Un altro momento di co-costruzione dell’attività è stata quella dell’individuazione delle tecniche per stimolare la riflessione sulla trama del film e sull’esperienza del doppiaggio, ovvero del prestare la propria voce ai personaggi.

L’antropologa e l’insegnante hanno convenuto che la ricerca della tecnica didattica più adeguata alle finalità del laboratorio dovesse essere guidata dalla necessità di permettere l’auto-espressione degli alunni su temi quali l’appartenenza culturale e la cittadinanza, che vengono spesso utilizzati in maniera plurale e situazionale da parte degli adolescenti figli dell’immigrazione (Tarabusi 2012: 35).

Le comuni attività di comprensione del testo utilizzate a scuola e finalizzate alla valutazione delle competenze linguistiche acquisite sono spesso caratterizzate da domande e risposte predefinite che lasciano poco spazio alla rielaborazione personale della trama. D’altro canto, il classico metodo etnografico dell’intervista semi-strutturata, pur garantendo la possibilità di espressione, non si adatta bene ad un’etnografia fatta con un gruppo, per il quale può essere utilizzato il focus group. Questa tecnica, tuttavia, poneva la questione della gestione regolamentata della conversazione tra alunni di undici anni.

Partendo dai limiti individuati nelle tecniche abitualmente utilizzate nei nostri ambiti professionali, l’insegnante ha suggerito l’applicazione della tecnica di discussione connessa alla “philosophy for children” (P4C) in merito alla quale aveva ricevuto una formazione specifica.

La P4C, come l’antropologa ha poi appreso, è stata ideata alla fine degli anni ’70 da Matthew Lipman, docente di Logica e Filosofia alla Columbia University di New York (Lipman, Sharp 1978; Lipman 1991; 1992). È una tecnica educativa che riconosce l’esistenza di innate capacità speculative nei bambini e ne stimola lo sviluppo attraverso il dialogo, la critica e la riflessione tra gli alunni. La classe è così trasformata in una “comunità di ricerca” in cui l’insegnante non offre risposte, ma si limita ad agevolare i procedimenti logici e la comunicazione interpersonale (Lipman 1992). L’insegnante-moderatore può tuttavia avvalersi di materiale didattico appositamente predisposto e diversificato per cicli di studio, per orientare la discussione ed il confronto tra gli alunni.

I materiali elaborati da Lipman, che l’insegnante ha messo a disposizione dell’antropologa, sono costituiti da brevi storie suddivise per unità didattiche, corredate da un manuale che contiene suggerimenti sui concetti e parole chiave su cui incentrare il dibattito in classe (Lipman 1999). Questi concetti teorici spesso articolati secondo uno schema binario (giusto/sbagliato; Buono/cattivo; dietro/avanti ecc…) sono tematicamente collegati alle unità didattiche del libro, ma mirano a stimolare nei bambini una riflessione astratta di cui è rilevante non tanto il contenuto ma l’acquisizione di un metodo di “problem posing” piuttosto che di “problem solving” (Lipman 1991).

La conversazione condotta in classe secondo il metodo della P4C prevede l’utilizzo di un cartellone su cui si appuntano le risposte date a turno da ognuno e viene prevista la possibilità di concordare o meno con le risposte date dai compagni.

L’approccio speculativo che sta alla base di questa tecnica didattica è sembrato congeniale alle finalità del laboratorio, innanzitutto per l’idea negoziata ed intersoggettiva della conoscenza prodotta, che l’antropologa in particolar modo ha individuato come molto vicina anche al metodo d’indagine etnografico.

In secondo luogo, la metodologia che caratterizza la P4C è sembrata adeguata a fornire un contenitore tematico abbastanza astratto da non predeterminare l’esito della conversazione, pur riuscendo ad evitare che le argomentazioni di pochi alunni prendano il sopravvento su quelle degli altri membri della classe.

Tuttavia, la mutuazione della P4C ha richiesto un adattamento al contesto per poter permettere che la modalità speculativa non si esercitasse su concetti scollegati dalla realtà degli alunni, ma potesse inglobare la dimensione empirica costituita dai loro vissuti personali.

La storia di Mowgli quindi è stata eletta a traccia per riflettere sul proprio concetto di appartenenza multipla e di cittadinanza. La riflessione è stata stimolata da una serie di quesiti incentrati su una coppia di concetti rintracciati nel manuale di Lipman, ovvero “dentro” e “fuori”.

La realizzazione dell’attività così programmata ˗ come direbbe un insegnante ˗ o progettata ˗ come direbbe un antropologo ˗ è stata anch’essa un momento sfidante per i nostri consolidati modus operandi.

Per l’antropologa la conduzione del laboratorio in classe ha significato interagire con gli alunni e questo ha richiesto un lavoro di traduzione del suo linguaggio e di adattamento della sua metodologia alle veloci dinamiche di interazione di una classe.

La conversazione stimolata nei bambini fa emergere affermazioni, messaggi, richieste che condensano concetti teorici tanto importanti da evidenziare, quanto difficili da rendere in maniera accessibile e non banalizzata nei tempi rapidi del dibattito spontaneo. La distanza temporale e geografica tra il luogo dell’etnografia ˗ on the field ˗ e il luogo della sua rielaborazione alla luce della teoria ˗ at home ˗ si annulla nella classe intesa come contesto applicativo e non più solo di ricerca. A questo si aggiunge l’impossibilità di prevedere i concetti che emergeranno dalla discussione che induce l’antropologa ad una sorta di “progettazione in tempo reale”, alla quale l’insegnante è più abituato. Affiancare l’insegnante nella conduzione del laboratorio con i bambini impone all’antropologa di modificare la normale postura professionale. L’osservazione distaccata e la scrittura sul taccuino devono lasciare il posto a una partecipazione interattiva e, semmai, alla scrittura alla lavagna.

L’insegnante dal canto suo, pur avendo più capacità di reazione alle provocazioni positive e alla spontaneità degli alunni, impara a gestirle con maggior “scientificità”, ovvero tenendo in debito conto la prospettiva teorica e metodologica che si è individuata in fase di progettazione. In questo modo l’insegnante sente di poter impedire che la sua improvvisazione, sollecitata dall’interazione in classe, si trasformi da risorsa in rischio di dispersione.

Conclusioni

Ciò che il nostro lavoro a scuola ci ha insegnato è che la costruzione di senso condiviso in merito al ruolo dell’antropologia in contesti pubblici, ma anche di temi come l’intercultura, la mediazione e la cittadinanza a scuola, passa per la de-costruzione delle nostre competenze pensate all’interno degli steccati professionali.

La collaborazione nel lavoro etnografico e di restituzione prima, e della programmazione poi, hanno promosso quegli “sconfina-menti” che, come Galloni ha affermato, esprimono la stessa essenza dell’intercultura: cogliere il punto di vista dell’Altro (Galloni 2014).

Così facendo si decostruiscono tante dicotomie, che si scoprono frutto del pregiudizio e che minano la credibilità dell’antropologia in contesti applicativi e la possibilità di tali contesti di avvalersi del sapere degli antropologi.

Prima fra tutti, viene meno l’opposizione tra l’astrattezza del pensiero accademico e la pragmaticità di un sapere calato nella quotidianità scolastica che sarebbe espresso dagli operatori scolastici.

Si comprende che queste forme di sapere non sono poi così distanti nella realtà. Possono inoltre essere avvicinati ulteriormente se l’antropologa compie un esercizio di taratura del registro comunicativo e di riformulazione dell’analisi etnografica in maniera propositiva e operativa e se il personale scolastico compie uno sforzo riflessivo per non rimanere invischiato nella sua azione. Come ha chiarito la Dirigente:

«Gli insegnanti sentono quanto ci sia bisogno di fermarsi, di riflettere, ragionare su ciò che fanno per riuscire a distanziarsi e mettere a fuoco gli eventuali atteggiamenti etnocentrici o/e “scuolacentrici”. Spesso in classe si è soli, spesso nelle assemblee, nelle riunioni che traducono in pratica ciò che si programma, si è soli a gestire o comunque estremamente coinvolti tutti nel fare, per cui il mediatore o l’antropologo restituiscono al personale scolastico un’osservazione che diventa importante»[13].

Gradualmente questo avvicinamento ha promosso un passaggio dalla iniziale paura del giudizio reciproco alla individuazione congiunta delle criticità. Dopo qualche tempo, il ruolo dell’antropologa è stato ridefinito come quello di “amico critico”, una definizione che presuppone una relazione paritaria e collaborativo-costruttiva. Tale relazione ammette anche la possibilità di non percepire l’antropologo come esperto da cui avere solo risposte, ma figura capace di porre problemi a cui occorre trovare risposta insieme.

In aggiunta, l’antropologa e il personale scolastico, che inizialmente si sentivano entrambi deputati ad insegnare, si predispongono invece soprattutto ad imparare.

Per l’antropologa l’insegnante non è più l’alterità a cui trasferire il sapere. Ugualmente, per la scuola, l’antropologa diventa non solo l’esperto che semplicemente osserva, valuta, giudica o incoraggia, ma co-costruisce il progetto con il riconoscimento della stessa dignità di un collega-insegnante nel prendere la parola nella verifica.

I nuovi stimoli, l’invito a problematizzare e a guardare con altri occhi, che da questo deriva, diventano un’efficace forma di auto-aggiornamento per la scuola e di formazione per l’antropologa.

Quest’ultima si trova di fronte alla necessità di adottare, imparandoli nel contesto scolastico e dal personale scolastico, nuovi strumenti metodologici e comunicativi. In questo modo collaborativo di apprendere e operare, le criticità ovviamente non sono mancate.

Come ha avuto modo di osservare la dirigente scolastica, non è affatto scontato condividere una visione di co-costruzione del sapere, poiché aprirsi ai punti di vista altrui significa anche accettare di mettersi in discussione e di far emergere i propri aspetti critici, le proprie contraddizioni. Va sottolineato che non tutto il personale è disponibile e pronto ad accettare di sentirsi messo in discussione. Occorre pertanto far perno su docenti trainanti che sono coerenti con il principio che occorre lasciarsi modificare nell’interazione. A scuola, inoltre, confluiscono anche opinioni politiche diverse o semplicemente concettualizzazioni diverse di intercultura o diversità, con cui bisogna confrontarsi.

In questo caso però è importante saper rispettare i ruoli, contestualizzare ciò che viene detto, affrontare con delicatezza il dialogo e la comunicazione per riuscire a portarsi a casa un valore aggiunto e non semplicemente un senso di inadeguatezza o di interferenza rispetto alla discussione della progettualità.

La criticità nell’attivare collaborazioni con altre professionalità è stata individuata nel considerevole tempo e impegno che esse richiedono per condividere un linguaggio, o semplicemente per conoscere l’altro punto di vista, cogliere il contributo che ciascuno di noi può dare ed elaborare la convinzione che ne valga la pena.

Da questo punto di vista l’esperienza di costruzione di un senso condiviso del progettare e dell’agire non è da considerarsi come meta raggiunta, ma come meta a cui tendere incessantemente.

Più significativamente però questa esperienza ha contribuito alla costruzione culturale e politica di un senso condiviso rispetto al valore che l’antropologia ha a scuola e sul suo peculiare punto di vista sui processi educativi in particolar modo interculturali. Si è fatta strada una conoscenza rispetto a cosa l’antropologo può fare a scuola e come può contribuire, insieme al personale scolastico, a cambiare la prospettiva e a progettare attività focalizzandole su dinamiche socio-culturali in atto in contesti eterogenei come quelli scolastici. Nel tentativo di mettere a fuoco la sua esperienza con l’antropologa a scuola, la Funzione Strumentale per l’intercultura ha sostenuto che «l’antropologia si fa attraverso le relazioni, ma genera anche relazioni». La docente ha poi osservato «che in ambito lavorativo questo crea e rinsalda collaborazioni che si basano su un nuovo senso condiviso dell’agire, velocizza la progettazione e permette di applicare alle problematiche un’analisi a più variabili»[14].

Alla luce della nostra esperienza, riteniamo in sintesi che una “nuova scuola” possa realizzarsi promuovendo l’interazione tra le diversità ˗ non solo culturali, sociali, ma anche disciplinari, professionali ˗ e che ciò serva a formare non solo nuove generazioni di cittadini, ma anche nuovi insegnanti e nuovi antropologi.

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[1] Dobbiamo a Giovanna Guerzoni l’ideazione della prima parte del titolo di questo contributo e la possibilità di discutere congiuntamente il nostro lavoro all’interno di un panel “Un antropologo a scuola. la restituzione dei processi di ricerca nei contesti scolastici” da lei organizzato al VI Convegno Nazionale SIAA a Cremona.

[2] L’elaborazione delle diverse parti del testo è frutto di un operato e di una riflessione condivisa. Tuttavia, l’introduzione ed il primo paragrafo sono stati scritti da Zaira T. Lofranco, il secondo paragrafo da Z.T Lofranco in collaborazione con la Virginia Ginesi e Maria Luigia Reinini, il terzo paragrafo da Z. T. Lofranco e Maria Luigia Reinini. Nelle conclusioni, Z.T. Lofranco ha riportato delle riflessioni maturate assieme alle altre due autrici.

[3] Le Funzioni Strumentali (FS) sono incarichi assegnati dal Dirigente scolastico e dal Collegio docenti a insegnanti con particolari competenze, esperienze e titoli in ambiti organizzativi e didattici individuati dalla scuola come strategici e da presidiare per il proprio Piano dell’offerta formativa.

[4] La ricerca è stata realizzata negli anni 2011-2013 ed è stata finanziata dal Dipartimento di lingue, letterature e culture straniere dell’Università di Bergamo.

[5] Si fa particolare riferimento all’art. 6 del DPR 275/1999 che attribuisce alle scuole autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo.

[6] Il workshop intitolato “La mediazione interculturale nelle scuole bergamasche: sfide e prospettive” si è tenuto il 28 Maggio 2012.

[7] Tratto dalla presentazione “Chi impara da chi? Fare restituzione sui temi della mediazione interculturale in una scuola della provincia di Bergamo”, tenuta il 13 Dicembre 2018 in occasione del VI Convegno Nazionale SIAA a Cremona.

[8] Attualmente nell’istituto è formalmente in uso la dicitura “alunni stranieri” per indicare l’utenza con background migratorio e le attività o il personale ad essa dedicati. Si tratta di una denominazione che fino a qualche anno fa era ufficiale presso il MIUR.

[9] Tratto dal testo della presentazione “Chi impara da chi? Fare restituzione sui temi della mediazione interculturale in una scuola della provincia di Bergamo”, tenuta il 13 Dicembre 2018 in occasione del VI Convegno Nazionale SIAA a Cremona.

[10] Tratto dal diario di campo dell’antropologa in cui si riportano osservazioni sull’Incontro di verifica del progetto M1 tenutosi in data 12 Aprile 2018

[11] Con l’espressione “catena migratoria” Reyneri ha definito un modello migratorio emerso per motivazioni prettamente economiche in cui il trasferimento degli aspiranti migranti veniva agevolato dall’esistenza nel paese d’approdo di individui appartenenti alle loro reti sociali (familiari, parentali, amicali) (Reyneri 1979).

[12] Tratto dal testo della presentazione “Chi impara da chi? Fare restituzione sui temi della mediazione interculturale in una scuola della provincia di Bergamo”, tenuta il 13 Dicembre 2018 in occasione del VI Convegno Nazionale SIAA a Cremona.

[13] Tratto dal testo della presentazione “Chi impara da chi? Fare restituzione sui temi della mediazione interculturale in una scuola della provincia di Bergamo”, tenuta il 13 Dicembre 2018 in occasione del VI Convegno Nazionale SIAA a Cremona.

[14] Tratto dal diario di campo dell’antropologa in cui si riportava un concetto ribadito più volte dall’insegnante in conversazioni informali.