Promuovere la democrazia

Prospettive antropologiche su azione transnazionale e processi di democratizzazione

Massimo Tommasoli

Osservatore Permanente di International IDEA presso le Nazioni Unite

Table of Contents

I policy worlds del sostegno alla democratizzazione
L’antropologia della democrazia
L’assistenza alla democrazia come campo di analisi antropologica
Governance democratica: la scoperta della democrazia da parte dello sviluppo
Etnografie dell’assistenza alla democrazia
Mediazione
Osservazione
Partecipazione
Democratizzare lo sviluppo, sviluppare la democrazia?
Bibliografia

Abstract. Democracy assistance significantly expanded at the end of the XX century thanks to an important increase of available funds and the growth of actors engaged in this domain. At the same time social sciences, and in particular anthropology, addressed such theme by producing ethnographies of democracy assistance that applied the tools of critical analysis used in the field of international cooperation and development. In 2015 the adoption by the United Nations of the 2030 Agenda for Sustainable Development stressed the importance of democratic governance in aid rhetoric. Democracy assistance lies at the intersection of two policy worlds: international development and foreign policy. This uncomfortable position generates ambiguities and contradictions mirrored in the performance of the transnational actors that populate the ecosystem of democracy promotion. The paper explores some important analogies that link the domains of democracy support and development aid. Despite some fundamental differences among the goals and the actors involved, the two fields tend to use similar technocratic approaches. As in the domain of development cooperation, transnational actors focus on the design and strengthening of formal democratic institutions and processes, thus turning the object of their supposedly aseptic action into an oxymoron: the apolitical deployment of technologies, tools and standards of political reforms, with limited or no recognition of the social and cultural factors influencing the “vernacularization” of democratic values and practices on the ground.

Keywords: Anthropology of democracy; Anthropology of development; Anthropology of policy; Democracy assistance; Democratic governance.

I policy worlds del sostegno alla democratizzazione

Con le transizioni democratiche che hanno caratterizzato le ultime due decadi del secolo scorso, il sostegno ai processi di democratizzazione ha registrato una significativa espansione, grazie a un sensibile aumento dei finanziamenti disponibili e del numero degli attori impegnati nel settore[1]. Le scienze sociali, e in particolare l’antropologia, hanno iniziato a occuparsi di questo tema producendo etnografie dell’assistenza alla democrazia che hanno in larga misura applicato gli orientamenti critici utilizzati nel campo della cooperazione internazionale.

Nel 2015 l’adozione da parte dell’ONU dell’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goal, SDG) 16 su pace, giustizia e istituzioni solide, inserito nell’Agenda 2030 sullo Sviluppo Sostenibile, ha sancito l’importanza della cosiddetta governance democratica nelle retoriche della cooperazione internazionale, con riferimento sia al mondo della politica estera che a quello dello sviluppo. L’assistenza alla democrazia si colloca all’intersezione tra questi due policy worlds (Shore et al. 2011). Questa scomoda posizione genera alcune contraddizioni che si riflettono sull’azione dei soggetti transnazionali che popolano l’ecosistema della democracy assistance.

In quale misura gli strumenti concettuali dell’antropologia dello sviluppo risultano utili per l’analisi della promozione della democrazia? Sebbene vi siano alcune fondamentali differenze tra le iniziative di appoggio alla democratizzazione e quelle a sostegno dello sviluppo, principalmente dovute alla diversità degli obiettivi e, in parte, anche degli attori ai quali esse sono rivolte, esistono importanti analogie sulle quali concentreremo la nostra analisi.

Il sostegno alla democratizzazione costituisce un elemento importante della politica estera dei paesi occidentali. Poiché la sua principale fonte di finanziamento consiste nell’aiuto pubblico allo sviluppo (APS), le sue iniziative sono giustificate anche in ragione del loro contributo allo sviluppo sostenibile. Questo elemento provoca qualche ambiguità circa le finalità dell’assistenza alla democrazia. Mentre nel campo dello sviluppo, infatti, esistono differenti opinioni sullo statuto della cooperazione internazionale come strumento di politica estera, la tradizione di studi sulle relazioni internazionali concorda sul fatto che la cosiddetta promozione della democrazia sia pienamente iscritta nella politica estera.

A questo riguardo è significativo l’esempio degli Stati Uniti, uno dei principali donatori nel mondo della cooperazione internazionale. Negli anni Ottanta l’amministrazione Reagan ha dato un notevole impulso all’assistenza alla democrazia, creando il National Endowment for Democracy (NED). Il NED è un fondo pubblico, soggetto al controllo del Congresso, che ha investito ingenti somme, secondo una logica bipartisan, nel sostegno a organizzazioni della società civile e a partiti politici, soprattutto nei paesi in transizione nell’area dell’ex-blocco sovietico dopo il 1989. Il suo mandato fu confermato e ampliato dai presidenti George H. W. Bush e Bill Clinton negli anni Novanta.

A partire dal 2001, però, le iniziative di promozione della democrazia sostenute dagli Stati Uniti hanno cambiato la rappresentazione di questo campo di intervento. L’assistenza ai processi di democratizzazione che hanno fatto seguito agli interventi militari in Afghanistan e in Iraq voluti dal presidente George W. Bush ha consolidato una percezione diffusa del sostegno alla democrazia come di un campo strettamente connesso alle priorità di sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Il sostegno alla democrazia, infatti, era stato visto fino ad allora come uno strumento di soft power basato sull’esercizio di un’influenza indiretta sulle politiche interne di paesi terzi. Il suo inserimento all’interno di iniziative di pacificazione al termine di un intervento militare ne ha rinforzato l’immagine di componente di un’azione postcoloniale, nella quale la democrazia appare quasi come una merce da esportare, che contribuisce a incrementare la sicurezza nazionale al di là dei confini degli stati-nazione del mondo occidentale.

Successivamente, durante l’amministrazione Obama, nell’incertezza determinata dal nuovo disordine globale, la democratizzazione non è stata più vista solo come un sistema politico funzionale all’espansione delle istituzioni del mercato in un mondo globalizzato, ma anche come una sorta di gemello dello sviluppo, cioè un fattore determinante per conseguire obiettivi di pace, prosperità e giustizia sociale. In quel periodo la United States Agency for International Development (USAID) ha aumentato gli investimenti nel settore, coordinati dal proprio Center of Excellence on Democracy, Human Rights, & Governance (DRG), con interventi rivolti a promuovere la democrazia per sostenere lo sviluppo. Ulteriori finanziamenti in questo campo sono stati nel contempo forniti dal Dipartimento di Stato attraverso il Bureau of Democracy, Human Rights, and Labor tramite altri strumenti che miravano ad appoggiare iniziative più marcatamente politiche, particolarmente in Africa settentrionale e nel Medio Oriente.

Nella fase attuale, il pendolo dell’assistenza alla democrazia ha compiuto una nuova oscillazione, dato che la presidenza Trump non lo considera un settore prioritario, in linea con lo scetticismo espresso nei confronti dell’azione multilaterale. Gli Stati Uniti potranno ancora giocare la carta del sostegno alla democratizzazione, sia in una prospettiva di cooperazione allo sviluppo che con un approccio esplicitamente politico, ma la subordinazione della promozione della democrazia agli interessi nazionali sarà molto più esplicita di quanto non sia stata in passato. Per questo motivo nell’opinione pubblica, sia all’interno che all’esterno degli Stati Uniti, la percezione dell’assistenza alla democratizzazione è stata fortemente influenzata dal fatto che iniziative in questo settore siano state associate a interventi militari, al punto che spesso viene considerata come uno strumento della politica di sicurezza nazionale, oltre che della politica estera, soprattutto a causa dell’impiego della retorica dell’esportazione della democrazia.

Il principale limite delle critiche dell’assistenza alla democrazia svolte nella prospettiva degli studi sulle relazioni internazionali consiste nel fatto che esse cercano di spiegare queste oscillazioni nell’atteggiamento dei governi nei confronti del tema della democratizzazione a partire da quadri interpretativi spesso ispirati dalla teoria della scelta razionale. È frequente, ad esempio, il ricorso alle teorie dell’internazionalismo liberale, dell’istituzionalismo o del realismo per interpretare il mutamento dell’atteggiamento degli Stati Uniti in merito al tema del sostegno alla democrazia nell’ambito della propria politica estera (Peksen 2012; Cox et al. 2013; Basora et al. 2017). Simili approcci sottovalutano o non colgono alcuni aspetti delle politiche di cooperazione che sono fondamentali in una prospettiva antropologica, tra i quali il fatto che esse siano delle razionalità itineranti «in grado di nascondere o cancellare la specificità regionale, istituzionale, settoriale o organizzativa del processo di sviluppo» (Tommasoli 2013: 46). Tra le modalità attivate dalle policies per conseguire questo risultato figurano, ad esempio, l’impiego di argomentazioni normative a sostegno dell’esercizio del potere e l’affermazione della validità universale dei principî della democrazia, una posizione strutturalmente in tensione con le retoriche sull’ownership locale delle riforme connesse ai processi di democratizzazione. Il concetto di razionalità itineranti mette in evidenza, inoltre, l’importanza dell’influenza esercitata sul conseguimento degli obiettivi delle politiche di cooperazione dalla percezione di legittimità dell’azione trasnazionale da parte dei soggetti che dovrebbero da essa trarre beneficio.

Un’installazione ideata nell’ambito del progetto Global Instant Objects, chiamata Inflatable Democracy: Il parlamento pneumatico, esemplifica questa percezione[2]. Un'illustrazione tratta dall'installazione costituisce un buon punto di partenza per interrogarsi sullo stereotipo dell’assistenza alla democrazia. Essa riflette su due elementi essenziali dell’azione dei soggetti che operano in questo campo: la costruzione di spazi dedicati all’esercizio della democrazia e l’esasperazione della dimensione temporale dell’intervento.

Nel descrivere la loro opera, gli autori usano un registro ironico sostenendo che:

Il Parlamento Pneumatico è un edificio parlamentare rapido da installare, trasparente e gonfiabile; può essere sganciato su ogni terreno e si schiude da solo. In appena un’ora e mezza un involucro protettivo per sedute parlamentari è pronto e, nello spazio di ventiquattr’ore, l’ambiente interno per queste riunioni può essere reso confortevole come una agorà. Il Parlamento Pneumatico accomoda 160 parlamentari ed entra in un container da 20 piedi per un trasporto agevole. Così, in sole ventiquattr’ore più il tempo di volo, i prerequisiti architettonici per il processo democratico possono prendere forma (Sloterijk, Mueller von der Haegen 2005: 952).

Se si provocano le reazioni del pubblico di una conferenza o di un seminario chiedendo quali immagini evochi in loro l'illustrazione (Fig. 1), senza avere preventivamente fornito elementi per contestualizzarne il significato secondo quanto previsto dagli autori dell’installazione, si ottengono risposte che rinforzano alcuni aspetti dello stereotipo prevalente circa l’assistenza alla democrazia. Ogni reazione è a suo modo rappresentativa di alcune criticità del concetto.

Figura 1: Inflatable Democracy (fonte: http://www.g-i-o.com/pp1.htm – Sito internet consultato in data 14 luglio 2019)

Una prima immagine evocata caratterizza la Fig. 1 come «un UFO» o una nave spaziale aliena, metafora dell’alterità dell’istituzione–parlamento rispetto al contesto nel quale viene proposta secondo il modello dell’esportazione della democrazia. Un’altra risposta è «una serra», suggestione che richiama il principio della trasparenza, spesso associato al parlamentarismo nelle retoriche della governance democratica. Alcuni vedono nell’immagine «un bunker» che richiama, nell’era dell’anti-politica, la visione dei parlamenti come di infrastrutture che proteggono le prerogative di una casta di privilegiati.

L’installazione sottolinea uno stereotipo diffuso della promozione della democrazia: la considerazione che essa corrisponda a un bene che può essere “paracadutato” in un contesto sociale e culturale a prescindere dalle sue caratteristiche e specificità. Questo stereotipo è stato criticato, sia da chi è un convinto assertore dell’importanza di un modello alternativo di assistenza alla democrazia, fondato sul principio dell’ownership, sia da parte di chi critica qualunque tipo di intervento, in quanto radicato nelle ambizioni neo-imperialiste ed egemoniche dei paesi occidentali, equiparando l’appoggio alla democratizzazione alla mera esportazione del modello della democrazia liberale.

Come tutti gli stereotipi, l’equiparazione dell’assistenza alla democrazia a mero veicolo per l’attuazione di un’agenda neoliberista, per l’espansione del modello delle democrazie liberali nei paesi in via di sviluppo e per il rafforzamento della loro sicurezza al di là delle frontiere nazionali, non rappresenta altro che una semplificazione di una realtà assai più complessa. L’assistenza alla democrazia è un ambito di intervento le cui componenti principali trattano questioni fondamentali alla base di ogni sistema politico, quali le forme della rappresentazione, la costruzione e gestione di spazi deliberativi pubblici, le modalità e le pratiche della partecipazione, i meccanismi decisionali e la distribuzione del potere. Le specializzazioni che si sono sviluppate nel tempo in questo ampio campo di azione vanno dall’organizzazione e gestione dei processi elettorali al sostegno alle istituzioni della società civile, dal rafforzamento del sistema dei partiti politici alla definizione delle regole fondanti il patto sociale attraverso processi costituzionali, dalla definizione di quadri normativi ispirati ai principî dello stato di diritto alla difesa delle libertà sancite nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

Poiché l’azione internazionale a sostegno della democratizzazione condivide, come vedremo, numerose modalità di intervento con la cooperazione internazionale, è legittimo chiedersi se alcune critiche dell’apparato dello sviluppo come dispositivo “anti-politico” (Escobar 2011; Ferguson 1994) siano applicabili anche al sostegno alla democratizzazione. È possibile individuare in tale settore pratiche che producono effetti “de-politicizzanti” sul proprio oggetto di intervento – diffuse nel mondo della cooperazione internazionale – nonostante le iniziative di appoggio alla democrazia abbiano un carattere eminentemente politico, in quanto rivolte a promuovere riforme istituzionali? Oppure, come sostiene Nicholas Copeland a proposito delle organizzazioni Maya in Guatemala, tanto la democrazia quanto lo sviluppo non sono de-politicizzati ma definiscono spazi concreti di avanzamento che offrono «guadagni materiali immediati entro strutture politiche ed economiche prevalenti […] impacchettate come simili a, ma distinte da, visioni rivoluzionarie di democrazia e sviluppo focalizzate sullo smantellamento delle strutture di oppressione» (Copeland 2019: 11–12)?

Ci proponiamo con il presente intervento di fornire alcune risposte preliminari a questi interrogativi esaminando, a partire da categorie antropologiche, le principali tendenze che emergono dall’analisi delle iniziative di assistenza alla democrazia. Tra queste spiccano, in particolare, la critica degli approcci normativi fondati sul modello della democrazia liberale nell’ambito della cosiddetta promozione della democrazia e l'affermazione di principi di ownership degli attori locali dei processi di democratizzazione, declinati secondo concreti e molteplici significati attribuiti alla nozione astratta di democrazia.

La tensione che risulta tra l’azione transnazionale e le interpretazioni locali dei processi di democratizzazione si confronta con fenomeni di ibridazione della democrazia che sono stati oggetto di analisi etnografiche condotte da specialisti che spesso combinano competenze in differenti campi, dall'antropologia al diritto, dalle scienze politiche all'analisi dei conflitti violenti. A partire dai risultati di alcune di queste etnografie, l’intervento analizza alcune implicazioni applicative dell'impiego di prospettive antropologiche nell’ambito dell’assistenza alla democrazia.

L’antropologia della democrazia

Circa dieci anni fa Adriano Favole sottolineò il “silenzio assordante” della comunità antropologica a proposito della democrazia. Egli osservava che, nonostante l’antropologia abbia fin dalle origini trattato l’organizzazione politica come un tema classico di analisi e di ricerca[3], gli accenni alla democrazia sono stati sporadici (Favole 2010, 2011). Sebbene alcune celebri monografie abbiano richiamato il tema della democrazia nell’analizzare alcuni sistemi politici africani (Kuper 1970; Lewis 1999), in effetti, l‘interesse degli antropologi nei confronti delle istituzioni della democrazia liberale e delle interpretazioni dei suoi principî e processi alla luce di dinamiche sociali e culturali locali è divenuto evidente solo negli ultimi tre decenni. In questo scorcio di tempo un numero crescente di ricercatori ha iniziato a trattare questioni che erano state, fino ad allora, quasi esclusivamente di pertinenza di politologi o giuristi, come i processi di transizione democratica da regimi autoritari o i mutamenti in atto nei regimi democratici (Mamdani 1986, 1990, 1992; Schaffer 1998). Una solida tradizione di ricerca antropologica sulla democrazia è stata inaugurata da Julia Paley con le sue analisi sulla transizione democratica in Cile, con un saggio sull’antropologia della democrazia apparso sulla Annual Review of Anthropology e, infine, con un volume da lei curato dal titolo Democracy: Anthropological Approaches (Paley 2001, 2002, 2008).

Le analisi antropologiche della democrazia sono rilevanti in almeno due prospettive. La prima consiste nel gettare uno sguardo antropologico sulle forme che la democrazia assume in concreti contesti storici, mentre la seconda esamina il rapporto tra democrazia e sviluppo nell’ambito dell’azione di organismi transnazionali.

La prima prospettiva privilegia lo studio degli aspetti sociali e culturali della democrazia, o per meglio dire delle democrazie, a partire dalla costruzione di significati ibridi, validi per i soggetti locali in una dimensione nazionale e sub-nazionale. In questo ambito, l’analisi si può concentrare sia sulla costruzione di identità negli stati liberali multiculturali attraverso etnografie della democrazia e della differenza (Greenhouse, Kheshti 1998), sia sui significati attribuiti da comunità locali alla nozione di democrazia, non sulla base di un sistema particolare di organizzazione politica (come le democrazie liberali occidentali) o di una particolare modello di regime democratico (ad esempio, la differenza tra i modelli presidenziale, semi-presidenziale e parlamentare), ma a partire dalla cosiddetta “vernacolarizzazione” della democrazia in una data cultura. Lucia Michelutti (2008) ha impiegato tale concetto per analizzare, tra gli Yadavs dell’India settentrionale, il complesso rapporto tra idiomi locali espressi in termini di politiche di casta, parentela, religione e genere da un lato, e procedure democratiche dall’altro. Questi idiomi “vernacolari” influenzano e sono a loro volta influenzati dai processi di democratizzazione, generando spazi di partecipazione nei quali i valori e le pratiche della democrazia sono incastonati in pratiche sociali e culturali locali.

Le transizioni democratiche degli anni Novanta del secolo scorso hanno inoltre innescato una riflessione sul rapporto tra discorsi della democrazia, stato postcoloniale e modernità incentrata sulla distinzione tra democrazia procedurale e sostanziale come sostenuto, ad esempio, da Comaroff e Comaroff nel saggio Figuring Democracy: An Anthropological Take on African Political Modernities (Comaroff, Comaroff 2012: 109–131). Simili posizioni sono fondate sulla contrapposizione tra le categorie di thin e thick che sono state applicate anche alla critica di altri ambiti universalizzanti, come quelli della giustizia, dello stato di diritto e dei diritti umani.

In questa tradizione di studi si possono anche esplorare le incrostazioni sociali e culturali che sovrabbondano in tecnologie considerate semplici e incontestabili, che nelle democrazie occidentali sono ritenute parte integrante e irrinunciabile delle pratiche della democrazia rappresentativa, quali, ad esempio, l’atto del votare. Simili analisi mettono in risalto gli elementi di ambiguità, arbitrarietà e singolarità che emergono in una prospettiva storica etnografica che analizzi il voto segreto, sia come tecnologia che come performance (Bertrand et al. 2007).

Infine, sebbene l’interesse di molte ricerche etnografiche sia rivolto alle cosiddette “democrazie degli altri,” soprattutto a partire dal consolidamento di pratiche democratiche al di là dei confini delle democrazie liberali, sono sempre più numerose le analisi che mettono in discussione il modus operandi dei regimi democratici occidentali[4], come dimostra l’acceso dibattito antropologico provocato dal risultato del referendum sulla Brexit nel Regno Unito (Edwards et al. 2017; Evans 2017; Franklin 2019; Green 2016; Gusterson 2017; Koch 2017).

L’assistenza alla democrazia come campo di analisi antropologica

Nella seconda prospettiva, incentrata sull’azione transnazionale per la promozione della democrazia e dello sviluppo, si distinguono due aree tematiche: quella della governance democratica, interessata al valore strumentale della democratizzazione al fine di sostenere processi di sviluppo, e quella dell’assistenza alla democrazia, focalizzata sullo sviluppo della democrazia a partire dalla promozione del valore intrinseco dei principî e delle istituzioni democratiche.

L’assistenza alla democrazia può essere analizzata applicando gli strumenti critici elaborati dall’antropologia dello sviluppo e dall’antropologia delle politiche pubbliche. Si tratta, come abbiamo osservato, di un dominio di intervento che si colloca al confine tra politica estera e politica di cooperazione internazionale. Forse per questa ragione alberga due anime – in parte pienamente sovrapponibili e sinergiche, in parte in competizione tra di loro – delle quali una è più tecnocratica o “sviluppista” e l’altra più “politica” (Carothers 2009). La prima attribuisce al rafforzamento di istituzioni e procedure democratiche una giustificazione per così dire “tattica” in ragione della loro utilità per il conseguimento di obiettivi di sviluppo, mentre la seconda ne sottolinea il peso “strategico” perché si propone il mutamento politico come obiettivo esplicito di cooperazione in appoggio a processi di democratizzazione.

In termini di rappresentazione della propria azione, il sostegno alla democratizzazione sembrerebbe distinguersi dall’aiuto allo sviluppo per una significativa differenza che si riflette sia nelle retoriche adottate, sia nella definizione delle proprie finalità: quelle che nelle iniziative di sviluppo sono considerate come “esternalità” diventano, nell’assistenza alla democrazia, il cuore dell’intervento di cambiamento pianificato. Nonostante l’affermazione di questa sostanziale differenza tra gli obiettivi dei due campi di azione, alcune recenti etnografie hanno messo in evidenza una sostanziale convergenza tra le iniziative per la democrazia e quelle per lo sviluppo, considerati come due pilastri della modernità occidentale.

In realtà la linea di demarcazione tra aiuto allo sviluppo e assistenza alla democrazia non è tanto netta quanto lo ritengono gli attori che agiscono in questi due ambiti. L’APS ha a lungo dissimulato le implicazioni politiche della propria azione. Lo ha fatto attraverso una fitta cortina di tecnicismi, all’apparenza oggettivi e imparziali, in realtà arbitrari e de-politicizzanti, che hanno spesso sottovalutato le dimensioni politiche degli interventi di sviluppo. A volte, come nel caso delle istituzioni finanziarie internazionali, tali dimensioni sono state esplicitamente ignorate perché gli aspetti politici sono esclusi dal mandato attribuito dai paesi membri a questi organismi.

Da un lato, dunque, chi opera nel campo della democracy assistance si propone di contribuire alla crescita e al consolidamento nel mondo della democrazia come sistema politico. Dall’altro lato, in un’ottica di APS, il sostegno a istituzioni e processi democratici è visto come un modo per rinforzare la governance democratica, a sua volta percepita come fattore che contribuisce a creare un ambiente favorevole per l’attuazione di efficaci politiche di sviluppo. Ciò non vuol dire, tuttavia, che tali obiettivi siano in contraddizione tra di loro. Al contrario, il consolidamento di regimi democratici ispirati ai valori delle democrazie liberali occidentali è stato considerato, in una prospettiva neoliberista, come un elemento essenziale per l’espansione e il rafforzamento delle istituzioni e dei meccanismi del libero mercato.

La configurazione dell’aiuto allo sviluppo e quella del sostegno alla democrazia sono accomunate da un linguaggio elusivo e da uno scarto tra l’apparato concettuale che dovrebbe ispirarne l’azione e la realtà delle loro concrete pratiche di intervento. Le retoriche dell’assistenza alla democrazia sono ricche di concetti dal significato sfuggente, a volte usati come sinonimi, che hanno in comune una forte connotazione normativa: “promozione” (democracy promotion), “sostegno” (democracy support) o “costruzione” (democracy building). Burnell (2000: 4) ha compilato un lungo elenco di questi termini: assistenza alla democrazia, assistenza correlata alla democrazia, costruzione della democrazia, promozione della democrazia, assistenza politica, aiuto allo sviluppo politico, supporto allo sviluppo democratico.

A prescindere dall’etichetta impiegata, le organizzazioni e i soggetti che si richiamano a questo ambito di intervento si focalizzano sul disegno, sulla riforma e sul funzionamento delle istituzioni di governo, con iniziative che mirano a rinforzare e ampliare spazi pubblici di interazione di tali istituzioni con movimenti e attori della società civile, nonché a sostenere processi democratici inclusivi e partecipativi. Al di là delle sfumature, queste espressioni condividono l’idea che una combinazione di fattori, come l’affermazione di principî costituzionali democratici, l’attuazione di riforme legislative e la mobilitazione e partecipazione attiva di gruppi organizzati di popolazione, possano contribuire a favorire transizioni politiche verso la democrazia o a consolidarne le istituzioni. Da ciò derivano approcci orientati al disegno e alla gestione di processi di cambiamento sociale e politico, ispirati più o meno esplicitamente ai principî delle democrazie liberali occidentali, talvolta temperati da un’apertura a considerare le differenze dei contesti sociali e culturali nei quali gli attori esterni intervengono (Burnell 2000 e 2011; Bridoux, Kurki 2014; Hobson, Kurki 2012).

Esiste una radice comune ai campi dell’assistenza alla democrazia e dello sviluppo internazionale. Essa è rappresentata dall’agenda politica che il Presidente Truman delineò nel suo celebre discorso di insediamento del 1949, al quale viene ricondotta la prima formulazione coerente del concetto di sviluppo applicato a popolazioni invece che, come era pratica comune fino ad allora, a territori. Tale agenda, infatti, fu definita in una cornice nella quale era chiara l’importanza della diffusione della democrazia liberale nei paesi soggetti all’influenza o al controllo diretto del socialismo reale. Come abbiamo ricordato, nell’epoca della guerra fredda il campo dell’assistenza alla democrazia è stato subordinato a quello dell’aiuto allo sviluppo alla luce di esigenze di realpolitik, per poi beneficiare, all’indomani della caduta del muro di Berlino, di un decisivo impulso e in alcuni settori, come quello dell’assistenza al multipartitismo, di una vera e propria rifondazione.

Molti attori transnazionali attivi nei processi democratizzazione coincidono con quelli dell’APS. Essi sono agenzie dei paesi donatori, organizzazioni internazionali e organizzazioni non governative (ONG) internazionali, soprattutto quelle specializzate in diritti umani e stato di diritto. Altri soggetti dell’assistenza alla democrazia, tuttavia, sono attori che provengono da un ambiente esterno al mondo della cooperazione internazionale (Petric 2012). Tra questi si possono includere fondazioni di partiti politici, pensatoi (think tanks), organizzazioni della società civile, associazioni di attivisti specializzate nella difesa dei diritti civili e politici, reti associative di base, organizzazioni sindacali, organismi parlamentari e altri soggetti che non fanno tradizionalmente riferimento al variegato mondo della cooperazione internazionale.

L’expertise impiegata nell’assistenza alla democrazia può essere assai differente rispetto alle competenze specialistiche richieste nell’aiuto allo sviluppo. Tra gli operatori dell’assistenza alla democrazia si possono spesso incontrare esperti che vantano esperienze in politica, nel giornalismo, nell’attività legislativa e nelle istituzioni elettorali, invece che nei settori tradizionali di intervento della cooperazione internazionale, come la salute, l’istruzione, l’agricoltura o le infrastrutture. Il sapere esperto impiegato nel campo della promozione della democrazia copre numerose specializzazioni. Una lista parziale comprende tematiche quali: assistenza elettorale, riforme costituzionali, rafforzamento della società civile, uguaglianza di genere, decentramento amministrativo, devoluzione dei poteri dello stato centrale, rafforzamento delle istituzioni parlamentari, istituzionalizzazione del sistema dei partiti politici, promozione di una cultura democratica, educazione civica, sostegno dello stato di diritto, sviluppo del sistema giuridico, definizione e difesa del ruolo dei media.

Pur tenendo conto delle diverse competenze prevalenti in queste comunità di specialisti, tuttavia, le logiche di pianificazione impiegate per la definizione di iniziative sono abbastanza simili. Esse partono di norma dalla valutazione di problemi da cui deriva la formulazione di azioni che prevedono la fornitura di risorse, mezzi e assistenza tecnica per rinforzare capacità istituzionali locali. Alla sovrapposizione delle logiche di pianificazione contribuisce il fatto che i finanziamenti a sostegno delle iniziative di sviluppo della democrazia, da un lato, e di sostegno alla democrazia per lo sviluppo, dall’altro, provengono spesso dalle stesse fonti, vale a dire i principali donatori, bilaterali e multilaterali, che investono in questo campo e che richiedono procedure analoghe di istruzione, realizzazione e valutazione delle domande di finanziamento.

Governance democratica: la scoperta della democrazia da parte dello sviluppo

Le ricerche sul rapporto tra democrazia e sviluppo, prevalentemente condotte da scienziati politici, si sono tradizionalmente concentrate sulla relazione causale tra democrazia, intesa essenzialmente nel senso delle procedure e delle istituzioni della democrazia liberale, come ad esempio la conduzione di elezioni periodiche, e sviluppo, concepito in termini riduzionisti come crescita economica, che impiega come unità di analisi lo stato-nazione. La principale implicazione politica per i pianificatori dello sviluppo riguarda la rilevanza della democrazia rispetto alle loro priorità, ovvero se essa sia un prerequisito o almeno una condizione favorevole per lo sviluppo. Se fosse un prerequisito, non solo lo sviluppo sarebbe associato con la democrazia, ma il conseguimento di un determinato livello minimo di democrazia sarebbe una condizione indispensabile per consentire lo sviluppo. Sulla base di analisi quantitative condotte su dati raccolti e catalogati secondo i criteri riduzionistici sopra indicati, una delle ricerche più influenti su questo argomento ha concluso che, sebbene esista una relazione, l’ipotesi di un nesso causale tra democrazia e sviluppo è inconclusiva (Przeworski et al. 2000). Del resto questa conclusione è confortata dalla consapevolezza che ci sono sia paesi democratici con deficit di sviluppo, sia paesi autoritari che registrano alti tassi di crescita economica. Pippa Norris (2012) ha analizzato la correlazione tra governance democratica e sviluppo e ha spiegato questo apparente paradosso sostenendo che tanto la democrazia liberale quanto le capacità dello Stato debbano essere rinforzate per assicurare lo sviluppo. Va sottolineato che la Norris, professoressa di scienze politiche nella Kennedy School of Government all’Università di Harvard, ha anche prestato servizio all’UNDP come direttore del settore della governance democratica e quindi costituisce un caso di una studiosa prestata al mondo della pratica in un organismo internazionale impegnato nella cooperazione allo sviluppo.

Nel considerare la democrazia dal punto di vista della cooperazione internazionale, in una prospettiva che potremmo genericamente definire di democratizzazione dello sviluppo, dobbiamo innanzitutto sottolineare che il campo è stato egemonizzato dal sapere degli economisti e dei pianificatori dello sviluppo. L’idea fondante della governance democratica è rappresentata dal valore strumentale della democrazia, definita come sistema politico che crea un ambiente favorevole per determinare le condizioni di uno sviluppo qualitativamente migliore. In questa prospettiva, le istituzioni e i processi democratici contribuirebbero nello stesso tempo tanto alla sostenibilità sociale e politica dello sviluppo, attraverso processi deliberativi e partecipativi che coinvolgono le popolazioni locali, quanto alla redistribuzione dei suoi benefici in base a principî di giustizia sociale.

Il concetto di governance democratica si afferma alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, quando nella cooperazione internazionale si consolidano orientamenti che attribuiscono un peso rilevante a tematiche comprese nella generica definizione di buon governo e sviluppo partecipativo, democrazia e diritti umani. Nello stesso periodo si verifica un'ondata di democratizzazioni, con transizioni democratiche in America latina, in Asia e soprattutto in Europa centrale e orientale, a seguito del collasso del sistema sovietico.

Le linee guida su sviluppo partecipativo e buon governo, che trattavano anche le tematiche dell’assistenza alla democrazia, adottate nel 1993 dal Comitato per l’Aiuto allo Sviluppo dell’OCSE, hanno per la prima volta cristallizzato orientamenti su questo tema a seguito di una riflessione sulle cosiddette buone pratiche di cooperazione e sui risultati dei programmi sostenuti dai principali paesi donatori in questo campo (OECD 1993). Esse hanno costituito a lungo un quadro di riferimento per le iniziative dell’APS volte a rinforzare istituzioni e quadri normativi dei paesi beneficiari in materia di gestione del settore pubblico, lotta alla corruzione, decentramento e democratizzazione, considerati come fattori che contribuiscono allo sviluppo. Con il tempo alcuni donatori si spinsero a impiegare questi principî come prerequisiti o condizioni politiche alle quali vincolare i propri programmi di APS, come nel caso del Millennium Challenge Account promosso dagli Stati Uniti a partire dal 2005. L’inclusione di alcune riforme politico-istituzionali nei programmi di aggiustamento strutturale e di stabilizzazione economica, promossi a partire dagli anni Ottanta dalle istituzioni finanziarie internazionali, ha contribuito a legare il concetto di governance all’insieme di condizionalità politiche che hanno accompagnato tali programmi (Crawford 2001). In quel periodo le retoriche della cooperazione internazionale, coniando il concetto di sviluppo umano, sottolineano che la sostenibilità sociale della crescita, cioè la sua qualità nel medio periodo, è associata con istituzioni e processi democratici (UNDP 2002).

Da allora il principio della governance democratica è stato ampliato in un’ottica universalista, fino a comprendere tanto i paesi beneficiari quanto quelli donatori, a seguito dell’approvazione, nel 2015 da parte delle Nazioni Unite, dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile e, in particolare, dell’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile (SDG) 16 che si concentra sul nesso tra pace, giustizia e qualità e solidità delle istituzioni. Si può dunque dire che nelle retoriche dello sviluppo tale questione non è più soggetta ai limiti dell’interazione tra paesi donatori e paesi riceventi dell’APS, ma riguarda indistintamente tutti i paesi, a prescindere dal ruolo da essi svolto nelle relazioni di partenariato determinate dalla cooperazione internazionale.

Nel mondo della cooperazione internazionale esiste la tendenza a trattare le questioni della democrazia in termini tecnici invece che politici. Gli apparati dell’APS definiscono questo come uno tra i tanti settori di intervento della propria azione. Gli approcci tecnocratici si fondano sull’impiego di un sapere esperto che applica ai temi della democrazia e dei diritti umani una logica “problematizzante” simile a quella impiegata per analizzare la povertà e altri temi.

In tal modo le retoriche e le politiche di cooperazione che affermano l’obiettivo della governance democratica definiscono un campo di intervento specialistico, nel quale si programmano iniziative rivolte a introdurre riforme politico-istituzionali giudicate necessarie per favorire lo sviluppo economico. Nonostante l’ambizione di tali riforme e il riconoscimento formale della complessità del cambiamento necessario per determinare un ambiente favorevole allo sviluppo, la loro attuazione si è spesso risolta in una semplificazione della realtà sociale, culturale e politica dei contesti di intervento. Dal momento che l’impiego dell’aggettivo “democratico” turbava la suscettibilità di alcuni regimi autoritari o semi-autoritari, l’apparato della cooperazione internazionale ha spesso impiegato come sinonimi altre espressioni meno compromettenti. Da questa preoccupazione deriva l’uso nelle dichiarazioni politiche, nei documenti di progetto o nei protocolli di cooperazione, di termini come governance “buona” (good governance), “sufficientemente buona” (good enough governance) o “efficace” (effective governance).

L’avvento della good governance negli anni Novanta corrisponde a un tentativo di promuovere la riforma dello stato e dei suoi apparati burocratico-istituzionali con un approccio fondato sulla spiegazione della resistenza al cambiamento come conseguenza del peso combinato di corruzione e violazione dello stato di diritto. In questa fase, la partecipazione della popolazione, vista come elemento che legittima le scelte di sviluppo di un paese beneficiario e le scelte di cooperazione internazionale di un paese donatore, viene affermata come una sorta di paradigma dell’azione di cooperazione attraverso i principî dello sviluppo partecipativo (Tommasoli 2001).

Solo negli ultimi quindici anni le dimensioni politiche della cooperazione sono state prese maggiormente in considerazione attraverso l’elaborazione degli approcci fondati sulla theory of change, cioè sull’esplicitazione delle assunzioni politiche sulle quali si fondano le iniziative finanziate dall’APS. Il fallimento di molte riforme promosse dai donatori, a volte in seguito all’imposizione di vere e proprie condizionalità politiche, ha provocato un ripensamento dei limiti degli approcci tecnocratici allo sviluppo. Alcune di queste critiche, che potremmo definire “costruttive” o riformiste, sono state formulate dall’interno dell’apparato della cooperazione allo sviluppo e hanno generato nuovi strumenti analitici, modalità di programmazione e forme di partenariato. Tra questi ricordiamo la power analysis promossa dalla Swedish International Development Cooperation Agency (Sida); l’analisi dei cosiddetti drivers of change e l’approccio denominato thinking and working politically, adottati dal Department for International Development (DfID) del Regno Unito; l’applied political economy analysis elaborata dalla USAID statunitense; il partenariato sulla cosiddetta social accountability guidato dalla Banca Mondiale; e gli approcci basati sui diritti umani proposti da varie agenzie, programmi e fondi delle Nazioni Unite. L’impegno delle agenzie di cooperazione nell’ambito della governance democratica ha certamente contribuito a incrementare la consapevolezza delle dimensioni politiche dell’azione dell’apparato dello sviluppo (Carothers, de Gramont 2013). Non è sufficiente, tuttavia, limitarsi all’esame degli orientamenti delle politiche di cooperazione, del volume e della distribuzione dei finanziamenti e dei risultati dei programmi realizzati per analizzare l’effettivo impatto delle iniziative in questo settore. In effetti, tanto la governance democratica, quanto l’assistenza alla democrazia sono potenti sistemi di produzione di significati nei quali norme e pratiche culturali creano e articolano le opportunità della democrazia. Per comprenderne le implicazioni sono necessarie etnografie delle iniziative, delle politiche e dell’organizzazione delle istituzioni transnazionali che promuovono la democrazia.

A partire dagli anni Novanta nell’antropologia dello sviluppo si affermano alcune radicali critiche postmoderne delle istituzioni e degli apparati fin qui descritti. Esse sostengono che le istituzioni e i soggetti che operano nell’ambito della cooperazione internazionale costruiscono l’oggetto della propria azione a partire dal dispiegamento di dispositivi di intervento (progetti, programmi e politiche di cooperazione) che comportano l’apparente paradosso di de-politicizzare lo sviluppo, dissimulando o mistificando la natura eminentemente politica di una qualunque azione di cooperazione internazionale. Come vedremo, queste critiche non si sono limitate a trattare gli interventi e le politiche di governance democratica ma hanno influenzato anche le ricerche etnografiche condotte sulle iniziative di assistenza alla democrazia.

Etnografie dell’assistenza alla democrazia

Sebbene non sia rivolta, in linea di principio, esclusivamente ai paesi in via di sviluppo, l’assistenza alla democrazia si è di fatto concentrata su due categorie di paesi beneficiari definiti rispettivamente, secondo la terminologia delle Nazioni Unite, come democrazie “nuove” o “restaurate”[5], a seconda che si riferiscano a paesi che non hanno mai sperimentato nella loro storia un regime democratico, ovvero a paesi che hanno ristabilito sistemi politici democratici a seguito della caduta dei regimi autoritari che avevano interrotto una storia di liberalismo democratico.

Nel campo dell’appoggio allo sviluppo della democrazia, il sapere egemonico è stato finora quello degli scienziati politici e dei giuristi, che ha influenzato l’azione dei soggetti transnazionali attivi in questo settore soprattutto attraverso un’attenzione prevalente agli aspetti procedurali e al disegno delle istituzioni formali della democrazia liberale.

Nel mondo dell’assistenza alla democrazia i fattori politici, tipicamente considerati come condizioni esterne all'azione di sviluppo, sono esplicitamente presi in considerazione nella formulazione delle iniziative di sostegno alla democratizzazione promosse dai soggetti attivi in questo campo e, lungi dal costituire esternalità rispetto alla logica di intervento, ne rappresentano il fuoco principale di azione. Il “pensare” politicamente, che ha costituito un’acquisizione relativamente recente nell’asettico e tecnocratico mondo della cooperazione internazionale, è stato in realtà il punto di partenza delle iniziative di assistenza alla democrazia, anzi, la loro stessa ragion d’essere. In qualche misura, tuttavia, questa apparente predisposizione a un’azione orientata alla politica ha replicato alcune modalità della cooperazione internazionale coerenti con le pratiche discorsive riscontrabili nell’ambito delle iniziative di governance democratica.

Per le caratteristiche del suo oggetto di studio, un’antropologia dell’assistenza alla democrazia necessita di ricerche empiriche sull’azione di istituzioni internazionali. Come ha osservato Jeremy Gould, l’agenda di ricerca degli antropologi che si sono occupati dello stato e della politica democratica si è evoluta da

caratterizzazioni semplici, quasi-morali di relazioni politiche (clientelismo, corruzione e così via)… [a] concettualizzazioni più rigorosamente non-normative delle strategie professionali e personali di attori locali dello stato – chiaramente una precondizione di base per comprendere i limiti della governance democratica locale (Gould 2003: 38-39).

Per quanto le ricerche empiriche localizzate siano importanti, le etnografie in questo campo richiedono che l’approccio di ricerca prenda in esame anche la dimensione transnazionale della democratizzazione e l’azione dei suoi attori principali che coincidono, in larga misura, con le istituzioni che operano nella cooperazione allo sviluppo. Per questa ragione, un elemento che accomuna le etnografie della promozione della democrazia è il carattere multisituato delle ricerche, che hanno spesso analizzato l’azione dei soggetti transnazionali a differenti livelli, dal locale (il progetto) al globale (le politiche di sostegno alla democrazia). Un altro elemento comune alle analisi condotte in questo ambito è il fatto che molti ricercatori hanno lavorato nell’apparato dell’assistenza alla democrazia come funzionari o consulenti, sperimentando nel proprio vissuto percorsi di transizione dal mondo della pratica e dell’applicazione a quello della ricerca accademica.

Senza alcuna pretesa di sintetizzare la notevole mole di letteratura prodotta sull’argomento, nelle prossime sezioni trarremo spunto dai risultati di alcune recenti etnografie per illustrarne l’importanza in relazione all’analisi di tre temi chiave dell’antropologia pubblica contemporanea: la mediazione, l’osservazione e la partecipazione.

Mediazione

Il concetto di transizione è centrale sia per l’assistenza alla democrazia, sia per gli studi su pace e conflitti violenti. L’analisi antropologica contesta la connotazione di unilinearità del cambiamento implicita in tale nozione. Questa posizione si riflette tanto nelle etnografie delle transizioni democratiche in situazioni di post-conflitto, vale a dire dalla guerra alla pace, quanto in quelle che analizzano transizioni da regimi autoritari a sistemi democratici. In ambedue i casi, gli attori transnazionali – definiti da Wedel (1998) “transattori” – svolgono un ruolo di mediazione non privo di ambiguità, aspetto approfondito, nell’ambito dell’antropologia dello sviluppo, dalle ricerche sui cosiddetti brokers della cooperazione internazionale (Bierschenk et al. 2000; Lewis, Mosse 2006; Blundo 2012).

Una delle prime ricerche sull’assistenza alla transizioni democratiche in Europa Centrale e Orientale negli anni Novanta impiega l’analisi discorsiva dello sviluppo per interpretare le dinamiche attraverso le quali alcuni gruppi di “riformatori” economici e politici – in parte espressione di élites locali, in parte membri della nomenclatura dell’apparato statale comunista – riuscirono a riciclarsi come intermediari nel nuovo e fiorente mercato dell’assistenza tecnica finanziata dalla cooperazione internazionale (Wedel 1998).

Keith Brown, a partire da un’esperienza accumulata con lo United States Institute of Peace nell’ex-Yugoslavia, ha raccolto alcune esperienze di “transazione di transizioni” in un volume che analizza tre tipi di mediazioni effettuate da organizzazioni impegnate in iniziative di promozione della democrazia. Brown distingue tra tre tipi di mediazione: transazioni di potere all’interno della catena di comando tra uffici di progetto, caratterizzati da relazioni orizzontali di reciprocità, e sedi centrali dei rispettivi organismi, distinte da relazioni verticali fortemente gerarchizzate; transazioni di valori, consistenti nel tentativo di tradurre in concrete azioni sul terreno alcuni concetti chiave della democrazia, definiti nei documenti di progetto come “bene pubblico,” “uguaglianza di genere” o “media indipendenti”; e transazioni di solidarietà, che sono il risultato di tentativi di costruire relazioni di partenariato, più spesso idealizzate che effettivamente realizzate, con attori e organizzazioni locali (Brown 2006).

Osservazione

L’assistenza elettorale figura tra i principali settori di intervento del sostegno alla democrazia. L’organizzazione di elezioni costituisce spesso un elemento cruciale in transizioni complesse, in quanto esse marcano ad un tempo il passaggio da un regime autoritario a uno democratico e da una situazione di guerra a una di pace. Una delle più note forme di assistenza in questo campo consiste nella conduzione di missioni di osservazione elettorale composte da esperti e rappresentanti di istituzioni internazionali, organizzate su richiesta dei paesi che conducono elezioni in momenti critici della loro storia, ad esempio dopo una complessa crisi politico-istituzionale o all’indomani di un conflitto violento (Abbink, Hesseling 2000).

Le elezioni in Bosnia ed Erzegovina all’indomani degli accordi di pace di Dayton sono forse state uno dei casi più famosi e studiati in questo campo. Kimberley Coles ha realizzato la sua etnografia sull’assistenza elettorale in Bosnia, paese dove ha lavorato sia come membro di missioni di osservazione elettorale, sia come specialista nell’ambito di progetti di assistenza tecnica alle autorità elettorali. Questa esperienza diretta le ha permesso di analizzare dall’interno dell’apparato di promozione della democrazia l’assistenza elettorale come pratica di governance globale e di politica estera. Tale pratica si trova «alla congiunzione del complesso industriale umanitario e degli attanti elettorali» grazie alla quale la «Bosnia ed Erzegovina emerge come un nodo precoce nella professionalizzazione e standardizzazione di una techne e di un sapere democratici come strumenti per fini di politica estera» (Coles 2007: 237). Professionalizzazione e codificazione sono due potenti processi che definiscono il carattere asettico dell’azione degli esperti di assistenza elettorale. Essi garantiscono, attraverso la serialità delle operazioni condotte e delle procedure impiegate, che prescindono dal contesto nel quale si interviene – si tratti di Balcani, Africa o un’altra regione del mondo – un risultato percepito come legittimo perché prodotto da pratiche e saperi apparentemente apolitici, anche se le elezioni, naturalmente, non sono altro che siti di battaglia politica (Coles 2007: 244).

Anche Coburn e Larson (2014), analizzando il caso dell’Afghanistan, si sono concentrati sui processi elettorali, che definiscono, richiamando Bourdieu, delle “strutture che strutturano”, ovvero che creano un mondo politico per gli individui che vi partecipano. Le elezioni darebbero così forma al modo in cui gli attori prendono decisioni ma, a loro volta, cambierebbero forma a seguito delle pratiche e norme politiche delle comunità di cui gli individui fanno parte. Coburn e Larson mettono in discussione l’efficacia dell’assistenza internazionale ai processi elettorali in situazioni instabili e – di fatto – in un teatro di guerra quale è l’Afghanistan, sostenendo che l’apparato dell’assistenza alla democrazia pone eccessiva enfasi sulle forme delle istituzioni democratiche promosse, rispetto alle modalità con cui tali istituzioni effettivamente operano per consolidare il potere di potenti élites locali.

Laura Zanotti (2011), già funzionaria delle Nazioni Unite, ha realizzato un’etnografia della democratizzazione nell’ambito di operazioni di pace, fondata sui casi di Haiti e della Croazia. L’esempio di Haiti, in particolare, prende in esame una delle prime operazioni di mantenimento della pace dell’ONU attuate alla metà degli anni Novanta con l’obiettivo esplicito di restaurare la democrazia. Usando categorie critiche foucaultiane, Zanotti sostiene che gli idiomi della democrazia, dell’economia di mercato e dei diritti umani hanno soggettivizzato come anormali gli stati che non possiedono queste qualità. In tal modo li hanno resi passibili di pratiche di disciplinamento e possibili obiettivi di interventi internazionali, fondati su riforme istituzionali e sulla creazione di meccanismi di osservazione e controllo, che normalizzano i regimi politici su tre dimensioni: disciplinarità istituzionale, governamentalizzazione e biopolitica. In situazioni di povertà estrema, tuttavia, il dispiegamento di questi dispositivi di standardizzazione e controllo rinforza la dipendenza dall’aiuto internazionale. L’intervento della cooperazione internazionale mina, invece di sostenere, ciò che si propone di costruire, cioè le istituzioni dello stato haitiano (Zanotti 2011: 140–142).

Partecipazione

Uno dei più tradizionali settori di intervento di attori internazionali nel campo della democratizzazione è costituito dalle iniziative a sostegno delle organizzazioni della società civile. Julia Paley, nella sua ricerca sul Cile post-Pinochet incentrata sulla mobilitazione di organizzazioni non governative per il conseguimento di obiettivi di sviluppo sociale, ha trattato l’apparente paradosso costituito dal fatto che i movimenti sociali, particolarmente attivi negli anni Sessanta, durante la presidenza di Salvador Allende negli anni Settanta e nelle proteste contro il regime militare della metà degli anni Ottanta, hanno ridotto il proprio attivismo con il ritorno alla democrazia negli anni Novanta. La sua analisi, fondata sulla ricerca condotta su un’associazione di base attiva nel campo della salute nel quartiere La Bandera di Santiago, mostra che il progetto democratico in Cile è stato strettamente connesso con le politiche neoliberiste di espansione e rafforzamento dell’economia di mercato e con il rafforzamento delle strutture dello stato. Per Paley quello della “partecipazione” è «un discorso simbolico ben adattato al tipo di democrazia politica che emerge in Cile» perché ha «permesso al governo di contare sul sostegno dei cittadini per fornire servizi sociali non più considerati di responsabilità dello stato» (Paley 2001: 180). Da ciò deriva la definizione da lei coniata di “commercializzazione” (marketing) della democrazia per descrivere il processo di transizione cileno e il significato attribuito alla partecipazione civica nel suo ambito.

La raccolta di saggi curata da Boris Petric (2012) mette in luce l’influenza esercitata da stati, organizzazioni non governative, fondazioni, organizzazioni intergovernative e movimenti civici sulla creazione e sull’ampliamento – o la compressione – di spazi di partecipazione e dialogo in società caratterizzate da fenomeni di esclusione sociale, di disuguaglianza e di discriminazione su base etnica, linguistica, religiosa e di genere. Armine Ishkanian (2008) ha analizzato le politiche dell’aiuto internazionale a supporto della società civile in Armenia. Ishkanian argomenta che mentre la promozione della democrazia ha portato alla creazione di istituzioni formali e di organizzazioni non governative, ha anche sopraffatto le iniziative di base, «trasformando la democrazia in un progetto e la società civile in ONG» (Ishkanian 2008: 156). Theodora Vetta, che ha condotto una ricerca sullo stesso tema in Serbia, sembra concordare con questa analisi. Vetta sostiene che l’intervento negli anni Novanta degli attori della promozione della democrazia ha fatto sì che le ONG, sostenute a partire dalla metà degli anni Settanta dall’industria dell’aiuto allo sviluppo, non siano più state viste solo come esecutori di progetti, ma siano divenute esse stesse un progetto da sostenere (Vetta 2019: 23). Le ONG sono diventate entità dipendenti dall’APS e vulnerabili alla volatilità dei flussi dell’aiuto. Mentre il personale delle ONG è stato vittima di una precarizzazione delle condizioni di lavoro, i dirigenti hanno consolidato il proprio potere grazie all’inclusione in comunità discorsive epistemiche transnazionali, all’abilità di mediazione e alla capacità di ricreare il bisogno del loro intervento (Vetta 2019: 199).

Democratizzare lo sviluppo, sviluppare la democrazia?

Un’analisi critica dell’assistenza alla democrazia, intesa come forma dell’APS rivolta sia ad obiettivi di politica estera che di cooperazione allo sviluppo, permette di definirla come un campo di azione di attori transnazionali nel quale coesistono le pratiche discorsive di due ambiti di intervento: quello della governance democratica e quello della promozione della democrazia.

Nonostante alcune differenze di registro nelle retoriche impiegate, prevalgono in ambedue gli ambiti approcci tecnocratici che sono significativi non tanto perché conseguono gli obiettivi attesi, essendo anzi riconosciuta la limitata efficacia delle iniziative in questo campo, ma perché legittimano istituzioni statali in situazioni di transizioni complesse, dopo una guerra o dopo un cambio di regime, consentendo di ricostituire le condizioni per un’interazione formale tra attori politici nazionali e soggetti transnazionali.

Sebbene nell’ambito dell’assistenza alla democrazia siano attivi anche attori transnazionali che non sono soggetti tradizionali dell’aiuto allo sviluppo, come fondazioni di partiti politici, organismi e tribunali elettorali, think tanks e organizzazioni intergovernative con un mandato specifico in materia di assistenza alla democratizzazione, l’apparato della cooperazione internazionale e quello dell’assistenza alla democrazia presentano molti elementi in comune.

La programmazione delle iniziative di assistenza tecnica è fondata su metodologie analoghe a quelle dell’APS, come simili sono anche i linguaggi specialistici impiegati, i processi di professionalizzazione e di istituzionalizzazione degli organismi coinvolti, i criteri di standardizzazione delle procedure amministrative di gestione, di controllo e di valutazione delle iniziative.

Uno dei principali elementi in comune è l’enfasi posta sul rafforzamento di istituzioni formali e la contestuale sottovalutazione del ruolo di istituzioni informali nei rispettivi contesti operativi[6]. Ambedue gli ambiti tendono a definire settori di intervento, contribuendo a frammentare la realtà sociale in compartimenti separati di specializzazione e di azione. Nascono così micro-circuiti di expertise che riflettono i settori e ne riproducono, spesso in forma serializzata, le modalità di azione

Numerose etnografie dell’assistenza alla democrazia mettono in luce il potenziale critico di un'analisi antropologica di questo campo in continua espansione, sottolineando non solo lo scarto cognitivo esistente tra soggetti locali e attori transnazionali nei processi di democratizzazione, ma anche le conseguenze principali del dispiegamento di dispositivi di promozione della democrazia. Tra queste va ricordato il fatto che, anche se sono presentate in forme che appaiono depoliticizzate e naturali, la democratizzazione e le sue tecnologie non sono mai apolitiche. L’antropologia, intendendo la democrazia come tecnica e pratica culturale, può mettere in luce i meccanismi di legittimazione e di potere connessi alle tecnologie di rappresentazione e partecipazione democratica e porre le basi per un coinvolgimento più consapevole, in una prospettiva di lunga durata, dei cittadini nella trasformazione della propria società. Per tornare all’immagine del Parlamento Pneumatico, con il quale abbiamo iniziato queste riflessioni, lo stereotipo della promozione della democrazia si potrà abbattere solamente a patto che le iniziative di sostegno ai processi di democratizzazione abbandonino – nei fatti – il mito della democrazia istantanea.

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[1] Questo testo si basa su un intervento svolto al IV Convegno nazionale della Società Italiana di Antropologia Applicata (SIAA) a Trento il 19 dicembre 2016.

[2] L’opera è stata concepita da Peter Sloterijk, Gesa Mueller von der Haegen e Dierk Jordan ed inserita nella mostra Making Things Public organizzata nel marzo-agosto 2005 a Karlsruhe e curata da Bruno Latour e Peter Weibel.

[3] Basti pensare ai numerosi studi di società “tradizionali” focalizzati sulle “forme” delle decisioni collettive quali assemblee, consigli tribali, consigli degli anziani, spesso caratterizzate da un sistema decisionale insolito per le democrazie rappresentative occidentali: quello della “unanimità” delle decisioni tra tutti i partecipanti e non della “maggioranza”. Alcune di tali forme, peraltro, hanno influenzato la definizione di sistemi democratici occidentali, come nel celebre caso della Confederazione Irochese, alla cui Grande legge di pace, secondo alcuni antropologi e politologi, si sarebbero ispirati i padri fondatori nel concepire la costituzione degli Stati Uniti d'America.

[4] Si pensi alla crisi dei partiti politici tradizionali e delle cosiddette strutture intermedie della partecipazione politica e sociale, come i sindacati e l’associazionismo di base, a fronte delle domande di nuove forme di partecipazione legate allo sviluppo delle tecnologie informatiche, con le loro illusorie promesse di costruire alternative alla democrazia rappresentativa fondate sull’interconnettività in un mondo sempre più digitalizzato.

[5] Nel 1988 si svolse la prima conferenza dell’ONU su New and Restored Democracies che ha segnato il primo passo ufficiale della comunità internazionale nel riconoscere l’importanza del sostegno fornito dalle Nazioni Unite agli sforzi nazionali rivolti a consolidare processi di democratizzazione (Kanninen, Sehm Patomäki 2005).

[6] Ad integrazione delle metriche elaborate dai politologi e dai giuristi per valutare la qualità della democrazia “formale”, l’antropologia potrebbe forse contribuire a elaborare un insieme di “indicatori” della democrazia “possibile” che consentano – sulla base della ricerca etnografica – di “misurare” il tasso di democrazia di un contesto politico-sociale a partire dallo scarto tra principî affermati e norme pratiche, invece che dall'esistenza e funzionamento di un sistema di istituzioni formali. Tra i possibili indicatori, si potrebbero considerare, per esempio, il tasso di arbitrarietà nelle “decisioni” dei poteri, rispetto alle volontà e i punti di vista espressi dal corpo sociale; poi, la identificazione degli “interessi” tutelati o trascurati; quindi, l'”azione partecipativa” da parte dei diversi gruppi sociali e delle organizzazioni della società civile; infine, il tasso di rispetto o di aggiramento delle leggi, nazionali e internazionali - compresa la questione del rispetto dei diritti umani - da parte dei poteri.