Antropologia e design per un “collaborative future making

Isabel Farina

DEAR-Design Around onlus

Table of Contents

Introduzione
DEAR Onlus e Robo & Bobo
La nascita del progetto
La Maker Education e le discipline STEAM
Perché portare questi laboratori nel reparto di oncoematologia pediatrica?
Un’antropologa tra i designer
L’inizio della collaborazione
Approcciarsi al campo e al design
I cinque robottini di Robo & Bobo e il lavoro collaborativo
Le forme della restituzione
Conclusione: Quale ruolo per l’antropologia nel design? Quale ruolo per il design nell’antropologia?
Bibliografia

Abstract. Robo & Bobo is a laboratory project of digital design made at the department of Oncology in the Pediatric Hospital Regina Margherita of Turin. The laboratories are based on an interdisciplinary collaboration between design, pedagogy, psychology and anthropology with an important focus over the context of illness and care in which the project takes place. Telling the story of the first year of life of the project means showing the possibilities of restitution of the ethnographic research through different ways of doing applied anthropology and also open a debate about the changes and development that happen in the various disciplines when they encounter, dialogue and work together. The main object of this paper is to show in which direction these young collaborators (designer and anthropologist) wish to orient their work and their definition of the disciplines in which they are engaged.

Keywords: design anthropology; applied anthropology; technology; multi disciplinary oncology.

Introduzione

Robo & Bobo è un progetto laboratoriale di alfabetizzazione nei campi del design digitale nel reparto di oncoematologia dell’Ospedale Infantile Regina Margherita (TO). Il lavoro di progettazione dei laboratori si basa sulla collaborazione interdisciplinare tra design, pedagogia, psicologia e antropologia, con un focus importante sul contesto di malattia e cura in cui si agisce. In particolare l’antropologia è entrata nel progetto in forma sperimentale, definendosi poi come la voce privilegiata per valutare il raggiungimento effettivo degli obiettivi dichiarati dal progetto. Raccontare il primo anno di vita del progetto significa non solo mostrare le possibili modalità di restituzione della ricerca etnografica attraverso diverse forme di fare antropologia applicata ma anche aprire un dibattito sui cambiamenti che avvengono nelle diverse discipline nel momento in cui si incontrano, dialogano e lavorano insieme. Come afferma Kilbourn:

Design anthropology is a particular style of knowing where the tools we think with and the movements of translating knowledge across disciplines and practices is valuable to the collaborative projects where innovation and future-orientated perspectives are paramount to bridging contextual practices with societal forecasts. The affinity of design and anthropology is more than a fleeting infatuation and goes to the core of how we understand (Kilbourn 2013: 69).

L’obiettivo principale è mostrare in che direzione questi giovani collaboratori (designer e antropologa) desiderano orientare non solo il proprio lavoro ma anche la propria definizione delle discipline di cui si occupano.

DEAR Onlus e Robo & Bobo

La nascita del progetto

DEAR-Design Around Onlus è un’associazione nata nel 2016 da nove soci fondatori e in particolar modo dall’architetto Anita Donna Bianco, la quale aveva precendemente esplorato la tematica dell’umanizzazione in ambito sanitario attraverso il design e precedentemente l’architettura.

Come si può leggere dal sito della Onlus:

L’obiettivo dell’umanizzazione è quello di contribuire, su vari livelli, a prendersi cura della persona, attraverso soluzioni innovative che mitighino la condizione di disadattamento che la malattia spesso comporta. [...] Promuoviamo iniziative che intervengono sulla qualità del tempo che si trascorre in ospedale, offrendo ponti verso il mondo esterno, spazi fisici e mentali oltre la quotidianità imposta dalle esigenze cliniche. Lo facciamo sia come attivatori di percorsi progettuali multidisciplinari, che come abilitatori di progetti con cui condividiamo valori e obiettivi[1].

Rispetto al ruolo di DEAR come “attivatore”di percorsi progettuali multidisciplinari, l’associazione ha avviato la sua attività con il progetto Robo & Bobo all’interno del reparto di oncoematologia dell’Ospedale Infantile Regina Margherita.

Ancora acerba in quanto ad esperienza, DEAR ha aperto una collaborazione con diversi attori tra cui l’azienda di interaction design TODO, la Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana (SUPSI) e diversi professionisti freelance, per definire obiettivi, metodi e contenuti del progetto. Questi attori si sono occupati innanzitutto di svolgere ricerca contestuale (intervistando il personale sanitario) per comprendere a livello generale l’ambiente dell’ospedale e di indagare cosa il panorama del design e dell’architettura offrisse rispetto a progetti e tecnologie educative in ambienti ospedalieri e progetti di umanizzazione. Al lavoro di progettazione hanno poi collaborato anche i membri dell’associazione portando il proprio approccio disciplinare. I quattro designer e operatori sul campo, Valeria Francescato, Walter D’Esposito, Alessia Pagotto e Silvia Galfo, hanno ricevuto una formazione per poter lavorare sul campo, padroneggiare le tecnologie utilizzate e risolvere, di volta in volta, i problemi che venivano riscontrati (sia tecniche delle strumentazioni, sia di coinvolgimento dei pazienti), allo scopo di dare un senso ai laboratori e mantenere la coerenza rispetto gli obiettivi del progetto.

La pedagogista Paola Cappelletti, esperta in Metodo Munari, ha definito le modalità operative, inserendosi sulla proposta didattica. L’intento dei progetti e della relazione tra operatori-pazienti è stato quello di considerare le cinque attività laboratoriali come un momento di scambio di competenze secondo la formula: siamo progettisti, vuoi progettare con noi?

La psicologa Alessandra Crispino invece ha fornito le linee guida per poter operare all’interno del contesto ospedaliero e riconoscere le dinamiche relazionali che avvengono nell’incontro con il paziente. Le linee guida individuate per la progettazione delle attività sono state:

  • mantenere la centratura sull’acquisizione di nuove competenze da parte dei ragazzi: il processo di esplorazione del mondo e di costruzione di sé insito nella pre-adolescenza e nell’adolescenza deve poter continuare;

  • step by step: il futuro continua a costruirsi un passo alla volta, acquisendo competenze che potranno servire da grande;

  • strutturare setting di laboratorio che pongano limiti e regole, per tutelare il senso delle cose che si fanno, senso che non si deve esaurire solo nel “passare del tempo divertendosi”;

  • pensare a setting flessibili che consentano di partecipare in modo diverso e sensato a seconda dello stato fisico del ragazzo: si esce dalla logica insita nella lotta alla malattia o tutto o niente, o vinco o muoio.

  • fare richieste ai ragazzi, avere aspettative su di loro, uscire dalla logica del condannato a cui si deve concedere tutto senza chiedere nulla; proporre contenuti sintonizzati con l’età, per non reificare la regressione allo stadio infantile;

  • favorire l’esperienza con il gruppo dei pari, vitale per i preadolescenti e gli adolescenti, sia favorendo quanto più possibile l’esperienza in gruppo nel qui ed ora dei laboratori, sia creando un ponte con il mondo dei pari fuori, attraverso la condivisione del percorso laboratoriale con l’utilizzo dei social network.

Queste ricerche e collaborazioni hanno dato vita ai cinque laboratori che compongono il progetto Robo & Bobo e preparato gli operatori alla loro messa in atto. Il target verso cui i laboratori sono indirizzati è stato individuato dall’ospedale stesso, che necessitava di trovare attività per i pazienti adolescenti e preadolescenti (11-19 anni).

La Maker Education e le discipline STEAM

I laboratori di Robo & Bobo sono stati costruiti seguendo la filosofia del Maker Movement applicata alle discipline STEAM (Science, Technology, engineering, Arts, Mathematics).

Il movimento maker nasce come controcultura verso la fine del primo decennio degli anni 2000, come incontro tra la cultura degli hobbisti del DIY (Do It Yourself) e la cultura hacker. In questo senso la filosofia del movimento riguarda la creazione di artefatti digitali e tecnologici sulla base di software open-source[2] per una diffusione della conoscenza aperta. Il movimento nasce ufficialmente nel 2005 con la pubblicazione della rivista trimestrale Make: Magazine dai fondatori Tim O’Reilly e Dale Dougherty; nel 2006 viene organizzata la prima Maker Fair del mondo e nel 2013, Mark Hatch pubblica il Manifesto del movimento.

«The maker movement refers broadly to the growing number of people who are engaged in the creative production of artifacts in their daily lives and who find physical and digital forums to share their processes and products with others» (Sheridan 2014: 496). I maker sono artigiani digitali che vogliono integrare le arti tradizionali con l’utilizzo di nuovi strumenti tecnologici (stampa 3D, microprocessori Arduino, spazi di condivisione Cloud, ecc...). Le loro attività spaziano dall’abbigliamento, alla domotica, al cibo, il biohacking, la musica, design di produzione e cosmetica organica. I maker hanno costituito anche degli spazi fisici di lavoro (chiamati Fablab e Makerspace), aperti a tutti, secondo la logica DIWO (do it with others), promuovendo corsi e laboratori al fine di rendere le competenze tecnologiche apprendibili ed utilizzabili da chiunque (il motto del movimento è “imparare facendo”). La conoscenza stessa, basata sul Creative Commons e gli applicativi a codice sorgente aperto (open source), determina la creazione di ampie community di persone che lavorano insieme, migliorando i codici creati da altri. L’idea di base è quindi quella di mettere in crisi la cultura mainstream di produzione e consumo per democratizzare gli strumenti di creazione e di distribuzione, concentrandosi non tanto sul prodotto in sé quanto sul processo di creazione come esercizio e apprendimento di nuove competenze che si rivela nella soddisfazione di avere risultati tangibili (Watson, Shove 2008).

Per questo motivo il maker movement e la cultura DIY si è subito legata al settore educativo, promuovendo una didattica non tradizionale, in cui non vengono insegnate le singole materie scientifiche e artistiche (materie STEAM) ma si integrano in laboratori applicati, secondo la logica del “learning by doing”. Le tecnologie ad uso dell’artigianato digitali offrono la possibilità di lavorare con qualsiasi tipo di materiale: cartoncino, legno, tessuto, plastilina, LEGO, piante ma anche rifiuti o ritagli, tramite l'uso di martelli, colla, seghe, saldatori, macchine per cucire, ecc. La maker education si basa sull’idea che gli studenti debbano essere maggiormente coinvolti nelle materie scientifiche comprese nella loro totalità, più che come ambienti disciplinari disgregati. Il valore interessante della maker education è dato in particolar modo dall’idea che le tecnologie non solo debbano essere accessibili, in termini di utilizzo, ma debbano anche essere comprese e quindi gli studenti dovrebbero sapere come gli strumenti tecnologici funzionano. Secondo Buechley (2010) la maker education in questo senso ha una portata dirompente in quanto mette gli studenti nella condizione di non essere solo consumatori della tecnologia ma anche produttori. Inoltre non promuove una conoscenza di tipo ingegneristica ma spinge per un’integrazione dell’immaginario creativo, non solo con la tecnologia ma anche con le discipline scolastiche (Kafai et al. 2014).

Perché portare questi laboratori nel reparto di oncoematologia pediatrica?

Robo & Bobo si colloca in uno scenario educativo particolare rispetto ai contesti scolastici in cui la maker education si è sviluppata. I laboratori, infatti, non nascono per dialogare con le istituzioni scolastiche e gli educatori (pur sentendone la necessità) ma per relazionarsi direttamente con ragazzi adolescenti che vivono in un contesto di lungo degenza a causa del proprio stato di malattia, e sono quindi momentaneamente assenti dall’ambiente scolastico. Allo stesso modo però DEAR non ha mai voluto svolgere solo attività di intrattenimento ma proporre dei percorsi in cui i ragazzi potessero apprendere, divertirsi e incorporare il concetto di “progettualità” propria del design e dell’identità maker.

La malattia tumorale è una esperienza traumatica, fortemente incerta, con trattamenti intensivi e aggressivi sul corpo, ripetute ospedalizzazioni che sospendono la quotidianità, accrescendo la perdita di senso del proprio vissuto. Come afferma la psicologa dell’associazione Alessandra Crispino:

La malattia in fase evolutiva minaccia il senso psicologico di continuità di Sé, creando una dissociazione tra la parte che vive e la parte che muore. [...] Per preadolescenti e adolescenti vuol dire affrontare concretamente l’ipotesi della morte in una fase evolutiva in cui l’angoscia di morte dovrebbe essere un sentimento legato alla naturale perdita del mondo infantile, un sentimento vitale che ha a che fare con il cambiamento e con la crescita. In questo viaggio impervio dall’esito incerto, l’angoscia di morte e la disperazione si alternano a momenti di speranza e di trionfo onnipotente. I ragazzi sentono che l’esperienza di malattia li costringe ad una maggiore maturità, ad un’anticipazione della consapevolezza, sentimenti che li fanno sentire profondamente diversi dal gruppo di pari. Effetto dell’incertezza prognostica anche la perdita di investimento sul futuro, la perdita di un progetto – “avrei potuto..”, “sognavo di…” – come se lo sguardo prospettico sulla propria vita non potesse che fermarsi a mano a mano su ogni step di cura (Report di progetto, settembre 2017)[3].

La vita del paziente, è percepita (anche dai genitori) come in un momento di sospensione, una fase transitoria che viene espressa chiaramente nella riorganizzazione del tempo come diviso in due: prima e dopo la diagnosi della malattia. Il “dopo”, in quanto innominabile, è un buco nero vuoto di significato che risucchia le risorse: nei ragazzi il momento evolutivo di sviluppo è minato, poiché non vi è una continuità come dovrebbe invece essere, tra ciò che si è acquisito e la continua esplorazione di sé e del mondo; durante la ricerca di campo i genitori hanno espresso più volte come il cancro abbia inglobato totalmente la propria vita e non siano più in grado di separare il tempo all’interno dell’ospedale e il tempo fuori da esso. La malattia stravolge le relazioni familiari: i genitori, sotto il peso dei sentimenti di dolore, responsabilità e di impotenza, sono anche loro vittime dell’effetto traumatico legato alla malattia che sembra distruggere tutto, anche il ruolo educativo. Il tempo si fissa, si gioca tutto nella lotta alla malattia e per il resto si pensa alla soddisfazione immediata dei desideri del figlio, per garantirgli un minimo di felicità. Il futuro è sospeso, il giovane paziente non riceve più limiti, regole, richiami, richieste. A fronte di un apparente beneficio in termini di gratificazioni e di facilitazioni, questa situazione crea una regressione allo stadio infantile di soddisfazione di ogni bisogno, mettendo un ulteriore ostacolo al benessere psicologico dei ragazzi. Le principali fonti di stress nel paziente sono l’interruzione della propria quotidianità, il cambiamento di abitudini alimentari, il fatto di non vedere più gli amici, la distanza dal gruppo e la reclusione. La malattia e la sofferenza sono innanzitutto esperienze e i pazienti sviluppano proprie interpretazioni sulla malattia. Un corpo in crisi impone al soggetto di negoziare i termini del proprio essere al mondo. Il vissuto normalizzato si dissolve, e avviene una “crisi della presenza” (De Martino 2007). Il concetto di presenza definito da De Martino è legato intimamente alla fenomenologia e ritorna nei discorsi etici sull’umanizzazione in ambienti di cura: il sentimento primario del proprio “aver senso” in un mondo “dotato di senso”; un sentimento che è però un’acquisizione precaria, continuamente costruita dal soggetto e costantemente esposta al rischio della crisi.

Quando ti ammali, in base al tipo di tumore ti assegnano un numero di protocollo, perché per ogni tumore vi è un protocollo di cura da seguire, ben strutturato. Una prassi. Quando entri, la leucemia è curata come l’influenza…i tempi, le dosi, le regole … è tutto preciso, già deciso e non ne esci. Sei un numero. Ti trattano come un numero. E ad un certo punto cominci a sentirti come un numero. Io non sono d’accordo, non sono un numero. Quando entrano ragazzi nuovi, i genitori parlano tra loro, perché hanno paura e la prima cosa che si chiedono è tipo “il mio è Hodgkin”, o “il mio è celebrale”. Solo i ragazzi tra loro queste cose non le dicono (Paolo[4] 17 anni, maggio 2017).

Sally Gadow (1996) parla chiaramente del diritto del paziente a costruire insieme all’infermiera (i cui rapporti sono storicamente e politicamente differenti rispetto al medico) il significato da attribuire all’esperienza, in questo modo dalla creazione di senso si attiva la dimensione dell’agency in quanto il paziente è direttamente coinvolto nel processo di cura. La Gadow coniuga la “relational narrative” nel campo infermieristico come «the construction by patient and nurse of an interpretation that is their co-authored narrative describing the good they are seeking» (1996: 8), poiché l’efficacia simbolica della creazione di senso trasforma l’esperienza stessa, soprattutto quando è fatta in maniera collaborativa.

Per questi motivi emergeva la potenzialità del concetto di progettualità propria del design e del suo carattere simbolico in un contesto in cui il presente è cristallizzato e totalmente determinato dalla malattia. La maker education, con le sue tecnologie, si faceva veicolo privilegiato rispetto all’utenza di riferimento (adolescenti) e la caratteristiche del design.

Sulla progettualità ci dice Munari:

Progettare è facile quando si sa come si fa. Tutto diventa facile quando si conosce il modo di procedere per giungere alla soluzione di qualche problema, e i problemi che si presentano nella vita sono infiniti: problemi semplici che sembrano difficili perché non si conoscono e problemi che sembrano impossibili da risolvere. Se si impara ad affrontare piccoli problemi si può pensare anche di risolvere poi problemi più grandi (Munari 2017: 8).

Si è tentato quindi di mettere a servizio di un contesto come quello della degenza il valore simbolico della progettazione, in un percorso – piccolo e modesto – di risanamento rispetto la perdita del sé che colpisce i pazienti del reparto di oncoematologia.

Mi trovo però in accordo con quanto affermato dal collega Nicolò Di Prima, nella sua tesi di laurea quando, rispetto alle parole del padre del metodo progettuale Bruno Munari, mette i designer in guardia:

È un libro che si occupa di oggetti e che si muove all’interno di in una realtà puramente oggettuale. E da un testo sulla progettazione non ci si aspetterebbe, forse, niente di diverso; eppure egli afferma che progettare ha a che fare con “i problemi che si presentano nella vita”, ma, dopo aver affermato questo, a ben vedere, i viventi, nel testo di Munari, non appariranno quasi più. E, infatti, essi saranno continuamente dati per scontati in quanto referenti ovvi e prevedibili degli oggetti presentati. Se è vero, quindi, che la vita, e di conseguenza i viventi, stanno a fondamento dei problemi a cui il designer deve rispondere, è vero anche che, subendo un trattamento di sconto, di deprezzamento, essi vengono, in qualche modo, messi sullo sfondo, alienati (Munari 2017:19).

Ed è proprio a partire da questo rischio che ha avuto senso la figura dell’antropologa all’interno di Robo & Bobo.

Un’antropologa tra i designer

L’inizio della collaborazione

Come si è intuito fino ad ora, in tutto il periodo di progettazione delle attività e di impostazione dell’operatività, non è stato presente l’antropologo. Effettivamente, io entro a far parte di DEAR quando Robo & Bobo era ai suoi primi due mesi di attività in ospedale.

L’inizio di questa collaborazione rappresenta in un certo senso la risoluzione di quella tensione problematica che si crea per molti neo-laureati al termine del proprio percorso universitario. Mi ero infatti laureata in marzo del 2016, tentando – senza troppa convinzione e senza riuscirci – di vincere una borsa di dottorato. Per tutto il periodo dei miei studi mi ero sempre riuscita a mantenere con i lavori più disparati e il sostegno dei miei genitori, ma al termine del mio percorso di studi sentivo la necessità di dare una forma concreta al titolo acquisito che mi proclamava Antropologa. Ma se un neo-laureato in antropologia non riesce a classificarsi per la borsa di dottorato, o per altre borse di ricerca, in che modo potrebbe continuare a "fare" l’antropologo? La risposta a questa domanda mi è giunta da un amico, interaction designer che mi ha introdotta al mondo del design e con il quale abbiamo esplorato i possibili spazi e modalità di dialogo tra le due discipline, scoprendo una branca dell’antropologia che già da qualche decennio se ne occupava.

In seguito ad una serie di valutazioni e ricerche personali, ho deciso di mettermi in contatto con DEAR (il cui contatto mi proveniva sempre dallo stesso amico), un’associazione appena nata e che chiedeva quanto più aiuto possibile da persone di diversi ambiti disciplinari. Al nostro primo incontro, nè io nè Anita (la presidentessa di DEAR) sapevamo dare una definizione al tipo di contributo che avrei potuto portare, ma era emerso chiaro fin da subito che c’era la necessità di avere qualcuno che si occupasse della restituzione, ovvero che potesse con uno sguardo d’insieme raccontare il progetto. Abbandonai tutti quei piccoli lavoretti con cui mi mantenevo – e che non mi lasciavano tempo per far crescere la mia professionalità in campo antropologico – ed entrai a far parte di DEAR.

Approcciarsi al campo e al design

Il mio ingresso nel campo è avvenuto dunque a Novembre 2016, nel frattempo R & B era stato già avviato da cinque mesi. Pur non avendo ancora definito cosa avrei osservato e restituito, dovevo comunque trovarmi una posizione nel campo, in relazione ai pazienti, i loro genitori e soprattutto in relazione agli operatori che ogni giovedì andavano al reparto di oncoematologia pediatrica a svolgere i laboratori. In accordo con loro e Anita, mi sono fatta carico di una pratica particolarmente odiata dagli operatori, e che è rappresentato da un oggetto, che ritengo molto curioso per un antropologo: il consenso informato per immagini e video.

Durante le mie ricerche di campo negli anni di studio, non mi ero mai posta il problema di dover chiedere il consenso[5] in forma scritta e legale, e ho subito compreso come mai quel foglio mettesse a disagio gli operatori: è vero quando si dice che chiedere la firma al consenso toglie spontaneità, spaventa l’idea di sentirsi dire di no e in qualche modo mettere a rischio la relazione; inoltre, pur avendo l’obiettivo opposto, chiedere il consenso all’uso delle immagini dà la sensazione di essere complici del furto di qualcosa che appartiene ad un’altra persona (in questo caso il viso, il corpo, il sorriso dei pazienti) e di utilizzare quell’immagine in modo “disonesto”, ovvero per la visibilità dell’associazione più che per la restituzione ai partecipanti. Per non sentirsi in quel modo e avere un certo controllo sul potere evocativo del consenso informato, bisogna farsi suoi traduttori, adattare l’approccio e il linguaggio a seconda di chi si ha davanti e soprattutto essere onesti ed accettare anche i no senza che questi siano motivo di frattura nella relazione. Ben presto infatti il foglio del consenso informato è diventato un veicolo relazionale importantissimo per il mio posizionamento.

Fig 1. L’antropologa e una mamma con la famigerata firma del consenso informato (fotografia di Davide de Martis).

Ed è stato uno strumento fondamentale per l’accesso al campo e nella costruzione della relazione con gli operatori poiché mi facevo carico del consenso informato e della presentazione del progetto. Inoltre, dava senso alla mia presenza e mi permetteva di aprire un dialogo con quelli che sono stati i miei principali interlocutori, ovvero i genitori. Pur chiedendo comunque ai ragazzi il permesso di essere fotografati, con loro il foglio del consenso informato non funzionava da mediatore, non potendo firmare in quanto minorenni. Decisi quindi, in accordo con gli operatori, di seguirli durante i laboratori, di essere presente, partecipe nella situazione e di presentarmi con i pazienti dicendo loro, per esempio “ciao sono Isabel, sono un’antropologa e se ti va sto qui con voi e partecipo con te all’attività. Così cerco anche di capire se si può migliorare qualcosa”. Lo shadowing non era una pratica a me familiare, soprattutto in un contesto in cui vi sono attività precise con una tempistica precisa che lascia poco spazio al dialogo su questioni che esulano dallo svolgimento del laboratorio. In principio gestivo goffamente lo shadowing sedendomi in silenzio nello spazio partecipato, in una posizione intermedia tra l’operatore e il partecipante, prendendo appunti su un quaderno. Se da un certo punto di vista l’atto di prendere appunti poteva sembrare il gesto di un osservatore durante una sperimentazione con delle cavie, dall’altro giustificava la mia presenza, inizialmente poco partecipante e molto osservante, col tacito accordo (con operatori e i partecipanti) per cui gli appunti che prendevo durante lo svolgimento dei laboratori non fossero celati, ma potevano essere letti anche dai partecipanti, per concordare se fossero stati rilevate o meno alcune problematiche. Nel corso del tempo da osservatrice, ho cominciato a partecipare attivamente ai laboratori, svolgendo anche in alcune situazioni il ruolo di operatrice.

Da una parte c’è stata quindi la problematica del comprendere il mio posizionamento rispetto al contesto e individuare le modalità di ricerca funzionali ai miei obiettivi di ricerca e alle relazioni tra me e i diversi attori.

Dall’altre parte vi era l’esigenza, non solo di comprendere il contesto di ospedalizzazione e malattia altra, e le diverse soggettività qui costruite, ma anche di familiarizzare con il contesto operativo con cui collaboravo, i suoi linguaggi e approcci.

Fig. 2. L’antropologa con gli operatori e i ragazzi durante i laboratori (fotografia di Davide de Martis).

Fig. 3. L’antropologa con gli operatori e i ragazzi durante i laboratori (fotografia di Davide de Martis).

Da un punto di vista di ricerca, l’osservazione antropologica si è interessata prevalentemente a comprendere due dimensioni: la prima che possiamo considerare di antropologia medica tradizionale rivolta alla comprensione della cultura dell’ospedalizzazione (tramite l’osservazione e il dialogo/interviste con i pazienti, i familiari, le infermiere, i volontari UGI e le maestre di corsia), e una più affine al mondo del design che indaga le relazioni e interazioni tra soggetti umani e oggetti tecnologici. Queste due dimensioni confluivano in una comprensione del soggetto pediatrico definito “paziente” ma si applicava all’operato dei designer nel decostruire tale soggettività per rendere coerenti gli obiettivi dei laboratori e dell’intero progetto con il contesto in cui essi avvenivano.

I cinque robottini di Robo & Bobo e il lavoro collaborativo

Cosa succede di fatto in Robo & Bobo? Dal sito del progetto leggiamo:

Robo & Bobo è un innovativo percorso didattico-laboratoriale su programmazione, digital fabrication, elettronica e grafica digitale, pensato per trasformare l’esperienza negativa dell’ospedalizzazione in un’occasione per avvicinare al mondo delle nuove tecnologie i ragazzi adolescenti e preadolescenti (11-18 anni). In diverse situazioni sono state testate le attività con bambini di età inferiore rispetto il target richiesto. Questo è stato funzionale a comprendere se le attività progettate erano adatte alla fascia adolescenziale piuttosto che a quella infantile. Si compone di cinque laboratori, ognuno dei quali presenta una particolare tecnologia[6].

L’immagine di un robottino è associata a ciascun laboratorio ed accompagna il ragazzo nella scoperta di uno strumento tecnologico[7]. Nel corso del primo anno la presenza sul campo, degli operatori e dell’antropologa, ha messo in luce diversi punti critici dei laboratori ma anche le diverse potenzialità da esplorare. Ognuno di questi laboratori e le sue componenti è diventato in qualche modo vivo nello spazio sociale d’interazione con i ragazzi. Dobbiamo anche tenere presente che ogni laboratorio, focalizzandosi su una tecnologia in particolare, esplorava la sua oggettualità quanto anche i diversi usi che di essa si può fare e la comprensione delle sue varie componenti, per ricercarne, in qualche modo, “l’anima” (Latour 1996; Appadurai 1988) e liberarla dall’idea che possa essere di utilizzo unico ed esclusivo di specifici contesti o conoscenze tecniche, per restituirla all’uso di ogni persona. Consapevoli, quindi, che gli oggetti utilizzati e l’approccio d’uso nel laboratorio, incorporano una filosofia ben specifica (Maker), al momento dell’operatività sul campo è stato interessante osservare, nella relazione operatore-antropologa-ragazzo, cosa gli oggetti ci comunicassero del contesto in cui venivano inseriti, come posizionavano i diversi attori nell’interazione con l’oggetto stesso, quale valore esso acquisisse ma anche come tutto ciò venisse costantemente rinegoziato (Law 2007).

Partiamo con Circut, il laboratorio che prepara il ragazzo alla teoria base dei circuiti elettrici, funzionamento e direzionalità della corrente, il concetto di interruttore/ponte, di connessione seriale e parallela. Durante il laboratorio si costruisce un circuito a forma libera utilizzando diversi materiali conduttivi (nastro di rame, inchiostro conduttivo) e si applicano le conoscenze apprese per produrre un elaborato funzionante.

Fig. 4. L’operatore Walter con Lorenzo 15 anni mentre “hackerano” il tavolino del day hospital con un circuito elettrico (fotografia di Davide de Martis).

Le componenti di questo laboratorio non sono vere e proprie tecnologie in senso stretto, ma sono gli elementi fondamentali per l’elettronica. Utilizzare un inchiostro come conduttore crea un effetto di magia e libera la creatività artistica dei ragazzi. Nel corso dell’anno, avevamo trovato in circut e nei suoi materiali uno strumento interessante per la riappropriazione del proprio corpo e dello spazio. Per questo abbiamo sperimentato con il concetto di “hacking” – alterazione, modificazione – in due modi: una prima modalità è stata quella dell’ Hacking of things, in cui si prevedeva l’intrusione da parte dei ragazzi con l’ausilio dello scotch di rame conduttivo, di superfici e oggetti dell’ospedale. In questo modo volevamo invitare i ragazzi a “trasgredire” rispetto allo spazio standardizzato e iper-regolato del reparto, uno spazio in cui ci sono più divieti che concessioni di personalizzazione, uno spazio che comunica in maniera inequivocabile la malattia e crea una tensione costante di “non voler essere qui, ma doverci stare senza poter rendere mio questo luogo”. L’uso del nastro di rame permetteva di creare delle intrusioni temporanee, non permanenti e quindi in grado di riappropriarsi in tempi e modi diversi dello spazio.

Un secondo esperimento è stato quello del Biohacking[8], che voleva invece lavorare sulla corporeità ferita dei ragazzi. Si ipotizzava che l’idea di utilizzare il corpo come strumento può essere positiva purché si elimini qualsiasi elemento che richiama la dimensione traumatica della cura, possibilmente tramite una narrazione dalle sfumature magiche. La narrazione gioca sulla creazione di un cyborg, non dal loro corpo ma dal mio (creavano infatti il circuito elettrico sul mio corpo), con il risultato “magico” di illuminare una mano tramite un circuito che loro hanno progettato e creato. In questo modo scoprivano la potenzialità del corpo, in quando conduttore, potevano agire su di esso, riscoprendolo in una modalità giocosa che non aveva nessun legame con i gesti di cura a cui il loro corpo spesso è esposto. Si attribuiva inoltre un nuovo significato estetico in cui la memoria del proprio corpo e l’affermazione della propria identità non avveniva solo con il concetto di “bello” ma anche con il concetto di “potente” (in grado di creare luce nel LED).

Joy-bit, introduce al mondo dell’elettronica attraverso l’utilizzo di materiali conduttivi e un touchpad (piccolo microprocessore), seguendo come filo conduttore la registrazione e produzione di suoni. È stato il laboratorio che ha richiesto più ri-progettazione durante il primo anno di attività, in quanto nessuno degli elaborati finali soddisfaceva le aspettative dei ragazzi e, in alcuni casi, hanno anche creato situazioni spiacevoli rispetto al contesto di malattia.

Fig. 5. L’operatrice Valeria con Alex, 6 anni e la frutta suonante (fotografia di Davide de Martis)

La touchboard è stato il primo oggetto a rivelare in maniera inequivocabile il contesto di malattia. Costituita da un hardware che si collega tramite dei cavi a qualsiasi oggetto con capacità conduttiva è poi in grado di far suonare questi ultimi toccandoli. Inizialmente veniva collegata con degli aghi a della frutta. Osservando l’interazione con i pazienti è emerso come l’atto di “infilzare” la frutta richiamasse il trauma della chemioterapia. In questo senso la rappresentazione simbolica della malattia era molto forte, così come una trasfigurazione della corporeità ferita dei ragazzi.

Questo è quanto accaduto con Luca (6 anni) durante lo svolgimento del laboratorio.

O. «Adesso infilziamo la frutta e poi la facciamo suonare»

L. «Ma non gli farò male?»

O. «No certo che no!»

Dopo aver infilzato la frutta (una arancia).

L. «è divertente! Adesso anche lei fa la chemio!»

(Diario di campo, gennaio, 2017)

Luca decide di disegnare fattezze umane sull’arancia. In seguito prende una banana e comincia a riempirla di aghi, in maniera quasi sadica e ripetendo come anche lei stesse facendo la chemioterapia. Poche ore prima, anche Vincenzo (5 anni) aveva mostrato gli stessi dubbi iniziali, immedesimandosi con il frutto. Come spiegatomi dalla psicologa Alessandra Crispino nei bambini il sadismo è una reazione normale, così come la facilità di rendere palese il trauma subito a livello corporeo. Meno palese, ma non per questo non avviene, con gli adolescenti anche se alcuni di loro hanno mostrato qualche riserva sul laboratorio specificando che l'idea di infilzare la frutta li turbasse. In questo caso la touchboard ha perso la capacità di rendere magico un oggetto, non per questo però rendendolo neutrale nella interazione. Anzi l'oggetto in questione è stato animato da caratteristiche umane con cui i ragazzi si sono immedesimati provando empatia. Per tentare di risolvere il trauma incorporato dal laboratorio, con gli operatori abbiamo pensato di utilizzare joybit come strumento per la comunicazione, adattandolo al codice morse o ad un qualsiasi codice simbolico e segreto inventato dai ragazzi.

Codix, riguarda l’educazione alla programmazione a blocchi e un’introduzione ad alcuni concetti di robotica. Attraverso l’ausilio di un robottino, Ozobot, i ragazzi hanno appreso le basi del linguaggio Javascript.

Il robottino ha l’unico scopo di insegnare ai giovani i segreti della programmazione, non ha alcun tipo di autonomia e di intelligenza, è semplicemente un oggettino a cui si possono inviare dei comandi luminosi e di movimento attraverso un software open-source di programmazione a blocchi (java script semplificato). Dopo un iniziale stupore ha ben presto deluso le aspettative degli attori. Questo ha rivelato il tipo di immaginario e l’aspettativa sulla figura del robot che gli attori avevano in partenza. Innanzitutto le dimensioni e l’aspetto. Quando lo prendevano in mano i ragazzi domandavano se fosse veramente un robot.

Fig. 6. L’operatrice Alessia che fa provare a Simone, 13 anni, il livello avanzato di Codix

Al quesito perché non ti sembra un robot? In molti hanno risposto che era troppo piccolo, non aveva sembianze umane, né braccia, non poteva parlare. Quando terminavano di programmarlo chiedevano se potevano fargli fare “più cose”, dargli “comandi utili” facendo intendere che il tipo di interazione possibile da parte del robot non era soddisfacente. Eppure, per tutta la durata della interazione, quando qualcosa nei comandi non quadrava, in un primo momento l’immaginario dei ragazzi oscillava tra l’ipotesi di aver scritto in maniera errata il codice e l’ipotesi che il robot avesse una volontà di voler fare o non fare i comandi inviati. Nell’immaginario dei più piccoli il robot, per il semplice fatto di diventare improvvisamente animato dopo l’invio dei codici, diventava “vivo”. Se inizialmente ai loro occhi appariva come una pallina nera, in seguito alla programmazione ispirava simpatia, goffaggine e una piccola dose di ribellione quando qualcosa non funzionava. Nei genitori Ozobot ha rivelato un elemento in più, ovvero una relazione con la rappresentazione simbolica della malattia. Una mamma, per esempio, vedendo che i codici potevano essere corretti mi disse «sarebbe bello se fossimo dei robot, quando qualcosa non va, lo puoi aggiustare, velocemente e senza dolore» (Mamma di Nina, 6 anni; Diario di campo, aprile, 2017).

Eye-Oh! al suo stato embrionale prevede l’unione di diversi ambiti, dal disegno vettoriale, ai principi ottici, alla scoperta della realtà virtuale attraverso l’assemblaggio di un visore in cartone. Questo laboratorio è stato modificato sostanzialmente rispetto al primo anno di attività, sdoppiandosi in due laboratori, uno per la grafica vettoriale e uno per il visore di realtà virtuale, aspetto che recentemente è stato esteso con l’introduzione di altri progetti (per esempio HanaHana) riguardanti le diverse possibilità della realtà virtuale.

Fig. 7. Alessio, 10 anni, totalmente immerso nel visore da lui costruito (fotografia di Davide de Martis).

Il laboratorio inizia con un pezzo di cartone sagomato, che i ragazzi devono imbastire per costruire il proprio personalissimo visore. Il fatto di vivere un’esperienza immersiva a partire da un oggetto semplice come un pezzo di cartone che chiunque può montare, ha reso l’esperienza stessa ancora più incredibile.

Il visore di realtà aumentata è un oggetto dal potenziale ancora inesplorato e che può avere ampi campi di applicazione. Viene applicato anche in medicina, ad uso sperimentale come terapia alternativa per il dolore. Ma poiché le attività non si concentrano sulla malattia, cosa ci può dire sul contesto? Molti hanno espresso il desiderio di vivere esperienze immersive in contesti che non avevano mai visto, come visitare una città straniera, andare sulla luna, volare o nuotare in un mare caraibico. Poiché i macchinari medici a cui sono collegati mentre fanno le cure non permette loro di muoversi con agio (tenendo anche conto dello stato di salute che li rende deboli), il visore di realtà aumentata, che richiede un movimento minimo della testa, permetteva loro di evadere momentaneamente dallo spazio in cui si trovavano. Michele (13 anni) ha detto di voler andare sott’acqua «perché da quando faccio le cure non posso andare al mare e tanto meno nuotare e mi manca molto farlo» (Diario di campo, marzo, 2017). Questo permette loro di vivere anche un’esperienza che per qualche istante li fa uscire non solo dallo spazio che vivono ma anche dal loro stesso corpo. La tensione tra il dentro e il fuori l’ospedale appariva enorme e dolorosa emotivamente per i ragazzi. Abbiamo quindi scelto di portare il fuori dentro sfruttando le capacità della realtà virtuale immersiva.

Preent, introduce i partecipanti alla modellazione attraverso alcuni esercizi per imparare a muoversi nella vista prospettica, spostare oggetti, modificarne la scala, eseguire somma e differenza booleana. Si prosegue con un ragionamento sulla tipologia di oggetto su cui si desidera lavorare e parallelamente si effettua una ricerca online sull’esistente, per prendere ispirazione e confrontare i risultati della ricerca con le proprie necessità. Si passa quindi all’ideazione di un concept e alla sua rappresentazione su carta, per comprendere meglio la forma e il volume che l’oggetto finale dovrà avere, per poi modellarlo attraverso un software e inviarlo alla stampante 3D che provvederà alla sua elaborazione.

Fig. 8. Il momento di attesa finchè la stampante 3D conclude il suo lavoro (fotografia di Davide de Martis)

La stampante 3D non ha avuto un’immediata relazione con il contesto di malattia in cui i ragazzi vivono. Ha avuto piuttosto una relazione con il mondo fuori l’ospedale e il valore simbolico attribuito alla progettualità. Per evitare di cadere nel rischio di far diventare la stampante uno “sfornatore di gadget” (parole degli operatori), si è deciso di incentrare l’attività sul dare competenze non tanto di modellazione quanto di progettazione. Ai ragazzi veniva chiesto di pensare ad un oggetto per loro utile, disegnarlo su un foglio, analizzarlo e poi modellarlo sul software. La stampante avrebbe fatto il resto. La progettazione ha un valore simbolico importantissimo, direttamente collegato alla dimensione di agency. La curiosità verso la stampante induce i ragazzi a volerne parlare con amici, compagni di scuola, maestre, etc. Spesso chiedono di poter progettare un oggetto non per sé stessi ma per qualcuno che li aspetta fuori dall'ospedale. Per diversi ragazzi questo rappresentava una restituzione verso tutte quelle persone al di fuori, verso cui la propria malattia aveva comunque creato un impatto. Come nel caso di Sara, 8 anni, che chiede di poter progettare un oggetto da portare alla sorellina, per scusarsi dato che i nonni non erano potuti andare alla sua recita per rimanere in ospedale con lei. O di Clara, 15 anni, che decide di creare un addobbo di natale personalizzato con tutti i nomi della sua famiglia, in quanto il ciclo di cure aveva “sospeso” il Natale. Se da un lato vi è questo desiderio di restituire verso l’esterno e sanare quei legami, dall'altro vi è una totale negazione delle relazioni all’interno dell’ospedale. La socialità tra pari è quasi inesistente in ospedale, soprattutto per evitare che quell’amicizia si crei nel valore della malattia, o venga messa a rischio dall'imprevedibilità della malattia. Alla luce di ciò abbiamo individuato una strategia vincente per creare indirettamente un senso di gruppo e di socialità all’interno del reparto, basato sulla condivisione e la restituzione. Si è cominciato a creare una sorta di archivio degli oggetti progettati e creati da alcuni pazienti per la stampa 3D, ed invece di proporre il catalogo online dei possibili modelli da stampare, si sono proposti ai ragazzi oggetti realizzati da altri pazienti, come è avvenuto per un avvolgi cuffie progettato da Ilaria (17) che è stato mostrato come esempio di progettazione e ha fatto da ispirazione per altri progetti. Daniele (9) ha risposto con entusiasmo a questo passaggio di idee: «Se volete far vedere agli altri bambini la mia navicella spaziale per me va benissimo. Mi piace questa idea» (Daniele 9 anni, Maggio, 2017)

Sulla base di queste esperienze positive gli operatori volevano proporre ai pazienti in degenza di individuare un “problema da risolvere” all’interno del reparto di degenza, per esempio l’eventuale mancanza di una manopola nel calcetto balilla o un bloccaporta per la sala adolescenti, e quindi progettare, creare, stampare l’oggetto e lasciarlo ad uso di tutti nel reparto, come segno del loro passaggio. In questo modo, si elimina la dimensione individuale dell’esperienza ospedaliera dell’interazione con la macchina e si tenta di creare una condivisione indiretta senza una coercizione alla socialità ma anche un rapporto positivo con lo stare in ospedale.

Queste modifiche e sperimentazioni nei laboratori, rispetto a come erano stati presentati all’inizio, sono il frutto della collaborazione costante tra operatori e antropologa. Nel dialogo quotidiano e nell’osservazione abbiamo costantemente messo in discussione i laboratori per cercare di trovare una coerenza rispetto al contesto.

Le forme della restituzione

La questione della restituzione per l’associazione è stata fin da subito una necessità a cui dare forma.

Una prima forma di restituzione era relativa alla comunicazione mediatica del progetto, per cui mi è stato chiesto di convertire la ricerca etnografica in storytelling. Fin da subito fu chiaro che in questa richiesta non vi era un’idea precisa di cosa significasse storytelling, ma era chiaro verso chi si doveva rivolgere e quali toni dovesse avere: doveva essere un trafiletto, di poche righe che descrivesse le esperienze dei ragazzi nei singoli laboratori e una descrizione del contributo dato da ogni membro del team rispetto alla disciplina di appartenenza; doveva essere presentato sul sito e quindi leggibile da chiunque. Chiedere dello storytelling – soprattutto in maniera poco definita – ad un antropologo sembra una richiesta legittima ed intrinseca alla disciplina, ma per quanto gli antropologi raccontino storie, non lo fanno con un linguaggio adatto allo spazio pubblico (Eriksen 2006). È stato quindi interessante porre me stessa e la mia disciplina davanti al concetto di storytelling, ed in un certo senso mi ha fatto percepire uno stato di libertà maggiore di quanto non mi abbia mai permesso la scrittura accademica. Ma come farlo? Di cosa parlare? Quale linguaggio adottare? Ho scelto di riportare in maniera simbolica quanto avveniva in ospedale, restituendo non il dramma della malattia quanto la bellezza dei ragazzi durante i laboratori. E ho scelto di farlo con un linguaggio che fosse comprensibile ad un pubblico molto giovane richiamando lo stile narrativo che avevano i pazienti più giovani nel raccontare sé stessi. Diverse narrazioni sono state rese visibili per un anno sul sito dell’associazione come supporto narrativo per la descrizione dei laboratori[9].

Marco (13 anni), Luca (16 anni), Andrei (11 anni) e Gianandrea (16 anni) sono stati in posti incredibili. Alcuni hanno volato, altri sono stati nello spazio, altri ancora sott’acqua… È bastato veramente poco e non si sono spostati dal letto.

Prendete del cartone, piegatelo, aggiungeteci delle lenti tridimensionali e immergetevi nella realtà virtuale. Non è fantascienza, ma Eye-oh!, il robottino che ha mostrato ai nostri giovani maker le mille potenzialità del VR cardboard.

Marco è stato per la prima volta sulle montagne russe.

Gianandrea ha fatto un giro sotto la tour Eiffel.

Luca ha spiccato il volo, volteggiando tra le stelle.

Andrei ha nuotato con le balene.

Sono state esperienze uniche, che non avevano mai vissuto prima.

La meraviglia più grande nasce dalla possibilità di vivere queste esperienze attraverso oggetti creati con le nostre mani. I ragazzi hanno costruito e decorato il proprio visore utilizzando una sagoma di cartone e adesivi in vinile disegnati da loro. Una volta indossato il visore, il mondo intorno sparisce e improvvisamente si cammina per le strade affollate di New York, finché non si comincia a fluttuare nel cielo. Ed è possibile percepirlo nel proprio corpo, quel momento di suspense prima della discesa dalle montagne russe, o il canto magico delle balene, con il rumore ovattato del mare nelle orecchie.

La realtà aumentata fornisce un’opportunità unica per esplorare le frontiere della tecnologia e delle nostre impressioni. Non per dimenticare il luogo in cui siamo, ma per tornarci con un nuovo stupore negli occhi.

Verso la fine dell’anno si è reso necessario individuare una metodica in grado di valutare il primo anno di operatività su richiesta dei principali finanziatori, per permettere la continuità del lavoro. All’interno del team nessuno aveva competenze per strutturare una valutazione, ma si è ritenuto interessante sperimentare “un’antropologia valutativa” in collaborazione con due colleghi sociologi, Erica Adamo ed Eugenio Graziano, agli inizi della loro carriera nella ricerca sociologica per la valutazione di politiche pubbliche.

La collaborazione con i sociologi è stata interessante, anche se la qualità dei dati era stata viziata dal fatto che lo strumento di raccolta, quale il questionario, era stato costruito troppo tardi e non si era rivelato adatto rispetto alla discontinua variabilità nella partecipazione dei ragazzi ai laboratori. L’etnografia, dall’altra parte, essendo stata prodotta dalla mia presenza costante nell’ospedale, riusciva a raccogliere maggiori informazioni e a non farsi mettere in crisi dall’alta variabilità del campione di cui si necessitava; in più l’analisi antropologica riusciva anche a dare significati che numeri e questionari non sono stati in grado di raccogliere. D'altra parte, sembrava mancasse un approccio che permettesse di comprendere come utilizzare la ricerca etnografica per quel fine. In questo senso il lavoro con i sociologi – e con la letteratura sociologica – è stato prezioso per individuare un frame che orientasse la ricerca e i contenuti.

Abbiamo preso letteralmente in mano il progetto, lo abbiamo esaminato per chiarirne gli obiettivi, abbiamo individuato le dimensioni di analisi e riflettuto su quali strumenti utilizzare per costruire una valutazione del progetto e non delle persone (operatori ma anche partecipanti). L’antropologia, in questo caso, aggiunge valore per la sua abilità di unificare pezzi apparentemente contraddittori e frammentati in una storia coerente e di vedere i pattern comportamentali o di dare significato alle singole specificità. Ciò che ha reso questo esperimento particolarmente interessante e personalmente abilitante è stato soprattutto il non limitare la ricerca etnografica alla descrizione dell’esistente ma aprire lo spazio per suggerimenti e possibili migliorie.

La forma di restituzione, personalmente più gratificante, è stata quella che si è giocata unicamente sul piano della relazione e non sulla scrittura. Ovvero il dialogo costante e tempestivo avuto quotidianamente con gli operatori e che si è rivolto direttamente ai partecipanti. È di difficile descrizione, poichè non un’analisi strutturata a cui è stato dedicato un tempo a sé stante, rispetto al tempo della ricerca e che è configurato in ciò che viene definito generalmente ricerca-azione.

Il metodo progettuale e i contenuti dei laboratori si sono arricchiti grazie alla maggiore profondità data dall’analisi antropologica sulla conoscenza acquisita rispetto al contesto, focalizzando i laboratori sulle necessità mancanti per rendere l’esperienza ospedaliera e laboratoriale più umanizzata: si è cominciato ad hackerare (modificare e quindi riappropriarsi) lo spazio e gli oggetti circostanti, lavorando sulla costruzione dell’idea di un corpo “potente” piuttosto che bello, la creazione di relazioni indirette attraverso la trasmissione di conoscenze e “segni”, aprendo uno spazio per l’accettazione dell’essere qui e ora, il tutto per ripensare ad un’identità che non fosse quella di paziente ma riscoprendo le potenzialità perdute dell'essere adolescente o bambino.

Conclusione: Quale ruolo per l’antropologia nel design? Quale ruolo per il design nell’antropologia?

Nel corso dell’esperienza di ricerca è stato palese come antropologia e design fossero due dimensioni che facilmente potevano dialogare tra loro, superando le sostanziali differenze che li caratterizzano. Queste differenze sono riconducibili al fatto che l'antropologia tende ad applicare un approccio critico, mentre il design è sostanzialmente orientato verso processi trasformativi. Inoltre, essendo giovani professionisti alle prime armi, era anche palese la differenza nei background educativi: i percorsi universitari non insegnano agli aspiranti antropologi il significato e le diverse declinazioni dell’antropologia applicata, creando una scissione drammatica tra le competenze acquisite e la possibilità di renderle utilizzabili in ambito lavorativo, limitando quindi le possibilità future di uno studente di antropologia. I designer, dall’altro lato, percorrono un sentiero coerente tra l’apprendimento e il contesto lavorativo, anche in virtù della natura del design stesso. Infine una differenza di oggetto d’attenzione: l’antropologo volge la sua attenzione alla persona e all’interazione con l’artefatto e la costruzione dei suoi significati. Il designer invece dà maggiore attenzione all’artefatto e alla progettualità inteso come il metodo che conduce alla sua ideazione.

Fig. 10. il team in momenti di confronto e preparazione all’attività (fotografia di Davide de Martis)

Fig. 11. il team in momenti di confronto e preparazione all’attività (fotografia di Davide de Martis)

Il punto di incontro, in questo caso, tra i due nel momento della loro collaborazione sta proprio nella mission di DEAR, ovvero un approccio centrato sulla persona per una progettazione umanizzata e umanizzante. In questo senso i soggetti-pazienti diventano attori a cui vengono dati gli strumenti necessari per trasformare il proprio vissuto. Si crea quindi una nuova alleanza tra designer-antropologo-soggetto/paziente che funge da base per un design partecipativo e human centered.

Questo approccio alla persona e al suo contesto ma anche alla messa in discussione e alla sperimentazione dei laboratori è stato possibile a mio avviso grazie a ciò che Drazin chiama anthropological thinking che non riguarda solo l’osservazione e ricostruzione del contesto socioculturale ma anche anche una iterazione costante tra il campo e la progettazione (Drazin 2007: 34). Aggiungo però che questo anthropological thinking non ha origine naturale nell’antropologia che tende a rimanere immobile rispetto alla modificazione del contesto, ma è propria della design anthropology che ha incorporato in essa la capacità trasformativa e iterativa del design. Come ci dice Kilbourn:

Expansion of the territory of work suggests that the role of the researcher will not only include seeing (observation) as a form of engagement, but also making (design). This redefines the participant-observer role to a facilitating provoker or an active and reflexive reengagement with the context of analysis (Kilbourn 2013: 71).

Questa appropriazione e mescolanza di approcci tra designer e antropologa è avvenuta in maniera naturale ed ha riguardato entrambi gli attori. Il mezzo fondamentale che ha permesso ciò è stata l’osservazione dei ruoli giocati dagli oggetti nelle diversi interazioni, riconoscendo come nessuno di essi fosse neutrale rispetto al contesto. Il ruolo giocato dagli oggetti ha creato lo spazio di collaborazione, non solo tra me in quanto antropologa e gli operatori ma anche con i ragazzi stessi. Un aspetto interessante e inaspettato per la mia figura, è stato quello di diventare partecipe della costruzione dei concetti da cui prendevano forma le sperimentazioni. È vero in parte quanto dice Drazin (2007) sulle interazioni tra concetti di design e dati contestuali: «Design concepts by contrast are explicated and given meaning by contextual data such as narratives, user studies, interviews, photographs, and so on. In practice, contexts are deployed to explain concepts rather than the other way around» (2007: 42). I dati supportano il concetto ma in questo caso reputo che i concetti abbiano permesso di materializzare il contesto, di renderlo tangibile, di dargli in qualche modo un significato e di creare un ulteriore spazio di ricerca. «Critical design, provides critique of the prevailing situation through design that embod[ies] alternative social, cultural, technological or economic values» (Dunne, Raby 2011: 28). In conclusione, è possibile rispondere alla provocazione di Otto e Smith quando dicono:

Anthropology has an interest in social change and people’s imaginations of the future, as a discipline it lacks tools and practices to actively engage and collaborate in people’s formation of their futures. One of design anthropology’s challenges is to develop such tools and practices of collaborative future making (Otto, Smith 2013: 3).

Ed è proprio nella relazione tra le due discipline che esse aprono la possibilità di strumenti e pratiche per una “collaborative future making”.

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[1] Fonte http://www.designaround.org/mission/ (ultimo accesso il 3/2/2019)

[2] I software open source sono dei software il cui codice è accessibile, modificabile e migliorabile da chiunque, non solo dallo sviluppatore originario. Per maggiori approfondimenti rispetto alla cultura hacker e la programmazione aperta si faccia riferimento a Coleman G. (2012) Coding Freedom: the Ethics and Aesthetics of Hacking disponibile in versione Open Access https://gabriellacoleman.org/Coleman-Coding-Freedom.pdf

[3] Scaricabile sul sito dell’associazione http://www.designaround.org/roboandbobo/

[4] Tutti i nomi dei pazienti sono stati cambiati per tutelarne la privacy.

[5] Su consenso informato e antropologia, pur non essendo focus di questo articolo https://www.americananthro.org/ParticipateAndAdvocate/Content.aspx?ItemNumber=13144 e l’approccio critico di Carolyn Fluehr-Lobban https://www.jstor.org/stable/44126554?read-now=1&seq=1#metadata_info_tab_contents

[6] http://roboandbobo.designaround.org (ultimo accesso 27/02/2019).

[7] I laboratori, qui di seguito descritti, fanno riferimento al primo anno di attività di Robo & Bobo in Ospedale, periodo temporale a cui fa riferimento l’esperienza dell’autrice rispetto al seguente articolo. Ormai giunto al suo terzo anno di vita, Robo & Bobo ed i suoi laboratori, hanno visto una riprogettazione nei metodi didattici, percorsi ed output, ma le tecnologie utilizzate sono rimaste le stesse.

[8] Sul biohacking come pratica si faccia riferimento a Delfanti 2013.

[9] Alcune sono visibili sul sito del progetto http://www.designaround.org/roboandbobo/metodo/