Senso condiviso

Sapere antropologico e altre expertise professionali: un’introduzione

Federica Tarabusi

Università di Bologna

Table of Contents

Mediare (ma anche presidiare)
Sorprendere (ma anche apprendere)
Accogliere (ma non arretrare)
Attesi e imprevisti
Bibliografia

Quali difficoltà e ambiguità solleva la collaborazione fra diversi saperi professionali e approcci disciplinari nei contesti di intervento? In che modo la presenza di un antropologo interroga le expertise dei nostri interlocutori e quanto, viceversa, vengono negoziate e rimaneggiate quelle categorie (epistemologiche, metodologiche e deontologiche) a cui l’antropologia è più intimamente affezionata? Chi impara da chi? E ancora, quali processi vengono facilitati per tradurre le criticità e reciproche resistenze in soluzioni condivise e percorsi di cambiamento?

Con questi interrogativi si apriva il panel Senso condiviso: sapere antropologico e altre expertise professionali, da me coordinato in occasione del V Convegno Nazionale della Società Italiana di Antropologia Applicata “Collaborazione e mutualismo: Pratiche trasformative in tempo di crisi”, organizzato presso l’Università degli Studi di Catania (14 -17 dicembre 2017).

Sollecitando la partecipazione di etnografi, antropologi applicati, professionisti e operatori con background antropologico, il panel intendeva mettere a confronto le ricerche ed esperienze che si sviluppano nei campi liminali dell’applicazione (Bonetti 2018b), caratterizzati dall’interazione fra molteplici saperi “esperti”, linguaggi disciplinari e prospettive professionali. In particolare, si incoraggiavano i partecipanti a esplorare in senso riflessivo i modi con cui, pur non senza dilemmi e criticità, gli antropologi rinegoziano i propri dispositivi e facilitano “accomodamenti” sul campo per costruire un senso condiviso tra i diversi attori che compongono il contesto di intervento.

In continuità con il precedente numero, curato da Roberta Bonetti, la sezione monografica si propone di dare spazio alle questioni che sono state al centro del dibattito avviato a Catania.

Intendiamo, infatti, prendere sul serio il bisogno corale, espresso a più riprese dai partecipanti, di avviare un confronto mirato e sistematico sul processo collaborativo fra sapere antropologico e altre expertise professionali, percepito come uno dei terreni più ruvidi e insidiosi, ma anche potenzialmente più produttivi e virtuosi, delle esperienze applicate (un bisogno confermato anche dal numero considerevole di adesioni al panel, proposto originariamente con Roberta Bonetti[1]).

L’introduzione a questo numero fornisce, inoltre, una buona occasione per riprendere gli spunti di riflessione emersi a Catania, dove alcune tracce comuni hanno attraversato le esperienze condotte in diversificati ambiti di azione (quali politiche sociali e inclusione, sanità e salute pubblica, scuola ed educazione, politiche multiculturali e migrazioni).

Da un lato, nel corso delle due ricche sessioni di lavoro è stata ribadita da più voci l’importanza di esplorare maggiormente quei confini che si evidenziano fra le ricerche etnografiche condotte nei servizi e le esperienze implicate in una collaborazione attiva con i servizi. A tale proposito, i partecipanti hanno riportato dilemmi e tensioni non molto dissimili da quelli che caratterizzano l’esperienza etnografica (relativi per esempio al posizionamento dell’antropologo e alle “politiche dell’identità”), ma che sembrano accentuarsi e porre più insidiosi interrogativi quando ci rapportiamo alle istituzioni extra-accademiche e utilizziamo le conoscenze antropologiche per intervenire su problemi concreti (Pink 2006; Colajanni 2012, 2014).

Dall’altro lato, nelle esperienze discusse è risultato evidente come la ricerca continua di strategie, volte a mettere in comunicazione vari mondi sociali e professionali e a rinegoziare significati e soluzioni condivise, sia spesso caratterizzata da disorientamenti, azioni contestuali, mosse e movimenti “tattici” che qualificano profondamente la postura etnografica. La capacità di mettersi in ascolto nei diversi contesti di lavoro per interpretare e riformulare le domande sociali e istituzionali; la disposizione a sospendere il giudizio e a decentrare lo sguardo dai propri consueti riferimenti simbolici e disciplinari; la capacità di sorprendere e lasciarsi sorprendere dagli aspetti più imprevisti del campo costituiscono solo alcuni degli elementi che i partecipanti hanno riportato come cruciali per mobilitare risorse e innescare cambiamenti nei contesti di intervento.

Come ha sottolineato Cecilia Gallotti, discussant al panel, tale orientamento sembra contraddistinguere tanto quei percorsi professionali in cui si negoziano in modo strategico e articolato nuove progettualità operative (come nel caso di antropologi che vantano posizioni istituzionali rilevanti in agenzie pubbliche o private), quanto quel quotidiano «lavorìo di contrabbando» che altri antropologi conducono silenziosamente negli specifici campi operativi.

In continuità con queste riflessioni, i contributi qui raccolti discutono le implicazioni e ambiguità, ma anche le mediazioni e soluzioni che vengono messe in campo nelle pratiche di collaborazione fra il sapere antropologico e le expertise di interlocutori implicati in molteplici contesti applicativi.

A fare da sfondo a questa discussione sono, inoltre, alcuni interrogativi che animano la costituzione del Laboratorio permanente SIAA/APP.LAB Antropologia applicata ai servizi educativi, sociali e sanitari [2], attivato nel giugno 2018 insieme alle colleghe Roberta Bonetti e Cecilia Gallotti per stimolare occasioni di confronto, riflessivo e propositivo, tra antropologi/ghe impegnati/e in attività di progettazione, consulenza, formazione e ricerca-intervento in vari ambiti dei servizi pubblici e del privato sociale.

Caratteristica del numero è quella di aprirsi a modalità dialogiche che consentano di non confinare la discussione soltanto al punto di vista dell’antropologo/a. Piuttosto, stimolando una stesura dei contributi “a più mani”, questa sezione vuole offrirsi come occasione per porre gli antropologi e i propri interlocutori reciprocamente in ascolto con l’intento di riesaminare, in senso critico e riflessivo, il possibile contributo operativo dell’antropologia, la convergenza e intersezione delle diverse traiettorie professionali, gli apprendimenti reciproci e gli esiti dei loro incontri ravvicinati.

A partire da un progetto centrato sulla mediazione interculturale, Zaira Tiziana Lofranco (antropologa), Virginia Ginesi (dirigente di un Istituto comprensivo) e Maria Luigia Reinini (docente con funzione strumentale sull’Intercultura) portano alla luce le pratiche interattive e gli accomodamenti reciproci che connettono i campi conoscitivi dell’antropologia e i mondi professionali della scuola, in contrasto alle prospettive che li costruiscono come universi incommensurabilmente distanti.

Ripercorrendo una lunga e densa storia di collaborazione, Lucia Portis (antropologa) e la collega Rosanna D’Ambrosio (dirigente medico ASL) riflettono sulle criticità ma anche sulle possibilità di adattare in modo flessibile e creativo le categorie antropologiche per ideare setting interattivi con i diversi attori del territorio e avviare azioni di co-progettazione in partnership con le reti locali implicate nella gestione della salute pubblica.

Valentina Porcellana (antropologa) e Cristian Campagnaro (architetto e designer) ricostruiscono l’evoluzione storica di un’innovativa azione progettuale, a sostegno delle politiche inclusive e dei servizi rivolti ad adulti “senza fissa dimora”, evidenziando le ricadute su diversi territori delle inedite transizioni fra design e sapere antropologico.

Mediare (ma anche presidiare)

Come emerso in diverse sedi[3], il lavoro applicato dell’antropologo appare spesso avvolto da un senso di indeterminatezza legato ai contorni ambigui del proprio ruolo e alla difficoltà di (ri)posizionarsi di fronte a un complesso articolato di interessi, approcci, attori sociali e istituzionali che si interfacciano nell’arena politica locale.

Se, infatti, come etnografi siamo ben consapevoli dell’importanza di sviluppare relazioni trasparenti con i nostri interlocutori per co-costruire un senso condiviso dei dati prodotti (Biscaldi 2015: 14), sviluppare un processo collaborativo con i professionisti richiede spesso di accettare e condividere con loro margini più ampi di incertezza e ambiguità.

Questo appare evidente fin dall’approccio iniziale, quando bussiamo alla porta dei nostri collaboratori per incontrare un gruppo di medici, educatori, assistenti sociali, dialogare con alcuni insegnanti, mediatori, psicologi, o interagire con i rappresentanti dell’amministrazione comunale, i funzionari locali e gli operatori del terzo settore. Non è raro, infatti, che già nella fase embrionale del processo collaborativo si generino equivoci e fraintendimenti, emergano fra i presenti sentimenti ambivalenti di fronte alle diverse rappresentazioni nell’analisi del “problema” comune e/o coesistano aspettative nebulose che circondano il ruolo dell’antropologo e la sua legittimità nel contesto di intervento.

A volte può rivelarsi opportuno soffermarsi a discutere sul significato attribuito ad una stessa parola (Mediazione? Inclusione? Salute? Comunità?) e “perdere tempo” a discuterne le molteplici sfaccettature e implicazioni; può divenire necessario trovare escamotages per superare i dubbi e le resistenze che emergono di fronte alle nostre proposte e alla loro applicabilità concreta; può risultare utile identificare quelle chiavi risolutive che consentono di aprire la strada della mediazione, anche quando prevale nell’antropologo la sensazione che vocabolari cari al proprio background disciplinare siano saccheggiati da facili riduzionismi e nei professionisti la percezione che i propri modelli operativi vengano disturbati da vane astrazioni concettuali.

Anche dietro a episodi in apparenza banali, l’azione collaborativa sembra esporre i nostri interlocutori a processi incerti e stressanti, richiedendo loro di interagire in contesti in cui entrano in gioco diversi frames operativi e culture professionali, nonché pratiche e asserzioni che possono appartenere contemporaneamente a più sistemi di significato (Portis e D’Ambrosio in questo numero). Intraprendere una negoziazione collettiva richiede, in sostanza, a operatori e professionisti una non scontata disponibilità a ripensare modalità di azione internalizzate e rappresentazioni codificate nelle matrici organizzative e ad attivare processi di costruzione di senso che investono il proprio mandato professionale e la natura «immateriale» del loro oggetto di lavoro (Olivetti Manoukian 1998).

Mentre dunque gli antropologi, abitando uno «spazio liminale», tendono ad avere una certa tolleranza all’ambiguità e all’incertezza (Bonetti 2018a: 9), non sempre possiamo dire lo stesso dei professionisti con cui collaborano e delle organizzazioni in cui questi operano.

Importanti riflessioni da parte di studiosi, impegnati in decennali attività di consulenza e formazione nei servizi, hanno evidenziato a tale proposito quanto la mancanza di un riferimento chiaro, «materiale» e concreto a un oggetto di lavoro costituisca uno degli elementi più critici per individui, gruppi e organizzazioni chiamate a «produrre» (Olivetti Manoukian 1998). A chi quotidianamente opera nei servizi è richiesto, infatti, di non possedere un’idea vaga e approssimativa dell’oggetto che si intende produrre, ma di elaborare una rappresentazione che lo presentifichi a sufficienza per declinare comunicazioni e interazioni nella realtà e maneggiarne i contenuti in diverse interpretazioni e traduzioni operative. Per quanto critica sia la sua definizione e la sua «esplicitabilità» per gli attori coinvolti, il lavoro nei servizi esige dunque, per essere tale, la possibilità di disporre di rappresentazioni circostanziate che consentano di ridurre margini eccessivi di indeterminatezza e ambiguità (Olivetti Manoukian 1998).

A intervenire spesso in questo spazio di incertezza, offrendo contorni più precisi alle proprie rappresentazioni, sono soprattutto le expertise e competenze professionali di cui dispongono i nostri interlocutori. Pur operando nello stesso servizio, quando si parla di “educazione”, salute”, “assistenza sociale” ciascun professionista è infatti portato a orientare le proprie pratiche attraverso il riferimento alle procedure codificate nella propria area disciplinare che consentono di identificarsi in una comunità scientifica e nel contesto organizzativo e sociale in cui agisce. Va però considerato che, oltre agli approcci disciplinari, nella costruzione dell’oggetto di lavoro entrano in gioco una molteplicità di altri fattori, che spaziano dai sistemi valoriali di riferimento alle culture locali che caratterizzano i contesti organizzativi, dai diversi modelli operativi di cui sono portatori i professionisti alle rappresentazioni dei medesimi oggetti diffusi nella società (Pazzagli, Tarabusi 2009). Ogni professionista si trova, dunque, a ricorrere non solo a saperi e procedure codificate nella propria area disciplinare, ma anche a un complesso di immagini sociali, orientamenti valoriali, strutture di significato condivise e modelli operativi più o meno taciti, che influenzano, a volte non senza automatismi, le proprie pratiche di intervento. L’appartenenza a una comunità epistemica e di pratica (Lave, Wenger 1991) consente così ai membri di venire in possesso di specifiche abilità professionali, teoretiche e pratiche, e codici culturali che, mentre legittimano azioni e interpretazioni diverse da quelle accessibili ai “profani” (Fele 2009), costruiscono degli schemi attraverso cui le persone tendono ad aderire ai comportamenti e al “sentire comune” del gruppo in cui ci si identifica e in cui si è identificati.

In sintonia con quanto emerso a Catania, le esperienze qui raccolte riferiscono a volte le difficoltà a interfacciarsi con strutture gerarchiche di autorità che tendono a rendere predominanti certe epistemologie e pratiche professionali, conferendo al sapere antropologico livelli di autorevolezza indefiniti e variabili.

Su questo sfondo, uno dei contributi (Lofranco et al. in questo numero) accenna alle difficoltà iniziali dell’antropologa ad entrare nelle istituzioni scolastiche, dove questa expertise non gode dello stesso riconoscimento accordato a figure professionali esterne, quali lo psicologo, lo psicopedagogista o il formatore, la cui presenza è ormai consolidata nella quotidianità della vita scolastica. Per quanto nelle linee guida del MIUR venga attribuita alle singole scuole autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo, i dinieghi ricevuti in diversi istituti portano le autrici a riflettere sulla interpretazione discrezionale di questa legislazione e sul fatto che «anche in quel caso, come in altri setting etnografici, i soggetti “interni” elaborano e legittimano o rifiutano la presenza degli “esterni” sulla base di criteri valoriali da essi ritenuti fondanti la propria comunità scolastica» (Lofranco et al. in questo numero).

Dinamiche simili si evidenziano nel caso discusso da Portis e D’Ambrosio in cui l’antropologa si trova ad agire nel ruolo di educatrice professionale nel campo della salute pubblica, al cospetto di dispositivi clinici e saperi medici istituzionalmente accreditati nelle strutture sanitarie in cui agisce. In questo senso, il contributo evidenzia come entrare a far parte di un’équipe multi-professionale, dove operano esperti diversi (psicologi, medici, assistenti sanitari, infermieri), implichi muoversi «con circospezione» (Portis, D’Ambrosio in questo numero), tenendo conto delle asimmetrie esistenti fra saperi esperti, nonché dei posizionamenti che individui e gruppi occupano nelle strutture conoscitive e operative.

Come nota ancora Olivetti Manoukian, tanto più la professione è socialmente riconosciuta (come nel caso dei medici), quanto più evidenti saranno infatti non solo la possibilità di disporre di strumentazioni, teorie, regole, frames per l’azione, ma anche la credibilità che il possesso di competenze assicura al professionista nel confronto con altri gruppi (1998). Nel caso di professioni poco istituzionalizzate, come gli educatori, che molto meno possono contare su un corpus di conoscenze scientificamente e socialmente codificate, i confini del campo professionale possono invece articolarsi intorno a quei saperi, per lo più taciti e incorporati, dell’expertise agita, appresa e trasmessa dai suoi membri. In questo caso, la credibilità del professionista nel confronto con altri saperi appare più incerta e legata a variabili contestuali, quali gli orientamenti valoriali, i modelli culturali e esperienziali consolidati nelle organizzazioni di riferimento.

Su questo sfondo, i contributi evidenziano come l’antropologo e i propri interlocutori siano congiuntamente coinvolti nel livellare le «asimmetrie conoscitive» (Lofranco et al. in questo numero) e mettere in connessione gli specifici frames e saperi professionali per attivare una comprensione condivisa della mission, degli strumenti e obiettivi che caratterizzano il contesto di intervento. Come ribadito da Bonetti (2018b), ciò non significa essere d’accordo su un problema, ma co-costruire contesti trasversali che rendano possibile agli interlocutori comprendere le reciproche posizioni, fare emergere le pratiche ordinarie e i loro significati, negoziare rappresentazioni condivise dell’azione progettuale e prefigurare strategie collettive per stimolare innovazione. Ideare contesti dialogici non implica, in sostanza, offrire semplicemente alcune possibilità di confronto ma - come ha sottolineato C. Gallotti a Catania - riuscire a «comunicare nel senso sistemico e circolare della co-costruzione della conoscenza» che entra nel discorso pubblico e implica un cambiamento per tutti gli attori in gioco.

Non prive di criticità, queste trasformazioni richiedono spesso ai professionisti di ricollocarsi nel contesto organizzativo e sociale più ampio e non solo «nel contesto circoscritto e tutelato dell’esercizio di un’attività professionale che ha il proprio specifico campo di azione nei confronti di problematiche note e codificate» (Olivetti Manoukian 1998: 77). L’intervento dell’antropologo si traduce così in una presa in carico dei timori e delle rappresentazioni contraddittorie che possono attivarsi di fronte alle situazioni nuove che i professionisti sperimentano e che chiamano in causa i loro modi di pensare e agire, i propri desideri di realizzazione, le attese di prestigio e successo, le preoccupazioni derivanti dalle complessità con cui ci si confronta.

Le esperienze qui raccolte mostrano come l’antropologo possa facilitare questi processi in un dormitorio, nella scuola o nella sanità pubblica quando non solo incontra la sensibilità dei propri interlocutori, ma riesce anche a “presidiare” il campo per sedimentare una postura problematizzante verso i processi di lavoro abituali, i saperi ufficiali e le dimensioni implicite dei repertori culturali e del senso comune.

Allenato a lavorare simultaneamente in contesti multipli, «a stare sulla soglia, al margine tra più parti» (Bonetti 2018a: 9), l’antropologo intravede opportunità e individua strade non scontate per contrabbandare la propria presenza nei contesti istituzionali e stimolare setting di confronto che, sfidando le richieste di efficienza e produttività dei servizi, possano dilatare gli spazi elaborativi dei professionisti e la reciproca conoscenza dei dispositivi a cui tendono ad affidarsi.

Approfittando dell’accesso costruito nel corso di una ricerca etnografica, Tiziana Z. Lofranco si inserisce nelle assemblee scolastiche per pungolare l’attenzione dei suoi interlocutori su aspetti non scontati della loro quotidianità lavorativa e sollevare dubbi riguardo al ruolo e al posizionamento dei mediatori nella realtà scolastica. Sulla scorta di diversi accomodamenti, dirige l’attenzione dei propri interlocutori verso dettagli in apparenza irrilevanti, che contribuiscono a decostruire riduzionismi e valutazioni screditanti del dispositivo della mediazione (percepita come mero strumento di comunicazione che implica uno “spreco di risorse”) e riescono a mobilitare idee che concepiscono la migrazione nella sua «funzione specchio» (Sayad 2002). A tale proposito, favorisce interlocuzioni costanti che spostano lo sguardo dai bisogni dell’utenza straniera alle opportunità che la mediazione offre nel gettare luce su aspetti taciti e contraddittori delle organizzazioni scolastiche e nel ridurre le distanze fra le norme istituzionali e le esperienze genitoriali.

Nell’ambito del Piano locale dell’ASL città di Torino, Lucia Portis negozia nuovi setting di lavoro e apre cantieri formativi per facilitare il dialogo fra le esperienze degli operatori sanitari coinvolti in attività di promozione della salute e quelle di diversi stakeholder che, pur condividendo uno stesso campo di azione, sono portatori di istanze, visioni e interessi differenti, a volte contrastanti. Suggerendo soluzioni non solo confinate alla micro-quotidianità dei servizi, le pratiche di intervento si allargano alle più ampie coalizioni discorsive e istituzionali che coinvolgono i diversi attori implicati nell’arena pubblica della gestione politica e operativa della salute. L’azione di collaborazione si traduce così in forme di co-progettazione e azioni collettive condotte in partnership tra soggetti afferenti al settore pubblico (amministratori locali, rappresentanti delle diverse circoscrizioni cittadine, istituzioni scolastiche) e al privato sociale (associazioni dei commercianti, associazioni dei gestori di locali notturni, associazioni di promozione sociale) che raramente trovano occasioni per negoziare comuni rappresentazioni dei problemi e possibili prospettive di cambiamento.

Ideando differenti contesti di confronto, Valentina Porcellana e Cristian Campagnaro coinvolgono in una proposta progettuale individui e gruppi sociali posizionati in modo asimmetrico nell’arena locale, gettando le basi per (ri)animare un dibattito pubblico sull’inclusione sociale degli adulti senza fissa dimora. Dapprima attivano spazi laboratoriali e seminariali per consentire agli operatori di “prendere la parola” in contesti da loro percepiti come prestigiosi e autorevoli (come le aule universitarie) e ai futuri designer di tradurre la formazione teorica in soluzioni progettuali. Le ricadute positive delle relazioni sviluppate fra due (ex) Facoltà universitarie con i servizi sociali della città emergono anche nelle parole dell’assessore ai Servizi Sociali, che enfatizza l’importanza di avere gratificato e motivato gli operatori e consentito agli studenti universitari di occuparsi «di questioni particolari e forse anche dimenticate dalla gente, come l’accoglienza in bassa soglia» (Porcellana, Campagnaro in questo numero). Nondimeno, attivano workshop e costruiscono situazioni concrete (quali tirocini, decorazioni, montaggi, documentazioni fotografiche del percorso) per coinvolgere gli ospiti dei dormitori nella ristrutturazione e trasformazione dei locali e dei centri di accoglienza, innescando processi “dal basso” che rendono protagonisti coloro che sono generalmente esclusi e silenziati nella realizzazione delle politiche pubbliche.

Sorprendere (ma anche apprendere)

In sintonia con quanto emerso a Catania, i contributi del numero evidenziano come la richiesta di un antropologo da parte di organizzazioni pubbliche e private e/o il conferimento formale di un incarico professionale non rappresentino di per sé elementi sufficienti ad assicurare il riconoscimento sostanziale delle competenze antropologiche da parte degli operatori, finanziatori, funzionari e dirigenti di servizi con cui collaboriamo. Accogliere l’intervento di un antropologo non significa, cioè, necessariamente comprendere il suo lavoro, né accettare di essere soggetti al suo sguardo critico o disposti a turbare i propri rassicuranti quadri interpretativi e operativi.

Per quanto l’antropologo sia chiamato a esprimere pareri o a collaborare a un progetto, l’autorevolezza accordata al proprio ruolo e l’esercizio del suo potere non possono, infatti, dirsi per nulla scontati di fronte a gruppi e istituzioni (quali scuole, cooperative sociali, agenzie sanitarie, servizi sociali) che spesso non amano sottoporsi allo sguardo esterno (Palumbo 2010). Al contrario, come sappiamo, il suo contributo può essere ostacolato da inaspettate resistenze e precomprensioni anche quando la sua professionalità viene esplicitamente ricercata.

La restituzione e condivisione di dati raccolti in una ricerca etnografica possono, come nell’esperienza di Lofranco, gettare le basi per avviare pratiche collaborative ma non accordare in automatico autorevolezza a uno studioso a volte percepito dai professionisti come portatore di approcci teorici e astratti, poco spendibili nel contesto operativo.

Al tempo stesso, un certo inquadramento contrattuale all’interno di una struttura pubblica – come nel caso di Portis assunta come educatrice professionale da un Dipartimento della ASL città di Torino – può legittimare la propria presenza sul campo, ma anche esporre l’antropologo/a a varie pressioni a causa delle idee nebulose che circondano il proprio ruolo e delle aspettative confuse che vengono proiettate su un/a esperto/a ingannevolmente associato a competenze che non gli/le appartengono (Biscaldi 2015). Nondimeno, in contesti sottoposti a trasformazioni e preoccupazioni normative potrebbero verificarsi prese di distanza di fronte ai nostri scomodi tentativi di «antropologizzare» un oggetto per fornire spessore empirico a un problema preesistente (Ceschi 2014: 106).

Confrontandosi con alcune di queste criticità, i contributi del numero evidenziano come i nostri interlocutori imparino «cosa fa un antropologo e come lo fa» (Lofranco et al. in questo numero) attraverso una pratica di costante confronto sul terreno.

L’autorevolezza accordata al proprio ruolo emerge, infatti, come prodotto situato di adattamenti mobili e flessibili che gli antropologi, aldilà del ruolo conferito formalmente dall’istituzione, conquistano sul terreno grazie alle micro-negoziazioni quotidiane con i propri interlocutori. Procedendo a colpi di intuizioni, malumori e fraintendimenti (Olivier de Sardan 2009), l’antropologo attiva meccanismi di risonanza (Wikan 2009) e guadagna legittimità nel contesto di intervento stimolando curiosità verso una prospettiva inconsueta e producendo straniamento verso i modi consolidati di pensare e agire (Cornwall 2018).

Riportando la conversazione con una dirigente scolastica, Lofranco, Ginesi e Reinini rilevano come l’interesse dell’antropologa su aspetti taciti della quotidianità scolastica abbia gettato le basi per attivare pratiche collaborative e motivare maggiormente le insegnanti «spesso chiuse dentro le mura di un ambiente dove si lavora veramente tanto, ma dove è difficile trovare riconoscimento a tutta la fatica che si fa» (Lofranco et al. in questo numero). Calandoci all’interno delle riunioni scolastiche, notiamo come il “debutto” dell’etnografa nella nuova veste di collaboratrice richieda all’antropologa di decentrare lo sguardo dal campo etnografico per “impregnarsi” (Olivier de Sardan 2009) nel contesto di azione, dove è necessario assumere una postura costruttiva e propositiva. Se le relazioni di fiducia costruite nella precedente esperienza etnografica facilitano la sua partecipazione ai momenti istituzionali della scuola, l’antropologa non nasconde le iniziali difficoltà a mediare le proprie conoscenze con i codici e linguaggi condivisi dal personale scolastico di un Istituto Comprensivo della provincia bergamasca. Sfruttando la conoscenza emica del contesto, cerca dunque di adottare strategie relazionali e linguistiche che contribuiscano a mettere in comunicazione il sapere antropologico con le esperienze sociali e lavorative di dirigenti, insegnanti, mediatori e altri professionisti.

Di fronte alle esternazioni di alcune insegnanti per l’assenza dei genitori stranieri nelle assemblee plenarie, l’antropologa intromette così brevi resoconti etnografici e li traduce in forme via via più accessibili ai presenti per spiazzare essenzialismi e assunzioni largamente condivise dal personale scolastico, come quelle che costruiscono padri e madri stranieri come genitori irresponsabili e inadeguati. Tenta inoltre accomodamenti e adotta particolari accorgimenti per avanzare “argomentazioni etnografiche” che tengano conto di tempistiche, modi di procedere, protocolli della scuola e di quell’istituto, ben consapevole delle difficoltà dei presenti di tradurre le sue osservazioni analitiche in strategie operative.

Questa ed altre “mosse” che vengono escogitate di volta in volta alimentano nel contesto la percezione di una relazione paritaria e collaborativa con l’antropologo, concepito sempre meno come un accademico che propone visioni astratte e sempre più come figura di supporto con cui si individuano insieme problemi e prefigurano possibili soluzioni (la definizione emica di “amico critico” attribuita all’antropologa nella scuola è, da questo punto di vista, emblematica).

In modo complementare, Porcellana e Campagnaro mostrano come queste opportunità siano connesse non solo alle micro-dinamiche contestuali del campo, ma anche alle più ampie trasformazioni che investono l’arena politica locale, come quelle che hanno coinvolto l’amministrazione torinese e le strutture locali di accoglienza orientate ad adulti senza dimora.

Le relazioni verticistiche che si sviluppano fra committente pubblico e enti del terzo settore, le logiche competitive emergenti nel privato sociale, generate dal ricorso ad appalti e alle concessioni, così come l’opacità e precarietà che si riversano nei servizi e nel lavoro quotidiano degli operatori, contribuiscono a creare un fecondo varco per calare una proposta progettuale innovativa, percepita come “alternativa” alle istanze antagoniste in gioco.

L’incontro fra un’antropologa e un designer si inserisce nel cuore di queste tensioni, che culminano nella chiusura di un dormitorio in città a cui fanno seguito numerose assemblee pubbliche e mobilitazioni da parte degli operatori delle cooperative sociali.

Anche in questo caso, l’interesse a “prendere sul serio” il punto di vista dell’altro viene interpretato come una delle leve più significative per avviare un processo collaborativo a contrasto dell’homelessness e rivitalizzare le reti locali, soggette a contraddizioni e frammentazione.

«Con l’intento di lavorare con le persone anziché per o peggio sulle persone» (Porcellana, Campagnaro in questo numero), gli autori mostrano l’importanza di condividere con le organizzazioni coinvolte un approccio “dal basso”, costruito a partire dalle concrete aspirazioni ed esperienze degli utenti dei servizi e degli operatori sociali.

Per queste ragioni nutrono le loro ipotesi muovendo dalle strutture di accoglienza per persone senza dimora e sperimentano un metodo partecipativo attraverso continue transazioni tra sapere antropologico e design. Come dichiarano gli autori, design e antropologia non mettono in campo soltanto i loro metodi, ma “prendono un impegno” con tutti gli attori coinvolti nei contesti partecipativi. Mostrano dunque come un’antropologa disposta a ridisegnare i propri limiti disciplinari, quanto a risignificare strumenti e competenze, diventi complice della disponibilità di un architetto e designer a privilegiare un approccio orizzontale, a scapito di tecnicismi e gergalismi. Nuovamente, la collaborazione tra i due studiosi chiama in causa reciproci adattamenti all’interno di un percorso in cui gli specifici saperi disciplinari si (ri)conoscono e ripensano vicendevolmente per costruire gradualmente una comune “cassetta degli attrezzi”.

Mentre dunque la sensibilità etnografica viene interpellata per interrogare le prassi consolidate e costruire un senso condiviso dell’azione progettuale con i propri interlocutori, nel lavoro applicato appare necessario lasciarsi sorprendere dagli approcci e dalle metodologie che si apprendono anche inaspettatamente sul campo.

Pur muovendo da diversi campi operativi, i contributi portano similmente alla luce l’importanza di «accogliere “sconfina-menti”» (Lofranco et al. in questo numero) ed elaborare un sapere di confine[4] che possa nutrirsi di approcci, metodologie e strumenti di lavoro parzialmente coerenti con il repertorio antropologico.

In quest’ottica, Portis e D’Ambrosio ci conducono all’interno di alcuni percorsi progettuali che innescano reciproci apprendimenti, anche quando gli approcci disciplinari appaiono incommensurabilmente distanti. Grazie ad un graduale processo di sensibilizzazione dell’équipe multi-professionale, Portis e D’Ambrosio attivano micro-negoziazioni quotidiane per costruire spazi di convergenza fra l’approccio antropologico e il sapere biomedico. Mostrano, in sostanza, come non sia tanto nella presenza di un capitale preesistente, quanto nella ricerca concreta di soluzioni comuni che un medico coglie «che il contesto di riferimento è importante e che occorre dare spazio e potere a soggetti diversi», mentre «un’antropologa impara ad apprezzare e comprendere i linguaggi e le metodologie della ricerca inerenti la salute pubblica» (Portis, D’Ambrosio in questo numero).

Similmente, Lofranco, Ginesi e Reinini enfatizzano come la percezione dell’utilità del sapere antropologico nei contesti applicativi «passi inevitabilmente per l’apprendimento di cosa gli antropologi e le altre expertise professionali impiegate in quei contesti possono fare insieme» (Lofranco et al. in questo numero). In questo caso, la co-progettazione di un laboratorio di doppiaggio di film d’animazione in lingua italiana diviene per l’antropologa e l’insegnante un’occasione di formazione reciproca, che si traduce nella convergenza di due prospettive grazie a una “tecnica educativa” connessa alla philosophy for children (P4C). Se, infatti, questa tecnica si fonda su una concezione negoziata ed intersoggettiva di conoscenza che appare all’antropologa coerente con il repertorio epistemologico della propria disciplina, l’insegnante apprende nell’analisi situazionale e nelle pratiche contestuali il contributo operativo di alcune categorie antropologiche. Questa ed altre considerazioni portano le autrici a enfatizzare come, al fine di riconoscere l’utilità dell’approccio antropologico nei contesti educativi, gli antropologi non siano tanto «chiamati ad insegnare alla scuola o ad imparare sulla scuola, piuttosto abbiano la necessità di imparare con la scuola» (Lofranco et al. in questo numero).

Su questo sfondo, gli autori del numero enfatizzano un’idea comune di applicazione che, superando sterili binarismi (l’antropologo che apprende dai professionisti oppure i professionisti che apprendono dall’antropologo), non solo si sviluppa a partire da e attraverso le conoscenze antropologiche, ma diventa anche generativa di cambiamenti che sfidano le consuete pratiche di ricerca, gli steccati disciplinari e i diversi modi di “stare” sul campo.

Accogliere (ma non arretrare)

Se, come abbiamo visto, all’antropologo è richiesto di attrezzarsi di più integrando la propria formazione con altri approcci e saperi, i contributi qui raccolti evidenziano anche l’importanza di costruire proposte che sappiano sintonizzarsi con i repertori conoscitivi dei nostri interlocutori e si traducano in soluzioni applicabili e sostenibili nei loro campi operativi.

In quest’ottica, richiamano un atteggiamento che sappia accogliere in modo flessibile e contestuale quei metodi e linguaggi professionali che non fanno parte delle ordinarie pratiche culturali dell’antropologo, ma che rappresentano i principali dispositivi mediante cui i propri interlocutori “nominano” i problemi sociali, sanitari, educativi.

Accogliere non significa “arretrare”, rinunciare alla propria tensione analitica a favore di soluzioni preconfezionate o di richieste istituzionali che sono di rado formulate da una prospettiva antropologica.

Al contrario, come ha sottolineato Cecilia Gallotti al panel, significa poter lavorare insieme ai nostri interlocutori «sulla possibilità di costruire un sapere comune e critico riguardo ai propri strumenti tecnico-istituzionali (quali cartella socio-assistenziale, relazione sociale, colloquio, visite domiciliari, ecc.) e sulla possibilità di rinnovarli». In questo processo l’antropologo è doppiamente coinvolto nello sforzo di mantenere un rigore analitico in rapporto ai vincoli strutturali dei contesti, da un lato, e nel tentativo di mettere “sotto pressione” le proprie categorie (metodologiche, epistemologiche, deontologiche) per produrre conoscenze efficaci, dall’altro lato.

Tutti i contributi fanno i conti con questo fragile ma necessario equilibrio, sia quando cercano di calare le proposte antropologiche dentro alle cornici operative dei campi di intervento, sia quando si trovano a contro-bilanciare gerarchie di senso che tendono a subordinare un approccio contestuale a visioni prescrittive, orientate a leggere i fenomeni sociali attraverso un rigido determinismo causale.

In quest’ottica, Portis e D’Ambrosio offrono alcuni spunti per esemplificare soluzioni che possono coniugare una postura antropologica con i quadri ideologico-normativi che a volte dominano l’ambito della progettazione. Evidenziano come l’apertura di alcuni cantieri progettuali non possa che muovere da un’analisi dei limiti e delle risorse del contesto d’azione e confrontarsi con paradigmi, tecnicismi e strumenti normativi verso cui gli antropologi sono solitamente refrattari ma a cui gli operatori sembrano a volte affezionati (Tarabusi 2016). Su questo sfondo, mostrano come la necessità di accogliere dispositivi distanti dal repertorio epistemologico della disciplina sia subordinata a un processo di revisione critica e ri-negoziazione di obiettivi e significati con i propri interlocutori. L’antropologa non evita, dunque, di fare i conti con strumenti rigidi e preconfezionati, quali griglie e strumenti di valutazione; piuttosto, ne ridefinisce contorni e significati, stimola la riflessività professionale di chi potrebbe utilizzarli acriticamente e introduce cambiamenti nella struttura paradigmatica dei dispositivi che ne fanno emergere contraddizioni e ambiguità.

Riemergono inoltre le note criticità legate al tempo, considerato come uno dei fattori più vincolanti per la professionalità antropologica (Colajanni 2012; Marabello 2016; Riccio 2016). In modo originale, le autrici ci invitano a pensare a proposte a breve/medio termine che, senza appiattirsi alle esigenze di produttività e efficienza dei servizi, consentano di accordarsi la giusta temporalità etnografica all’interno delle rigide cornici dettate dai tempi istituzionali. Propongono per esempio strategie creative che, contraendo i tempi dell’osservazione diretta, consentano agli operatori di aprire spazi elaborativi e di comprensione dei propri contesti lavorativi e attivano momenti di progettazione partecipata che, dilatando i tempi dell’azione, possano stimolare il confronto critico fra i diversi punti di vista. Ciò richiede di «scendere a patti» con le proprie categorie e individuare strade non scontate, come quella di comprimere i tempi etnografici introducendo più sguardi riflessivi o di mettere in campo una pratica lavorativa «auto-etnografica» nella comprensione situata e parziale dei fenomeni culturali (Portis, D’Ambrosio in questo numero).

Similmente, intravediamo nel contributo di Lofranco, Ginesi e Reinini l’opportunità di elaborare un “sapere pratico” nei mondi della scuola che, senza piegarsi a facili scorciatoie ma nutrendosi al contrario di spessore empirico, sappia fornire criteri operativi per supportare l’agency di insegnanti e operatori, sostenerli nell’interpretare criticamente il proprio ruolo e nel negoziare rappresentazioni meno semplificate e etnicizzanti del fenomeno migratorio.

Anche le proposte avanzate da Porcellana e Campagnaro esprimono la capacità di gestire questa tensione. Da un lato, la costruzione di un metodo di lavoro comune è preceduto e accompagnato da osservazioni etnografiche dei dormitori pubblici della città di Torino, da conversazioni realizzate con i coordinatori di alcuni servizi di accoglienza notturna e da focus group che hanno coinvolto operatori delle équipe e funzionari del Servizio Adulti in Difficoltà (SAD). Dall’altro lato, i due studiosi ricercano forme per “visualizzare” e rendere evidenti gli effetti innovativi del progetto, grazie per esempio ai prototipi ideati dagli studenti del corso di Disegno Industriale e alla possibilità di ricostruire, attraverso le visite svolte insieme a operatori e ospiti, una mappa dettagliata dei servizi di accoglienza della città. I meccanismi partecipativi espressi in questi e altri passaggi pragmatici alimentano, così, negli interlocutori la convinzione che le proposte possano incarnare, «nelle forme di un progetto possibile, accessibile e adeguato, quelle istanze di cambiamento a cui tutti aspiravano da tempo» (Porcellana, Campagnaro in questo numero).

In continuità con gli stimoli emersi a Catania, la collaborazione con i servizi lancia così agli antropologi nuove sfide professionali in grado di coniugare una certa flessibilità operativa con il rigore analitico nell’applicazione antropologica (Riccio 2016). Su questo sfondo, evidenziano l’opportunità di accompagnare l’azione progettuale con osservazioni mirate delle pratiche istituzionali e l’importanza di tradurre setting operativi in cantieri esplorativi per cogliere come gli interlocutori si posizionano tra loro, le strategie che perseguono e i modi con cui diversi significati sono diversamente costruiti, smontati e trasformati negli eventi sociali.

Tali processi facilitano anche la costruzione del consenso intorno al lavoro antropologico, rendendo possibile la creazione di alleanze interne che aiutino a supportare l’adozione di un approccio innovativo all’interno di un’organizzazione (Sacco 2012). Diversamente dal classico lavoro etnografico, le risorse relazionali e comunicative del ricercatore divengono infatti strategiche non solo per guadagnare la fiducia dei propri interlocutori ma anche per promuovere processi di innovazione volti a generare dinamiche nuove e inattese. D’altronde anche le diverse esperienze professionali degli antropologi che entrano nelle organizzazioni internazionali mostrano che difficilmente l’antropologo riuscirà a sostenere la forza della propria prospettiva «se non si pone dialogicamente con i funzionari e se non è supportato da qualcuno che dall’interno si fa promotore del lavoro e ne facilita la diffusione» (Sacco 2012: 107).

Tuttavia, riprendendo Danziger e Rumsey (2013), Cecilia Gallotti ha evidenziato nella discussione al panel di Catania quanto l'intersoggettività non sia «necessariamente convergente, ma anche contrappositiva, o di obbedienza, di resistenza perché socialmente inclinata». Come sottolineato da più voci, le alleanze costruite sul campo non costituiscono, infatti, un antidoto alle difficoltà e ai dilemmi etico-politici (Biscaldi 2016) che l’antropologo può incontrare nel rapportarsi alle istituzioni pubbliche e private. Al contrario, il lavoro dell’antropologo è spesso caratterizzato da «riaggiustamenti» per evitare rappresaglie e conflitti nei rapporti personali che possono influenzare negativamente le sue attività professionali (Colajanni 2012: 43) o può essere soggetto a obiezioni critiche anche inaspettate da parte dei propri collaboratori (Mosse 2006). Da questa prospettiva, il contributo di Lofranco, Ginesi e Reinini fa riflettere su come le obiezioni e resistenze sul nostro lavoro possano coinvolgere non solo gli interlocutori direttamente implicati nel contesto scolastico (in questo caso: insegnanti, genitori, dirigenti, funzionari, coordinatori pedagogici, mediatori e altre figure “esperte”), ma anche quegli attori locali che, facendosi portatori di logiche, visioni e interessi plurimi, partecipano al dibattito sul multiculturalismo e agiscono sulla base di letture diverse del fenomeno migratorio.

Spesso al centro di tensioni e contese tra molteplici attori che si interfacciano nell’arena politica, l’antropologo non si sottrae a questi rischi ma elabora tentativi per attivare reti trasversali nei territori e co-progettare azioni integrate al cospetto di politiche a volte frammentate e settorializzate. Mentre Porcellana e Campagnaro mobilitano istituzioni accademiche, amministrazioni locali, agenzie pubbliche e del privato sociale per sollecitare una consapevolezza critica e una presa in carico “dal basso” del fenomeno della homelessness, Portis e D’Ambrosio mostrano come la costituzione di un tavolo permanente tra operatori socio-sanitari, gestori di locali notturni, amministrazioni pubbliche abbia consentito di superare divergenze e dissidi per giungere a una politica condivisa sul mondo della notte. Cogliamo così le ricadute effettive di una rete che, connettendo interessi diversi (come quelli delle forze dell’ordine, dei gestori dei locali notturni e degli operatori che si occupano di prevenzione alla salute), facilitano visioni “olistiche” dei fenomeni sociali e integrano sfere delle politiche (sanitarie, notturne, per la sicurezza urbana) che sono spesso settorializzate nella gestione della salute pubblica.

Attesi e imprevisti

Cosa fa dunque l’antropologo quando cerca di elaborare “un sapere che cerca di influenzare un fare e collabora per una stabile costruzione – sulla base della conoscenza – di un adeguato saper fare” (Colajanni 2014: 32)?

Senza pretese di esaustività, percorrendo i contributi del numero potremmo abbozzare alcune risposte: l’antropologo pone domande nel corso dell’intero processo, laddove gli interlocutori aspettano di ricevere risposte; attiva setting trasversali capaci di livellare le asimmetrie conoscitive e promuove strategie progettuali integrate fra attori diversamente situati nell’arena locale; indirizza processi sociali e stimola occasioni per decentrare lo sguardo e “prendere sul serio” il punto di vista dell’altro; suscita dubbi e inquietudine nei propri interlocutori su consolidati modi di pensare e agire che possono affermarsi come “ortodossie” nei contesti operativi (Cornwall 2018); sperimenta metodologie di lavoro per mediare fra diversi mondi sociali e istituzionali e costruire consenso intorno all’azione progettuale, stimolando i professionisti verso nuove rappresentazioni dell’ «oggetto di lavoro» e accompagnando i servizi verso un possibile ri-orientamento del loro agire complessivo (Olivetti Manoukian 1998).

Le esperienze riportate nei contributi mostrano come l’antropologo possa facilitare questi processi in un dormitorio, nella scuola, nella sanità pubblica, quando riesce a interpretare con responsabilità il proprio ruolo operativo senza sottrarsi ad un attento esercizio analitico-interpretativo.

Da un lato, riportandoci a quanto emerso a Catania, evidenziano quanto la collaborazione con i professionisti ponga a volte sfide più insidiose rispetto alla consueta pratica etnografica, ma non colga totalmente impreparati studiosi che hanno sviluppato una buona tolleranza all’ambiguità (Bonetti 2018a: 9) e una certa disposizione a mettere all’opera la propria riflessività professionale (Riccio 2016).

Come abbiamo visto, la ricerca applicata e l’esperienza professionale degli antropologi nell’ambito dei servizi e delle politiche pubbliche dirottano il nostro sguardo verso alcune aree particolarmente sensibili. Tra queste, le difficoltà connesse alle “politiche dell'identità” che emergono nell’incontro tra l'antropologo/a e una molteplicità di attori sociali e istituzionali e la necessità di maneggiare con cura il fragile equilibrio fra rigore analitico e sostenibilità dei cambiamenti attivati, attraverso un processo di “messa alla prova” delle categorie antropologiche con le expertise professionali dei propri interlocutori.

Dall’altro lato, le esperienze qui raccolte ci confermano come gli antropologi applicati tendano a gestire tali criticità attingendo largamente al capitale sociale accumulato grazie alle proprie esperienze di etnografi. Più che nella pregressa conoscenza del contesto, cogliamo infatti nella disposizione a «curvare» la propria esperienza (Piasere 2002) verso le pratiche e i significati “altri” quella flessibilità contestuale utile a destreggiarsi fra tensioni e resistenze e ad attivare i processi negoziali che conducono alla costruzione di un «mondo terzo» con i propri interlocutori (Fabietti 1999). Ciò si evidenzia, per esempio, nei diversi movimenti che vengono escogitati di volta in volta per negoziare l’ambiguità dei confini che circondano il proprio ruolo e guadagnare autorevolezza di fronte ai soggetti coinvolti, ma anche nella «postura induttiva»[5] che viene negoziata per ideare e sperimentare setting di lavoro e nelle strategie che vengono messe in campo in modo situazionale per costruire un senso condiviso dell’azione progettuale.

Inoltre, è interessante notare come quella nozione di confine, che è stata metaforicamente impiegata per evocare alcuni caratteri distintivi della disciplina (Fabietti 1999; Remotti 2000), venga rielaborata e messa all’opera nell’applicazione antropologica per riferirsi a un sapere capace di elaborare insieme ai professionisti strumenti per innovare i servizi (Lofranco et al. in questo numero), ridisegnare i propri approcci disciplinari in un processo collaborativo (Porcellana, Campagnaro in questo numero), costruirsi nei reciproci accomodamenti con altri approcci e expertise professionali (Portis, D’Ambrosio in questo numero). Nondimeno, scorgiamo nella collaborazione con operatori e professionisti la possibilità di espandere la conoscenza antropologica critica dei linguaggi, saperi, discorsi, istanze e posizionamenti adottati da quegli attori istituzionali e professionali che rischiano a volte di essere soffocati e schiacciati nelle loro differenti soggettività (Pilotto 2018).

Su questo sfondo, i contributi del numero ci ricordano che i percorsi attivati possono prendere forme impreviste e innescare sviluppi inattesi, che si estendono oltre a quanto avevamo prefigurato nella fase iniziale o nel “farsi” dell’azione progettuale. Tali sviluppi possono riguardare l’evoluzione di nuovi cantieri di sperimentazione, le prospettive di “carriera” dei singoli, le proposte avanzate da quegli interlocutori che, pur avendo manifestato inizialmente alcune diffidenze, hanno intravisto poi risorse e opportunità nel contributo antropologico.

In quest’ottica, l’esperienza di Porcellana e Campagnaro aiuta a cogliere come si sia generato, “strada facendo”, un virtuoso meccanismo a catena che ha coinvolto gradualmente soggetti e territori diversificati (Torino, Verona, Milano e Agrigento) e innescato innovazioni locali nel sistema delle politiche sociali. Attraverso un processo di affinamento degli strumenti di antropologia e design all’interno di una cornice di trasformazione dei servizi, l’azione progettuale porta i due Dipartimenti a siglare un nuovo accordo con l’amministrazione comunale torinese finalizzato a «promuovere un processo di riorientamento delle prassi consolidate nel sistema dei servizi al fine di favorire protagonismo, agio, dignità e benessere di tutti gli attori del sistema» (Porcellana, Campagnaro in questo numero). Grazie anche ai recenti sviluppi del progetto, questa esperienza mette a fuoco la sfida di supportare servizi e professionisti del sociale verso nuove trasformazioni del welfare, orientate a una maggiore flessibilità del sistema e delle infrastrutture a fronte della crescente eterogeneità e complessità dei profili e dei bisogni sociali dei propri utenti.

Il caso riportato da Portis e D’Ambrosio esemplifica le importanti ricadute del lavoro applicato sulla co-progettazione di politiche integrate nella gestione della salute pubblica, ma anche sulle traiettorie professionali di un’antropologa che trova esponenzialmente riconoscimento in un Dipartimento di prevenzione ASL (città di Torino). Per quanto non formalmente inquadrata nel proprio contratto come “antropologa”, Lucia Portis esplicita come si trovi di fatto a esercitare questo ruolo proprio «grazie alle collaborazioni avviate precedentemente e alla riconosciuta utilità delle sue competenze» (Portis, D’Ambrosio in questo numero), che consentono di dare spessore empirico ai progetti locali e rafforzare l’analisi di contesti e fenomeni nel campo della salute.

Nondimeno, Lofranco, Ginesi e Reinini ci ricordano come le micro-collaborazioni scaturite in un contesto scolastico possano allargare la conoscenza delle reciproche identità professionali e innescare forme di apprendimento collaborativo che generano in operatori e dirigenti scolastici nuove aspirazioni e consapevolezze verso il contributo operativo dell’antropologia. In quest’ottica, la dirigente scolastica e diversi insegnanti riconosceranno nel contributo antropologico l’opportunità di ritagliarsi momenti elaborativi e riflessivi sulle pratiche lavorative dentro una quotidianità scolastica coinvolta/sconvolta da una sorta di “agire pressante”.

Come abbiamo visto, la possibilità di innescare circuiti virtuosi appare largamente connessa a proposte innovative capaci non solo di evidenziare la rilevanza “pratica” della disciplina, e insieme metterne alla prova l’efficacia teorica[6], ma anche di concedersi un respiro analitico in grado di formulare nuove concettualizzazioni nell’esplorazione multifocale dei servizi e delle politiche pubbliche. Si ricercano, infatti, piste operative e metodologie efficaci per influenzare decisioni e innescare cambiamenti, provando al contempo a custodire una postura euristica in grado di connettere le micro-esplorazioni dei contesti sociali e istituzionali con le macro-analisi dei processi storico-politici che orientano la distribuzione delle risorse e l’applicabilità dei nostri saperi (Marabello 2016).

Sperimentare inedite forme di collaborazione fra sapere antropologico e altre expertise professionali non significa dunque abdicare a un ruolo critico che cede il passo a un rapporto di complicità con le strutture di potere (Pilotto 2018) o appiattirsi alle richieste istituzionali rispetto a cui siamo a volte interpellati. Al contrario, intendiamo in questo numero ribadire come lo sforzo di escogitare un uso responsabile e “tattico” del sapere antropologico sia determinante tanto per diffondere una postura problematizzante nelle arene in cui si traducono le politiche pubbliche, quanto per ri-negoziare i ruoli e significati pubblici dell’antropologia attraverso la collaborazione effettiva con servizi e professionisti, e non semplicemente celebrandoli in astratto.

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[1] Come evidenziato nel precedente numero, il panel, ideato inizialmente con Roberta Bonetti, trovò un numero inaspettatamente elevato di proposte che ci portò a scomporlo in due sessioni, pur mantenendo una matrice comune.

[2] Rimandiamo alla pagina dedicata nel sito della SIAA: http://www.antropologiaapplicata.com/laboratori-permanenti (Sito internet consultato in data 21/06/2019).

[3] Si fa qui riferimento a due panel coordinati insieme ad altri colleghi all’interno dei Convegni SIAA. In particolare, il panel Antropologia applicata, migrazioni e servizi, organizzato insieme a Bruno Riccio all’interno del II Convegno SIAA “Antropologia applicata e spazio pubblico”, Università di Bologna, Rimini (12-13 dicembre 2014); il panel, Forme di legittimazione, negoziazioni e politiche dell’identità: l’antropologo/a nello spazio multiculturale, coordinato con Cecilia Gallotti in occasione del IV Convegno nazionale SIAA “Politiche, Diritti e Immaginari sociali: sfide e proposte dell’antropologia pubblica”, Università degli Studi di Trento, Trento (19-21 dicembre 2016).

[4] Per una disamina del tema all’interno del dibattito sull’applicazione, si rimanda a Severi (2019)

[5] Comunicazione di Bruno Riccio al panel Antropologia applicata, migrazioni e servizi, Secondo Convegno SIAA “Antropologia applicata e spazio pubblico”, Rimini, Università di Bologna (12-13 dicembre 2014).

[6] Su questo ampio dibattito, si rimanda nuovamente a Severi (2019).