Migrantour – Intercultural Urban Routes

Un progetto di antropologia applicata tra migrazioni, turismo e patrimonio culturale

Francesco Vietti

Università di Milano Bicocca

Table of Contents

Introduzione
Torino post- e prefigurativa
Storia naturale di un progetto (2009-2019)
Aprire la città
Conclusioni
Bibliografia

Abstract. Cultural diversity related to global migration is a key element of tourism attractiveness through which many cities have managed to transform their multi-ethnic neighborhoods into places of leisure and consumption. This kind of urban tourism has often been portrayed in negative terms: many authors underline how the process of gentrification excludes migrants from the economic and social benefits brought by tourism, while at the same time the reification of ethnic differences represents their cultural heritage in an exotic and over-simplistic way. Going beyond the interpretative level and embracing an applicative perspective, could anthropologists play a significant role in making the encounter between tourists and migrants within the cities less problematic? I will try to answer this question through a critical analysis of the Migrantour project, a European network of 16 cities since 2009 which has developed an innovative kind of “intercultural urban walking tour” designed and led by first and second-generation migrants. Therefore, responsible tourism is assumed as an ethical approach to envision a collaborative way to valorize the contribution that generations of migrants have made to the history of European cities. My research has been conducted by an engaged point of view, because of my role as scientific coordinator of the project, together with an interdisciplinary team which includes professionals of the tourism sector, members of NGOs and other anthropologists.

Keywords: Antropologia applicata; turismo; migrazioni; patrimonio; città.

Introduzione

Il 14 dicembre 2018, in occasione del VI Convegno Nazionale della Società Italiana di Antropologia Applicata (SIAA), ho avuto il piacere di ritirare a nome di un ampio gruppo di colleghi e collaboratori il Premio che una qualificata Commissione[1] ha ritenuto di assegnare al progetto Migrantour – Intercultural Urban Routes. La targa che ci è stata allora consegnata riporta il motivo dell’assegnazione:

Il progetto Migrantour riceve il Premio della Società Italiana di Antropologia Applicata (SIAA) Edizione 2018, alla luce del suo carattere innovativo, del contributo applicativo fornito nel campo della formazione degli operatori e della sensibilizzazione della popolazione e per la dimensione significativa sia su scala nazionale che europea.

Migrantour è un’iniziativa nata a Torino nel 2009 e oggi diffusa a livello italiano ed europeo. Si tratta di una rete di 16 città dove si può sperimentare una particolare formula di visita in alcuni quartieri: itinerari ideati e accompagnati da migranti di prima e seconda generazione col fine di condurre studenti, cittadini e turisti a una maggiore consapevolezza del ruolo che le migrazioni, ieri come oggi, hanno avuto nel trasformare e arricchire le città.

La gradita assegnazione del Premio della SIAA e il conseguente invito a scrivere un contributo per la rivista dell’associazione implica l’evidente rischio di confezionare un articolo d’occasione che si riduca a un pamphlet (auto)celebrativo. In questa breve Introduzione, ritengo dunque necessario giustapporre alle generose valutazioni dei colleghi della Commissione qualche altro testo che mostri come nel progetto permangano fragilità e contraddizioni che sarà qui utile prendere seriamente in esame.

Da dieci anni svolgo il compito di coordinatore scientifico del progetto e conservo in un corposo faldone centinaia di documenti, articoli di giornale, schede di valutazione, report e altra letteratura grigia prodotta dalla nostra iniziativa. Non ho dunque difficoltà a selezionare una serie di opinioni critiche provenienti da alcuni degli interlocutori con i quali lo staff di Migrantour quotidianamente si relaziona. Innanzitutto, il pubblico costituito da coloro che acquistano le passeggiate interculturali. Scrive C.G. in una mail inviata il 27 dicembre 2018 direttamente al sito web del progetto:

Sono veramente stupita e delusa di leggere sulla vostra Newsletter della nuova collaborazione tra Migrantour, Slow Food Italia e Airbnb. Non capisco: Migrantour prova a fare del pianeta un luogo più solidale nel rispetto dei diritti civili e, in contemporanea, collabora con Airbnb?! Ma non ci credo! Finora apprezzavo la vostra iniziativa, incitavo amici a parteciparci a Milano, Parigi, Marsiglia… Mettendo in opera questa nuova cooperazione, mi pare che Migrantour partecipi all'uberizzazione del mondo e consentirà ad Airbnb di fare bella figura: immagino già di leggere sul loro sito nella voce community/stakeholders: collaboriamo con Migrantour, che agisce per l'integrazione dei migranti, degli stranieri e per una migliore convivenza multietnica.

A qualche settimana precedente risale invece la pubblicazione di uno dei tanti articoli apparsi in questi anni sulla stampa nazionale. Nel suo pezzo del 15 novembre 2018, il giornalista Antonio Mattone scrive su Il Mattino di Napoli:

Venghino signori, venghino al Migrantour tra i vicoli del Vasto. Approfittate dell’imperdibile occasione per scoprire una città dinamica e in continua evoluzione, perché solo in questo fine settimana la passeggiata sarà gratuita grazie al contributo del Comune di Napoli. Poi si dovranno pagare 10 euro per essere condotti tra le strade e i palazzi della casbah napoletana, dove si potranno sentire gli odori e i sapori etnici ed ascoltare le tradizioni e le storie dei migranti che popolano il quartiere.

Il giro turistico, così pubblicizzato da una cooperativa legata ai centri sociali, suona come una beffa per i residenti della zona. Persone esasperate da una convivenza difficile che mette a dura prova lo scorrere della vita quotidiana (…) La protesta è nata spontanea ed è arrivata fino a Matteo Salvini. Tutti gli altri interlocutori hanno ignorato il grido di aiuto di un quartiere intero (…) La solitudine di fronte al degrado e alla violenza ha coagulato gli abitanti del quartiere in un comitato civico che oggi ha proprio nel leader della Lega un singolare interlocutore (Mattone 2018).

Il riferimento alla figura dell’attuale Ministro degli Interni italiano mi rammenta che fu proprio Matteo Salvini alcuni anni or sono a portare per la prima volta alla ribalta della comunicazione politica nazionale via social media il nostro progetto. Sfoglio a ritroso il mio archivio e giungo fino a questo tweet del 17 marzo 2016: «#Salvini: Il MIGRANTOUR coi fondi europei fatelo in stazione Centrale a Milano, poi ne riparliamo...»[2].

Ecco dunque, ben dispiegati sul tavolo, alcuni dei temi da cui partire per imbastire una riflessione auspicabilmente non scontata sul progetto, che possa avere un qualche interesse generale per chi oggi si occupa di antropologia applicata, pubblica e professionale in Italia. Come gestire le tensioni tra l’approccio teorico critico della propria iniziativa e le concrete interazioni con le strutture di potere e le forze di mercato che pervadono il proprio campo d’azione? Quali potenzialità e rischi si possono incontrare nell’ambito della comunicazione pubblica, nel momento in cui ci si propone di disseminare gli esiti del proprio lavoro? Quanto esplicitare il carattere implicato e militante del proprio progetto, qualificandosi non solo come corretti amministratori di risorse finanziarie, ma anche come portatori di uno specifico posizionamento politico?

Torino post- e prefigurativa

Come fu evidenziato fin dalla sua prima stesura progettuale, la prospettiva applicativa di Migrantour intende richiamarsi esplicitamente alla riflessione teorica di James Clifford. Il pensiero dell’antropologo statunitense ha influito profondamente sul processo immaginativo che ha condotto a prefigurare il senso dell’iniziativa. Utilizzo non a caso il verbo “prefigurare”, perché vorrei in questo caso proporre una variazione sul tema che ho già presentato in altri scritti su Migrantour (Vietti 2014; Moralli, Vietti 2016): se altrove il testo cui ho fatto riferimento è Routes (Clifford 1999), per la sua nota esplorazione del nesso strade/radici nel quadro di una cultura-come-rapporti-di-viaggio, vorrei invece ora chiamare in causa The Predicament of Culture (Clifford 1993) giungendo, per suo tramite, sino allo scritto di Lévi-Strauss che qui si discute, New York post- e préfiguratif. Clifford fa dei ricordi newyorkesi dell’antropologo francese un cronotopo per il collezionismo moderno di arte e cultura: io vorrei suggerire come la medesima configurazione di tempo-spazio possa valere anche per il Migrantour.

Innanzitutto, occorre rimarcare come il Lévi-Strauss che deambula per la New York del 1941 si trovi nella condizione del migrante, del rifugiato, fuggito dalla Francia di Vichy privo di cittadinanza grazie a un rocambolesco viaggio in nave da Marsiglia alla Martinica (Jennings 2002). L’incontro con la città-simbolo del “nuovo mondo” lo interroga e lo disorienta:

New York decisamente non era la metropoli ultramoderna che mi ero aspettato, ma un disordine immenso, orizzontale e verticale, attribuibile a qualche spontaneo sollevamento della crosta urbana piuttosto che a intenzionali progetti dei costruttori (Lévi-Strauss 1985: 258).

È in questa giustapposizione di strati, nella condizione di permanente spaesamento dovuto al trovarsi sospeso nel fantastico e caotico miscuglio di residui del passato e di anticipazioni del futuro, che il poco più che trentenne esule francese impara a vagabondare:

New York (e questa è la fonte del suo fascino e della sua singolare attrattiva) era allora una città dove tutto sembrava possibile. Il tessuto sociale e culturale, come quello urbano, era crivellato di buchi. Non dovevi far altro che sceglierne uno e scivolarvi dentro, come Alice, se volevi passare dall’altra parte dello specchio e trovare mondi così affascinanti da parere irreali (Ivi: 261).

Lévi-Strauss si presenta agli occhi di Clifford come un flâneur deliziato, stupito, ma al contempo turbato dal caos di possibilità simultanee che gli di dischiudono innanzi: un momento lo troviamo immerso nell’opera cinese, «sotto la prima arcata del ponte di Brooklyn, dove una compagnia venuta molto tempo prima dalla Cina godeva di un largo seguito», e un momento dopo, seguendolo in una breve camminata o una corsa in metropolitana, lo vediamo svoltare l’angolo e trovarsi in un mondo diverso, con la sua lingua, i suoi costumi, la sua cucina.

Non posso qui dilungarmi nell’analisi del testo di Lévi-Strauss, di cui per altro esiste altrove un’accurata esegesi (Debaene 2010). Credo tuttavia che questi brevi passaggi siano sufficienti per delineare il campo di interconnessioni con cui, settant’anni dopo, anche il progetto Migrantour si è confrontato: l’intreccio del regard éloigné del migrante con quello dell’antropologo e del turista; il riconoscimento dell’esperienza cognitiva, estetica e politica del camminare attraverso la città; la meraviglia (e al tempo stesso lo sgomento) di fronte al paesaggio entropico di una babele umana naufragata in uno stesso tempo e in uno stesso luogo, in cui le diverse culture sono ridotte a brandelli, a frammenti decontestualizzati che si riconfigurano in forme di volta in volte creative, spurie, mercificate (Clifford 1993).

La Torino in cui Migrantour ha preso forma una dozzina di anni fa mi pare possa essere letta traslando il caleidoscopio newyorkese degli anni Quaranta nel contesto di quelle disgiunture della globalizzazione che “alla fine del secolo XX” andavano ridefinendo il senso della località in ogni parte del pianeta, Italia inclusa. Nel quartiere di Porta Palazzo in particolare, dove è stato ideato il primo itinerario urbano interculturale del progetto, i famosi panorami del mondo globale delineati da Arjun Appadurai (2001) parevano essere così concreti da poter essere osservati nitidamente semplicemente affacciandosi dalla finestra in una delle vivaci giornate di mercato: un complesso “etnorama” composto dai migranti internazionali arrivati in città negli ultimi vent’anni e dai migranti interni che vi erano giunti nei tre decenni precedenti; negozi in cui si vendevano nostalgic goods e pulmini in partenza con il loro carico di rimesse destinate a qualche città del Nordafrica o dell’Europa orientale; phone-centers e telefoni cellulari connessi a villaggi del Sudest asiatico e dell’America Latina distanti migliaia di chilometri. E in mezzo a tali flussi e legami transnazionali, un numero crescente di turisti incuriositi e interessati a entrare in contatto con questa super-diversità urbana.

Erano gli anni compresi tra le Olimpiadi invernali del 2006 e il 150° Anniversario dell’Unità d’Italia del 2011, Torino si trovava nel pieno fervore del suo tentativo (tuttora irrisolto) di trasformazione post-fordista (Capello, Semi 2018). Venuta meno la grande industria e smantellato l’ambito occupazionale che aveva a lungo impiegato una buona parte della sua popolazione, la città stava allora compiendo il suo massimo sforzo nel riorientarsi verso il settore dei servizi, delle produzioni culturali e del turismo. In questa prospettiva anche la sua lunga storia d’immigrazione poteva ora essere vista sotto una nuova luce, soprattutto in quei quartieri in cui pubblico e privato stavano investendo ingenti capitali economici e simbolici nell’ottica di una “riqualificazione” del tessuto urbano. Nell’area circostante Porta Palazzo, si stava affermando quello che Giovanni Semi ha definito “un esotismo di prossimità”, in cui particolari pratiche di consumo legate agli immaginari sull’immigrazione e sul multiculturalismo stavano producendo i primi passi di una gentrification che sarebbe divenuta negli anni seguenti sempre più evidente:

In questa parte della scena alcuni stranieri, in veste d’imprenditori o di commercianti, espongono a pubblico una merce ricercata ed elitaria: la differenza. Nascono bazar marocchini, centri culturali e bar dai nomi esotici che offrono esperienze altrove non esperibili, come gustare l’autentico tajine di carne di piccione, comprare la spezia che trasformerà un anonimo cous-cous in un vero rappresentante della cultura maghrebina o sedersi su dei cuscini berberi gustando del the alla menta. Tutto questo a pochi passi da casa, in centro città. Il viaggio esotico può ora ridursi ad una fuga extraterritoriale dal proprio ufficio per prendere un aperitivo dal nome evocativo (Semi 2004: 93).

Si trattava di un processo in atto in molte città italiane ed europee, dove, come mostra l’interessante serie di indagini etnografiche raccolte dagli antropologi Volkan Aytar e Jan Rath (2012), altri “quartieri etnici”, da Brick Lane a Londra a Kreuzberg a Berlino, da Zedijk ad Amsterdam al Raval a Barcellona, stavano emergendo come mete turistiche di massa. L’ambivalenza del fenomeno era evidente: da un lato la concreta possibilità di produrre forme di reificazione culturale e di folklorizzazione delle differenze, spogliando la questione migratoria delle proprie valenze sociali e politiche, riducendola a oggetto di consumo ludico-estetico e riproducendo così quelle stesse dinamiche di potere e sfruttamento che un secolo prima avevano generato il fenomeno dello slumming (Koven 2004) e il voyeurismo degli “zoo umani” nelle grandi Esposizioni Universali (Blanchard et al. 2011). Dall’altro, il riconoscimento della potenzialità insite in questa forma di turismo, in termini di contestazione dell’immagine dominante dei quartieri d’immigrazione come luoghi pericolosi, insicuri, associati a devianza, criminalità, marginalità e povertà culturale. Come riconoscono Aytar e Rath:

The growing tourism and leisure industries in these neighbourhoods offer opportunities to natives and immigrants, skilled and unskilled and males and females alike. They participate as organizers of cultural events, as web designers, as owners of cafes, coffee shops, restaurants, travel bureaus, hotels, souvenir shops, telephone and Internet shops, but also as waiters, cooks, dishwashers and janitors (…). Together, they engender ‘globalization from below’ and create mainstream but unique products in terms of innovation, production and consumption (…). In our globalizing world — where local difference and place identity are increasingly important — heritage and cultural diversity have become crucial components of the cultural capital of post-industrial societies (Aytar, Rath 2012: 2)

Tra il rischio dell’esclusione sociale dei residenti e della banalizzazione dell’alterità culturale e l’opportunità dell’attiva partecipazione dei migranti come soggetti capaci di ottenere benefici economici dai flussi turistici e produrre un’auto-rappresentazione della complessità del territorio e del patrimonio, vi era dunque un campo sufficientemente ampio e stimolante affinché l’antropologia potesse trovarvi un suo spazio di azione.

Storia naturale di un progetto (2009-2019)

Occorre a questo punto chiarire che l’antropologia cui intendo riferirmi non può essere ricondotta esclusivamente a una o più categorie tra quelle di volta in volta evocate per descrivere l’approccio “teorico” o “pratico” della disciplina (Severi 2018). Al contrario, vorrei di seguito mostrare come il progetto Migrantour sia animato da una concezione “di ampio respiro” dell’antropologia che, per rimanere all’interno della metafora, non ritiene che l’inspirazione analitica e critica e l’espirazione trasformativa e disseminativa possano essere in alcun modo disgiunte.

In altri termini, Migrantour può essere a mio avviso discusso come un esempio del fatto che, nonostante la reciproca diffidenza emersa non di rado nel dibattito interno alla comunità antropologica, la prospettiva di quell’antropologia inattuale rivendicata e difesa da Francesco Remotti (2014) dovrebbe essere parte integrante nel processo di elaborazione di qualunque impresa applicativa, disseminazione pubblica ed esperienza professionale nell’ambito antropologico. Tre esiti, questi ultimi, che nell’elaborazione e implementazione decennale del progetto non sono nettamente distinti, ma si sono articolati e intrecciati nelle diverse fasi dell’iniziativa, istituendo una forma di “economia circolare della conoscenza”, per citare la felice formulazione proposta recentemente da Adriano Favole (2018).

Grafico n.1

Con questo tentativo di schematizzazione vorrei visualizzare la pluralità di funzioni e ruoli che gli antropologi hanno ricoperto nell’ambito del progetto, fornendo contributi tra loro complementari e interagendo a diverso livello con altri professionisti, istituzioni, finanziatori e partner legati al mondo del lavoro, dell’impresa e del terzo settore. In particolare:

  • Migrantour si sviluppa a partire da una dimensione riflessiva, cui ciclicamente torna, per attingere dall’ampio repertorio della ricerca antropologica temi e riferimenti “inattuali” necessari per mettere in discussione e decostruire i modelli dominanti per quanto riguarda l’identità etnica, la rappresentazione dell’alterità, i processi di patrimonializzazione, ecc. Si tratta di una fase condotta principalmente in università, che coinvolge non solo antropologi accademici nell’ambito di corsi di studi e seminari, ma anche i numerosi studenti che scelgono di analizzare criticamente il progetto per le loro tesi di laurea[3].

  • La fase della progettazione segna il passaggio a un momento propriamente applicativo, in cui gli antropologi coinvolti nell’ideazione delle azioni progettuali collaborano con altri professionisti provenienti da diversi segmenti del mondo del lavoro (fondazioni, organizzazioni non governative, cooperative, tour operator) per partecipare a bandi nazionali e internazionali e ottenere i finanziamenti necessari allo sviluppo dell’iniziativa. In questo frangente gli antropologi assumono una funzione di connessione tra accademia e parti sociali, assumendo una postura dialogica al fine di tradurre le proprie conoscenze in un’azione trasformativa del rapporto esistente tra migrazioni, turismo, patrimonio e ambiente urbano.

  • Centrale è il momento della formazione, in cui gli antropologi sono chiamati a intervenire come docenti nei corsi attivati per i migranti interessati a divenire accompagnatori interculturali. Si tratta di una fase che si iscrive in una posizione intermedia tra l’antropologia applicata e quella professionale, poiché nelle diverse città della rete Migrantour sono coinvolti sia docenti universitari, cui è richiesto in questo caso di sperimentare una didattica partecipativa e monitorare le ricerche sul campo necessarie per la creazione degli itinerari, sia antropologi legati ad associazioni e gruppi di lavoro extra accademici, che intervengono portando la propria esperienza professionale nel campo delle migrazioni, del patrimonio, delle politiche urbane, ecc. Importante in molte città si è rivelata anche la collaborazione con le istituzioni museali, attraverso il coinvolgimento di antropologi impegnati come curatori e conservatori di collezioni etnografiche[4].

  • Il ruolo di coordinamento del progetto attiene in modo specifico alla dimensione dell’antropologia professionale, dacché, alla luce della maggiore continuità e durata dell’incarico e della sua più significativa retribuzione, rappresenta un’occasione di impiego esclusivo o predominante per alcuni antropologi che hanno intrapreso percorsi lavorativi permanentemente (o prevalentemente) fuori dall’università. La funzione di coordinamento è articolata su due differenti livelli: a) la direzione delle equipe locali in ogni città della rete Migrantour[5] b) il coordinamento generale del progetto, con funzione di collegamento tra le diverse città e di vaglio scientifico delle azioni di rete[6].

  • Infine, l’ambito della comunicazione, che fa riferimento alla prospettiva propria dell’antropologia pubblica e riguarda il costante impegno di tutti gli antropologi coinvolti nel progetto nel disseminare i presupposti, metodi, obiettivi e risultati del progetto attraverso la partecipazione a eventi pubblici, fiere e festival nell’ambito del turismo responsabile e dell’intercultura, le relazioni con giornalisti ed altri professionisti nel campo della comunicazione, la realizzazione di workshop con insegnanti e allievi delle scuole medie e superiori, ecc.

Dinanzi alle difficoltà che le iniziative di antropologia applicata possono sperimentare in merito alla necessità di confronto dialettico con le potenti forze evocate nell’Introduzione di questo contributo (le dinamiche di mercato, le rappresentazioni mediatiche, il discorso politico), il progetto Migrantour può dunque sollecitare una riflessione sulla constatazione che solo un’antropologia integrata in tutte le sue componenti, capace di superare le divisioni interne attraverso il pieno riconoscimento reciproco, può forse provare a far fronte alla sfida della collaborazione, e talvolta del conflitto, con i suoi interlocutori.

Delineate le modalità con cui gli antropologi in questi anni hanno lavorato per il progetto, vorrei ora brevemente ricostruirne la genealogia, mettendone in luce sinteticamente le diverse fasi di trasformazione.

Start-up torinese (2009-2012)

Come già accennato, l’iniziativa fu ideata a Torino da un gruppo di lavoro formatosi nel corso degli anni precedenti tra l’Università di Torino, l’Università di Genova e il Centro Interculturale della Città di Torino. Fondamentale è stato fin dal principio il contributo della cooperativa Viaggi Solidali, tour operator attivo nel campo del turismo responsabile e socio fondatore dell’Associazione Italiana Turismo Responsabile (AITR). Viaggi Solidali realizzò nel 2009-2010 il primo corso per “accompagnatori interculturali”, rivolto a 20 migranti di prima e seconda generazione residenti in città. Attraverso le ricerche partecipate condotte durante il corso di formazione, vennero così creati i primi due itinerari di turismo urbano interculturale, nei quartieri di Porta Palazzo e San Salvario[7].

La creazione della rete europea (2013-2015)

Fondazione ACRA, Oxfam Italia e Viaggi Solidali presentarono quindi come capofila il progetto “Migrantour: a European network of migrant driven intercultural routes to understand cultural diversity” ottenendo un finanziamento dalla Commissione Europea per consolidare l’iniziativa in Italia ed estenderla ad altri paesi (Francia, Spagna e Portogallo). Nacque così un network costituito da nove città che includeva, oltre a Torino, anche Milano, Genova, Firenze, Roma, Marsiglia, Parigi e Valencia, con partner locali incaricati di sviluppare le attività in ogni città e il sostengo dell’European Alliance for Responsible Tourism and Hospitality (EARTH). In ogni città vennero ideati uno o più itinerari interculturali, per un numero complessivo di 22 percorsi di visita[8].

Alla ricerca della sostenibilità (2016-2017)

Con la fine del progetto europeo, la rete Migrantour si è confrontata con uno dei problemi centrali dell’iniziativa: la questione della sostenibilità economica. Privi di finanziamenti pubblici, i diversi partner italiani ed europei si sono impegnati a sviluppare strategie economiche per garantire la sopravvivenza (e possibilmente lo sviluppo) dell’iniziativa[9]. Il numero di accompagnatori interculturali impiegati nel progetto è diminuito gradualmente e si è stabilizzato su una media di sei per città (con un minimo di tre e un massimo di quattordici). A Valencia il progetto si è concluso per la scelta del partner locale di dedicarsi ad altre attività. Nel frattempo, due nuova città italiane hanno aderito alla rete: Napoli e Bologna.

L’ampliamento della rete e il coinvolgimento di richiedenti asilo e rifugiati (2018-2019)

Si giunge così all’attuale biennio, in cui la rete sperimenta una nuova fase di ampliamento grazie ai finanziamenti ottenuti da due diverse fonti: l’Asylum, Migration and Integration Fund (AMIF) della Commissione Europea e l’Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo (AICS). A livello italiano, la nuova fase progettuale prevede in particolare l’ingresso nella rete di due nuovi paesi (Belgio e Slovenia) con le città di Bruxelles e Ljubljana, e un nuovo, cruciale obiettivo legato alle trasformazioni dei flussi migratori avvenute negli ultimi anni: il coinvolgimento nell’iniziativa di richiedenti asilo e rifugiati[10]. A livello italiano, oltre all’avviamento del progetto in nuove città (Catania, Cagliari e Pavia), il focus delle attività riguarda il rafforzamento degli aspetti di comunicazione pubblica, attraverso la collaborazione con la Fondazione Pubblicità Progresso[11].

Aprire la città

Come avrà notato chi avesse avuto la pazienza di leggere le varie note al paragrafo precedente, il progetto Migrantour si distingue per aver raggiunto una dimensione notevole, almeno nel panorama delle iniziative di antropologia applicata in Italia: in dieci anni di attività ha attirato finanziamenti per oltre un milione e mezzo di euro, coinvolto decine di partner in cinque paesi europei, formato come accompagnatori interculturali circa 600 migranti, coinvolto come partecipanti alle passeggiate oltre 30.000 persone e raggiunto attraverso le sue campagne di comunicazione alcuni milioni di cittadini italiani ed europei. Centinaia di persone hanno lavorato al progetto in questi anni (150 sono coinvolte attualmente come coordinatori e formatori) e circa 200 migranti al momento svolgono l’attività retribuita di accompagnatore interculturale.

A fronte di questa “quantità”, emerge più che legittimamente una questione di “qualità”: come si è proceduto per ideare gli itinerari interculturali? Che senso ha condurre o partecipare a una passeggiata Migrantour? Se in precedenza ho delineato il lavoro degli antropologi che hanno partecipato al progetto, vorrei qui discutere più nel dettaglio il ruolo dei migranti che hanno deciso di formarsi come accompagnatori interculturali. Altrove ho avuto modo di discutere le peculiarità di questa nuova figura professionale, che intreccia e rielabora le competenze del mediatore culturale e della guida turistica (Chiurazzi, Pozzi, Vietti, 2019), nonché di esplorare etnograficamente il punto di vista dei migranti coinvolti nel progetto, indagando le ragioni che li hanno condotti ad avvinarsi all’iniziativa, i loro percorsi formativi e le loro esperienza durante la pratica di accompagnamento e di confronto con il pubblico (Vietti 2015a; 2015b). In questa occasione vorrei invece provare a sviluppare una lettura più analitica delle metodologie adottate e dell’implicazione sul piano politico del processo di costruzione partecipata degli itinerari e del loro accompagnamento da parte dei migranti.

La lente teorica che propongo qui di assumere è relativa ai processi di patrimonializzazione e in particolare al concetto di “comunità patrimoniale”. Nell’attuale contesto di graduale, e spesso conflittuale, inclusione delle dimensioni storiche, culturali e sociali delle migrazioni nelle rappresentazioni del patrimonio culturale italiano ed europeo, sono state analizzate in particolare le pratiche di musealizzazione e di produzione artistica e memoriale, evidenziando le condizioni in cui i migranti possano eventualmente produrre un “patrimonio dissonante” caratterizzato da “un’estetica sovversiva” rispetto alle rappresentazioni e ai discorsi dominanti in tema di migrazioni (Vietti 2017; Cimoli 2018; Mazzara 2019). Il Migrantour si inserisce in questo quadro proponendo un modello che fa riferimento alle migrazioni come un insieme complesso di storie, memorie, pratiche, conoscenze, luoghi, tracce architettoniche e urbanistiche, beni materiali e immateriali cui diverse generazioni di migranti possono fare riferimento per pensarsi come comunità e rivendicare collettivamente, nell’arena pubblica e nel dibattito politico, il proprio contributo in termini positivi nei processi di trasformazione della società. Come hanno ben analizzato Vincenzo Padiglione e Alessandra Broccolini (2017) nel numero monografico di AM – Antropologia Museale dedicato appunto a questa tema, questo “farsi comunità” implica sempre dimensioni di opportunità (emancipazione e partecipazione alla società civile dei soggetti coinvolti) e di rischio (mercificazione delle espressioni culturali ed essenzializzazione delle identità). Un’ambivalenza rispetto cui può essere utilmente chiamato in causa l’apporto critico degli esperti (e dunque in particolare degli antropologi) come risorsa per le collettività impegnate nell’immaginare e realizzare le loro “tattiche patrimoniali”. Scrivono Padiglione e Broccolini (2017: 9):

Di improvviso (sono circa 10 anni) è apparso all’interno dell’universo patrimoniale (ma con l’ambizione di forzarne con facilità i confini) uno scenario inedito di diversità culturali ben visibile, eclatante ed effervescente che verrebbe la voglia di considerare un nuovo ordine di differenze culturali e che si afferma sulle ceneri del vecchio ordine delle differenze etniche e regionali. Sarà un fuoco di paglia? Oppure questa produzione culturale diverrà una fonte permanente di varietà culturale, forse il principale immaginario dell’alterità non inquietante ovvero domestico oggi possibile? Certo sembra che inediti collettivi riescano a nascere e a definirsi in tal modo; sembrano aver trovato nel patrimonio, in una matrice di certo egemonica, una risorsa simbolica paradossalmente utile per contrastare localmente due forze culturali convergenti: la forte omologazione e frantumazione dell’esperienza contemporanea; una risorsa che consente di veicolare il desiderio di un futuro buono e condiviso da costruire e sorvegliare.

L’ideazione degli itinerari interculturali Migrantour è avvenuta attraverso un percorso formativo partecipato, basato su una percezione dei migranti coinvolti nelle diverse città come membri di una “comunità di pratiche”. Il sapere del gruppo si è così consolidato attraverso lo scambio e la condivisione delle conoscenze tra i suoi partecipanti, cui i formatori hanno provveduto a fornire strumenti utili per l’identificazione e la restituzione dei contenuti: le tecniche di narrazione autobiografica e di storytelling, la realizzazione di brevi ricerche di campo di tipo etnografico, attraverso la pratica dell’osservazione partecipante, la raccolta di interviste e la produzione di documentazione visuale, la produzione di mappe mentali ed emozionali del territorio urbano, ecc. I contenuti, le tappe e gli incontri degli itinerari Migrantour sono dunque l’esito della stratificazione di tre livelli narrativi e interpretativi, che si possono così schematizzare:

Grafico n.2

Il risultato di tale processo è costituito da passeggiate di circa due ore che si sviluppano in un’area circoscritta della città, durante le quali gli accompagnatori interculturali articolano discorsi che a) prendono le mosse da una approccio testimoniale, attraverso cui alcuni elementi della propria biografia vengono condivisi per illustrare il personale percorso di migrazione e il proprio rapporto con la città; b) proseguono con l’approfondimento di altre vicende legate alle migrazioni storiche e contemporanee, presentate per mezzo di storie di vita emblematiche e oggetti (fotografie, piccoli manufatti artigianali, alimenti, tessuti, ecc.) scelti per la loro capacità di evocare e rendere tangibili alcuni dei temi toccati; c) e approdano a una dimensione territoriale, più ampia e complessa, legata a visite che mettano in luce alcuni aspetti inediti del patrimonio architettonico, monumentale e museale locale riletto in chiave interculturale. È importante notare come il secondo e il terzo piano della narrazione non siano sviluppati esclusivamente attraverso le parole dell’accompagnatore, ma anche grazie a incontri che vengono organizzati nell’ambito della passeggiata con alcuni interlocutori attivi sul territorio e disponibili a una collaborazione con il progetto (imprenditori migranti proprietari di negozi e ristoranti, responsabili di luoghi di culto e associazioni socio-culturali, ecc.).

La costruzione e la fruizione di tale “paesaggio migratorio” (Chambers 2003) si produce necessariamente attraverso una particolare forma di mobilità nell’ambiente urbano. È la pratica del camminare, o meglio del camminare insieme, che concretizza l’esperienza, e mette il progetto Migrantour in relazione con altre esperienze cognitive, estetiche e politiche del camminare attraverso la città “degli altri”. Ho ricordato nella prima parte di questo contributo il girovagare newyorkese di Lévi-Strauss, ma si potrebbero evocare anche alcuni degli altri interessanti esempi che Francesco Careri ha analizzato secondo la categoria dei walkscapes (Careri 2006), e in particolare le “derive” delle avanguardie lettriste e situazioniste che nella Parigi degli anni Cinquanta del secolo scorso intercettano l’incrocio tra la nascita del turismo di massa e l’esplosione della diversità culturale urbana.

È in questa sovrapposizione del piano ludico ed etico che si situano a mio avviso la complessità, l’interesse e direi l’inevitabile ambiguità del progetto Migrantour. Una forma di edutainment itinerante, che ambisce ad assumere un chiaro posizionamento in quella lotta che Richard Sennett (2018) ha giustamente indicato come una delle più cruciali sfide politiche della nostra contemporaneità: quella tra i fautori della “città chiusa”, segregata, segmentata e sottoposta a un regime di controllo antidemocratico e chi invece sostiene la possibilità di una “città aperta”, che presuppone un diverso modo di pensare e abitare lo spazio urbano. Una città “storta e sbilenca”, scrive Sennett, diversa e molteplice, che riconosce di contenere al suo interno “ineguaglianze accecanti”. Per “aprire la città” e renderla maggiormente “accessibile”[12] ciascun cittadino è chiamato dunque a «praticare un certo tipo di modestia: vivere uno tra molti, coinvolto in un mondo che non rispecchia soltanto se stesso», e in cui a contare è «la ricchezza di significati anziché la chiarezza di significato» (Sennett 2018: 326).

Conclusioni

Se, come ha giustamente mostrato Ivan Severi (2018) nella sua importante opera di scrittura di una sorta di “contro-storia” dell’antropologia, il contributo dell’antropologia applicata, pubblica e professionale è stato per lungo tempo (e per molti versi lo è ancora) tenuto ai margini dal canone della disciplina, credo si debba riconoscere che sull’antropologia applicata al turismo gravi addirittura un duplice stigma. Non a caso, anche nella ricchissima rassegna di Severi, gli antropologi che hanno applicato il proprio sapere in campo turistico tendono a scomparire, lasciando spazio a chi si è mosso in ambiti più “seri” (servizi socio-sanitari, migrazioni, cooperazione allo sviluppo, politiche abitative, forze armate, ecc.).

Come sosteneva già molti anni fa Dean MacCannell (1976), la valutazione negativa di una parte consistente della ricerca scientifica in merito alla superficialità dell’esperienza turistica e all’impatto distruttivo del turismo sui contesti socio-culturali locali costituisce non l’esito di un’analisi del problema, ma una parte del problema stesso. Lo stereotipo stigmatizzante collegato alla figura del “turista” corre così il rischio di trasmettersi a chi se ne occupa per fini di ricerca o, aggiungerei in questo caso, per sviluppare un progetto di antropologia applicata. Così come molti antropologi durante le proprie ricerche etnografiche fanno del loro meglio per rimarcare di non essere in vacanza e non essere confusi con i turisti che affollano il loro campo, i colleghi coinvolti a vario titolo nel Migrantour in questi anni si sono spesso sentiti in dovere di spiegare, soprattutto nelle occasioni di confronto accademico, come questo progetto non possa definirsi prettamente “turistico”, ma sia qualcosa d’altro, di diverso, più impegnato, complesso, ecc. Anch’io, in questo mio contributo, ho compiuto in fondo un’operazione simile.

In queste brevi Conclusioni vorrei quindi in parte rimediare a tale distorsione ricollocando il progetto Migrantour pienamente nell’ambito turistico e sottolineando, in via più generale, come il turismo costituisca in realtà uno dei principali campi in cui gli antropologi possono oggi sviluppare i propri progetti, beneficiare di canali privilegiati per la disseminazione delle proprie conoscenze e trovare una collocazione professionale. Negli ultimi anni l’antropologia del turismo ha messo in luce come thinking through tourism (Scott, Selwyn 2010) costituisca un’interessante chiave analitica per riflettere sui più diversi campi socio-culturali, dalle questioni di genere a quelle sul cambiamento climatico, dai diritti di cittadinanza alle migrazioni: il progetto Migrantour ha provato a compiere la medesima operazione in prospettiva applicativa.

In Italia ben pochi giovani antropologi in formazione immaginano, durante il loro percorso di studi, di poter un giorno applicare le loro conoscenze e trovare lavoro nel settore turistico. Eppure le occasioni non mancherebbero, soprattutto nell’area del turismo responsabile, i cui operatori ricercano attivamente figure capaci di fornire consulenze, creare itinerari, scrivere guide turistiche e accompagnare tours che si sviluppano secondo le medesime coordinate che da sempre guidano l’antropologia: il viaggio e l’incontro (Davolio, Somoza 2016).

Forse sarebbe di una qualche utilità rammentare qui la figura, spesso trascurata dalla stessa antropologia applicata italiana, di Erve Chambers, professore emerito presso il Dipartimento di Antropologia dell’Università del Maryland, che fin dagli anni Ottanta del secolo scorso molto si è occupato e ha scritto del rapporto tra turismo e antropologia applicata, soprattutto nell’ottica di un turismo sostenibile. Tirando le somme di un suo lontano articolo del 1987, Chambers scrisse:

Even the most “value free” stance finds its appeal ultimately in a belief that it is better for our world to have the knowledge of anthropology than not, and even the most empirically minded among us generally imply that a world enlightened by anthropology will somehow be a better world. This is not necessarily true; it is at least possible to imagine that it is not at all true. But our assumptions of value are necessary. Without them, we cannot sustain a discipline acceptable to us (Chambers 1987: 329).

A distanza di tanto tempo mi sembra questa, in ultima istanza, la miglior ragione per continuare a immaginare e realizzare progetti di antropologia applicata, pur con tutti i loro limiti e fragilità e il costante rischio di fallire nei propri intenti. Che l’antropologia possa migliorarci la vita, come ci si è chiesti in occasione del recente World Anthropology Day celebrato per la prima volta a Milano il 21 febbraio 2019[13], resta un’ipotesi di valore da sottoporre a costante vaglio critico. A livello personale, in questa scommessa risiede la ragione che nel 2009 mi ha spinto a entrare in quel particolare campo che è il progetto Migrantour e che di anno in anno mi fa procrastinare a un futuro indefinito la decisione di uscirne.

Bibliografia

Appadurai, A. 2001 [1996]. Modernità in polvere. Roma. Meltemi

Aytar, V., Rath, J. (eds). 2012. Selling Ethnic Neighborhoods: The Rise of Neighborhoods as Places of Leisure and Consumption. New York. Routledge.

Blanchard, P., Boëtsch, G., Jacomijn Snoep, N. (dir). 2011. Exhibitions. L’invention du sauvage. Paris. Actes Sud.

Capello, C., Semi, G. (a cura di). 2018. Torino. Un profilo etnografico. Roma. Meltemi.

Careri, F. 2006. Walkscapes. Camminare come pratica estetica. Torino. Einaudi.

Chambers, E. 1987. Applied Anthropology in the Post-Vietnam Era: Anticipations and Ironies. Annual Review of Anthropology, 16: 309-337.

Chambers, I. 1996. Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’era postcoloniale. Roma. Meltemi.

Chiurazzi, R. Pozzi, G., Vietti, F. 2019. «L’accompagnatore interculturale. Turismo, migrazioni e patrimonio nella città che cambia», in PRiNT. Reinventare il lavoro, aggregare persone, rigenerare comunità. Pisa. Pagini (in stampa).

Cimoli, A.C. 2018. Approdi. Musei delle migrazioni in Europa. Bologna. CLUEB.

Clifford, J. 1993 [1988]. I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX. Torino. Bollati Boringhieri.

Clifford, J., 1999 [1997]. Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX. Torino. Bollati Boringhieri.

Davolio, M., Somoza, A. 2016. Il viaggio e l’incontro. Cos’è il turismo responsabile. Milano. Altreconomia.

Debaene, V. 2010. "Like Alice Through the Looking Glass": Claude Lévi-Strauss in New York. French Politics, Culture & Society, 28, 1: 46-57.

Favole, A. 2018. Vie di fuga. Otto passi per uscire dalla propria cultura. Milano. UTET.

Jennings, E. 2002. Last Exit from Vichy France: The Martinique Escape Route and the Ambiguities of Emigration. The Journal of Modern History, 74, 2: 289-324.

Koven, S. 2004. Slumming. Sexual and Social Politics in Victorian London. Princeton. Princeton university Press.

Lévi-Strauss, C. 1985. «New York 1941», in The View from Afar, Id. New York, Basic Books: 258-267.

MacCannell, D. 1976. The Tourist: A New Theory of the Leisure Class. New York. Schocken Books.

Mattone, A. 2018, La sfida politica che passa dal Vasto. Il Mattino, 15 novembre 2018. https://www.ilmattino.it/napoli/cronaca/la_sfida_politica_passa_dal_vasto-4108976.html.

Mazzara, F., 2019. Reframing Migration Lampedusa, Border Spectacle and the Aesthetics of Subversion. London. Peter Lang

Moralli, M., Vietti, F. 2016. «Verso un turismo responsabile nella città interculturale: uno studio sul turismo critico nello spazio urbano», in Turismo sostenibile. Retorica e pratiche, a cura di A. Pecoraro Scanio. Roma. Aracne Editrice: 289-324.

Padiglione, V., Broccolini, A. (a cura di). 2017, Antropologia Museale, numero monografico “Uscirne insieme”: farsi comunità patrimoniale, 37-39. Imola. Editrice La Mandragora.

Remotti, F. 2014. Per un’antropologia inattuale. Milano. Elèuthera.

Scott, J., Selwyn, T. (eds). 2011. Thinking Through Tourism. Oxford. Berg.

Semi, G. 2004. Il quartiere che (si) distingue. Un caso di “gentrification” a Torino. Studi culturali, 1, 1: 83-107.

Sennett, R. 2018. Costruire e abitare. Etica per la città. Milano. Feltrinelli.

Severi, I. 2018. Quick and Dirty. Antropologia pubblica, applicata e professionale. Firenze. Editpress.

Vietti, F. 2014. «I quartieri (multi)etnici tra migrazioni e turismo. Il progetto Torino Migranda», in Cittadinanza attiva e cultura euromediterranea. Buone pratiche interculturali per una politica inclusiva, a cura di G. Ricci, S. Armani. Milano. Franco Angeli: 230-252.

Vietti, F. 2015a. «Turismo urbano interculturale. Lo sguardo antropologico delle ‘guide migranti’», in Antropologia applica, a cura di A. Palmisano. Lecce. Pensa Editore: 369-400.

Vietti, F. 2015b. Migrantour, the World within Cities. Milano. Altreconomia.

Vietti, F. 2017. Migranti. Antropologia Museale, numero monografico “Uscirne insieme”: farsi comunità patrimoniale, a cura di V. Padiglione, A. Broccolini, 37-39. Imola. Editrice La Mandragora: 110-113.



[1] Desidero qui ringraziare i cinque membri della Commissione: Antonino Colajanni, Massimo Tommasoli, Sabrina Tosi Cambini, Angela Biscaldi, Luca Citarella.

[2] Il flusso di comunicazione collegato al tweet citato è consultabile online al seguente link: https://twitter.com/matteosalvinimi/status/710587595684712449

[3] Sono a mia conoscenza 15 le tesi di laurea triennali e magistrali finora discusse in Italia aventi come tema il progetto Migrantour. Per quanto riguarda il coinvolgimento degli studenti di antropologia a livello di rete europea, particolarmente significativa è la collaborazione avviata fin dal 2014 da Migrantour a Parigi con Le CANTHEL, il Centre d'anthropologie culturelle della Facoltà di Scienze Umane e Sociale presso l’Università Paris V Descartes, i cui studenti svolgono il ruolo di tutor dei migranti coinvolti nel progetto.

[4] Tra i vari musei coinvolti, alcuni hanno intrapreso con Migrantour una collaborazione più strutturata di re-interpretazione di una parte delle proprie collezioni attraverso lo sguardo degli accompagnatori interculturali. Tra questi il Castello d’Albertis Museo delle Culture del Mondo a Genova e il Belvue Museum a Bruxelles.

[5] Oltre ai singoli antropologi che hanno assunto nel corso degli anni il ruolo di local coordinator, voglio qui citare che per quanto riguarda la città di Ljubljana l’intero progetto Migrantour è gestito da un’associazione di antropologi professionali, Terra Vera Association for Sustainable Development, presieduta dalla collega Jana Milovanović.

[6] Per chi scrive, tale incarico ha costituito la principale mansione professionale per un periodo di sette anni, tra la fine del dottorato e l’inizio dell’attuale assegno di ricerca.

[7] Le passeggiate accompagnate dai migranti che completarono il corso di formazione furono commercializzate a partire dal 2010 con il nome di “Torino Migranda”: nel primo biennio di piena attività dell’iniziativa ne furono realizzate in media 50-60 ogni anno, accompagnando nelle visite circa 2.500 persone.

[8] Il lavoro svolto dai partner di progetto permise di raggiungere in questo periodo un’ampia platea di beneficiari diretti e indiretti: furono formati complessivamente 180 accompagnatori interculturali, 900 studenti delle scuole primarie e secondarie partecipano gratuitamente alle passeggiate, così come altri 2.700 cittadini e turisti. Circa 1 milione di cittadini europei furono raggiunti dalle diverse campagne e strumenti di comunicazione realizzati dal progetto (pubblicazioni, sito web, social media, documentari video, ecc.). Il budget complessivo è stato pari a 515.000 € per 18 mesi di attività. Sono stati partner di progetto, oltre a Fondazione ACRA, Oxfam Italia, Viaggi Solidali e EARTH: Baština Voyages (Parigi), Marco Polo Echanger Autrement (Marsiglia), Associació Solidaritat Perifèries del Món (Valencia), Associação Renovar a Mouraria (Lisbona).

[9] Gli esiti del processo sono vari: a Torino si raggiunge una media annuale stabile di 100-120 passeggiate, equivalenti a circa 2.000 persone accompagnate. Nelle altre città della rete il numero di passeggiate realizzate si stabilizza tra un minimo di 20 e un massimo di 60 all’anno. Gli itinerari sono commercializzati a un costo medio di 10-15 euro a persona, con tariffe per gruppi tra i 120 e i 150 euro. La retribuzione per gli accompagnatori interculturali è in media attorno ai 60 euro lordi per una passeggiata di due ore.

[10] In questa fase attualmente in corso, denominata “New Roots – Migrantour intercultural walks building bridges for newcomers active participation”, si prevede di formare 400 richiedenti asilo e rifugiati, realizzare una serie di workshop nelle scuole raggiungendo 2.570 partecipanti tra studenti e insegnanti, offrire passeggiate per complessivi 8.000 partecipanti. Il budget disponibile è pari a 790.000 € per 24 mesi di attività. Sono partner di progetto: Fondazione ACRA, Oxfam italia, Viaggi solidali, Società Cooperativa Sociale Casba (Napoli), Associação Renovar a Mouraria (Lisbona), AlterBrussels (Bruxelles), Terra Vera (Ljubljana), Baština Voyages (Parigi).

[11] Il finanziamento AICS prevede come beneficiari diretti: 100 migranti formati come accompagnatori interculturali nelle nuove città italiane della rete; 6.400 cittadini, 75 giornalisti, 1.000 operatori sociali, 1.500 insegnanti, 300 rappresentanti/funzionari di Enti Locali, 400 rappresentanti della società civile e istituzioni come partecipanti alle passeggiate. La campagna di comunicazione ha l’obiettivo di raggiungere 2 milioni di cittadini come beneficiari indiretti. Il budget è pari a 555.000 € per 18 mesi di attività. Partner di progetto sono: Fondazione ACRA, Viaggi Solidali, Oxfam Italia, Fondazione Pubblicità Progresso, Fondazione ISMU, Società Cooperativa Sociale Casba (Napoli), Cooperativa Sociale Progetto Con-Tatto (Pavia), Associazione Next Generation Italy (Bologna), Amici di Sardegna (Cagliari), Associazione Trame di Quartiere (Catania), Comune di Milano, Città di Torino, International Research Centre on Global Citizenship Education – Università di Bologna.

[12] Tra i luoghi della città che il progetto Migrantour si è impegnato a rendere maggiormente accessibili al pubblico vi sono le numerose sale di preghiera islamiche (e le poche moschee) presenti sul territorio: tali spazi nel contesto italiano sono spesso percepiti e ritenuti “chiusi” ai non musulmani e dunque gli incontri organizzati durante le passeggiate, soprattutto attraverso la collaborazione con l’associazione dei Giovani Musulmani d’Italia (GMI), nel corso degli anni hanno permesso a migliaia di cittadini e studenti di essere accolti come ospiti là dove precedentemente ritenevano di non poter entrare.

[13] L’evento del World Anthropology Day 2019 – Antropologia pubblica a Milano è stato organizzato dal Corso di Laurea Magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche e dal Dottorato in Antropologia Culturale e Sociale (DACS) dell’Università di Milano Bicocca. Tra le oltre trenta iniziative inserite nel programma della giornata vi sono state anche due passeggiate Migrantour, in via Padova e in via Sarpi.