Leopoldo Grosso e Angela La Gioia (a cura di), Preparati all’incertezza. Fare formazione in ambito sociale, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2017, pp. 176

Ivan Severi

ANPIA (Associazione Nazionale Professionale Italiana di Antropologia)

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Recensione
Bibliografia

Recensione

È necessario partire dalla (forse voluta) ambiguità del titolo per comprendere il senso del volume – breve ma estremamente denso – che formalizza la quarantennale attività dell’Università della Strada (UdS) del Gruppo Abele. “Prepàrati all’incertezza” sembra un monito al lettore, perché viviamo in un’epoca di incertezza sempre maggiore, dove l’antropocene sembra andare braccetto con l’apocalisse (Morton, 2018) e, molto più concretamente, i contesti in cui operano tradizionalmente gli operatori sociali mutano a velocità imprevedibile. Allo stesso tempo anche gli autori rivendicano di essere “Preparàti all’incertezza”, in quanto costitutiva di un contesto in cui la squadra di formatori UdS, a lungo coordinata da Leopoldo Grosso e ora nelle mani di Angela La Gioia, ha tracciato coordinate importanti.

I saggi contenuti nel volume affrontano da diversi punti di vista le problematiche che un’idea di formazione impegnata e condivisa porta con sé e, sotto questo aspetto, i punti di contatto con i problemi di posizionamento caratteristici dell’antropologia risultano evidenti

Così questa rassegna di riflessioni, a lungo covate in seno all’equipe e infine tradotte su carta, celebra i quarant’anni trascorsi da quelle prime «opzioni formative di tre settimane consecutive, in cui i partecipanti vivevano a stretto contatto e con la completa autogestione dei servizi vitto-alloggio e lavanderia da parte dei corsisti […]. Si faceva cassa comune per le spese alimentari. L’impegno di ogni giornata formativa richiedeva sei ore di lavoro intellettuale e due di lavoro manuale» (p. 8). Prime forme organizzative che sottolineano un’esigenza di formazione proveniente dal basso, in tempi in cui le competenze in fatto di psichiatria, tossicodipendenza e delinquenza minorile erano ancora di difficile accesso e comunque non paragonabili, per qualità e spessore, all’esperienza che avevano da restituire gli operatori che affrontavano i fenomeni tutti i giorni faccia a faccia:

Dall’ascolto e dall’analisi della vita di strada, dalla constatazione di quanti condizionamenti ambientali interferiscano con tante biografie di persone dipendenti, si faceva viva l’esigenza di dare luogo a una struttura formativa stabile e permanente. Con due consapevolezze: la necessità di mettere insieme più sguardi in grado di cogliere le interdipendenze multidisciplinari implicate nelle problematiche e il ruolo rilevante che può assumere la formazione nell’insieme di azioni che stimolano il cambiamento sociale (p.13).

Dal punto di vista dell’antropologo, la cosa che mi pare probabilmente più interessante è vedere descritte situazioni ed approcci ben noti con un linguaggio a noi inusuale:

Il lavoro sociale non può fermarsi e limitarsi solo all’accogliere, al fatto, pur di grande rilevanza, di accompagnare i soggetti nel rispetto della centralità della loro persona. Si rendeva necessario affiancare, al lavoro con chi sta male, l’approfondimento e l’elaborazione culturale delle problematiche di chi è sofferente, allargando la visuale dall’individuo al contesto (p. 13).

Uno sguardo laterale che riecheggia approcci vicini a molte e molti antropologi che, nel loro lavoro quotidiano, si rifanno a proposte che di volta in volta si sono raccolte sotto la dicitura di action anthropology: «Invece di osservare dall’esterno abbiamo cominciato a fare ciò che fa qualunque medico: imparare aiutando» (Tax, 1958: 17, traduzione mia) e ancora: «Noi non concepiamo noi stessi come semplici osservatori di ciò che sarebbe accaduto “naturalmente”, vogliamo fare accadere le cose, aiutare a farlo, o almeno essere dei catalizzatori» (Tax, 1975: 515, traduzione mia), oppure si sono concretizzate in ciò che Robert Chambers identificava come Rapid Assessment Procedure (RAP), la quale si dà come obiettivo quello di fare in modo che gli esterni a una data comunità possano imparare dai suoi membri (Chambers, 1997; si veda anche Cornwall in questo stesso numero di «Antropologia Pubblica»).

Allo stesso tempo, e in modo non scontato, i toni usati entrano in risonanza con categorie come quella dell’engagement o dell’advocacy (Low, Merry, 2010): «il formatore compie comunque una scelta di campo: sta dalla parte dei più deboli, dei bisogni dei meno rappresentati, ne promuove i diritti e favorisce la progressiva assunzione di responsabilità, contribuisce a svelare le modalità con cui si manifestano ingiustizie e oppressione» (p. 23). Se a questo aggiungiamo che molti colleghi e colleghe sono oggi impegnati come formatori e formatrici, a partire da un background e una prospettiva antropologica, risulta particolarmente interessante confrontarsi con la produzione di riflessioni di formatori che, consapevolmente o meno, sembrano essersi avvicinati a problematiche attigue a quelle che l’antropologo applicato affronta quotidianamente.

Ezio Farinetti ricostruisce una genealogia che prende le mosse dallo stesso Kurt Lewin che ha influenzato in maniera diretta (si veda Whyte, 2012) o indiretta (il già citato Chambers) numerosi antropologi e vi si confronta a partire dalla sua volontà di superare forme di riduzionismo che costituiscono rischi intrinseci del campo. Attraverso il lavoro di psicologi come Carl Rogers e Wilfred Bion si affinano strumenti che hanno come scopo quello di mettere la persona al centro del modello formativo, senza mai abbandonare il rigore: «Il rischio è di appiattirsi su una dimensione di gradimento della proposta, con una connotazione quindi sostanzialmente positiva di esperienze “leggere e piacevoli” da parte dei partecipanti […] o di una superficiale corrispondenza alla richiesta inizialmente posta dai committenti» (p. 46). Quante volte anche noi ci siamo confrontati con le difficoltà di interazione con la committenza, affinché la domanda ricevuta fosse ricontrattata e riformulata al fine di farla uscire da modelli precostituiti di relazione con la realtà sociale? Importante è anche il riferimento allo Studio Analisi Psicosociologica (APS) e al suo «intendere la formazione in una direzione orizzontale e maggiormente partecipativa» (p. 49); la conoscenza assume quindi la forma di un «processo dinamico più che un prodotto» (p. 50), proprio nel modo in cui procede l’indagine etnografica. Angela La Gioia si concentra sul significato connesso al fare formazione oggi, affrontando la complessità dei contesti, privilegiando le diversità dei ruoli e facendo tesoro delle esperienze dirette dei partecipanti. Anche i partecipanti hanno infatti una responsabilità e un ruolo attivo, non devono considerarsi delle monadi ma essere in grado, e qui emerge fondamentale il ruolo del formatore, di muoversi e percepirsi come parte di un collettivo che, al di là dei contrasti, condivide valori e obiettivi. Giuseppe Forlano analizza invece la trasformazione che ha riguardato nello specifico il contesto storico-sociale italiano, quello in cui i formatori, così come i loro interlocutori, si muovono. Successivamente, in coppia con Lorenzo Camoletto, entra nello specifico di un ambito centrale, quello socio-sanitario, tanto per il mondo della formazione che per quello dell’antropologia, in particolare declinato verso operatori di strada che agiscono nei contesti dell’accoglienza e del trattamento delle dipendenze. Proprio l’operatore di strada, per cui si lamenta l’assenza di un percorso di preparazione specifico, «inteso come metodo di intervento tanto quanto come approccio teorico, necessita in sostanza certamente di una solida formazione professionale, tuttavia l’expertise e le competenze specifiche che lo caratterizzano si acquisiscono inevitabilmente dal lavoro sul campo» (p. 107). Non è quanto accade anche nell’apprendistato dell’antropologo applicato? La “capitalizzazione dell’esperienza” sembra quindi essere un tratto distintivo che accomuna l’antropologia, l’approccio alla formazione qui preso in considerazione, e alcune figure professionali che anche gli antropologi si sono ritrovati da un po’ di anni a questa parte a interpretare (profetico in questo senso è stato l’intervento di Matilde Callari Galli del 2004 su «Animazione sociale»). Purtroppo antropologi e operatori di strada sembrano condividere anche aspetti che finiscono per penalizzarli, a causa di una incompatibilità tra il modo in cui è concepito l’odierno mercato lavorativo e le modalità specifiche che l’azione in determinati contesti richiede:

La flessibilità con cui è necessario adattarsi ai tempi dettati dalle popolazioni target che abitano la strada è quasi sempre incompatibile con altre scelte lavorative […]. Si chiedono dunque all’operatore della strada livelli altissimi di competenza e di esperienza, ma soprattutto una motivazione sufficiente a tollerare la perenne precarietà e il non riconoscimento economico, oltre che a sostenere uno sforzo creativo continuo nell’arte della sopravvivenza personale (p. 104).

Ancora Farinetti si concentra poi sull’aspetto più prettamente relazionale che comporta la presenza del formatore nel contesto formativo (si veda, in ambito antropologico, Fava, 2017). Ne deriva la responsabilità di confrontarsi con l’altro su diversi piani, da quello più prettamente professionale fino agli stimoli emotivi che il ricorso alle esperienze concrete dei partecipanti può scatenare – ricordo che i soggetti della formazione di cui si parla sono sempre lavoratori a stretto contatto con situazioni per lo più drammatiche –: «la funzione della formazione in ambito sociale è di prendersi cura di coloro che si prendono cura delle persone in grave difficoltà» (p. 149). Ancora viene tirato in ballo Kurt Lewin e il suo concetto di “clima”, in quanto i contenuti in senso stretto costituiscono solo una piccola parte di quanto è mosso e veicolato nel contesto formativo. Sulla base del clima che si andrà a creare il formatore è tenuto a calibrare tempestivamente il suo intervento, mettendo a frutto la flessibilità che dovrebbe essere un tratto costitutivo della sua professione.

In chiusura Leopoldo Grosso sposta nuovamente il focus, questa volta sulla dimensione etica che sottende il lavoro di formatore in ambito sociale: «L’agire professionale come agire libero, consapevole, responsabile, sottende la dimensione etica e il comportamento che si assume e si porta avanti nel tempo ne costituirà l’indicatore più evidente» (p. 149), muovendosi da un’idea di bene recentemente evocata da Ferdinando Fava (2017), verso un piano più strettamente deontologico.

Se un’operazione del genere, essendo una lettura tutta interna e necessariamente connessa a gangli che sono innanzitutto emozionali, difficilmente avrebbe potuto smarcarsi da toni autocelebrativi, e nonostante una ricorrenza di temi che suona a volte come ridondante, il volume rimane comunque una lettura utilissima per tutti gli antropologi e le antropologhe che vogliano confrontarsi con il lavoro sociale. In un universo in cui l’approccio multidisciplinare è sempre più una necessità (anche nel piccolo mondo degli antropologi applicati) è importante superare l’immagine dei “fronti da presidiare” (Remotti, 2014) e che si aprano invece varchi d’accesso, si liberino terre franche in discipline e ambiti professionali confinanti e, proprio su quelle linee di frontiera, si costruiscano collaborazioni che sappiano avvantaggiare tutti.

Bibliografia

Callari Galli, M. Tomellari, S., 2004. Un operatore etnografo del territorio. Animazione sociale,186: 3-9.

Chambers, R. 1997. Whose Reality Counts? Putting the First Last. London. Intermediate Technology.

Fava, F., 2017. In campo aperto. L’antropologo nei legami del mondo. Milano. Meltemi.

Low S.M., Merry S.E., 2010. Diversity and Dilemmas: An Introduction to Supplement 2. Current Anthropology, 51 (S2): S203-S226.

Morton, T. 2018 [2013]. Iperoggetti. Roma. Nero.

Remotti, F. 2014. Per un’antropologia inattuale. Milano. Elèuthera.

Tax, S. 1958. The Fox Project. Human Organization, 17 (1): 17-19.

Tax, S. 1975. Action Anthropology.Current Anthropology, 16 (4): 514-517.

Whyte W.F., 2012 [1943]. Street Corner Society: The Social Structure of an Italian Slum. Chicago (IL). University of Chicago Press. Trad i. Little Italy: uno slum italo-americano. 1968. Roma-Bari. Laterza.

[1]ivan.severi@email.com, ANPIA (Associazione Nazionale Professionale Italiana di Antropologia)