Modalità di collaborazione e ruolo pubblico dell’antropologia in una consulenza di ambito coreutico

Cristiana Natali

Università di Bologna

Table of Contents

Le modalità di collaborazione con la committenza
Il ruolo pubblico dell’antropologia
Bibliografia

Abstract. In January 2017 I was involved as a consultant in the creation and elaboration of a project, promoted by Simona Bertozzi, an Italian contemporary dance choreographer, as part of the initiative MigrArti-performance. For this initiative, the Italian Ministry for Arts and Culture selected projects which mixed artistic forms including a «preparatory series of workshops with the participation and involvement of immigrants, especially of second generation young immigrants, in order to promote intercultural dialogue»[1]. The project involved the Tamil bharata natyam teacher Sharmini Kavithasan and people from the Associazione Unione dei Tamil d’Italia. The project won the 2017 MigrArti-performance award and in June-July 2017 the workshops took place. The participants were 16 children and young girls from Sri Lankan Tamil families living in different Italian towns. The workshops were carried out in Genoa and Bologna for a total of ten days. This paper illustrates the methods of collaboration with the commission and the impact of the project in terms of public anthropology.

Keywords: Simona Bertozzi; bharata natyam; tamil srilankesi; antropologia della danza; MigrArti.

Nel gennaio del 2017 sono stata coinvolta come consulente nell’ideazione e realizzazione del progetto Lotus, promosso dalla coreografa Simona Bertozzi[2] (associazione culturale Nexus[3]), nell’ambito del bando MigrArti-spettacolo. Il bando del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo selezionava progetti in cui venissero condivise «forme di lavoro artistico» che prevedessero «un percorso propedeutico a carattere laboratoriale con la partecipazione e il coinvolgimento di immigrati, in particolare di giovani di seconda generazione, con l’obiettivo di promuovere il dialogo interculturale»[4].

Il bando è stato vinto e tra giugno e luglio 2017 sono stati avviati i laboratori, che hanno visto la partecipazione di 16 bambine e ragazze tamil dello Sri Lanka residenti a Biella, Genova, Reggio Emilia e Bologna. I laboratori si sono svolti a Genova e a Bologna per un totale di dieci giorni di lavoro. Le partecipanti – sotto la guida dell’insegnante di danza contemporanea Simona Bertozzi e con la collaborazione dell’insegnante tamil di danza indiana bharata natyam (cfr. infra), Sharmini Kavithasan[5] – hanno realizzato una composizione coreografica di quaranta minuti che intrecciava i due stili coreutici e che è stata presentata attraverso le cosiddette “restituzioni”, dimostrazioni pubbliche in forma di spettacolo.

Le restituzioni si sono svolte inizialmente a Bologna, nell’ambito della rassegna delle attività estive del comune (Bologna Estate) nel cortile di Palazzo Poggi, nel cortile del Museo Civico Medievale e in uno spazio compreso nel museo di arte moderna MAMbo[6]. A ottobre, poiché il progetto si era classificato tra i primi cinque a livello nazionale, la restituzione è avvenuta a Pistoia, al teatro Manzoni, nell’ambito del Premio MigrArti 2017.

Ogni rappresentazione, sia all’aperto, sia in teatro, è stata seguita da un incontro al quale hanno partecipato le due insegnanti di danza, una rappresentante dell’Associazione Unione dei Tamil d’Italia, un rappresentante dell’associazione Nexus e io. La rappresentante dell’Associazione Tamil fungeva anche da interprete tamil-italiano e italiano-tamil. Nell’incontro venivano preliminarmente delineate le cause della presenza di tamil srilankesi in Italia (e quindi la guerra civile che ha insanguinato il paese tra il 1983 e il 2009[7]) e le caratteristiche della danza bharata natyam; le coreografe spiegavano poi le modalità di realizzazione del lavoro e le riflessioni che da questo erano scaturite, mentre i membri delle associazioni illustravano le peculiarità del progetto. Infine al pubblico era lasciata la possibilità di porre domande.

Tutto il percorso di realizzazione dei laboratori e delle restituzioni è stato seguito dal fotografo e video operatore Luca Del Pia, il quale ha prodotto un documentario di 20 minuti nonché un video di 4 minuti che illustra le caratteristiche salienti del progetto[8].

Per documentare il progetto ho proceduto sia attraverso la stesura del diario di campo, sia attraverso la realizzazione di interviste (audio e/o video[9]), sia infine attraverso la raccolta di materiali dei quali ho sollecitato la produzione (disegni e testi delle bambine e delle ragazze che hanno danzato e pareri di alcuni spettatori ai quali ho chiesto la disponibilità a scrivere un commento dello spettacolo).

Il progetto Lotus sarebbe passibile di un’analisi su vari livelli, ma ho raccolto l’invito della curatrice di questo numero della rivista a concentrarmi su due aspetti del lavoro: da un lato le modalità di collaborazione tra committenza e consulente, dall’altro le ricadute del progetto in termini di antropologia pubblica.

Le modalità di collaborazione con la committenza

Quando sono stata contattata da Simona Bertozzi, in qualità di antropologa della danza, per collaborare alla realizzazione di un progetto da presentare al bando MigrArti, l’esigenza che mi era stata manifestata era quella di individuare associazioni di migranti che avessero delle attività di danza e che fossero interessate a condividere un lavoro artistico. Mi è parso opportuno portare l’attenzione sulle attività delle associazioni di tamil srilankesi, le quali organizzano regolarmente corsi di danza bharata natyam per i giovani.

Ho quindi preso contatto con alcuni rappresentanti delle associazioni culturali tamil presenti in Italia[10] per spiegare il progetto e indagare il loro interesse alla partecipazione. L’adesione è stata immediata e convinta, e velocemente sono state avviate le procedure per potere partecipare al bando.

Una volta vinto il bando, la necessità principale della coreografa è stata quella di conoscere in modo approfondito la tecnica di danza, il bharata natyam, con la quale avrebbe dovuto confrontarsi e, a questo scopo, ho fornito differenti materiali (testi e video, cfr. infra). Da parte mia ho fatto presente l’esigenza di includere nel progetto modalità di lavoro che contraddistinguono la pratica antropologica, come ad esempio la realizzazione di interviste ai partecipanti.

Dal 9 all’11 giugno 2017 si è svolto a Genova il primo laboratorio. Tutti i soggetti coinvolti erano al loro primo incontro con modalità di lavoro nuove: da un lato le bambine e le ragazze tamil non avevano mai studiato danza contemporanea, né lo aveva fatto Sharmini (la materia non rientrava tra quelle presenti nel suo curriculum, cfr. nota 5); dall’altro Simona non aveva mai lavorato con allieve formatesi su questa tecnica. I tre giorni a Genova hanno visto alternarsi spiegazioni teoriche, lezioni di danza, analisi del repertorio delle danze conosciute dalle partecipanti, momenti laboratoriali[11].

Introducendo il programma delle giornate alle partecipanti e ai loro genitori, Simona ha illustrato il senso del progetto, e qui è emersa immediatamente la necessità della mediazione antropologica, nei termini di un’attenzione sia alla traduzione sia al livello del registro linguistico. Gli adulti, compresa Sharmini, non avevano tutti una perfetta padronanza della lingua italiana, e quindi è stata fatta presente la necessità di una sistematica traduzione in tamil. In secondo luogo è apparsa manifesta l’esigenza di una semplificazione del linguaggio, soprattutto per quanto concerneva le spiegazioni relative al lessico della danza contemporanea; tale esigenza si è manifestata nel corso di tutti i laboratori, considerando anche la giovane età delle partecipanti.

Per illustrare tale processo ritengo opportuno riportare le parole di Simona Bertozzi, con la quale ho ripercorso le tappe del progetto in una lunga intervista, dalla quale, al fine di dare un’immagine compiuta del lavoro svolto, attingo ampi stralci. Prima di citare Simona si rende però necessaria una premessa[12]. La consulenza antropologica in ambito coreutico aveva come obiettivo finale la realizzazione di un “prodotto” (la “restituzione” o “spettacolo”) da presentare al pubblico, e in tal senso differiva profondamente da un’etnografia del processo che ha condotto alla produzione coreografica: lungi dall’assistere a ciò che accadeva, in quanto consulente ho partecipato attivamente (anche) alla costruzione della coreografia (cfr. infra). La realizzazione dell’intervista a Simona, che ho svolto al termine del percorso, dopo che tutti gli spettacoli erano stati messi in scena, non rientrava nelle richieste della committenza, così come non vi rientravano la raccolta delle testimonianze di Sharmini, delle danzatrici o dei loro parenti (fatti salvi brevi momenti utili per la realizzazione del documentario); neppure la richiesta di un parere sullo spettacolo rivolta agli spettatori (cfr. nota 16) era contemplata.

L’attività di consulenza si configura come profondamente diversa dall’attività che si svolge per condurre una ricerca etnografica: da un lato si nutre, come è ovvio che sia, delle competenze antropologiche acquisite dal ricercatore grazie alle sue esperienze precedenti e, quando la committenza lo permette (come in questo frangente), anche di strumenti metodologici propri della professione antropologica, per indagare ulteriormente il fenomeno al quale il ricercatore prende parte. Dall’altro, qualora sia permesso un approfondimento dell’indagine, il consulente/ricercatore si trova nella condizione imbarazzante di potere chiedere al committente una valutazione sul proprio lavoro di consulenza. Credo che, con tutte le cautele metodologiche del caso (difficilmente l’intervistato si esprimerà in termini negativi!), raccogliere il parere della committenza sul nostro operato ci permetta di cogliere un punto di vista che non emergerebbe altrimenti e soprattutto ci consenta una riflessione condivisa. Se, come scrive Alessandro Portelli, l’intervista è, tra l’altro, fonte di conoscenza «sulla relazione fra la persona che parla e la persona a cui parla» (2010: 9), ecco che uno scambio dialogico con questi presupposti si profila come un’occasione unica per riflettere sulla relazione che si è costruita tra consulente e committente, non solo per ciò che viene effettivamente detto, ma anche per le modalità discorsive che intercorrono, per la dinamica dialogica che si sviluppa tra gli interlocutori.

Dal punto di vista metodologico, lasciare ampio spazio alle parole del committente permette di comprendere a fondo il lavoro del consulente dalla prospettiva di chi ha scelto di avvalersene, ed è in ragione di questo che ritengo importante riportare ampie citazioni dell’intervista a Simona, la quale si è così espressa relativamente all’esigenza della semplificazione del linguaggio da me sottolineata fin dai primi giorni di lavoro:

Parlavo con un operatore di un festival che mi chiedeva appunto alcuni aspetti di questo progetto e mi diceva «Il rapporto con l’antropologa...» e io faccio «Guarda, aldilà della bellezza del dialogo, dell’approfondimento, dell’arricchimento proprio che ha portato il dialogo con te... avvicinare questa tua esperienza con loro…». Quindi io sono entrata nel lavoro avendo percepito anche l’entità della tua esperienza, che hai vissuto, quindi per me era già un qualcosa che andava ben oltre la pratica e la creazione di questo evento, insomma. Mi sentivo già dentro a una percezione maggiore, ma soprattutto – all’atto immediatamente pratico e preziosissimo – semplificare... ovvero farmi una chiarezza, farmi proprio chiarezza rispetto a quelli che erano gli obiettivi e le necessità, il linguaggio e il vocabolario. Questo proprio perché tu mi hai detto sempre: «L’antropologo chiede all’altro di venire a noi... non che noi portiamo a... ma chiediamo di...» e così. Ero io lì che dovevo chiedere cose, ma chiedere permettendo all’altro di portarmi il suo. E questo ha significato per me, intanto, rivoluzionare moltissimo il vocabolario, la richiesta... farmi una grandissima chiarezza. Non so se sto rendendo giustizia al valore dell’antropologia però, di fatto, è stato un arricchimento maggiore perché vai all’osso della questione, cioè all’ossatura. E quando vai all’ossatura ti senti di aver incontrato qualcosa di speciale, ecco! Non capita quasi mai insomma questo [ride] o comunque – insomma per me – così in maniera che ti resta dentro perché senti che tocchi l’essenziale [enfasi] (intervista a Simona Bertozzi, 26 ottobre 2017).

Nella prima giornata di lavoro a Genova Simona ha poi chiesto a Sharmini di tenere una lezione di danza bharata natyam per le bambine e le ragazze. È necessario qui accennare brevemente ad alcuni aspetti storici e contenutistici di questa forma coreutica per poterne comprendere l’utilizzo nel contesto del progetto Lotus.

Il bharata natyam è considerato uno degli stili classici-contemporanei della danza indiana e dal punto di vista formale le sue posture sono attestate, sin da tempi antichi, nelle sculture e nei bassorilievi. Il bharata natyam è tradizionalmente legato alla figura della devadasi, la danzatrice templare. Le devadasi (“serve del dio”) erano figure ritualmente rilevanti nella società indiana sino a tutto l’Ottocento e la loro presenza presso i templi e presso le corti è attestata – ma non è da escludersi che sia più antica – a partire dal V secolo. In quanto simbolicamente sposate alla divinità, le devadasi erano figure di buon auspicio, e in virtù di tale prerogativa era loro compito partecipare a cerimonie nel tempio, in occasione di processioni e nella vita pubblica. Oltre al matrimonio rituale con la divinità, le devadasi contraevano un legame con un protettore di alta casta e benestante. Tale associazione contribuì a restituire delle devadasi un’immagine equivoca che incorse nella condanna dei colonialisti britannici. Il governo coloniale non solo tolse ai templi il sostegno economico proveniente dalla protezione di corte, ma condannò le danze come contrarie alla morale. Agli inizi del Novecento la danza, malvista dal governo coloniale e disprezzata dalle élite indiane, visse un periodo di grave crisi. Le danze delle devadasi tornarono ad acquisire importanza nel contesto del revival nazionalistico degli anni Trenta e Quaranta. Il movimento revivalista, influenzato dagli orientalisti del XIX secolo, ebbe inizio nel Sud dell’India, dove la forma coreutica sadir venne istituzionalizzata come bharata natyam. Rukmini Devi (1904-1986) è la figura centrale dell’“addomesticamento” (Natali 2012) e quindi della riabilitazione della danza: da un lato la “depurò” dai suoi elementi erotici – eliminando le coreografie in cui la devozione (bhakti) nei confronti della divinità era espressa con chiare metafore sessuali – rendendola in tal modo un’attività non solo possibile ma addirittura auspicabile per le giovani donne delle caste elevate; dall’altro istituzionalizzò il nuovo stile coreutico fondando a Madras nel 1936 la scuola Kalakshetra, che divenne l’istituzione d’eccellenza del bharata natyam. Ebbe così inizio la diffusione della danza all’esterno dei templi, sia grazie alle devadasi che si convertirono in insegnanti, sia soprattutto grazie al progressivo svilupparsi di una categoria di danzatrici non ereditarie che diffusero il bharata natyam nei teatri e nelle scuole.

Il bharata natyam che viene praticato oggi è in gran parte il risultato della codificazione operata da Rukmini Devi. Una rappresentazione “classica”, che dura circa due ore e mezza, si apre con la danzatrice che, entrando dalla destra del palcoscenico, rende omaggio alla divinità, al guru, ai musicisti, al pubblico. A questo saluto segue, al centro del palcoscenico, l’omaggio alla terra, alla quale la danzatrice chiede scusa in quanto si accinge a calpestarla. Dopo questo preludio vengono eseguiti di norma sette tipi di danza. I primi brani, nei quali la danzatrice esegue sequenze di esercizi, sono soprattutto di danza “pura” o “astratta” (nrtta), mentre quelli che seguono presentano molte parti in cui vi è l’espressione “mimica” (abhinaya). I gesti delle mani (hasta mudra) e le espressioni del volto permettono di interpretare le canzoni che narrano episodi della mitologia hindu. Attraverso le mudra si possono infatti rappresentare innumerevoli oggetti, personaggi, stati d’animo, ecc. La danzatrice alterna momenti nei quali impersona le divinità, o altre figure della narrazione, ad altri passaggi nei quali si rivolge alle divinità in quanto devota (Puri 2004).

Lo stile coreutico insegnato da Sharmini va ricondotto proprio alla tradizione del Kalakshetra, e questo si è reso evidente nella struttura della sua lezione. Simona spiega in questi termini la scelta di chiedere a Sharmini di tenere una lezione di danza bharata natyam per le bambine e le ragazze:

Allora... diciamo per due ragioni sostanziali. Uno, perché la mia conoscenza del bharata natyam era abbastanza limitata, ovvero avevo avuto dei primi approcci durante l’università, al Dams, perché in qualche modo si era affrontato parlando di antropologia teatrale, della danza indiana, anche se era più kathakali [una forma di teatro-danza indiano], che quindi in realtà era un’altra dimensione, però alcuni elementi... Ad esempio gli occhi, le mudra... Insomma qualcosa era già... e anche alcuni elementi proprio più di rimando, di risonanza generale sul linguaggio. Però, insomma, volevo chiaramente addentrarmi in maniera più specifica per comprendere quali potevano essere poi gli elementi di incontro con la danza contemporanea. Quindi avevo visto le tue pubblicazioni, abbiamo guardato la lezione[13] di Alessandra [Pizza[14]], quindi ho cominciato ad addentrarmi dentro questa dimensione di pratica e anche di antichissimo rigore, perché lo percepisci subito. Però ho detto «No, adesso l’atto pratico...» volevo avere un’esperienza tangibile, diretta. E volevo vedere come [l’insegnante] si relazionava con dei bambini in questa pratica, perché [è] rigorosissima, perché è un codice di rappresentazione esterna estremamente severo. Quindi volevo capire se questa severità e questo approccio venivano mantenuti tali anche con dei bambini, visto che poi ho dovuto anche io avvicinarmi, con gli elementi della danza contemporanea, a loro. Quindi volevo capire con che tipo di rigore potevo affrontare questo tipo di incontro. E quindi, appunto, conoscenza mia e anche [l’]approccio con la giovane età soprattutto mi interessava comprendere (intervista a Simona Bertozzi, 26 ottobre 2017).

Indubbiamente se la coreografa non avesse preso questa decisione, sarebbe stato compito mio suggerirla, ma in questo caso, come in molti altri nel corso della produzione di Lotus, le scelte di Simona si sono rivelate quanto mai orientate a una sistematica reciprocità.

Fig. 1. Lezione di danza bharata natyam (fotografia di Luca Del Pia)

Alla lezione di bharata natyam è seguita una lezione di danza contemporanea tenuta da Simona, alla quale Sharmini ha deciso di partecipare, avviando in tal modo un rapporto di collaborazione che si è poi sviluppato nel corso dei giorni successivi e che si è protratto per tutta la durata del progetto:

L’abbiamo detto tante volte: è stata sorprendente la sua [di Sharmini] immediata apertura, ad esempio, ad entrare in dialogo, dal primo giorno di lavoro insieme. Lei ha partecipato alla mia lezione, ovvero si è buttata nel vuoto, perché non poteva sapere esattamente cosa io avrei proposto. So che aveva mostrato dei video alle ragazze – che poi me l’hanno detto – per cui ha fatto un piccolo salto nell’immaginario della danza contemporanea, però, insomma, dal vedere, quindi anche vedere cose che, come mi hanno detto [le ragazze] «No, erano strane, erano difficili...» a decidere di partecipare immediatamente in mezzo alle ragazze, quindi esattamente come una di loro... Mi ha molto sorpreso, soprattutto [questo] ha permesso un’immediata relazione, un dialogo immediato, cioè ha proprio... Davvero penso di doverla ringraziare moltissimo per questo perché ci doveva essere anche un momento di... un primo impatto, un primo ghiaccio da rompere. In realtà con questo suo atteggiamento ha permesso immediatamente di entrare in un dialogo, di trovarci nello stesso territorio. Quindi questo è stato sicuramente l’elemento sostanziale e la nota principale con cui dare [il] via al percorso. Io mi sono trovata benissimo, nel senso che la sua apertura è rimasta poi tutto lungo il suo cammino, perché appunto, sì, nell’entrare, nel cercare di apprendere elementi del linguaggio della danza contemporanea, ma anche nell’osservazione, un tratto dopo l’altro, delle pratiche che facevamo, delle prime sezioni anche di coreografia dove magari anche timidamente a volte, non so... io segnalavo qualcosa che secondo me non funzionava, mi giravo e lei aveva quell’espressione che diceva «È vero, non funziona» (intervista a Simona Bertozzi, 26 ottobre 2017).

Fig. 2. Lezione di danza contemporanea (fotografia di Luca Del Pia)

Simona, a sua volta, ha in seguito preso parte a una delle lezioni di bharata natyam tenute da Sharmini, sperimentando le dimensioni del learning by doing e della “partecipazione osservante”, aspetti centrali del lavoro antropologico in contesti performativi. Per la danza vale infatti quanto scrive Loïc Wacquant a proposito della boxe: «Comprendere l’universo della boxe esige di immergervisi in prima persona, di farne apprendistato […]. L’apprendimento sul campo è condizione indispensabile per una conoscenza adeguata dell’oggetto» (2002: 60-61).

Fig. 3. Lezione di danza contemporanea (fotografia di Luca Del Pia)

C.: Ecco, in questo senso tu hai usato una parola che noi antropologi usiamo molto, cioè hai detto che sei diventata apprendista.

S.: Sì, sì, apprendista […]. Ho partecipato a questa sua lezione e quindi il mio apprendistato è stato – come dire – mostrare a lei che... esattamente quello che lei aveva fatto ed esattamente quello che io intendevo fare e quindi [mi sono detta]: «Ok, entriamo in questa dimensione di dialogo paritetico». Poi che [cosa] è successo: il mio apprendistato è stato motivo, anche per le ragazze che mi conoscevano poco, di... – anche in questo caso – di un dialogo su un territorio comune. Infatti, alcune di loro, specialmente la ragazza di Genova più grande, Achila, mi ha corretto in continuazione, proprio lei si prendeva la responsabilità. Ogni volta che Sharmini proponeva qualcosa, lei me lo proponeva, me lo traduceva, mi correggeva. Quindi, insomma, tutto quello che poteva essere un [pensiero di Achila:] «Ok, arriva la danza contemporanea, arriva un’insegnante, una coreografa che non conosciamo... va bene, sì, però poi io posso consigliare a lei e, appunto, aiutarla ad apprendere qualcosa che io conosco prima di lei». Questo è stato importante (intervista a Simona Bertozzi, 26 ottobre 2017).

Grazie ad Achila, una delle ragazze più grandi, Simona sperimenta «l’apprendimento mimetico per approssimazione felice», del quale ci parla Leonardo Piasere, nel quale «[s]i impara ottenendo il consenso, da parte di coloro che si imita, che quello che si fa va bene, o quasi» (Piasere 2002: 165). E proprio la presenza di ragazze grandi in un gruppo di bambine ha rappresentato una caratteristica peculiare di tutto il percorso. Se nel tempo si è rivelata strategica per la gestione del lavoro (cfr. infra), all’inizio l’eterogeneità del gruppo sembrava costituire più un problema che non una risorsa. Nei primi giorni, infatti, le ragazze avevano in genere mostrato una certa resistenza all’apprendimento di una tecnica nuova e in parte poco decifrabile; progressivamente abbiamo però assistito a un declino dello scetticismo, probabilmente anche in virtù del riconosciuto rigore necessario all’apprendimento della danza contemporanea, nonché al progressivo instaurarsi di un sentimento di fiducia nei confronti dell’insegnante. A proposito della differenza di approccio delle bambine e delle ragazze Simona spiega:

Chiaramente la differenza è sostanziale... con le bambine c’è un’empatia immediata dettata dal fatto che... una volta compreso che non c’è una ragione di rigidità da parte mia, quindi dopo i primi sorrisi, le prime parole... è stato abbastanza immediato. Per quanto riguarda Genova soprattutto, i primi giorni, per me è stato importante calarmi in una dimensione fisica che potesse includere alcune loro esigenze, magari non manifestate nel bharata natyam, per chi lo praticava, però vicine alla loro possibilità, alla loro possibilità del corpo, alla loro animalità, no? Che a otto, nove, dieci, undici, sedici anni è ancora forte. Poi magari prende altre modalità, però fino a quell’età lì è forte quindi la pratica – non so – di un rapporto con la gravità, di andare al suolo, di sentire il corpo come hanno scritto nei disegni[15] «Libero, fluido... sì, devi avere le geometrie, sì però poi fai tutte le cose con quel movimento, no?» [Così] hanno scritto. E quindi ho percepito da subito quel loro... questa empatia forte, fortemente fisica e quindi immediata. […] [Le ragazze più grandi], per la loro forma mentis, per la loro età e per la loro anche maggiore pratica nel bharata natyam, alcuni elementi che portavano il rapporto con il proprio corpo e con l’azione... di maggior rottura sono stati percepiti inizialmente con un po’ più di rigidità. Ad esempio, abbiamo avuto anche – poi i nostri disegni sono stati rivelatori – in un paio di disegni, in uno in particolare, una ragazza aveva manifestato un po’ di malessere. Non era subito nelle sue corde trovarsi a praticare... soprattutto sentirsi con il proprio corpo in una dimensione destrutturata rispetto a elementi più noti, quindi ci è voluto un po’ più di tempo, ma quando dico un po’ più di tempo significa che abbiamo fatto tre giorni di lavoro a Genova e alla fine del terzo giorno, dialogando con loro, già si era capito che questa cosa poteva avere un suo cammino. Infatti, due delle ragazze che avevano più resistenze poi di fatto hanno invece voluto partecipare e l’altra sera, a Pistoia, erano quelle che dicevano «Non può finire qua» (intervista a Simona Bertozzi, 26 ottobre 2017).

Fig. 4. Bambine e ragazze realizzano disegni e testi scritti riguardanti il bharata natyam e la danza contemporanea (fotografia di Luca Del Pia)

La presenza di interpreti di età diversa sul palcoscenico è stata apprezzata anche dagli spettatori. Scrive ad esempio Velu Prabhakar Kumaravel, del Tamil Nadu (India meridionale), studente di ingegneria delle telecomunicazioni all’università di Bologna[16]:

The project Lotus considers the idea of fusing bharata natyam, the classical dance of Tamils with contemporary dance, which, in my opinion, seemed to work really well. […] As I grew in a country like India, I personally believe that diversity is always a strength. The team of the project has girls of different age groups, which added to the beauty. I think it was the most challenging part as well (comunicazione personale, 18 luglio 2017).

Essendo l’obiettivo del progetto quello di realizzare una composizione coreografica che intrecciasse i due stili coreutici, a Sharmini è stato chiesto di far danzare alle bambine e alle ragazze alcuni brani del loro repertorio. Ciò è stato accompagnato dall’interrogativo sulla liceità di utilizzare in modo non canonico un patrimonio coreutico del quale si conosceva la sacralità, e anche in questo caso la consulenza antropologica è servita a chiarire che la modalità più opportuna per sciogliere il dilemma era chiedere direttamente all’insegnante:

Già osservando la lezione di Alessandra [Pizza], dove ha mostrato quattro o cinque danze del repertorio... osservandole e anche capendo quanto contenevano di quella danza, quindi quanto potevano palesare immediatamente l’antico linguaggio, ma anche la risonanza nella contemporaneità di quella tecnica e di quel linguaggio […]. Quindi avevo già pensato, sin dall’origine della lezione, che mi sarebbe piaciuto utilizzare alcuni elementi delle loro danze di repertorio. Proprio per consolidare ulteriormente il dialogo con la contemporaneità. Io credo fortemente che non ci possa essere un dialogo con la contemporaneità se non si mette in gioco la tradizione, cioè quello che è un linguaggio depositato. Questo è il metodo che applico al mio percorso nell’ambito della danza contemporanea e quindi, a maggior ragione, ci tenevo molto a questo, a poter riprendere e utilizzare... Chiaramente, ecco, ad esempio mi preoccupava molto il fatto che pensavo che le avrei recuperate, magari che però non le avrei rispettate [enfasi], per esempio, in tutta la loro durata. Oppure potevo magari immaginare che potevano essere recuperate ma magari la disposizione dello spazio non era la medesima – infatti ti ho chiesto all’inizio e poi l’abbiamo chiesto molto anche a Sharmini – se poteva essere irrispettoso modificarne queste dimensioni, perché può essere vista... «Questa deve iniziare e finire così se no non la possiamo portare, non la possiamo presentare» (intervista a Simona Bertozzi, 26 ottobre 2017).

Sharmini non ha posto limiti all’utilizzo del repertorio “classico”, permettendo di integrarlo nella composizione finale e suggerendo soluzioni coreografiche. Ha inoltre proposto un’altra forma coreutica considerata una danza folk, il kuttu [17], nonché brani del repertorio riferiti alla commemorazione dei combattenti caduti delle LTTE[18] che hanno trovato spazio nelle “restituzioni” effettuate a Bologna e a Pistoia.

Ai tre giorni di laboratorio a Genova sono seguiti nove giorni di lavoro a Bologna (29 giugno – 7 luglio 2017, inclusivi delle date degli spettacoli), nei quali si è progressivamente costruita la coreografia grazie a un lavoro serrato, con una media di sei-sette ore al giorno di permanenza in sala danza. Rammenta Simona:

Io non ricordo di aver trascorso sei-sette ore in sala continuative con gli altri gruppi come ci è accaduto con questo gruppo di ragazzine […]. La presenza di ragazze più grandi qui mi ha molto aiutato nei momenti in cui magari giustamente ci si stancava o le informazioni erano troppe o l’insofferenza perché erano tante ore che io chiedevo delle cose... E mi rendo conto di aver richiesto molto e concentrato in poco tempo qualcosa che di solito nasce in più tempo. La presenza delle ragazze grandi ha molto aiutato in questo senso perché ogni tanto, appunto, le richiamavano all’ordine perché [si] sentivano comunque più forti anche loro [le piccole] di fianco alle ragazze più grandi anche per – come dire – emulazione [enfasi], no? E questo per esempio negli altri gruppi di adolescenti con cui ho lavorato non c’era (intervista a Simona Bertozzi, 26 ottobre 2017).

Le tre rappresentazioni all’aperto svoltesi nell’ambito della manifestazione Bologna Estate hanno concluso il periodo della permanenza del gruppo a Bologna. Il 6 ottobre la performance è stata realizzata in teatro, a Pistoia, nell’ambito del Premio MigrArti 2017.

Se inizialmente si è configurata come un aiuto diretto a Simona (nel fornirle materiali, supporto nella comunicazione, indicazioni sul repertorio tamil), la consulenza antropologica ha progressivamente coinvolto tutti i soggetti inseriti nel progetto. Da un lato è stata determinante nel considerare le esigenze, non direttamente riconducibili alla danza, dei genitori e delle partecipanti, ad esempio riguardo al cibo. Dall’altro ha garantito un confronto continuo con i componenti dell’associazione Nexus (Marcello Briguglio, project manager, e Beatrice Capitani, organizzatrice e amministratrice) e con gli altri professionisti coinvolti, con i quali si sono tenuti incontri periodici per riflettere sull’avanzamento del lavoro. Un dialogo serrato è stato sviluppato con Luca Del Pia sulle modalità di interazione con le danzatrici: al fotografo e operatore video ho segnalato ad esempio la necessità di non toccare le ragazze nel momento in cui si dovevano posizionare per gli scatti, e anche l’importanza di concordare quali fotografie fossero considerate accettabili dalle partecipanti[19]. Con Luca del Pia abbiamo poi a lungo discusso dei contenuti del video promozionale e del video di 20 minuti che ha documentato l’intero percorso.

Occorre segnalare che quella per l’associazione Nexus è stata una consulenza “facile”, nel senso che tutti i soggetti coinvolti – da Simona, a Sharmini, ai genitori, alle bambine e alle ragazze, allo staff organizzativo e ai professionisti – hanno mostrato una grande disponibilità al confronto e all’ascolto e, anzi, nelle riunioni periodiche sono stata continuamente sollecitata a esprimere un parere sull’andamento del lavoro e a manifestare dubbi e perplessità che potevano venirmi da uno “sguardo antropologico”, riconosciuto come fondamentale. Gli incontri hanno innescato riflessioni sulla centralità di pratiche comuni all’attività coreutica e a quella antropologica, quali l’ascolto, l’immersione, la partecipazione/osservazione, la scrittura (etnografica e coreografica), l’apprendistato, l’incorporazione, la risonanza.

Non potendo in questa sede approfondire tutte le implicazioni delle correlazioni individuate, mi limiterò ad illustrare il caso del concetto di risonanza per la sua valenza peculiare in una consulenza riguardante un’attività performativa di provenienza indiana. In ambito antropologico il termine risonanza è stato introdotto dall’antropologa norvegese Unni Wikan (1992, 2013) per tradurre la nozione balinese di keneh, la capacità di andare “al di là delle parole” per comprendere le forze motivazionali degli individui: «la risonanza assomiglia ad attitudini che noi potremmo definire simpatia, empatia o Verstehen» (Wikan 1992: 465). Per coloro che si occupano di espressioni artistiche dell’Asia meridionale il concetto di risonanza (sanscrito dhvani) è connesso all’idea, presente in alcune tradizioni di pensiero relative all’estetica, che la fruizione di un’opera d’arte avvenga proprio grazie alla possibilità di andare oltre i significati letterali e metaforici veicolati dal linguaggio – ossia grazie alla possibilità di andare “al di là delle parole” – e che ciò valga sia per la poesia sia per il teatro, ambito nel quale è compresa la danza. Obiettivo primario di uno spettacolo di bharata natyam è, infatti, indurre nello spettatore l’appropriato stato d’animo “stabile” (sthayibhava), condizione dell’insorgere nello spettatore del rasa. Il termine sanscrito rasa (lett. “sapore”, “succo”), designa, in tutte le tradizioni indiane, il piacere estetico (Pollock 2016). Si tratta di una condizione emotiva che riguarda sia l’interprete dell’esecuzione sia lo spettatore. In quest’ultimo il godimento estetico si sviluppa solo se vi è una competenza adeguata:

Il rasa non può essere esperito da colui che non è culturalmente iniziato, poiché la conoscenza e le abilità culturali, nonché la memoria sociale, sono legati in modo complesso a questa esperienza. Per i membri del pubblico culturalmente iniziato (i rasika) l’esperienza del rasa è un viaggio per la coltivazione dello stato emozionale della suprema auto-realizzazione – la beatitudine divina (Chakravorty 2004: 9).

Caratteristica peculiare del rasa è infatti la sua qualità universale, non soggettiva, non limitata all’esperienza ordinaria della danzatrice e del fruitore dell’opera. Ciò che lo spettatore “assapora” è un sentimento impersonale:

[È] un’identificazione [tra spettatore e attore che] si intende relativa, in quanto l’attore è tenuto ad esprimere i suoi sentimenti e lo spettatore a viverli: ma i due si fondono in quanto lo spettatore sperimenta i modi che quello impersona nella loro universalità (sadharanibhava), cioè al di fuori dello spazio e del tempo, oltre ogni individualità: onde l’imagine [nel testo] estetica si ravvicina all’imagine mistica, con questa differenza che questa appartiene a un livello più alto (Tucci 1957: 552).

Nel Natyasastra [20] – il primo trattato a descrivere in modo dettagliato e rigoroso il codice espressivo della danza – vengono individuati quattro rasa fondamentali e quattro secondari[21]. A questi otto rasa il filosofo del X-XI secolo Abhinavagupta aggiunge il santarasa, il sentimento della pacificazione e della quiete, caratteristico dello stato di ascesi, fine ultimo dell’essere umano. Nella concezione estetica indiana i nove rasa (amore, collera, coraggio, avversione, gioia, dolore, stupore, terrore, quiete) vengono messi in scena dalla danzatrice per essere colti nella loro universalità, e l’interprete diviene dunque uno strumento dell’assaporamento del sentimento.

Negli incontri che si sono susseguiti nel corso del progetto abbiamo riflettuto sulle implicazioni che tale concezione estetica aveva anche per quanto riguardava la danza contemporanea, anch’essa una forma artistica centrata sulla capacità, sia da parte del danzatore, sia da parte dello spettatore, di andare “al di là delle parole”, e come tale attitudine fosse la stessa che caratterizzava il lavoro dell’antropologo.

Se quanto illustrato finora per la collaborazione con la committenza era connesso a competenze antropologiche derivanti dalle mie conoscenze della cultura tamil srilankese e delle sue espressioni artistiche, è importante sottolineare che un’altra parte della consulenza si è fondata invece su competenze diverse, derivanti dalla mia esperienza di praticante e insegnante di danza. Allo “sguardo antropologico” si è sovrapposto quello che potremmo definire uno “sguardo coreutico”: il lavoro laboratoriale è stato sempre considerato anche nella sua dimensione di possibile realizzazione coreografica, e anche in questo caso il confronto con Simona e Sharmini è stato costante. In molti casi insieme abbiamo valutato quale fosse il materiale da inserire nella performance finale, quali le interpreti più adatte per un determinato ruolo, quali i costumi più appropriati. Devo riconoscere, a rischio di apparire stucchevole, che sotto questo profilo l’intesa è stata sorprendente, poiché tutte e tre operavamo le stesse scelte. Interpellata sull’utilità della consulenza antropologica, Simona mette in luce in questi termini l’apporto alla realizzazione del lavoro:

Non avrei potuto creare ed arrivare [ad avere] un dialogo verbale e fisico per tante ore con un gruppo così eterogeneo, la cui pratica con la danza contemporanea era inesistente – e non parlo di movimenti virtuosi, ma anche solo di collocarsi nello spazio in un certo modo, di tenere l’ordine di un certo tipo – e questo grazie anche, [anzi] grazie soprattutto alla capacità in diretta sul campo che tu hai avuto di intervenire e dialogare, molto spesso molto meglio di me, che ero piena di idee, di pensieri, di cose da fare, quindi riuscire ad afferrare la matassa in quel momento e ri-coordinare la dimensione del dialogo e anche del lavoro. Il lavoro porta anche la mia firma, però di fatto non sarebbe potuto nascere senza questa capacità proprio sull’atto pratico, sul campo, di riprendere il bandolo della matassa quando era il momento giusto, e andava fatto e questo lo comprendevi perfettamente mentre a me sfuggiva... spesso (intervista a Simona Bertozzi, 26 ottobre 2017).

Infine, anche a progetto ultimato, la consulenza antropologica è stata determinate nel valorizzare, all’interno del video promozionale, il contributo di Sharmini.

Fig. 5. Momento organizzativo (fotografia di Luca Del Pia)

Fig. 6. Momento organizzativo (fotografia di Luca Del Pia)

Il ruolo pubblico dell’antropologia

Esaminate per sommi capi le modalità del rapporto con la committenza, passiamo ora a domandarci: quali sono le ricadute di Lotus in termini di antropologia pubblica?

Mi pare che questo progetto abbia veicolato molte delle istanze che, nell’ambito dell’antropologia della danza, sono sempre state al centro del dibattito disciplinare. Credo anzi si possa affermare che l’antropologia della danza, fin dalla sua nascita negli anni Sessanta – e in parte anche in precedenza[22] – abbia avuto in moltissimi casi proprio una vocazione di antropologia pubblica. La critica alla dicotomizzazione tra danza euro-americana e altre forme coreutiche, la decostruzione degli stereotipi relativi alle danze “altre” e la denuncia dell’impostazione evoluzionistica dei manuali di storia della danza, lungi dall’essere confinate a discussioni tra addetti ai lavori, sono state proposte a un pubblico più ampio e a specialisti di altri settori, a volte nella forma di vere e proprie provocazioni (si pensi ad esempio all’articolo del 1969 An Anthropologist Looks at Ballet as a Form of Ethnic Dance di Joann Kealiinohomoku, che ebbe una notevole risonanza).

Esaminando Lotus, vedremo ora come alcune delle istanze sopra menzionate siano state recepite dal progetto fin da quando è stato concepito e come altre siano state veicolate in corso d’opera. Le ricadute di Lotus hanno riguardato ovviamente il pubblico che ha potuto assistere agli spettacoli a Bologna e a Pistoia, ma anche, in larga misura, tutti i soggetti coinvolti nella sua realizzazione.

Fig. 7. Le ragazze indossano le cavigliere (fotografia di Luca Del Pia)

Fig. 8. Le bambine provano una sequenza di danza contemporanea (fotografia di Luca Del Pia)

Innanzitutto il progetto Lotus ha permesso di valorizzare una pratica coreutica, il bharata natyam, che i migranti tamil considerano, insieme alla lingua, rappresentativa della loro cultura (e infatti i bambini tamil frequentano settimanalmente corsi di lingua e di danza per un uguale numero di ore). Nelle parole dei parenti delle interpreti ritorna spesso la soddisfazione rispetto all’opportunità di fare conoscere un patrimonio sostanzialmente invisibile:

La nostra cultura, la nostra danza bharata natyam è una cosa bellissima. Questa sta diventando famosa anche in Italia e noi siamo contente. Mi è veramente piaciuto. Questa è una danza molto antica e riguarda la nostra cultura. In altri paesi, America, Australia, London... le loro danze sono famose, c’è sempre qualche recita, programma... Invece la nostra non è così famosa in Italia (intervista alla madre di Keerthana, 2 luglio 2017).

Sono contenta di aver visto i bambini in Italia danzare per le canzoni italiane. Nonostante non capissi la lingua, tramite i loro gesti e le espressioni ho compreso quel che volevano esprimere, sono molto contenta. Inoltre c’è stata anche la danza in tamil [la danza bharata natyam] e gli italiani l’hanno ammirata, sono felice di questo. Spero che i bambini continuino ad accrescere così il loro senso artistico (intervista alla nonna di Laxsika, 7 luglio 2017).

È una bella occasione questo progetto, perché si uniscono due mondi diversi, quindi anche la nostra lingua, la nostra cultura, il tamil, viene fatta conoscere a persone che magari non l’hanno mai conosciuta (intervista alla madre di Vaishnaavy, 4 luglio 2017).

Fig. 9. Sharmini perfeziona alcuni movimenti di kuttu (fotografia di Luca Del Pia)

Il progetto ha permesso inoltre di rendere evidente la ricchezza della tecnica di uno stile coreutico il quale, benché diverso da una forma ascrivibile alla tradizione euro-americana, non per questo può essere considerato meno complesso dal punto di vista dell’esecuzione e dell’interpretazione. Lotus propone infatti una concezione dell’incontro tra pratiche coreutiche nei termini di un arricchimento reciproco su un piano di parità: la visione dello spettacolo innesca riflessioni sulla ricchezza del patrimonio artistico dei migranti e sulla sua permeabilità in occasione di un incontro con altre forme d’arte, combattendo quindi lo stereotipo della fissità delle forme coreutiche altre e mostrandone il dinamismo.

Fig. 10. Sharmini perfeziona alcuni movimenti di bharata natyam (fotografia di Luca Del Pia)

Fig. 11. Sharmini perfeziona alcuni movimenti di bharata natyam (fotografia di Luca Del Pia)

Fig. 12. Simona perfeziona alcuni movimenti di danza contemporanea (fotografia di Luca Del Pia)

Osserva una giovane spettatrice: «Il tema dell’integrazione non è proposto in modo forzato e/o pressante, ma viene fuori in modo naturale e porta a capire come culture così diverse possano essere arricchite l’una dall’altra» (Matilde, 18 anni, comunicazione personale, 15 luglio 2017). Alessandra Pizza, insegnante di bharata natyam, osserva:

Lo spettatore viaggia quindi in una dimensione temporale particolarissima, in cui i suoni tradizionali indiani (sollukuttu, cavigliere, shloka dedicato al dio Shiva e le battute dei piedi a terra) si sposano perfettamente con la canzone italiana amata dai giovani di oggi. L'esperimento è meraviglioso: simbolicamente e artisticamente apre molte finestre di dialogo tra le varie culture che si ritrovano a vivere insieme e a confrontarsi in un momento storico così complesso e per certi versi così cinico (comunicazione personale, 20 luglio 2017).

Fig. 13. Le ragazze provano una sezione di bharata natyam della coreografia (fotografia di Luca Del Pia)

Fig. 14. Prove della coreografia finale in sala danza (fotografia di Luca Del Pia)

Lotus è stato concepito anche per favorire un ampliamento degli orizzonti di ricerca artistica in presenza di stimoli provenienti da tradizioni diverse da quella europea, non nei termini di un’acquisizione necessaria a una subentrata sterilità creativa, bensì nell’ottica di un arricchimento derivante dalla consapevolezza che – come le antropologhe della danza hanno sempre sottolineato, fin dalla nascita della disciplina – diverse concezioni del corpo e dello spazio portano inevitabilmente a un ripensamento delle categorie di riferimento. Si tratta di una sorta di “giro lungo della danza” che è testimoniato dalle parole della committente, con la quale abbiamo ampiamente ragionato sulle modalità di percezione dello spazio nell’ambito di una tecnica coreutica proveniente da un altrove poco conosciuto. Spiega Simona Bertozzi:

Ci sono tutta una serie di elementi, di segni, di modalità geometriche compositive nella loro – posso dire – anche frontalità che noi usiamo molto poco nella danza contemporanea, che in realtà – come la percepiscono loro – non è una reale frontalità. Noi quando siamo frontali siamo veramente bidimensionali, che è veramente poco interessante, a meno che non lo scegli come metodo coreografico che deve essere così, invece la loro capacità – me lo faceva notare proprio Marcello [Briguglio] – è [che] loro sono frontali, ma sentono così tanto l’alto e il basso e tutto quello che arriva... come lo spazio lavora intorno alla loro figura che rende questa frontalità fortemente tridimensionale. Questo mi ha molto affascinato. Quindi, il loro prendere il peso nella discesa, però sentire le aperture laterali. È come se continuassero ad abbracciare lo spazio da dietro ad avanti nel loro movimento. Questo mi piace molto. Io lavoro di rado sulla frontalità pur creando nei lavori delle situazioni più statiche. Penso e mi è già successo in questi ultimi giorni di avere dei momenti in cui mi tornava quella loro dimensione di percepire lo spazio intorno alla staticità, che la rende fortemente tridimensionale (intervista a Simona Bertozzi, 26 ottobre 2017).

D’altro canto anche Sharmini ha immaginato di potere attingere a un diverso repertorio: «Mi interessa molto perché ho scoperto, ho conosciuto nuove danze, diverse dalla nostra. Magari nel futuro, quando insegnerò una danza, potrò mettere anche dei passi di danza contemporanea» (intervista a Sharmini Kavithasan, 4 luglio 2017).

Fig. 15. Pittura delle mani nello stile del bharata natyam (fotografia di Luca Del Pia)

Infine nel progetto Lotus vi è stata la volontà di produrre informazione su una guerra civile lontana e dimenticata: grazie alla conferenza che seguiva gli spettacoli, il pubblico è venuto a conoscenza del conflitto che si è consumato nello Sri Lanka e della condizione dei tamil nel loro paese d’origine e nella diaspora. Spiega una delle giovani danzatrici, esprimendo un parere condiviso anche dalle altre ragazze: «È stata una grande opportunità per noi ragazze, appunto, per imparare la danza contemporanea e per dimostrare a coloro che non conoscevano l’esistenza del bharata natyam e, appunto, di parlare del genocidio, che molti di noi... molti degli italiani non sanno proprio di che cosa si tratti» (intervista a Keerthana, 2 luglio 2017). Giovanni Azzaroni, docente di Teatri orientali all’Università di Bologna, sottolinea:

Una presenza artistica di notevole valore estetico, un orgoglioso atto di rivendicazione politica. Giovani e brave, le giovani tamil sono state maestre per gli spettatori, che hanno apprezzato l’aspetto performativo dell’evento in maniera dialettica, perché chiedendosi che cosa significhi danzare il bharata natyam oggi a Bologna si sono anche sicuramente posti il problema di cosa significhi salvare una cultura dalla distruzione e dalla polvere dell’oblio. Chi scrive è molto grato e riconoscente per questa lezione di vita, che ha saputo coniugare al piacere estetico una motivazione profonda di valore sociale, quella cioè della consapevolezza che il futuro può essere costruito solamente partendo da un consapevole passato (comunicazione personale, 10 luglio 2017).

Fig. 16. Prove dello spettacolo nel cortile di palazzo Poggi (Bologna, 5 luglio 2017) (fotografia di Luca Del Pia)

Fig. 17. Spettacolo nel cortile di Palazzo Poggi (Bologna, 5 luglio 2017) (fotografia di Luca Del Pia)

Fig. 18. Prove dello spettacolo nel cortile del Museo Civico Medievale (Bologna, 6 luglio 2017) (fotografia di Luca Del Pia)

Se quelle descritte finora erano le ricadute del progetto esplicitamente ricercate e auspicate, sono state invece le conseguenze impreviste di Lotus a sorprenderci maggiormente. Come sempre accade, un progetto che prevede processi di collaborazione e di co-costruzione riserva sorprese e, anzi, in un certo senso potremmo dire che gli esiti imprevisti rappresentano una parte attesa di ogni progetto così concepito.

Tra gli effetti non previsti, ma prevedibili, di Lotus vi è stato ad esempio lo stabilirsi di relazioni tra ragazze e donne tamil di città diverse. Come testimonia la madre di una delle bambine, che ha desiderato lasciarci un testo in tamil a commento del percorso, «Tramite questo progetto abbiamo avuto la possibilità di conoscere le allieve e i genitori di altre città e ciò ci ha resi molto felici». Achila, una delle ragazze di Genova, spiega: «Mi è piaciuta molto questa opportunità, perché abbiamo potuto spendere tantissimo tempo insieme alle altre ragazze. Ci sono molte ragazze da molte città e ho potuto fare nuove amicizie» (intervista ad Achila, 2 luglio 2017). Più in generale è stata molto apprezzata dalle partecipanti l’opportunità di condividere spazi di socialità con altri tamil e con gli italiani, come sintetizza la madre di una delle bambine:

È molto bello. Non solo proprio un unico paese, una cultura... si può mischiare anche... per non pensare che solo noi in Sri Lanka... solo noi [possiamo] fare [le] nostre cose... [Possiamo fare] anche altre, nuove esperienze... Abbiamo mangiato insieme con voi, viaggiato, parlato, tutta una nuova esperienza, pure [per] i bambini (intervista alla madre di Laxsika, 7 luglio 2017).

Fig. 19. Spettacolo all’interno di una sala del museo di arte moderna MAMbo (Bologna, 7 luglio 2017) (fotografia di Luca Del Pia)

Fig. 20. Spettacolo all’interno di una sala del museo di arte moderna MAMbo (Bologna, 7 luglio 2017) (fotografia di Luca Del Pia)

La ricaduta davvero sorprendente di Lotus è stato però il progressivo erodersi, da parte delle partecipanti, della percezione della differenza tra il bharata natyam e la danza contemporanea. Scelti proprio a ragione della loro profonda diversità, i due stili di danza, a una conoscenza ravvicinata e approfondita, si sono rivelati – in perfetta coerenza con un approccio dell’antropologia della danza che guarda al materiale coreutico come a una modalità espressiva traducibile e comunicabile – molto più simili di quanto si fosse immaginato, al punto che «tutte queste differenze sono diventate veramente minime, tant’è che appunto si è creato veramente un territorio d’incontro fervido, che ancora secondo me ha dato solamente una parte di quello che poteva dare» (intervista a Simona Bertozzi, 26 ottobre 2017). A innescare le riflessioni su queste somiglianze è stata Sharmini, la quale – preparando il discorso per la conferenza post-spettacolo – aveva voluto sottolineare quanto l’esposizione a una tecnica nuova avesse richiamato le concezioni presenti nello stile da lei praticato. Nell’intervista Sharmini riassume quanto osservato:

Il bharata natyam è un’arte divina. Prima di iniziare a ballare il bharata natyam facciamo la venerazione. Nella danza contemporanea ci sono esercizi che partono dalla testa ai piedi e parte facendo la venerazione come noi. Nel bharata natyam esistono diverse espressioni – bhavam, ragam e thalam (espressioni del viso, musica e ritmo) – così anche nella loro danza [contemporanea] ci sono queste cose, ma vengono espresse diversamente. Come il bharata natyam è un’arte divina, anche loro [i danzatori contemporanei] tramite i movimenti del corpo rappresentano la natura. Così come nel bharata natyam sono importanti le espressioni, il ritmo e le mudra, anche nella danza contemporanea si usano delle mudra, ma in una maniera diversa (intervista a Sharmini Kavithasan, 5 luglio 2017).

Anche dalla descrizione che di Lotus viene fornita sulla pagina dell’associazione Nexus emerge chiaramente come alla fine del progetto la constatazione della somiglianza tra i due stili coreutici prevalga ormai sulla considerazione della loro differenza, anche in virtù di quanto emerso attraverso le riflessioni condivise su una concezione estetica, quella indiana, che assegna grande importanza alla capacità di cogliere la dimensione universale di ciò che è espresso a livello individuale:

Lotus pone le sue basi progettuali nella possibilità di creare un dialogo tra la danza bharata natyam, la danza classica indiana fortemente rappresentativa della cultura tamil e il vocabolario della danza contemporanea occidentale, proponendo delle modalità di ibridazione dei rispettivi codici tecnici. […] In entrambe le modalità, ciò che ne genera e fa sprigionare la bellezza, la grazia, è la capacità di tradursi in un movimento che prescinde dalla singolarità, che non racconta l’individuo, ma che va di corpo in corpo in una pluralità che tende all’universale. […] Per il bharata natyam le mudra possono raccontare ogni cosa, terrestre e divina. Nella danza contemporanea occidentale, l’impiego anatomico nella sua possibilità multi-vettoriale, produce un vocabolario illimitato di eventi. Per entrambi [gli stili coreutici], le variabili ritmiche permettono una definizione della grammatica compositiva nella costruzione coreografica. Per entrambi [gli stili coreutici], la composizione si relaziona per risonanza tra la scena e lo spettatore (http://associazioneculturalenexus.org/portfolio-items/lotus, sito internet consultato in data 2 settembre 2018).

È interessante notare come, a seguito della consulenza antropologica, la coreografa di danza contemporanea abbia acquisito una modalità di descrizione di quanto avviene sulla scena che recepisce il termine risonanza nell’accezione propria della concezione indiana. Per quanto riguarda la consapevolezza della somiglianza tra i due stili coreutici occorre riconoscere che, se questa è stata raggiunta dagli adulti attraverso un lungo processo di riflessione e di confronto, una delle bambine aveva già indicato il sentiero quando, nei primi giorni a Genova, a margine di un disegno, aveva scritto «La danza bharata natyam esprime le emozioni con la faccia, la danza contemporanea non fa vedere le espressioni con la faccia ma le fa capire con i movimenti».

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[1] http://www.spettacolodalvivo.beniculturali.it/index.php/ normativa-teatro/doc_download/ 1487-avviso-pubblico-migrarti-spettacolo-2-edizione-pdf (site consulted 10 December 2017).

[2] «Coreografa, danzatrice e performer, vive a Bologna, dove si laurea in Dams. Dopo studi di ginnastica artistica e danza classica, approfondisce la sua formazione in danza contemporanea tra Italia, Francia, Spagna, Belgio e Inghilterra e lavora, tra gli altri, con Tòmas Aragay (cia Societat Doctor Alonso-Spagna) e dal 2005 al 2010 con Virgilio Sieni. […] Dal 2005 conduce un percorso autoriale di ricerca e scrittura coreografica, creando lavori, in forma solistica e con diversi gruppi di danzatori e performers, che hanno circuitazione nazionale e internazionale» (http://simonabertozzi.it/biografia/, sito internet consultato in data 10 giugno 2018).

[3] L’Associazione Culturale Nexus, fondata nel 2008 da Simona Bertozzi, si occupa di produzione e distribuzione di spettacoli, promozione di coreografi emergenti, didattica e formazione professionale di giovani danzatori, formazione del pubblico e audience engagement; promuove inoltre incontri di ricerca e, attraverso la danza, l’inclusione sociale e la cittadinanza consapevole (cfr. http://associazioneculturalenexus.org/attivita, sito internet consultato in data 10 settembre 2018).

[4] File:///D:/Download/Avviso%20pubblico%20Migrarti%20spettacolo%202°%20edizione%20.pdf (sito internet consultato in data 10 dicembre 2017).

[5] Sharmini Kavithasan ha frequentato sin da bambina una scuola privata di danza e, dalla prima media e per tutte le superiori, ha seguito anche i corsi di danza nella scuola pubblica. Ha ottenuto in tal modo due diplomi. Dopo il diploma ha insegnato bharata natyam per un anno e mezzo nella scuola pubblica, poi si è sposata e nel 2007 è venuta in Italia. Dal 2008 insegna bharata natyam alle bambine e alle ragazze tamil a Genova. Lo stile che ha appreso e che insegna è quello del Kalakshetra, la scuola fondata da Rukmini Devi (cfr. infra). Nel suo curriculum coreutico figurano molte discipline: «Quando mi sono diplomata ho dovuto sostenere degli esami, tra cui uno di teoria del balletto. Quando frequentavo il corso avevo anche gli insegnamenti di inglese, strumenti musicali, canto, sanscrito, tamil, bharata natyam, e altre danze come le danze folk» (intervista a Sharmini Kavithasan, 4 luglio 2017). In particolare per la danza erano previste sia una parte teorica sia una parte pratica: «Loro dividono in pratica e teoria, negli esami fanno prima la teoria e poi la pratica. La teoria presuppone lo studio dei significati, le storie degli dèi, le storie antiche e anche come si è formata la [danza]» (intervista a Sharmini Kavithasan, 4 luglio 2017).

[6] Rispettivamente il 5, 6 e 7 luglio 2017.

[7] Lo Sri Lanka è stato teatro tra il 1983 e il 2009 di una guerra civile tra il governo di Colombo e le LTTE (Liberation Tigers of Tamil Eelam, “Tigri per la liberazione della patria tamil”), un movimento separatista attivo fin dal 1976 che per molti anni ha controllato ampie zone di territorio nel nord e nell’est del paese, costituendo un vero e proprio stato dentro lo stato. Nel 2009 le Tigri sono state definitivamente sconfitte da un’offensiva militare governativa.

[8] Il video di 4 minuti è visibile all’indirizzo https://vimeo.com/233474264 (sito internet consultato in data 5 giugno 2018). Le ore di girato sono state complessivamente 17.

[9] Le interviste video erano funzionali alla produzione del documentario finale e non erano quindi un’esigenza mia bensì una necessità della committenza. Le interviste che ho realizzato per la ricerca sono state registrate solo in audio, in considerazione della problematicità dello strumento video (Bachiddu 2010). Le interviste audio sono state condotte in italiano, in inglese e in tamil. In quest’ultimo caso mi sono avvalsa dell’aiuto delle ragazze coinvolte nel progetto. Molte delle testimonianze video, necessarie alla realizzazione del documentario finale, sono state invece volutamente raccolte in tamil – e in seguito sottotitolate in inglese –, così da valorizzare dei tamil, oltre alla competenza coreutica, anche quella linguistica. Colgo l’occasione per ringraziare, come di consueto, Shalini Santiyagoo per il suo prezioso lavoro di traduzione dei testi in tamil.

[10] Nel 2000 mi sono accostata per la prima volta al mondo dell’associazionismo tamil srilankese in Italia interessandomi in particolare all’uso politico del bharata natyam nelle commemorazioni dei combattenti caduti delle Tigri tamil. Tra il 2002 e il 2006 ho poi lavorato in Sri Lanka sia per motivi di ricerca (ho indagato il cambiamento del rito funebre, dalla cremazione alla sepoltura, riservato ai combattenti delle LTTE, cfr. Natali 2004), sia come cooperante nell’emergenza post-tsunami per il consorzio di Ong internazionali SOLIDAR. In tutti questi anni ho mantenuto i contatti con i tamil della diaspora e, come è ovvio che accada, i rapporti stabiliti si sono evoluti, in taluni casi, in vere e proprie relazioni di amicizia.

[11] Poiché le bambine e le ragazze presentatesi a Genova erano 20 invece di 16 (il numero previsto dal progetto), è stato necessario operare una selezione, effettuata non senza difficoltà, sulla base di criteri condivisi con i genitori (tra cui il desiderio più o meno evidente delle bambine di partecipare al progetto). Non è qui possibile, per ovvie ragioni di spazio, rendere conto di questo processo.

[12] Ringrazio i revisori anonimi per avermi invitato a esplicitare e a giustificare in questo passaggio le scelte operate, e più in generale per avermi suggerito di approfondire alcuni dei temi trattati.

[13] Simona si riferisce al video della lezione-spettacolo di bharata natyam che Alessandra Pizza e io organizziamo in teatri e sedi universitarie. Nella lezione-spettacolo il pubblico viene condotto alla progressiva comprensione del vocabolario gestuale di quest’arte coreutica, sia attraverso la spiegazione delle espressioni del viso e delle mudra, sia grazie alla narrazione delle trame delle coreografie.

[14] Formatasi come ballerina classica, si laurea in Storia Orientale all'Università di Bologna, con una tesi dedicata alle divinità danzanti della mitologia indiana. Da qui ha inizio il suo interesse per il bharata natyam, che studia in Italia e in India (tra i suoi insegnanti vi sono Nuria Sala Grau, P.T. Narendran, Win Thang, Leela Samson e C.V. Chendrasekhar). Nel 2008 entra a far parte della compagnia ArtemisDanza di Monica Casadei, sperimentando così altri linguaggi coreutici. Nel 2016, con la compagnia statunitense Dakshina/Daniel Phoenix Singh Dance Company, si è esibita in Europa e in alcuni tra i più importanti teatri dell’India. Dal 2003 tiene corsi, seminari e lezioni-spettacolo di danza bharata natyam in Italia e all’estero.

[15] Avevo chiesto alle bambine e alle ragazze di descrivere, con disegni o parole, le loro impressioni sulla pratica del bharata natyam e della danza contemporanea.

[16] Anche per quanto riguarda i contributi degli spettatori – così come per l’intervista a Simona Bertozzi – occorre avanzare una cautela metodologica. I testi raccolti sono stati richiesti a persone che conoscevo direttamente, mentre nel caso dello studente Velu Prabhakar Kumaravel, questi, al termine dello spettacolo, mi aveva avvicinato per commentare positivamente il lavoro e chiedere informazioni sul progetto, e in seguito mi ha inviato una email con alcuni commenti.

[17] Alcuni insegnanti di bharata natyam, diversamente da Sharmini, ritengono non opportuno insegnare il kuttu (stile coreutico caratteristico oggi dei territori dello Sri Lanka orientale) proprio per la sua caratterizzazione come danza folk (sull’opposizione tra bharata natyam e kuttu cfr. Natali 2013).

[18] Si tratta di coreografie nelle quali vengono narrate le vicende della guerra civile; al fine di potere narrare un conflitto contemporaneo sono state inventate nuove mudra che sono assenti dal repertorio classico (es. “elicottero”, “fucile”, “manette”) (cfr. Natali 2015).

[19] Ovviamente abbiamo raccolto le liberatorie, le quali, trattandosi di minori, sono state firmate dai genitori.

[20] Redatto in sanscrito, il Natyasastra è un’opera attribuita al mitico Bharata e le sue parti più antiche risalgono probabilmente al I secolo d.C.

[21] Si tratta di sringara, il sentimento amoroso-erotico; raudra, il sentimento furioso; vira, il sentimento eroico; bibhatsa, il sentimento odioso. Da questi rasa principali derivano i quattro corrispettivi rasa secondari: hasya, il sentimento comico; karuna, il sentimento patetico; adbhuta, il sentimento meraviglioso; bhayanaka, il sentimento del terribile.

[22] La danzatrice e antropologa Katherine Dunham, ad esempio, viene oggi considerata un’esponente ante litteram dell’antropologia pubblica poiché già negli anni Trenta del Novecento aveva portato il sapere antropologico fuori dall’accademia e ne aveva fatto uno strumento di trasformazione sociale (Chin 2010, Banks 2012, Osumare 2005).