Coltivare cibo baladii in Palestina

Le politiche della natura, tra terra e aria

Mauro Van Aken

Università Milano-Bicocca

Table of Contents

Introduzione
Relazioni del cibo nell’incontro coloniale: immaginare e contendere la natura
Mangiare il territorio
Montagne che han perso il mare
Immaginari coloniali: ideologie dell’acqua e della natura
L’incontro tra il fellahin e il kibbutzin: immaginari di natura e dell’Altro
Lo specchio del cibo: dal riconoscimento alla rimozione contigua dell’Altro
Politiche arboree: radicare e sradicare
Saperi circolari tra terra e cielo
Relazioni d’acqua, tra terra e cielo
Saperi terreni d’aria
Relazioni e abitudini delle piante
Semenze per aria
La wilderness dal punto di vista locale
Spazi abitati e culinari
Conclusioni
Bibliografia

Abstract. In the Occupied Territories, environment is not the main concern facing daily insecurity of military occupation and life uncertainty in one of the most high-tech experiments of land and communities colonization and bordering, of “risk” society and fenced materiality. The common weather has been disconnected as much as water resources on the ground have been bordered. Icon of global patterns of territorial management and idolatries of land, here the aerial dimension has become a detached locus of risk (military visual control, pollution). Politics of nature stand at the heart of nationalist perspectives (politics of planting, rooting and de-rooting the self and the others, technofix utopias) with their incapacity to meet environmental changes and their challenge for a new shared patterns of knowledge and resource use: notwithstanding border development “on the ground”, Palestinian population and Israeli colons and military forces are sharing the same overheating atmosphere. The farming fields of habba’il in Battir (Bethlehem), where food grows up, well show the local, national and regional politics of nature at the heart of historical political settings; besides they highlight the interdependence between patterns of denial of the human Other and of denial of environmental agents; further, they reveal how local knowledge patterns of food making have reproduced in this familial places, reproducing patterns of ecological relationality and attempts of maintaining autonomy in maintaining their own food and knowledge.

Keywords: Politiche della natura; agri-culture; murba’nia; cibo; cambiamenti atmosferici.

Introduzione

«Non possiam scegliere con chi abitare il mondo».

H. Arendt

Se il cibo è un intenso condensato simbolico, catalizzatore di significati tra diverse culture e contesti ambientali, nel quadro contemporaneo è anche oggetto principale delle dinamiche di mercificazione: sempre più feticcio, è facile e legittimo parlare e studiare il cibo astraendo dai contesti e relazione di produzione, dalle agri/culture, dalle risorse simboliche e materiali e dai processi di ineguaglianza ed inclusione/esclusione che si “nascondono” nel cibo. Ciò grazie al fantasma delle merci: l’aurea del cibo rimuove il suo contesto sia sociale, di produzione, che ecologico e di relazioni ambientali, permettendo di trascendere ciò che fa del cibo una costruzione culturale sempre più complessa e contesa.

Nel senso di luogo contemporaneo, per processi di delocalizzazione degli alimenti che viaggiano spensierati tra continenti e di deterritorializzazione delle risorse, il cibo è diventato tanto più un feticcio della località, brand di paesaggi, icona decontestualizzata di “mercati territoriali”, ancoramento di identità reiventate o marginali. Gran parte del cibo nasce però da saperi e dal lavoro di contadini o pastori, seppur nell’agribusiness globale esso sia sempre più il prodotto di un lavoro di ingegneria alimentare e industriale e di filiere globalizzate rese invisibili: si tratta di cibi diversi, diverse idee di nutrimento della terra e dell’uomo e diverse idee di umanizzazione.

Attraverso il cibo definito baladii o “locale” nei Territori Occupati palestinesi analizzeremo le pratiche e i saperi agricoli; questi rimandano a saperi della terra e saperi “terra terra” che sono stati storicamente in profonda relazione con i saperi dell’aria, ovvero conoscenze metereologiche come elemento centrale nell’autonomia agricola.

Il contesto palestinese sotto occupazione militare ben riassume – e amplifica allo stesso tempo – alcune politiche del cibo nell’ipermodernità a cui assistiamo anche altrove: contese per la terra e acqua in primis, nascondimento dei lavoratori e dei saperi ambientali, ma anche ancoramento al locale a fronte dell’estensione coloniale sotto giurisdizione dell’esercito militare, aspetti ben conosciuti di tante altre, e diverse, esperienze coloniali del secolo scorso. I Territori Occupati palestinesi sono però un laboratorio dell’ipermodernità: una sperimentazione di tecniche di disciplina e di governo del territorio dove diversi popoli convivono in una “contiguità esclusiva”, in un’intima e segregata integrazione, ossimori che ben mettono in evidenza lo schizofrenico senso di località che si è venuta a costruire in questa esperienza coloniale. Una piccola terra ricca di confini di diverso spessore e di sempre più raffinate categorizzazioni e rimozioni delle soggettività dei colonizzati, dove si sperimentano modelli poi esportati e globalizzati.

I Territori Occupati (TO in seguito) costituiscono un ambiente del cibo altamente politicizzato per la dimensione frammentata e discrezionale del controllo delle risorse e proprio per questo la stessa denominazione territoriale ha difficoltà a trovare un nome condiviso: TO è la denominazione delle Nazioni Unite, Palestina si riferisce alla Palestina storica, dhaffe, o Cisgiordania (West Bank) è il nome locale che utilizzeremo come territorio palestinese, non riconosciuto dall’autorità occupante tanto quanto la denominazione di “palestinesi” (musica, arte, o cibo…) è da sempre sostituita da Israele con “arabo”.

Se la modernizzazione è stata ovunque una narrativa evoluzionista della promessa di riabilitare territori degradati o “vuoti”, a causa degli “altri” nativi incapaci, un orientalismo ambientale ha amplificato in questa originaria Terra Promessa le narrative messianiche e imperiali. A partire dal movimento sionista, la relazione con l’altro colonizzato, seppur “primitivo”, ha potuto inizialmente riconoscere un interlocutore subalterno, che si è tradotto negli ultimi decenni in nuove forme di diniego e di disumanizzazione all’interno del nazionalismo israeliano contemporaneo che si condensano in ogni piatto di hummus o in ogni bustan (giardino) palestinese.

La conquista della terra si è espressa qui come restauro e riabilitazione del giardino dell’Eden degradato per colpa delle popolazioni locali; qui la produttività e “modernità” agricola, la redenzione secolare del cibo e la presa della terra e dell’acqua sono venute a coincidere, in uno slittamento tra linguaggi dello sviluppo e del religioso. La politica coloniale fin dagli albori è stata innanzitutto una politica della natura e il cibo ha condensato le idolatrie agronomiche, che qui si sono imposte a fronte di altri saperi dell’agricoltura locale palestinese. Una ripresa storica dei significati delle culture agricole e ambientali e assieme delle politiche della natura in queste terre è quindi essenziale per ritracciare i significati contemporanei del coltivare e per comprendere le pratiche agricole dei palestinesi sotto occupazione.

Le relazioni attorno al cibo parlano inevitabilmente della costruzione dell’alterità in una duplice accezione: la costruzione dell’Altro da segregare attraverso tecniche e distanze pianificate, che hanno gradualmente soverchiato il gioco delle relazioni e delle differenze presenti attorno al cibo fino a qualche decennio fa; e l’alterizzazione della natura, il Grande Altro, dove gli attori ambientali sono diventati, scientificamente, politicamente, e socialmente, un “oggetto” separato, di dominio e mera pianificazione disconnettendo i saperi della relazionalità ecologica presenti in questi ambienti semi-aridi. Un tema questo al centro oggi delle contraddizioni tra modelli di sviluppo e cambiamento climatico, che qui han trovato un importante laboratorio all’inizio del secolo scorso. Nell’incontro coloniale si sono confrontati, da un lato, un apice della “modernità” europea nell’oggettivare la natura sotto il controllo umano, e dall’altro, i sistemi di saperi locali e rurali in zone aride, saperi non opposti, ma che hanno investito, necessariamente e creativamente, sulla relazionalità delle risorse dell’ambiente.

Gli habba’il, spazi agricoli terrazzati e irrigati, dedicati per lo più al fabbisogno della famiglia estesa palestinese (‘aila), sono i piccoli luoghi in cui si sono trincerati, e non solo metaforicamente, i saperi e le tecniche del cibo nella difesa della terra dall’esproprio quotidiano. In questi spazi marginalizzati, perché agli antipodi della visibilità e delle politiche di modernizzazione che hanno posto al centro la produzione monoculturale intensiva per il mercato, si sono riprodotti i significati del cibo “locale” (baladii), nonostante il travolgente cambiamento modernista dell’occupazione e dei processi di urbanizzazione che hanno coinvolto la piccola Cisgiordania.

In un contesto di generale e indotta decontadinizzazione imposta da Israele, i TO sono da tre decenni dipendenti dall’import alimentare israeliano a causa degli “accordi pace”, che hanno imposto una subalternità commerciale, e soprattutto, per la mancanza di accesso alla risorse agrarie: la discrezionalità degli ordini militari, il soccombere alla conquista territoriale con espansione prioritaria delle colonie, in mezzo, sopra e attorno ai terreni e villaggi palestinesi hanno reso l’agricoltura sempre più marginalizzata. In breve, sempre più un cibo senza terra e senza contadini.

Negli habba’il nasce il cibo baladdii, locale, da balad, “villaggio” ma anche, per estensione metaforica, “patria”. Oggi, nelle forme di consumo e di mobilitazione politica contemporanee assume anche i significati di “organico”, biologico”, “naturale”, “puro”, “autentico”, anche qui per slittamenti metaforici, a partire dalla risicata autonomia delle proprie risorse: e queste sono risorse anche sociali come i sistemi locali di solidarietà e le reti di cooperazione idrica, le forme di scambio e di condivisione di cibo o semenze all’interno del lignaggio e la tacita e testarda riproduzione di tecniche “tradizionali” a fronte della storica aridità che hanno investito nella relazionalità delle risorse: questioni cruciali oggi nel ripensare i modelli di sviluppo rurale a fronte dei cambiamenti ambientali, e non solo in Palestina.

Gli habba’il sono intensi spazi produttivi caratterizzati da eterogeneità e molteplicità: di varietà colturali, di commistione con frutteto, di colture domestiche e spazio di riproduzione del selvatico (a scopo alimentare, terapeutico, rituale) e di riproduzione di semenze “locali” (baladii). Allo stesso tempo, sono spazi pubblici della dimensione familiare: interconnessi alla cucina, alle abitudini e arti culinarie delle donne, sono spazi dell’ospitalità che passano per un buon tè o un buono zattar, nella riproduzione di relazioni di vicinanza (qaraba, nell’idioma locale) e di vicinato, proprio in un contesto che ha inevitabilmente terremotato la stabilità della terra, ma ha frammentato le stesse forme di solidarietà.

In sintesi, nascosti nel cibo di casa, persistono saperi e sistemi di lavoro nel coltivare che possono essere compresi solo all’interno della dimensione politica coloniale e degli immaginari di natura che ne stanno alla base. E che parlano di terra ma molto anche di aria e di coinvolgimento atmosferico[1].

Relazioni del cibo nell’incontro coloniale: immaginare e contendere la natura

La disconnessione tra cibo, territorio e società è dinamica ben conosciuta, seppur resa invisibile, nelle nostre società e ben presente nella letteratura antropologica (Arce, Long 1992, van der Ploeg 2008, Van Aken 2012): nei territori palestinesi, per la loro dimensione di frammentazione dello spazio in molteplici isole disgiunte e confinate, questo processo si è accentuato e mostra il suo carattere “sperimentale” come spesso accade sulle faglie dei confini coloniali.

Quando assistevo diversi agricoltori anziani negli habbai’l di Battir[2], nella regione di Betlemme, guardando al digradare dei terrazzamenti lungo la piccola vallata che usufruisce ancora di una sorgente d’acqua, vedevo sempre una pattuglia militare israeliana sul lato opposto della vallata, nel territorio diventato “off-limits” per i palestinesi e sede storica del villaggio palestinese di Al Wallaja espropriato nel 1948. «Ma perché stanno sempre li?», chiedevo, e la risposta era sempre un silenzioso: «Qua ci guardano sempre».

Foto n.1: il canale irriguo principale di origine romana, sullo sfondo a digradare gli habba’il (Van Aken)

I terrazzamenti agricoli di Battir sono divisi dalla linea ferroviaria israeliana, che connette le colonie con “l’interno” di Israele come confine imposto dopo il 1967, sottraendo ampi territori a fondovalle che tradizionalmente erano irrigati: coltivare oggi è un atto di resistenza, dal momento che un campo incolto è il primo a venir espropriato dalle forze militari per l’allargamento della zona di difesa di una colonia, per questioni di “sicurezza” o per il progetto di estensione del muro, anche lui di “sicurezza”: questo dovrebbe tagliare gli stessi terrazzamenti storici di Battir, nonostante siano stati riconosciuti dall’Unesco nel 2015 come patrimonio immateriale dell’umanità proprio per le vestigia romane e le antiche tecniche di costruzioni locale del paesaggio.

Se ovunque il cibo e l’agricoltura rimandano al senso di località nei processi di globalizzazione (Appadurai 1996, 2013), qui è necessario mostrare alcuni aspetti del territorio laboratoriale che qui si è sperimentato, un territorio altrimenti “difficile da immaginare”. Seppur in contesto rurale, àncora della tradizione e dell’attaccamento alla terra, qui la località è “evaporata” e i confini coloniali, fissi e mobili, hanno fatto del senso del locale una dimensione arbitraria, discrezionale e quindi fragile, l’opposto quindi di un senso di ancoramento.

Un aspetto centrale prima e dopo la creazione di Israele, accentuato poi con l’occupazione della Cisgiordania e con l’espansione di colonie-città israeliane negli ultimi decenni, è la dimensione extra-territoriale della terra stessa: una pianificazione della segregazione contigua, da “vicini di casa”, dove le colonie circondano ed espropriano terra e risorse dei villaggi palestinesi e dove le reti di connessione israeliane (treni, strade militari, strade “civili” esclusive per i coloni) sono confini invalicabili e “sotto casa” per i palestinesi. Il territorio è disciplinato sempre più in forme esclusive connesse alla spoliazione delle popolazioni palestinesi in nome della “modernizzazione” del paesaggio, progetto modernista dalla lunga “tradizione” in queste terre.

A partire dalla nuova giurisdizione sulla terra da parte del Jewish National Fund, che gradualmente ha espropriato il controllo sia della terra che dell’acqua alle comunità fellahin palestinesi in Cisgiordania, ha preso piede in un ampio processo di decontadinizzazione di una popolazione a prevalenza contadina. L’Autorità Nazionale Palestinese è non solo senza nazione, ma anche senza autorità: controlla solo i maggiori centri storici urbani (Nablus, Betlemme, Hebron) o la capitale senza patria Ramallah, piccolo villaggio scoppiato col boom edilizio a sostituire de facto la centralità di Gerusalemme, ormai segregata ed inglobata in Israele.

La maggior parte del territorio rurale dei Territori Occupati, denominata Area C, è stato delegato, in seguito agli “accordi di pace” ormai vent’anni fa, al controllo militare israeliano: la grossa fetta di territorio agricolo e pastorale, le terre del cibo, è sotto controllo giuridico militare dove la pianificazione urbana coloniale mangia territori disgregando qualsivoglia idea di continuità territoriale con cui noi pensiamo un “luogo” (Petti 2007). E questo caratterizza la maggior parte dei territori a vocazione agricola e degli agricoltori: oggi in Area C vivono circa 300.000 palestinesi accanto a 356.000 coloni, la popolazione maggioritaria, numeri che ci fanno ben capire come i Territori Occupati siano già de facto Israele e che per i palestinesi già da tempo non esista più un territorio autonomo, continuo anzi perdono terra quotidianamente sotto i piedi, uno spaesamento nelle enclave. E per ogni città israeliana, chiamata colonia, sono altrettanti gli espropri di terra e d’acqua anche irrigua e lo sbocciare di confini accanto a casa.

Più facile comprendere questa disgregazione del territorio secondo la metafora di “territorio verticale” (Weizmann 2002), sperimentato e affinato qui sulla pelle degli abitanti, ma sempre più modello globale esportato altrove. Oggi nella Cisgiordania, la terra agricola, il sottosuolo, e l’aria – e le risorse afferenti a questi tre livelli che noi immaginiamo sovrapposti e comunicanti su di una mappa – sono tre dimensioni disgiunte tra loro a livello giuridico e politico. La nostra nozione di territorio “piatto” – un terreno dove coltivare, ad esempio – è disgiunta: si può avere controllo della terra, ma non accedere all’acqua nel sottosuolo, sottratto dai militari o delle vestigia archeologiche (che portano al rischio, se scoperte, di essere espropriate dai militari assieme ai terreni limitrofi). O la terra è disgiunta dell’aria sopra (onde radio e wifi, la mobilità aerea e il controllo militare dall’alto con droni, ad esempio). I tre livelli che diamo abitualmente come contigui e naturalmente aderenti sono scorporati e convivono accanto alle mappe verticali delle colonie accanto a casa, in una duplice tripartizione (colonie israeliane confinate dai villaggi palestinesi) di quelli che alla fine sono piccole località e colline: una dissociazione tra comunità e terra e della stessa nozione di territorio per come lo percepiamo abitualmente.

La quotidianità, anche del lavoro agricolo, è caratterizzata proprio da una disconnessione radicale tra spazi contigui, una realtà schizofrenica quindi tanto più che i confini di sicurezza sono spesso mobili, discrezionali e arbitrari: a Battir, che si affaccia ormai sull’espansione periurbana di Gerusalemme, bisogna sempre chiedere quale è la strada da fare per andare al villaggio accanto, e se si può fare, che sia a piedi, in mulo o in macchina.

Il senso della località è connotato quindi dalla violenza arbitraria della legge militare, dove l’Altro è a discrezione, dove la politica ha preso il linguaggio della pianificazione tecnica e ambientale, urbana (colonie) e agraria: il discrimine è tramutato in legge proprio perché l’ordine e i divieti assumono linguaggio tecno-politico della norma impersonale. Un aggiornamento contemporaneo, palestinese e rurale, di Josep K. del processo Kafka: tanti contadini potenzialmente sotto processo che sperimentano la Legge come perverso esercizio di persecuzione, anche solo tra orti e melanzane.

Anche piantare patate e cetrioli è una questione di sorveglianza e di sicurezza, la coltivazione stessa è inevitabilmente politica e militare e quindi è normale che giovani sentinelle militari si annoino a sorvegliare anziani contadini chini a coltivare, in una contiguità tattile, in una vicinanza alienante dato il contesto di sottomissione. Questi spazi agricoli terrazzati sono dedicati per lo più al fabbisogno della ‘aila, la famiglia estesa palestinese, spazi di autonomia del poter coltivare le proprie colture fuori mercato, poter utilizzare la propria sorgente e, soprattutto, le proprie abilità e conoscenze del territorio: è l’autonomia che fa di quel cibo un atto di libertà (essere horr, libero) e di disorientata appartenenza.

Il cibo baladii assimila oggi molteplici significati, spesso identificati con “biologico”: il consumo della borghesia palestinese e delle comunità internazionali alla ricerca di cibi salutari, le prime certificazioni biologiche di produttori locali in una coincidenza con i significati di “purezza”, “autenticità”, “tradizione”, di “ritorno al passato” all’interno di mode globali del consumo e del gusto sociale per prodotti biologici e militanti, vari tentativi di uscire dalla fallimentare strada dell’agricoltura intensiva a base chimica degli ultimi decenni.

«Perché hai comprato l’hummus israeliano?», ha chiesto la moglie di un agricoltore (di un’azienda di permacultura) vicino a Nablus, uscendo dall’alimentari del villaggio accanto a casa: i palestinesi sono i primi consumatori di cibo di importazione israeliana, anche a causa anche del dumping dei prezzi dei prodotti da Israele che rendono le colture palestinesi fuori mercato. Da qui, la mobilitazione sociale, elaborata nella campagna The Boycott, Divestment, Sanctions (BDS), una mobilitazione non-violenta per riappropriarsi del proprio cibo, dove questo diventa un locus di mobilitazione politica per la difesa della propria terra e risorse, dove però la terra trema quotidianamente.

Le retoriche e identificazioni con il cibo baladii avvengono con progetti urbani (a Ramallah) di filiera corta, di attivazione di “mercati contadini”, di riconnessione con agricoltori “sostenibili”, con l’introduzione di tecniche globali della permacultura, o con una più ampia e storica “riscoperta” del contadino, simili a quelle europee, e simili quindi alle idealizzazioni e reificazioni su cosa sia, oggi, in questa terra, un contadino. Queste diverse mobilitazioni sono spesso disgiunte, o distanti, a livello locale con le pratiche dei contadini, o ciò che ne rimane nel loro lavoro quotidiano.

Il cibo baladii è una riaffermazione sociale del locale in mancanza di un territorio per come possiamo concepirlo (omogeneità, continuità, controllo della terra e dell’acqua, autonomia), un “locale” quindi dalla forte intensità simbolica e retorica. Ma nei campi, negli habba’il, sono le pratiche e i saperi agricoli ad essere gli attori principali. «Sono fellah perché so coltivare con le mie mani: tutto posso coltivare qui, anche il tè per la casa lo coltivo». Così un anziano fellah (contadino) mi mostrava le foglioline di tè, base dell’ospitalità palestinese, nascoste, a protezione del torrido sole, sotto erbe che io vedevo solo come disordinati infestanti fuori stagione. Anche il tè di semenza indiana, erba di altre globalizzazioni, diventa in un contesto del genere “locale”, il “proprio”, “baladii” come segno non di sostenibilità economica ma di rivendicazione di un dolce sapore di fragile autonomia.

Essere fellah è fare il fellah, cioè coltivarsi il proprio cibo dal punto di vista di chi lavora. Un termine di appartenenza, quello della cultura contadina che in realtà ha assunto molteplici significati storici. Come in tutte le realtà dello “sviluppo”, il fellahin ha sintetizzato nell’incontro coloniale e con la “modernità” (l’Impero Ottomano e il mandato britannico prima, Israele dopo) una realtà primitiva da superare in nome delle teorie della modernizzazione: il fellah dagli anni ’30 del secolo scorso doveva trasformarsi in farmer, imprenditore agricolo come progetto individuale e tecnico-economico, con il superamento delle forme di gestione collettiva e dei saperi locali (semenze, sistemi colturali, etc.) inevitabilmente ostacolo al processo di produttività del cibo. Un accento messianico ben conosciuto dello sviluppo che qui si è amplificato come processo di redenzione della Terra Promessa: coltivare, fare cibo in modalità “moderna” come redenzione della terra santa, come ritorno “indietro” ai racconti biblici e loro traduzione secolare nella costruzione di un Eden mondano, terrestre e high-tech.

Nel processo di esproprio della terra e dell’acqua, la nozione di fellah ha agito da “significante nazionale” (Swedenburg 1990): all’interno dell’incontro coloniale, il contadino e il suo paesaggio morale ed ambientale sono diventati un’icona nazionale e nazionalista nella lotta per la liberazione, segno di ancoraggio a una terra sottratta di giorno in giorno, con un ruolo retorico e identitario inversamente proporzionale alla realtà pratica ed economica dell’agricoltura per l’economia palestinese di oggi.

Se la nascita di Israele ha disintegrato la società agraria palestinese, è a causa non di un reiventato sottosviluppo, narrativa trita e ritrita di molte politiche in tutto Medio Oriente, ma della dislocazione della popolazione e dell’incorporazione graduale del territorio “del cibo” in nome della modernità. Nei territori poi occupati nel 1967, ha preso piede un radicale cambiamento dei sistemi di gestione della terra, con l’abolizione del musha’, lo storico sistema di gestione e rotazione della proprietà terriera tra sistemi di lignaggio dei villaggi (quindi basato sulla parentela come relazione politica e di solidarietà) e con una spinta globale a un’agricoltura industriale per l’export.

Questi cambiamenti arrivano già con l’Impero Ottomano, con le riforme agrarie imposte poi dal mandato britannico (che hanno reinventato i significati e “misure” di terra e di acqua) e poi con l’incontro coloniale e le ideologie della terra sioniste, che hanno riappropriato completamente il significato di terra e di locale. Ciò nonostante, nei Territori Occupati, l’autonomia di villaggio, in mancanza di altre forze centrali o centri urbani prevalenti, ha continuato a riprodursi come risorsa d’enclave, conservando i legami di lignaggio come base della comunità morale ed economica e l’agricoltura come base del sostentamento o del commercio.

La “vicinanza alla terra” del fellahin, come ultimo ancoraggio a un territorio che evapora, e la sua “tradizione” sono state spesso usate, e abusate, da molteplici attori politici palestinesi, per “naturalizzare” un legame con la terra, idealizzando allo stesso tempo la realtà contadina in un mondo mitologico e ancestrale. Un capitale simbolico denso ma sempre più astratto dai contesti locali: ciò ha certamente permesso di definire una “comunità immaginata” nella resilienza (sumud), per legittimare la difesa dei villaggi e dei terrazzamenti ad ulivi a rischio di esproprio e di rivendicare un’unica identità comune nell’offesa coloniale. Ma nonostante l’alto investimento simbolico accordato alla tradizione contadina, a pieno discapito delle culture pastorali e transumanti, relegate sempre più alla marginalità, poca o nessuna attenzione, o molta censura, sono calati su cosa facciano i contadini, quali saperi e quali tecniche siano state all’opera nel disegnare queste colline nel tempo: tutti aspetti trascesi anche nelle politiche di modernizzazione dell’Autorità Nazionale Palestinese, su spinta dell’aiuto EU per progetti di agricoltura intensiva volti all’export (il caso della floricoltura idrovora negli anni ’90 è un esempio classico), amplificando la perdita di autonomia dei sistemi agricoli locali e la nascita di oligopoli commerciali e latifondisti assenteisti.

Mangiare il territorio

La rivendicazione contemporanea di un cibo baladdii assume quindi significato solo all’interno delle ideologie agricole e dell’immaginazione coloniale dell’ambiente che qui si sono confrontate, al centro dei progetti nazionalisti: il cibo interconnette Israeliani e Palestinesi in un rapporto di egemonia e subalternità, a partire proprio dai significati sul piano simbolico di terra e agricoltura.

Non lontano a Battir, un abitante di al Wallaja, con una pancia imponente da buon mangiatore e la tipica ironia palestinese che permette di sovvertire temporaneamente la sottomissione quotidiana, raccontava dell’incontro quotidiano al check-point israeliano quando lavorava, avendo ancora il permesso di lavoro in Israele, come manovale in edilizia. Un giorno un giovane militare che ormai conosceva di vista, vedendo la sua pancia aveva esclamato, in uscita in macchina da Israele di ritorno al villaggio nei Territori: «ma quanto mangi con tutta quella pancia?» a cui lui aveva risposto esclamando: «Mi son mangiato tutta Israele!».

Se c’è una metafora che ben rende la presa quotidiana del territorio nella West Bank è proprio quella di un territorio e di risorse “mangiati” dall’Altro occupante, che sgranocchia, estirpa, abbuffa risorse fragili incorporandole in modo arbitrario nelle colonie. D’altro canto, i palestinesi sono obbligati, per accordi commerciali capestro, a importare cibo di produzione israeliana, ed è stato loro vietato costruire una minima autonomia alimentare, anche delle colture e alimenti più tradizionalmente palestinesi. Essere “mangiati dall’altro” ben rappresenta tanto la discrezionalità dell’abbuffata della forza occupante che ingloba e toglie, sia la dimensione politica del cibo, che rimanda alle risorse di queste colline semi-aride. Quindi è vero che i palestinesi “mangiano israeliano”, proprio perché obbligati a comprare hummus (colazione tradizionale a base di ceci) di importazione, o per decenni è stato vietato loro anche solo allevare mucche per la propria produzione di latte[3]. Una gastropolitica (Appadurai 1981) si disegna quindi su queste colline, dove l’atto del mangiare rimanda alle relazioni e ai confini con l’altro e rievoca il ruolo dell’immaginario dell’ambiente nel perdurante incontro coloniale. «Qui mangiamo dalla terra!» (Naqul mn’ al zira), sintetizza l’orgoglio e la sapienza degli anziani contadini, in un contesto però di vasta dispersione di questi saperi e dei valori positivi afferenti dal controllare le proprie risorse e abilità lavorative.

Essere colonizzati significa essere espropriati dalle possibilità di coltivare il proprio cibo in modo “stabile”, oltre che di fare impresa agricola, ma è anche diventare mangiatori e primi importatori dell’agrobusiness israeliano. Tale aspetto mostra, tanto l’intima interconnessione classica di ogni situazione coloniale, quanto l’eccezionalità di questa interdipendenza contigua: Israele e i Territori vivono un’intensa e intima interdipendenza. I contadini di un tempo sono diventati prima, manodopera a basso costo in Israele e nelle colonie, e oggi, in seguito al restringimento di visti di lavoro, consumatori di cibo moderno israeliano[4].

Mangiare dall’altro, e non mangiare più il proprio cibo, le proprie varietà, diventare consumatori e dipendenti, mette in luce la particolarità degli orti familiari che ancora disegnano le colline palestinesi in area rurale. L’appropriazione della terra e delle risorse altrui è stata legittimata proprio dalle ideologie moderniste della natura: sviluppare l’agricoltura per radicare Israele, inventare un nuovo cibo moderno in terre aride, all’interno di politiche della natura che sono a fondamento delle dinamiche politiche di queste terre.

Montagne che han perso il mare

È importante ricordare che, con la nascita di Israele, la società palestinese ha subito un intenso processo di decontadinizzazione riscontrabile, seppur con tempi più lunghi, nel più ampio contesto mediterraneo: la perdita del mare e della sua società cosmopolita, aperta ai flussi culturali e commerciali della costa, che si è venuta a contrapporre, amplificandone molti aspetti, alla cultura di montagna – l’attuale Cisgiordania occupata – caratterizzata da una forte autonomia contadina e di villaggio e da una produzione per il sostentamento oltre che per il commercio. La contrapposizione politica e culturale tra mare e montagna, tipica anche dei contesti mediterranei, era già presente nella cultura palestinese, dove il mare veniva visto come potenziale “inganno”[5] e corruzione degli stili di vita oltre che come pericolo. Ma la perdita della cultura della costa e del mare e dello sbocco ai flussi mediterranei, ha rafforzato la chiusura della regione montana all’interno dei legami agnatici di solidarietà, dei sistemi di produzione locale che si sono trovati ad affrontare la frammentazione interna a casa propria con l’espansione coloniale degli ultimi decenni. Un territorio senza centri urbani, dove i villaggi rurali e le cittadine sono rimasti l’unica àncora politica che, con il fallimento della virtuale Autorità Nazionale Palestinese, si sono ritrovati per lo più sotto totale controllo militare. Gli unici centri antichi, quelli rurali, sono stati frammentati e hanno perso autonomia, dinamica che mette in luce sul cambiamento radicale nella realtà di una società fondata innanzitutto sull’agricoltura.

Oggi l’occupazione è caratterizzata da «espropriazione, integrazione ed esternalizzazione: espropriazione delle risorse, in particolare acqua e terra; l’integrazione delle due economie attraverso un mercato e una manodopera palestinesi dipendenti e senza la minima autonomia; e l’esternalizzazione dei costi ambientali» (Temper 2009: 100, mia trad.). Di fatto, la realtà di disconnessione del territorio locale per i palestinesi è intimamente connessa ad una profonda integrazione in posizione subalterna al mercato del cibo Israeliano e alle restrizioni all’agricoltura palestinese (forti restrizioni all’export di prodotti palestinesi in Israele e altrove). Nell’Area C si “piantano” ordini militari e il cibo è militarizzato: ad esempio, il military order No. 1015 (Aug. 27, 1982) vietò il permesso per la coltivazione di alberi da frutta se non ad uso “familiare”, il military order 103 includerà nel divieto anche melanzane e pomodori, il military order 1015 anche le cipolle e le semenze di cipolla, con i divieti completi di coltivazione del tabacco (antica pratica locale per produrre ‘eishi), il divieto di utilizzo di pesticidi organici (verde rame, zolfo in quanto potenziali esplosivi).

Qui è comprensibile la fragilità del senso di località, in questo luogo globalizzato e sperimentale, dove il mangiare e coltivare si traducono in atti inevitabilmente politici, illegali, clandestini, sovversivi in un’agricoltura residuale, trincerata negli orti di casa e che presenta, nonostante questa dispersione, una testimonianza ancora attiva di modelli di relazionalità all’ambiente; oggi attirano anche “gruppi di acquisto israeliani”[6], pacifisti, che vogliono mangiare palestinese, baladii come prodotto “più naturale” e sano rispetto all’agribusiness del supermercato sotto casa.

Attraverso le ideologie moderniste, si è importato un nuovo paesaggio del modello californiano, incentrato sul risparmio di manodopera (per favorire quella israeliana), intensificare la produzione agricola, in un processo di salvazione di ciò che nei decenni è stato dipinto, anche dalle élite urbane palestinesi, come tecniche e saperi “primitivi” dei fellahin da sostituire con soluzioni high-tech. Ciò ha comportato la sostituzione delle semenze e del cibo locale: l’abbandono del grano e del mais, l’introduzione delle ideologie irrigazioniste a detrimento dell’antica storia di agricoltura piovana di queste terre e l’immissione di un’agricoltura volta al mercato come unico modello di coltura.

Immaginari coloniali: ideologie dell’acqua e della natura

Nell’immaginazione coloniale sionista, già prima della creazione di Israele nel 1948, l’agricoltura si pone come imperativo dalle forti valenze simboliche. Lo spirito pionieristico è alla base dell’ideologia della conquista della terra con due significati principali: in primo luogo, trasformare un paesaggio nuovo e immaginato come abbandonato, “primitivo”, e perciò moralmente degenerato rispetto alle potenzialità della “Terra Santa”; in secondo luogo, inventare e costruire un uomo nuovo, radicarlo in una rinnovata, e antica, “natura” attraverso il lavoro della terra. Un radicamento materiale, ma soprattutto immaginale, dove l’addomesticamento la Terra Promessa e il “ritorno alla terra” si presentarono come atto biologico e politico assieme. Ciò è definita oggi “l’agricoltura di sicurezza” per Israele come capacità di produrre il proprio cibo in un contesto di conflitto regionale, ma anche come agricoltura offensiva: modernizzare il paesaggio (Mitchell 2000) sostituendo i paesaggi locali palestinesi, una dinamica di spoliazione che si è accentuata in seguito all’occupazione nel 1967 della Cisgiordania.

Proprio sul mobile confine dell’incontro con i contadini palestinesi all’inizio del secolo scorso, si è sperimentato un modello di agricoltura come laboratorio globale per fare della produzione israeliana un fiore all’occhiello dell’agribusiness e del high-tech: un modello oggi che incontra forti contraddizioni e forme di insostenibilità per i costi d’acqua e l’inquinamento ambientale (esternalizzato per lo più nei Territori Palestinesi). Come altri progetti di modernizzazione, la produttività è stata economica sul corto raggio (produzione ed export agricolo) ma insostenibile rispetto all’arido contesto ambientale. Alta invece è stata la “produttività simbolica” (Bernal 1997): reinventare un paesaggio “imperiale” come sua redenzione e catarsi, costruire un “uomo nuovo” nel lavoro con la terra alla base di una nuova “comunità immaginata” da radicare (Anderson 1991). Ma il radicamento dell’uno è diventato lo sradicamento dell’altro.

Il cibo rimanda, ad ogni semenza e ad ogni boccone, al contesto di produzione in cui nasce e a cui è astratto: contadini, saperi, tecniche, località, in sintesi immaginari e forme simboliche della natura nell’incontro tra Israele e la popolazione locale che trova un momento topico negli anni ’20 del secolo scorso, Un secolo fa si costruivano gli immaginari cruciali per capire il cibo contemporaneo e le relazioni del cibo in uno dei luoghi più confinati al mondo. Le ideologie agrarie israeliane e moderniste si fondarono su una nuova immaginazione del paesaggio locale, di importazione europea e ibridizzata con i modelli della frontiera statunitense già all’opera in gran parte del Medio Oriente ad inizio del secolo scorso (Van Aken 2012) che partiva da una principale sottrazione: «a land without a people, for a people without land», la reinvenzione di un vuoto di popolazioni locali (la terra nullius di ricordo coloniale in Africa) ma anche l’invenzione e proiezione di un vuoto ambientale del “deserto”, che torna nel famoso «to make the desert bloom» che legittimerà la modernizzazione del territorio come “liberazione” dai vincoli ambientali[7].

Il deserto, proiezione immaginaria su queste terre aride e semi-aride, è reinventato come antitesi alla vita sociale ed ambientale, come “vuoto” degenerato da riempire di tecnica idrica per rigenerare un giardino che da queste parti non è mai esistito, ma tante altre modalità di giardini sostenibili ha testimoniato, come gli habbai’l contemporanei: ciò in piena opposizione con i saperi locali per cui questo panorama componeva una molteplicità di ambienti percepiti storicamente come un insieme, anche fragile, di risorse e di stagioni.

Alatout (2009) ben mostra come l’immaginazione ambientale sia stata al centro dell’impresa sionista prima della costruzione nazionale Israeliana e dell’impresa coloniale: se l’agricoltura è stato l’atto simbolico per reinventare la nazione, la pianificazione sionista, come insieme di saperi scientifici e applicativi, ha ridefinito l’ambiente immaginato nel binomio tutto modernista dell’ ”abbondanza” prima, e della “scarsità” poi, dell’acqua: una dicotomia a specchio che prima ha dato come premessa l’abbondanza d’acqua per l’assorbimento della popolazione colonica, per poi incentrare tutte le narrative politiche e sociali attorno all’emergenza della scarsità e all’appropriazione delle acque locali a discapito della popolazione palestinese.

Si sono quindi trascese le modalità locali di definire l’acqua: “l’imprevedibilità” e la “variabilità”, nozioni più realiste e intime, quanto operative, nel coltivare in questi ambienti aridi (Van Aken 2012).

Le narrative sull’acqua in Palestina si sono tradotte da un secolo a questa parte, in abbondanza da fruttare per l’immigrazione e la colonizzazione, in una rilettura dell’ambiente nell’immaginario biblico e modernista assieme[8]. Ciò ha fatto coincidere l’impresa modernista del cibo-acqua con la nozione biblica della salvazione, e, negli ultimi decenni, con un nazionalismo esclusivo che riprende le medesime icone ambientali, in una colonizzazione “green”, in nome della conservazione e protezione ambientale.

L’incontro tra il fellahin e il kibbutzin: immaginari di natura e dell’Altro

«No, non ho mai incontrato nessun buon fellah (contadino) tra di loro, qualcuno un po’ shattir (sveglio, abile), ma nessun che sa fare le cose con le proprie mani!»

L’agricoltura israeliana, che compone oggi gran parte del cibo palestinese, fiore all’occhiello dell’economia e dell’export high-tech israeliano, quanto fondamento simbolico-agrario della nazione Israeliana, nasce e si sviluppa a partire dall’incontro coloniale tra i fellahin, ammirati e assieme ostacolati in quanto nativi, e i kibbutzin. Questo movimento comunitario agrario è stato alla base sia dello sviluppo tecnologico dell’agribusiness israeliano, quanto dell’invenzione negli anni ’30 dell’uomo da “radicare” in seguito alla diaspora europea: un incontro che è stato inizialmente un processo, seppur subalterno, di riconoscimento e anche di forte mimesi culturale vis-a-vis i fellahin palestinesi, tradotto negli ultimi decenni in seguito al “processo di pace”, in un intenso diniego dell’altro seppur nell’accresciuta interdipendenza.

Il nuovo cittadino Israeliano nasce da questo immaginario ambientalista, dove il colono ebreo deve trasformarsi «in halutz, a pioneer for redeeming the Holy Land from its desolation» (Braverman 2009a: 128), radicandosi e reinventandosi non solo come contadino ma anche come agricoltore “moderno”, in contrapposizione sia all’icona di arretratezza del fellah ma anche al contadino ebraico “nativo”, entrambi non efficienti e non moderni. Il fellah,in questo incontro con l’occhio modernizzatore nei campi, è definito in base al suo essere “in balia della natura”, paradigma di tante storie coloniali. I fellahin sono costretti in una nuova economia morale, dove il modello da immettere è fondato su un’economia simbolica dell’inferiorità dell’Altro.

Un ambientalismo orientalista (Davis 2011) è alla base delle narrative non solo del cibo, ma dell’agricoltura come “radice nazionale” e termine di confronto con l’Altro: l’ambiente è da sottrarre al controllo palestinese, perché “corrotto”, “deficitario” “degenerato” rispetto agli ideali biblici, ma anche rispetto agli ideali europei di produttività e “normalità”. Ciò è amplificato dall’introduzione della nozione di wilderness dell’immaginario statunitense, non a caso dai confini mobili e spesso aridi anch’essi, un selvatico da addomesticare e rinverdire come opera di redenzione religiosa ed economica assieme, un ristabilire la produttività mitica del periodo biblico, come classica costruzione dell’immaginario tecnocratico che qui ancor oggi si fa politica quotidiana.

Questo panorama di redenzione secolare è riscontrabile in tanti altri contesti del sud del mondo, ma qui ha trovato un capitale simbolico accentuato, “naturalizzato” della Terra Promessa, e ciò è cruciale per comprendere le forme di negazione dell’Altro di questo particolare incontro coloniale attorno al cibo: l’altro è “colpevole” della degenerazione ambientale, e non potenziale attore di sistemi agricoli, è una “minaccia” ambientale, e quindi può essere rimosso non solo perché non moderno, ma anche perché degenera l’ambiente in una narrativa tipica dei determinismi ambientali[9]. A loro volta, i contadini sono diventati un’icona dello spirito e delle radici della nazione palestinese a venire, in una mimesi dei registri imposti, in un “nativismo orientalista” (Tamari 2009) dell’élite palestinese: legittimare il proprio ancoramento reinventando le tradizioni locali come radici reificate e incontaminate per dare legittimità alla resistenza palestinese contro la colonizzazione: ma ciò ha astratto coloro che curano la terra, fellahin o pastori, dalla loro realtà pratica, astraendo i loro diversificati saperi locali e la relazionalità storica con gli ambienti, in particolare con le vie dell’acqua e dell’umidità[10].

Lo specchio del cibo: dal riconoscimento alla rimozione contigua dell’Altro

Vulcani è un agronomo di origine lituana, fondatore dell’agronomia moderna israeliana, che pianificò le prime colonie agricole e sperimentò le tecniche e le ideologie rurali alla base della storia nazionale in quella che verrà rinominata Agricultural Research Station. I suoi studi nelle stazioni sperimentali degli anni ’20 del secolo scorso presentano in modo paradigmatico le dimensioni culturali e immaginali dell’incontro nei campi tra “scienziati” agronomi, i kibbutzin, cruciali nel primo sionismo socialista, e i fellahin: un incontro caratterizzato inizialmente dalla subalternità dell’Altro come primitivo da superare/salvare ma dove affiora prepotentemente l’ammirazione, la curiosità e l’apprendimento dell’altro e dall’altro, nei campi.

Nelle stazioni agronomiche sperimentali, che fonderanno poi l’agricoltura moderna israeliana, Vulcani studia le pratiche e i saperi locali palestinesi accanto a quelli agronomici in zone aride (Vulcani 1930). Si confronta perciò direttamente con le pratiche lavorative e “prende sul serio” gli aspetti di autonomia, di capacità di relazione con un ambiente fragile per la variabilità delle piogge, di autosufficienza dei sistemi locali nel riutilizzo delle poche risorse nel migliore dei modi. Avviene qui un passo importante nella sperimentazione della nascente agronomia occidentale di stampo scientifico, che delimita l’agricoltura come settore tecnico-economico disgiunto dalla società, proprio nel confronto con altre agri/culture[11]. In questo incontro scientifico e umano, il fellah prende il posto ideologico del primitivo da superare. La rappresentazione del fellah oscilla perciò tra il fossile sociale e l’icona di saperi vicini agli antichi ebrei della Terra Santa a cui riconnettersi simbolicamente come «chosen people of the Promised Land» (Vulcani 1930: 37), proprio a partire dalle loro conoscenze raffinate che l’agronomo coglie sulle tecniche di captazione dell’acqua, così centrali nel demarcare la stagione delle piogge da quella della siccità in questa regione.

Da un lato l’Altro è costretto in un classico paradigma evoluzionista e i locali sono condannati per la distruzione della fertilità dei suoli[12]; allo stesso tempo, nella medesime pagine, la “scoperta dell’altro” convive con il riconoscimento che rasenta l’invidia e l’ammirazione per i suoi saperi e il suo “radicamento”, di cui vediamo qui qualche esempio di tematiche che sono cruciali ancora oggi negli immaginari del cibo: l’attenzione alle sue conoscenze dell’acqua (Vulcani 1930: 5); alle tecniche di rotazione colturale («a good Fellah devotes his whole energy to preparing good the rotation crops, kerab. In this way he automatically destroys the weeds and prevents them from injuring the winter crops sown in these fields» 1930: 38); l’ammirazione per «la struttura armoniosa del sistema agricolo» (1930: 39); l’autosufficienza nei foraggi per gli animali, del concime, nell’autonomia comunitaria nel condividere la produzione del proprio cibo, per la multifunzionalità dell’agricoltura in relazione ad altre risorse, per i sistemi cooperativi locali nella gestione delle risorse[13]; l’autonomia della manodopera rispetto alle dipendenze esterne che con l’agricoltura andranno a crescere esponenzialmente[14] e infine, per la sostenibilità in termini “agro-ecologici”, diremmo oggi, nella produzione del cibo. Il produttore di cibo palestinese è riconosciuto quindi come attore del paesaggio, a partire dal suo savoir-faire, delle sue tecniche e dai suoi saperi, e ciò che sollecita Vulcani, nonostante il sostegno sionista all’esproprio della terra, è la necessità di mantenere all’interno della modernizzazione agricola questi saperi sulla relazionalità ambientale, così flessibili al contesto semi-arido.

Già all’epoca, il ciclo agrario si definisce qui non sull’abbondanza/scarsità dell’acqua, ma sull’utilizzo sapiente della variabilità invernale dell’acqua, da cui dipende la condivisione delle risorse, la capacità di un buon raccolto futuro e la circolarità delle risorse nella relazione ambientale: tutti aspetti oggi in auge non solo tra l’élite palestinese alla ricerca di cibo biologico, ma tanto più in Israele, a fronte dei processi di inaridimento, di insostenibilità ambientale e di cambiamento climatico dei nostri modelli di sviluppo lineare.

Nonostante la subalternità dell’incontro, l’altro è riconosciuto come sapiente, e le tecniche locali come saperi per pensare il cibo su queste terre: un “ri-conoscimento” locale che negli ultimi decenni è venuto a scomparire sia nella classe dirigente sia nella comunità scientifica, che ritrova la strada verso l’antica terra promessa unicamente nelle forme intensive dell’agricoltura industriale irrigua, ma con poca acqua.

Come afferma Cohen(2011: 247), nei suoi studi sugli immaginari ambientali tra Palestinesi e Israeliani,«Palestinian and Israeli are bound up in imaginings. Many of their imagining are exclusive, others are mutual, and some are parallel»: l’ambiente, condensato nel cibo, è al centro non solo dell’incontro coloniale, ma anche della stessa ideologia di radicamento nazionale. L’idolatria della terra sta alla base della colonizzazione in un nazionalismo ambientale che ha cercato nelle metafore biologiche un’umanizzazione della nuova terra; e ciò ha permesso di naturalizzare i processi di colonizzazione dal punto di vista simbolico, quanto di risemantizzare il paesaggio. Per questo il cibo fellahin si è fatto un’icona ideologica palestinese dove a fronte di un’agricoltura offensiva, la stessa agricoltura locale diventa difensiva. Da qui la reificazione palestinese del fellah, e oggi del cibo baladi, dove l’ambiente per i palestinesi si è tradotto in un «mythical inventory of deeds and virtues, triumph and victimization, identification with the loss of land relationship as sign of nobility» (Cohen 2011: 253). Alla mitizzazione della terra sionista ha corrisposto una reificazione del fellah come difesa della terra, patria, giardino o cibo. Ma ciò ha portato anche al conseguente nascondimento dei saperi locali negli orti per il “cibo”, che parlano ancora di altre relazioni, sociali ed ecologiche.

Politiche arboree: radicare e sradicare

Spesso a Battir, sostando o dando una mano nei piccoli orti (habbai’l) notavo, tanto più in terreni vicini e oltre alla linea di confine, che in ogni campo di melanzane, di cui è conosciuta come locale la varietà Battirii, erano stati piantati diversi ulivi: se ero abituato all’ampia promiscuità di colture di questi intensi spazi di coltivazione, quelle giovani pianticelle di ulivo malcurate contraddicevano le tecniche e le attenzione delegate agli alberi di ulivo per la produzione di olio, icona della forza della casa e della famiglia[15], segno di prosperità e di storico permanere nodoso sulla propria terra. La risposta alle mie perplessità era banale: solo la presenza di questi alberi permetteva di difendersi a fronte dei quasi certi tentativi di esproprio militare del terreno, e di fare appello di fronte alla corte militare, dal momento che le colture non sono giuridicamente riconosciute come segno di coltivazione e di proprietà, mentre l’articolo 78 del codici militare, ripreso dal catasto ottomano, riconosce agli alberi il ruolo di marcatore fisico per definire un controllo legittimo e legale sul territorio. Appare molto sensato quindi piantumare tanti ulivi dovunque come bandiere al vento, nella speranza che, sopravvissuti agli otto anni, possano diventare difesa giuridica, più che produrre olio o olive da mangiare.

Nell’immaginario ambientale che si è imposto, l’albero ha assunto all’interno delle ideologie sioniste e nello Stato israeliano una preminenza che ha ridefinito il senso dell’agricoltura, di territorio e delle colture non arboree, ma anche una priorità, per contrapposizione, che per i palestinesi è venuto ad assumere l’olivo, tanto più se antico. Tanti sono i terreni storici coltivati ad ulivo, attorno a Battir e sotto controllo militare, che ad esempio, non possono essere arati e lavorati perché già inseriti nei terreni da espropriare per la pianificata estensione di Gerusalemme a Nord[16]. Da qui l’invenzione obbligata dell’aratura a mulo notturna: per non farsi vedere, molti proprietari nel weekend (e spesso lavoratori in Israele, quindi nel fine settimana israeliano, lo shabbat al sabato-domenica) svolgono le indispensabili arature a primavera quando possono evitare di essere arrestati per coltivazione illegale sulla propria terra. Ed è chiaro, che la mondana aratura di campo di ulivi assume tutt’altro significato nel buio di questo contesto discrezionale.

Foto n.2: la cisterna d’acqua che raccoglie l’acqua sorgiva per gli habba’il, sullo sfondo le piantumazioni a pineta israeliana in territorio sequestrato all’interno della pianificazione green di Gerusalemme Ovest (Van Aken)

I fellahin incontrano qui potenti idolatrie della terra, elemento ben esemplificato dalle politiche arboree al centro della nuova disciplina dello spazio dello Stato israeliano. I villaggi palestinesi distrutti nel ’48 sono stati nascosti infatti grazie a piantumazioni di pinete, che nascono quindi come uno dei simboli nazionali israeliani con un forte investimento nelle politiche forestali, la costruzione di aree verdi protette per impedire la costruzione di case palestinesi o per espropriare terra coltivata a ulivo e mandorlo, ad esempio. Il pino si è trasformato, nel suo viaggio immaginario dall’Europa, in elemento totemico della nazione israeliana in cui “riconoscersi” come comunità immaginata, che si fonda, però, su di una rimozione.Si ridisegna il paesaggio per rimuovere altri paesaggi e altre memorie, in quelle che sono state definite politics of planting (Cohen 1993): si radicano alberi per nascondere i villaggi palestinesi distrutti, per appropriarsi di nuova terra in modo esclusivo e per sradicare Altri, dove il pino diventa perciò un’arma offensiva.

Braverman (2009, 2009b) ha ben mostrato l’offesa arborea israeliana come mito fondatore. Le politiche forestali coincidenti con la nascita di Israele, ed estese oggi nelle città coloniche nei Territori, evidenziano sul territorio la qualità totemica del pino e la sua caratterizzazione a simbolo umano (israeliano) di radicamento, bandiera anche militare nella costruzione del paesaggio: radicare pini, come icona degli Israeliani stessi, nel redimere la terra con la foresta, ma allo stesso tempo sradicare altrui villaggi e uliveti, coprendoli con una varietà arborea di veloce crescita. Pinete che ben ostacolano anche la produzione pastorale palestinese, dal momento che gli aghi dei pini e l’acidificazione del suolo delle pinete, impediscono la crescita di pascolo. Qui la “protezione della natura” coincide con la protezione dagli “altri”.

La riforestazione è stato il progetto cardine del Jewish National Fund, secondo cui il pino si è tramutato in una missione nazionalista che ha radicalizzato un paesaggio di pineta contro un paesaggio ad ulivo, eludendo la varietà colturale di ortaggi, frutta e erbe che compongono storicamente il paesaggio locale palestinese. Infatti, nella lotta tra pinete e uliveti difensivi, l’orticoltura è stata svalutata e censurata nel tempo, tanto più che non è riconosciuta nelle politiche di modernizzazione non solo israeliane ma anche dell’élite politica palestinese[17].

Questa offesa simbolica e arborea permette sia di espropriare gli altri, ma rende invisibile, verde e “naturale” il processo di colonizzazione, anzi ne rivendica il ruolo rigenerativo sulla terra. Ciò mostra un utilizzo quindi imperiale delle politiche della natura nel creare uno spazio intrinsecamente ebraico, sradicando elementi simbolici che non rientrano in questa nuova mappa. Questo paesaggio “naturalmente” esclude l’Altro colonizzato e riscrive allo stesso tempo la pineta come spazio selvatico, naturale, ma “moderno”, contrapposti al frutteto e all’uliveto, riconosciuti come emblemi della Terra Promessa e rimuovendo l’orticoltura locale come paesaggio da dis-togliere, non solo allo sguardo.

Saperi circolari tra terra e cielo

Gli spazi orticoli degli habba’il si caratterizzano oggi per la produzione di diversità e intensità del cibo in piccoli appezzamenti di terra: la compresenza, anche verticale, di ortaggi (estivi o invernali), erbe domestiche (alimentari e medicinali), frutteti e ulivi (a difesa “giuridica”, come abbiam visto), erbe da foraggio o post-raccolto (per le poche capre e pecore rimaste) e, infine, erbe selvatiche che sconfinano dagli appezzamenti, ma di cui si conoscono e ricercano molteplici varietà, percorsi, stagioni e luoghi[18]: piccoli terreni caratterizzati da un gran lavoro e da un “discorso” locale cruciale attorno al “proprio” cibo, a idee di “purezza” e libertà, proprio a partire da semenze, tecniche, piante e controllo dello spazio domestico esteso agli orti. Il cibo qui si riconnette al territorio, alle dinamiche ambientali e soprattutto ai saperi e savoir-faire che permangono, nonostante l’ampia trasformazione, svalutazione e abbandono dell’agricoltura delle nuove generazioni.

Foto n.3: l’organizzazione primaverile della habbala con i vivai irrigui ben demarcati (Van Aken)

«Kullo mamnu hon!» (Qui tutto è vietato!): è l’esclamazione più ricorrente mentre tra agricoltori si parla del perché non ci sia più acqua nella valle accanto, del perché non si possa usare zolfo come antiparassitario “naturale”, o perché camminano furtivi a diserbare nei campi oltre i binari della ferrovia che segna il confine militare in avanzamento.

Si coltiva il “caos” in questi ambienti, in due accezioni concomitanti. Da un lato, perché lavorare la terra nel contesto coloniale è soggetto a una continua discrezionalità delle normative dell’occupante, che sia la giurisdizione militare o i coloni israeliani “vicini di casa”: la perdita di sorgenti (a Battir, nonostante l’autonomia della sorgente principale, gli abitanti hanno già perso negli ultimi decenni quattro sorgenti), l’esproprio o l’estirpazione degli alberi, gli incendi dolosi, il divieto di lavorare in terreni in via di esproprio, il divieto di utilizzare antiparassitari come lo zolfo (in quanto potenziale materiale esplosivo terroristico), l’invasione di cinghiali e gazzelle che spesso distruggono i piccoli appezzamenti (diffusi ampiamente come ripopolamento della wilderness da parte dei coloni) e via dicendo. Le dissuasioni a coltivare sono enormi e imprevedibili e a ciò si aggiunge per questi piccoli produttori la difficoltà di accedere al mercato con il loro piccolo surplus, dal momento che è illegale vendere sulla piazza del mercato a Betlemme per l’amministrazione palestinese a rischio di essere multati o espropriati del raccolto.

Un seconda dimensione, più virtuosa e culturale, rende tutto ciò un coltivare il caos: ciò che sembra (e mi sembrava, nonostante il mio occhio di orticoltore) disordinata promiscuità, interconnessione poco comprensibile, è spesso un altra forma accorta di relazione tra piante, di costruzione di spazi di ombra a difendere dal sole prolungato, un accoppiamento virtuoso tra colture, un “lasciar crescere” il selvatico appositamente per preservare l’umidità del suolo o, ad esempio, molteplici piante con frutto a seccare, lasciate come semenzaio in una vera e propria banca dei semi nel campo. Da questo calibrato caos, o ampia interconnessione di colture e selvatico, si riscopre e si coltiva il cibo baladii: varietà locali, utilizzo di tecniche di diserbo manuale anziché disseccanti chimici (a base del famoso glisolfato), tecniche irrigue e di intima conoscenza delle stagioni di umidità e dei rischi colturali, ma soprattutto, cibo per la famiglia estesa. Habbai’l sono quindi un’anticamera della cucina, una rete sociale di cibo da conservare per l’annata, o anche per due soldi in più per la casa con il surplus portato al mercato[19].

La produzione, la processualità del lavoro contadino sono spesso rimaste invisibili nell’incontro con i progetti di modernizzazione (Scott 1998) e i contadini, tanto più nelle dinamiche di ibridizzazione e cambiamento contemporanee sono sempre, riprendendo la definizione di van der Ploeg, «an ongoing struggle for autonomy and progress in a context characterized by multiple patterns of dependency and associated processes of exploitation and marginalization» (van der Ploeg 2008: XIV). E il radicale processo di decontadinizzazione che ha avuto luogo qui è stato sostenuto da un’attiva costruzione dell’ignoranza e della censura sui saperi locali incorporati, reticenti alle verbalizzazioni o vissuti con vergogna quali stigma di arretratezza nei nuovi immaginari dello sviluppo. “Qui i giovani non vengono più” è l’esclamazione più vicina alla realtà, con poche eccezioni familiari, di un lavoro ormai svalorizzato, che non porta introiti e che mantiene l’unico valore simbolico nel difendere la propria terra dall’abbandono che porterebbe, prima o poi, all’esproprio.

Ciò che differenzia gli habbai’l dall’agricoltura imprenditoriale e dall’agribusiness di ampia scala è la diversa relazione con le risorse ambientali: la produzione agricola non è volta unicamente all’ottenimento del raccolto-merce, ma assieme alla preservazione, obbligata per chi ha poca terra, poche risorse e nessun’altra alternativa, della fertilità del suolo, dell’autonomia dei mezzi di produzione (le sementi, ad esempio), delle forme istituzionali di cooperazione (lo scambio di manodopera o di acqua irrigua) proprio per abbassare il più possibile le dipendenze esterne (crediti, capitali per l’input di pesticidi, fertilizzanti chimici, semenze o i saperi esperti). La relazionalità tra le risorse è al centro degli orti, veri spazi intensivi dove è esplicito il fatto che “la terra è bassa” e il lavoro manuale assume preminenza nella circolarità delle risorse ecologiche “in campo”.

Questi sistemi agri/culturali che qui sono sopravvissuti sono forme, non ideali né congelate nel tempo, di co-produzione tra uomo e ambiente, nelle quali sono sempre presenti le idee di limiti alla produttività e della relazione ad un insieme di soggetti viventi, e non solo oggetti di produzione. Sono proprio le forme di relazionalità e di co-produzione che permettono di mantenere un’autonomia e una resilienza di fronte a forme di dipendenza che caratterizzano molte popolazioni rurali oggi.

Negli habba’il sono in atto saperi delle forze e limiti dell’ambiente, sempre a rischio di perdersi nella mancanza di passaggio generazionale: saperi contestuali, performativi, trasmessi attraverso la pratica lavorativa e quasi mai compresi nella letteratura (eccetto che tra gli anni ’20 e ’30 del secolo scorso da Vulcani o da Dalman) ma difesi negli orticelli come unica risorsa culturale a cui fare affidamento, attraverso cui orientarsi nei radicali cambiamenti, tra cui il cambiamento ambientale e climatico. Se oggi l’economia circolare e l’agroecologia, che investono appunto sulla relazionalità delle risorse, sono rivendicate in termini retorici a livello globale a fronte delle radicali contraddizioni tra società e ambiente, poca attenzione e sapere permane sulle pratiche di questi orti di casa, che hanno sempre investito sui saperi atmosferici.

Relazioni d’acqua, tra terra e cielo

Battir nel secolo scorso era parte del “food basket” di Gerusalemme, grazie ad alcune importanti sorgenti che permettevano di irrigare i terrazzamenti con verdure stagionali e per la prossimità geografica (oggi ancora più prossima, per l’estensione della Gerusalemme israeliana) era uno dei pochi territori che poteva produrre orticoltura estiva e invernale con uno sbocco commerciale. L’autonomia idrica è la vita dell’orticoltura di Battir ancora oggi, nonostante altre sorgenti nelle valli laterali siano state perse: una sorgente centrale alimenta una cisterna di origine romana, da cui si diparte un reticolo irriguo che canalizza l’acqua ad ogni piccolo appezzamento a digradare nella vallata davanti al paese.

La settimana d’acqua a Battir è fatta di otto giorni e non di sette: l’acqua come veicolo centrale del tessuto sociale è divisa in una common, come sistema di gestione comune dell’acqua, che si è riprodotta nonostante l’ampio abbandono delle terre e dell’agricoltura, ed è basata storicamente sulle otto hama’il (tribù) che compongono la struttura sociale. Di conseguenza, la suddivisione dei turni d’acqua è stata organizzata in giornate d’acqua (solo nelle ore diurne) per ogni hamula, che a sua volta ri-suddivide i turni d’acqua di un giorno in ore d’acqua in base ai lignaggi che lavorano ancora la terra. La centralità politica dell’acqua è evidenziata dalle “cerimonie” di suddivisione del turno tra maggio e settembre, come stagione di intensità irrigua e di lavoro estivo: dopo la preghiera del venerdì, in relazione al fabbisogno stagionale, gli anziani dei lignaggi si riuniscono nella piazza della bire (la cisterna), con una antico bastone graduato chiamato mahdude (di 120 centimetri), misurano l’acqua captata nella cisterna (shoke), che suddivide le quantità d’acqua per giornata: 5 centimetri d’acqua vengono lasciati sempre come riserva d’emergenza, le tacche rimanenti sono unità di 20 minuti d’acqua che vengono suddivise, in una definizione di tempo sociale dell’acqua ben diffusa in molti sistemi irrigui in Medio Oriente, non secondo la terra quindi, ma secondo l’ampiezza della hamula, elemento che riporta la centralità politica a questa istituzione locale. Un atto pubblico di un prezioso bene comune, da cui dipendono le decisioni di semina, il tipo di colture e di estensione, gli scambi d’acqua quanto le risoluzioni e il controllo dei conflitti e dei furti d’acqua, anch’essi pubblicamente controllati.

La presenza la tipologia dell’acqua da sempre definiscono tecniche e colture differenti, a partire dalla distinzione cardine tra semenze ba’li (piovane) e irrigue o commerciali: le prime sono al centro della lunga storia di agricoltura non irrigua, con tecniche agricole che hanno selezionato varietà resistenti allo stress idrico, saperi tipici di un contesto semi-arido. Le seconde son connesse alle semenze della rivoluzione verde, nonostante il territorio non abbia smesso di dipendere dalle acqua invernali.

Ciò compone un sistema di cooperazione che è riuscito a mantenersi nel più ampio processo di esproprio e disgregazione sociale. Questo perché utilizzare l’acqua non è solo farla arrivare equamente ai campi, ma è saperla utilizzare in relazione a molteplici variabili, tra cui la principale e storica è la dicotomia ambientale tra una lunga estate torrida e asciutta e un inverno di sperate stagioni delle piogge durante le quali raccogliere, preservare e utilizzare la maggior parte d’acqua possibile per la stagione di produzione. Queste due stagioni principali hanno composto un immaginario e assieme un senso pratico dell’umidità e delle sue variabili che le politiche e ideologie agrarie, israeliane e in modo subalterno palestinesi con l’aiuto EU, hanno trasceso e disconnesso. Quella relazionalità agli incerti cicli piovani che Vulcani ammirava un secolo fa e che l’agronomia rivendica oggi a casa nostra nell’agro-ecologia, è fondata su questo raffinato senso pratico di lavorare con l’aridità e nel mantenere riserve umide per fare il cibo.

Già Dalman (1928) descriveva, in uno dei rari studi sulle pratiche lavorative dei fellahin negli anni ’20, come l’inizio dell’anno coincidesse con la fine dell’estate, o l’avvio dell’inverno a ottobre nella «barren rockiness of Palestine» (2013: 24): definita come zona arida, ma non desertica, non un vuoto ma ambiente di potenzialità ben calibrate dal calendario agricolo, che era innanzitutto un calendario d’acqua, connesso quindi ad un calendario atmosferico. Le pratiche della terra dovevano orientarsi con il flusso atmosferico e le sue aspettative.

La pioggia non è mai stata abbondante o scarsa, classico binomio modernista, ma “imprevedibile” e variabile: e “prevedibili” sono diventati i sistemi sociali e tecnici che si sono adeguati a questa flessibilità nell’orientarsi nel cambiamento continuo delle piogge, a “fare luogo” in relazione a forme di continuità delle piogge, il cui rischio nei terrazzamenti non è solo che siano troppo poche, ma anche troppe col pericolo di dilavamento, erosione o rottura dei muretti terrazzati, altra arte palestinese del luogo. Da qui i molteplici rituali e connotazioni religiose connesse alla pioggia, per dar senso a questa imprevedibilità ed incertezza del tempo, pioggia come rahme, grazie divina.

La stessa verdura si chiama khudra, che definisce anche il verde, o meglio, il “verdeggiare”, il paesaggio che tutto ad un tratto risorge a primavera dall’arido roccioso lasciato dall’estate, immagine che ben rende la demarcazione stagionale incorporata nel lavoro locale.[20]

Saperi terreni d’aria

Il sapere della terra, nel fare il cibo, era anche un sapere dell’aria e dell’atmosfera elaborato nel calendario atmosferico del murba’nia. Di questo coinvolgimento atmosferico dei saperi tecnici popolari risulta oggi traccia unicamente nei testi di Dalman di quasi un secolo fa e a Battir se ne ricordano le fasi oggi come parte di kanzaman, del tempo antico, perso e reinventato nostalgicamente; i saperi correlati a quel calendario sono però attivi nel lavoro nei campi, come saperi incorporati nelle tecniche lavorative, seppur censurati nei codici verbali e tanto più nelle migliaia di resoconti dello sviluppo rurale.

Il murba’nia divide l’anno in shitta, che non a caso significa sia “inverno” che “pioggia”, dalla lunga, torrida e arida estate (sef): il calendario definisce cinque fasi di cambiamento atmosferico-ambientale delle sperate piogge, per definire non qualsivoglia acqua ma la “pioggia propizia”, nel “tempo propizio”, non rischiosa, né precoce né tardiva: un orientamento strategico nella variabilità, una bussola e barometro assieme di saperi locali tra le preziose fluttuazioni d’acqua e nuvole. Murba’nia componeva quindi un sistema di percezioni della pioggia consolidato nelle continuità e variabilità ambientali e connesso quindi a un lavoro terra terra: per lavorare a basso, si guardava in modo sapiente verso l’alto. Quindi, le tecniche della terra erano anche relazionate all’orientarsi nell’atmosfera regionale, un aspetto oggi sempre più cruciale nel contesto dei cambiamenti climatici e atmosferici planetari e locali.

Foto n.4: Fichi d’india, uno dei simboli identitari palestinesi, nell’ambiente atmosferico (Van Aken)

Questo antico calendario atmosferico definiva l’inverno – dal 21 dicembre – come stagione del freddo e della pioggia crescente di 90 giorni e suddivideva gli ultimi 50 giorni “strategici” in fasi di 12 giorni e mezzo – Sa'd al dhabe, Sa'd al sau'd, Sa'd al bala, sa'd al khabaieh – una precisione apparentemente puntigliosa e inutile nella misura della mezza giornata, a delimitare la variabilità delle pre-visioni d’acqua. Le fasi definivano il crescente intensificarsi del freddo, la tipologia dei venti (essicanti o umidi), il raffreddamento della terra e la sua capacità di assorbimento – «quando la terra beve l’acqua» – il mantenimento dell’umidità per il resto dell’anno, le piogge propizie (definite non a caso, come le semenze, anch’esse ba’ali) rispetto a quelle dannose, la relazionalità ecologica come gli insetti – al khabaieh,l’ultima fase- che, come gli scorpioni, escono dalla terra, avvisando dell’inizio della nuova stagione lavorativa. A ogni fase corrispondevano un insieme strategico e flessibile di pratiche e tecniche lavorative, per delimitare, prevenire o minimizzare i rischi di perdite nella semina 8se troppo precoce o tradiva rispetto alle piogge), del raccolto o al bestiame, per gelate improvvise o per la mancanza d’acqua stoccata per la stagione secca.

Anche a Battir, nonostante la fortunata presenza ancor oggi di una sorgente continua, la “raccolta” dell’acqua in questa stagione permane come cruciale nella costruzione o per l’ampliamento dei bire, cisterne tradizionalmente sotterrate per evitare l’evapotraspirazione: avere o costruire una cisterna è soprattutto una “costruzione” del territorio di captazione circostante, livellando il terreno per condurre le acque piovane verso il punto di raccolta, di decantazione e di filtraggio. Raccogliere l’acqua è, ancora oggi in questi sistemi locali, un “raccogliere il tempo”: sapere come condurre a casa la maggior acqua possibile come capitale per l’estate e per il cibo a venire.

Il murba’nia e le pratiche connesse e sopravvissute nel cambiamento sono quindi, seppur nella loro frammentazione, un sistema di interconnessione tipica dei saperi contadini tra le forze ambientali nel pensare il proprio cibo: le tipologie di aratura, le relazioni tra alberi e piante, le tipologie di semenze locali baa’li o piovane[21] riprodotte negli orti sono relazionate e dipendenti dai saperi della pioggia e dell’acqua.

Oggi, il mulo o asino palestinese da aratura è, nelle prospettive moderniste, un’icona dell’arretratezza delle tecniche locali. In realtà, è la tecnica e risorsa più sostenibile economicamente e dal punto di vista ecologico per lavorare i piccoli terrazzamenti scoscesi, per trasportare il raccolto per i ripidi pendii terrazzati, tanto che gli aratori locali sono richiesti anche dai coloni israeliani. Le tecniche tradizionali di aratura sono un buon esempio di relazionalità alla variabilità dell’acqua “atmosferica”: una prima aratura, definita Ghassil al-zaitun, applicata ai campi ad ulivo, è un “aprire la terra di novembre prima della pioggia” della murb’ania, da qui l’importanza nell’orientarsi nelle dinamiche atmosferiche. Una seconda è Shkan al-harrath intorno a marzo, sempre in base alla variabilità delle piogge, per “chiudere la terra” all’uscita dell’umidità. Simile tecnica è l’aratura negli orti, tra Shkak per “aprire i campi”, e Itsara, per levare l’erba a marzo, a cui può seguire una seconda post-pioggia, Al-ithnaia, per “permettere alla terra di bere” a seconda del bisogno delle colture. In alcuni casi è prevista anche una quarta aratura (Fakkus) per alcune colture che richiedono maggiore acqua.

Relazioni e abitudini delle piante

I saperi negli orti sono spesso saperi metaforici interconnessi a sistemi di savoir faire: saperi incorporati che si riflettono nei proverbi e “modi di dire” e di fare, che compongono antiche tecniche locali. Un tipico esempio di questo paesaggio interno ed esterno a Battir[22] è «alto cresce il fico, basso l’ulivo» (‘ali al tin, uati al zaitun): un proverbio che condensa in realtà una serie di tecniche di piantumazione, di potatura e di relazionalità negli orti tra ulivi che devono stare più bassi, per “sposarsi” diremmo noi, con fichi che han bisogno di maggio spazio verso l’alto in una relazionalità di giuste ombre e distanze. Innumerevoli sono le tecniche colturali che non hanno origine agronomica, ma che compongono la “comunità morale” degli orticoltori, il sapere locale di ciò che è scontato saper fare bene per la produttività e la sostenibilità dell’orto: la complessa rotazione tra colture (tra stagioni invernali e estive e anno dopo anno), gli abbinamenti della molteplicità di colture compresenti (in base allo sviluppo in altezza, all’apparato radicale, alla resistenza al sole e allo stress idrico), le nozioni locali di terra fredda (bard) e calda (hami), di piante che “vogliono il caldo” e piante che “vogliono il freddo”, legate all’assorbimento dell’acqua e all’esposizione al sole.

Centrali, e vengono riscoperte nell’ultimo decennio, sono gli abbinamenti virtuosi tra colture, che si sostengono e “non litigano”, a scopo antiparassitario (cipolle e aglio), o i sistemi di rotazione tra colture, dimenticati per qualche decennio con l’introduzione massiva di concimi chimici, o seminare sovescio (kureiss) per arricchire la terra d’inverno[23].

In tutto ciò predomina, nelle prospettive locali, il saper fare come componente essenziale del cibo baladii: è il “fare tutto con le proprie mani” in opposizione all’agricoltura intensiva del cibo israeliano con forte impatto tecnologico, l’autosufficienza delle poche ma essenziali risorse, che si connette anche al “saper camminare” in questi territori, il sapere trovare le piante selvatiche come forma di “appaesamento” e identificazione in una comunità di pratica, anche per evitare postazioni mobili dell’esercito.

Semenze per aria

Una delle variabili centrali in queste terre nel definire in significato della semenza è sempre stata la distinzione tra semenza ba’al (di agricoltura piovana) rispetto a quella muhaggan, del mercato, o marui’i, irrigue, introdotte con la rivoluzione verde e che compongono la quasi totalità del mercato delle semenze: la prima è stata marginalizzata come improduttiva a favore delle semenze ibride, che necessitano innanzitutto di irrigazione intensiva oltre che a costosi input (pesticidi, fertilizzanti chimici, accesso al mercato, saperi esperti, etc.). Una distinzione che negli ultimi anni è coincisa con quella di semenze locali baladii, endogeni, rispetto a quelle “da fuori”, esogeni, del “mercato” globale o israeliano.

Solo negli orti non son scomparse le semenze piovane, che prendono il nome proprio dai terreni “esposti alla pioggia” (ba’al) in una connessione con i cicli, mai certi, stagionali. Se pochi parlano esplicitamente di semenze, basta stare negli orti per rendersi conto della notevole riproduzione di semenze locali sopravvissute alla grande sostituzione di semenze del mercato avvenuta negli ultimi tre decenni. Come un vivaista esclamava «le semenze locali son figlie del luogo» (baladi bint al mintak), figlie ibridizzate nel tempo ma adattate proprio agli ambienti, ai gusti e alle esigenze tecniche, dipendenti dal contesto e non “libere dal contesto”. Un esempio sono le semenze ba’li di pomodoro, che porta con sé il saper interrarlo dal vivaio (mashkabe) con l’apparato radicale inserito più profondamente delle piante commerciali, a raccogliere umidità dal canale irriguo che gli passa accanto: un seme che necessita di un tipo di aratura e connesse tecniche di irrigazione, quindi saperi correlati.

Foto n.5: Un anziano contadino mostra la varietà di melanzana di Battir (esportata anche nelle filiere mediorientali palestinesi, oltre che nel mercato regionale), una varietà ba’ali o piovana che ben tollera lo stress idrico (Van Aken)

Le semenze “piovane” sono scomparse sul commercio, ma si ritrovano in questi terreni e nelle tasche di questi agricoltori. Piante – di pomodoro, di melanzane, di bamia – capaci di adattarsi alla lunga stagione estiva e secca, in un contesto politico inoltre che ha aggravato il limitato accesso all’acqua proprio per le confische delle sorgenti, per il divieto di costruire cisterne di raccolta d’acqua o di pompare da fonti sotterranee. Piantare “piovano” significa non dipendere da costosi input esterni a partire dalle stesse semenze, ma richiedono una contestualità di tecniche e accorgimenti delle piogge dall’alto: un adattamento delle piante a “sopportare la sete” e un “saper fare” che spesso non si è più tramandato. Da questo insieme di tecniche ha luogo il “sentirsi liberi” (horr) nonostante i contadini siano sorvegliati anche mentre lavorano.

«Al ‘adas biuashuash, Ua al bikia bitnadi» (Le lenticchie sussurrano, le erbette gridano) è un altro proverbio che nasce nei campi e nel lavoro e mostra le diverse abitudini delle semenze piovane: le lenticchie (coltura tradizionale ormai scomparsa) devono essere appena ricoperte di terra e sussurrare, mentre un le erbette locali hanno bisogno di maggiore profondità e di “urlare” sotto terra per farsi sentire, proprio in base ai bisogni di umidità e di sensibilità al freddo.

«Ana fargikia kulshi, lamma batruh al baladk inta tahki!» (Ti mostro io come si fa, così quando vai al tuo paese puoi raccontarlo): un mostrare tecniche nel farsi, le cui parole sono le mani, piedi e pochi attrezzi, e che aprono un libro di sapienza sulla relazionalità di quelle risorse, intime e non libere, dall’ambiente.

La wilderness dal punto di vista locale

Se il “selvatico” della wilderness è stata un’ideologia centrale nel legittimare nuove forme di addomesticamento coloniale, forte rimane l’investimento sulle erbe e piante selvatiche che ben sintetizzano il “sapore del locale” nelle cucine. E un altro elemento che caratterizza “la complessità” intessuta degli spazi di cibo è il lasciar crescere gran parte del selvatico, altrimenti diserbato, negli orti e conoscere “le strade” e i luoghi delle decine di piante selvatiche di cui si usano foglie, radici, bacche, frutti (Ali-Shtayeh2008): qui la propria habbala non è pensata come chiusa ma sconfina nei propri territori controllati militarmente, dove “si sa camminare” e “si sanno trovare le piante”. Saper mangiare rimane ancorato al “saper camminare”, simbolo di essere un ‘arab, un uomo onorevole, che “conosce la strada” nel proprio territorio, evitando le nuove strade che son assieme spesso confini, bil gebel, “sulla montagna”, ed orientarsi nelle brulle colline alla ricerca di ingredienti preziosi e stagionali: tra questi spicca chiaramente lo zattar, una maggiorana palestinese, coltivata nella varietà addomesticata nell’orto ma è prediletta però la varietà spontanea che cresce più in alto sui colli: si è obbligati quindi a raccoglierla di notte, da momento che è una pianta, insieme ad altre, “protetta” dall’ambientalismo militare Israeliano e quindi ne è la raccolta. E le erbe compongono una parte importante della dieta alimentare rurale, tra erbe crude e cotte, da conservare essiccate, e tra i più prelibati piatti da metter in mostra nei rituali d’ospitalità, che raccontano non solo di sapori unici, ma unici saperi del territorio ormai sconnesso e che rendono ancora familiare una casa.

Le stesse erbe tolte dall’orto sono accantonate per qualche mulo o pecora rimasta: «non si perde niente qui», si cerca di ricomporre la circolarità ecologica ed economica che tanto aveva stupito Vulcani un secolo fa. Gli scarti son foraggio per animali e concime degli animali, un argine quindi ai concimi chimici nel preservare le proprie risorse, dove «Adhe mish zabaidhe, adhe badhai», «questo non èun rifiuto, è una risorsa» come ricorda un antico proverbio.

Spazi abitati e culinari

L’autonomia, l’intimità e la permanenza di questi saperi fa di questi piccoli appezzamenti uno dei più intensi spazi familiari in una terra sempre più straniera e disorientate. Gli habbai’l si abitano, e per diverse ragioni: innanzitutto perché sono pensate come estensione, o inizio, della cucina domestica della famiglia estesa. Di fatto, questo mostra un aspetto molto “conservatore” della cultura palestinese: ciò che si coltiva viene pensato in relazione a come può essere conservato per l’interno anno (sempre tenendo conto dell’antica dipendenza contadina alla lunga e arida estate), a come rientra nella dieta e nei gusti familiari, a come comporrà il magazzino composito per l’anno: l’essicazione (tajfif), i sottaceti o pickles (takhlil), le passate (magdah), le marmellate (mrabba), le colture surgelate (tagmidh), l’antico mosto d’uva cotto (malban), il dbes (fogli di mosto d’uva essiccata). Luoghi della performance mascolina della famiglia, gli orti sono in realtà non solo coltivati da donne, ma per lo più nella metà o più del campo decide la donna cosa piantare, seppur lavori l’uomo o gli uomini di famiglia. Inoltre, l’orto, dove si scandiscono le colture in vista del periodo e delle feste del Ramadan (rapanelli o le tante foglie da avvolgere o colture da cucinare ripiene), designa le preferenze familiari e i cibi rituali. Un habbala è abitato perché si sta, si ospita, si beve il tè, si controlla il paesaggio: è luogo di ospitalità e di scambio di informazioni, un’estensione pubblica dello spazio domestico, uno spazio sociale della rete del cibo della famiglia estesa (‘aila), dei vicini (qaraba), del senso di casa (bait).

Negli orti non si producono sono le molteplici colture ma anche la riproduzione della fertilità del suolo, del fabbisogno d’acqua, dei legami sociali, seppur frammentati, che riflettono negli habbail l’idea di un “noi” locale.

Conclusioni

Il cibo negli attuali sistemi di produzione mostra bene la disconnessione che si è instaurata tra i contesti di produzione, i territori, le popolazioni: tanto più forte è questa discrasia e “spaesamento” quanto più intenso è l’investimento simbolico a fare del cibo un’icona del locale (nascondendo le relazioni di produzione e di marginalizzazione globali), di tradizioni da reinventare nel merchandising, una bella immagine di una dimensione locale altrimenti evaporata e frammentata, un non-luogo in vetrina. Le terre palestinesi accentuano, in un piccolo territorio, questi aspetti dell’ipermodernità anche di casa nostra, definita dalle dinamiche di confinamento, di arbitrarietà nella gestione delle risorse ma anche della riproduzione di relazionalità con i soggetti ambientali ancora difesa negli orti domestici.

Quasi un secolo fa, Vulcani era obbligato a riconoscere l’esistenza di altri saperi locali e tecniche, diverse da quelle sperimentate qui come universali dell’agronomia, e poneva non a caso una forte rilevanza sull’autosufficienza, sull’aderenza ai limiti ambientali e ai saperi dell’acqua, sull’autonomia nella propria manodopera, sulla capacità di riciclare e di tramutare la circolarità dei rifiuti in risorsa dei fellahin palestinesi. Queste altre idee di ambiente del cibo raccontano altre idee di “natura”, proprio in un contesto che ha fatto delle ideologie della natura un medium dell’espansione coloniale. In quell’incontro pre-coloniale, si era sviluppato un riconoscimento dell’altro, anche di invidia, per i sui suoi saperi da preservare all’interno delle emergenti scienze agronomiche dei contesti aridi. Quel “riflettersi” e relazionarsi rappresentava anche una mimesi culturale ma paradossalmente è stato sostituito da una rimozione dell’altro, che toglie da una relazione di reciproco incontro.

I saperi al lavoro negli orti sono risorse locali che ben mostrano la capacità locale di “adattamento, di resilienza e di vulnerabilità”, tre nozioni che tornano oggi ripetutamente nelle strategie di confronto ai cambiamenti climatici e all’ambiente che cambia al livello locale (Roncoli et all 2009).

I saperi della terra si confrontano oggi alle dimensioni di incertezza e di instabilità dei cambiamenti ambientali e i contadini di cui abbiamo parlato, già coltivano in un mondo di profonda incertezza politica e ambientale assieme, dove la terra non è stabile ma paura d’instabilità e dove storicamente si sono ben relazionati all’imprevedibilità delle stagioni e dell’atmosfera. Hanno molto da insegnarci, a partire dai loro piccoli orti, su come coltivare questi mondi in cambiamento. Perché nell’incertezza dei cambiamenti climatici, una certezza, salda e terrena, risalta come tante culture hanno mostrato: siamo coinvolti nell’ambiente, in relazione a forze viventi a cui siamo interrelati, dove saperi e abilità prendono vita e le culture sono coinvolte da sempre con e nell’atmosfera.

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[1] Le citazioni, i dialoghi e le fonti riprese fanno riferimenti a ricerche di campo nella valle del Giordano (Giordania) tra il 1998 e il 2005, e per quanto riguarda i Territori Occupati palestinesi nella regione di Betlemme tra il 2014 e il 2016.

[2] La ricerca di campo si è svolta da marzo a maggio nel 2014 e tra maggio e giungo nel 2015, in prevalenza nell’area di Battir (Betlemme) e con permanenze negli orti, campi coltivati e famiglie dei villaggi di Tulkarem e di al Khadr (sempre vicino a Betlemme)

[3] Un docu-film intitolato “The wanted 18”, riprende un fatto reale e ben mostra la dimensione paradossale e discrezionale attorno al cibo: un medico che in seguito ai coprifuochi e alla mancanza di alimenti di base dopo la II Intifada, decide di mettere su un piccolo allevamento di vacche per far circolare il latte per i bambini in un villaggio a Nord di Hebron, anch’esso circondato da colonie in espansione. Ciò incontra il divieto dell’esercito israeliano e in nome della “sicurezza di Israele” la stalla viene abbattuta e le vacche devono essere sequestrate perché, come da proclama militare, “queste vacche sono una minaccia alla sicurezza di Israele”; ma le vacche vengono nascoste per mesi nelle case private, cambiando loro posto di notte a notte, diciotto vacche terroriste, ricercate da elicotteri e forze speciali senza soluzione. Era vietato produrre anche il semplice il latte per importare quello israeliano e solo nell’ultimo decennio sono stati resi legali i primi allevamenti da latte (https://www.youtube.com/watch?v=hlKZ8daLtOo)

[4] Un esempio lampante a riguardo è la catena di supermercati di cibo “industriale” low cost israeliana Rami Lévy (Morvan 2016) che ha aperto nell’ultimo decennio filiali accanto a molte colonie nei Territori Occupati: i lavoratori a basso costo sono palestinesi, i consumatori innanzitutto coloni, che incontrano tra gli scaffali “moderni” però i gusti e i portafogli di molte famiglie palestinesi di alto status. Un luogo di incontro come unico ed eccezionale, seppur normalissimo e normalizzato ambiente tra “consumatori”.

[5] Tamari (2009) ricorda un antico proverbio che ben mostra questa relazione conflittuale “Al-bahar ghaddar” “the sea is treacherous”.

[6] Si veda l’analisi degli scambi e relazioni tra amici e nemici attorno alla verdura nella tesi di Chiara Pilotto: At the borders of friendship: work, morality and survival in a colonial Israeli-Palestinian space, Università di Milano-Bicocca, 16-mar-2016.

[7] Una costruzione del deserto da rinverdire che sarà copiato in tutto il Medio Oriente in una competizione attorno a questa prospettiva modernista (Van Aken 2012).

[8] Come afferma Alatout (2009: 264): «From now on, Palestine was not only blessed with past and potential abundance, but also was vacant, in ruins, and in need of rehabilitation»

[9] Come ricorda Davis (2011: 12): «Israel has appropriated much of the Anglo-European environmental imaginary of a ruined landscape in need of restoration…the Arabs living under the Ottoman administration, the Palestinians, are held responsible for degrading the environment, and therefore, the Israeli are justified in owning the land as to restore its “lost and rightful fertility».

[10] L’“agricoltura di salvazione” è stata una narrativa trasversale, mimetica, nell’élite palestinese, che ha ricercato per legittimare una “presenza”, parallelismi Biblici e radici bibliche nella cultura e sistema di credenze palestinesi, nel tentativo di tracciare una continuità, nella reinvenzione della tradizione, tra sistemi pre-islamici e la moderna società rurale, e rafforzando l’idea di una cultura contadini incontaminata (Tamari 2009).

[11] Un incontro che è avvenuto su tanti crinali coloniali ma qui con un’intensità simbolica e materiale molto più forte, in proporzione anche alle dimensioni esigue dei territori palestinesi.

[12] Alcuni esempi: «Agriculture is primitive, labor has no money value” (Vulcani 1930: 57), «the diet of the fellah is poor and monotonous» (ibid: 125), «poverty symbols dominate not only his daily life, but his imagination as well» (ibid: 126).

[13] «All the arable land in the village is musha and belongs to the community» (ibid: 60);

[14] «All work in his house is done by his family and not by hired labourers (…) he is never paying out. And the slightest profit he makes from his labour is of value to him» (ibid:126).

[15] Come ricorda un famoso proverbio: «Kul zeit ua intah al het» (mangia l’olio, e buttati contro il muro).

[16] Paradossalmente, per l’estensione del parco biblico di Gerusalemme, pianificazione green, in linea con le ideologie ambientali e naturalizzanti della violenza coloniale.

[17] Piccoli produttori vengono facilmente cacciati dalla polizia palestinese come venditori illegali a lato del mercato commerciale a Betlemme, ad esempio.

[18] In uno studio condotto nell’area di Tulkarem più a nord, si mostra come nei saperi locali, nonostante l’alto abbandono e frammentazione dell’agricoltura, siano utilizzate almeno 100 diverse piante all’interno dei saperi botanici popolari (l’utilizzo di foglie, radici, gemme, inflorescenze, frutti e semi) di cui 89% è consumato a crudo, il 77% cotto e il 49% è immagazzinato attraverso essicazione; inoltre, si mostra la distinzione porosa tra piante alimentari e medicinali che compongono una parte importante della dieta locale nelle aree rurali (Ali-Shtayeh 2008).

[19] Ad esempio, lo zattar o maggiorana selvatica, la menta, un’erbetta domestica chiamata bikia, o un’ampia gamma di erbe selvatiche altrimenti strappate, ma che son ben conosciute nel ricettario domestico e nei sapori del luogo.

[20] In questa annotazione storica, è importante ricordare come molti luoghi d’acqua, siano stati da sempre venerati e co-abitati da Cristiani, Musulmani e Ebrei, con affini rituali religiosi, come nel caso delle processioni per invocare la pioggia (Tamari 2009), un legame coi luoghi aridi che nelle forme di appropriazione esclusiva degli ultimi decenni sono scomparsi.

[21] Come scriveva un secolo fa Dalman, la terra piovana era definita ard ba’l: «In the past, this revealed the close relationship between God and the land, which the divine name Baal presumes» (2013: 572).

[22] Gli abbinamenti tra piante sono sempre figlie dei luoghi e degli ambienti: più a Nord, nelle champagne di Nablus, predomina ad esempio la coppia olivo/fico.

[23] Un esempio storico era la combinazione tra grano (gamme) e bikia (una varietà di zucca locale), scomparsa proprio perché il grano ha perso i suoi territori più vasti con la creazione di Israele, classica coltura coltivata sulle ampie distese vicino al mare. Chiaramente le colture principali di un tempo, come mais, granoturco lenticchie, sesamo furono sostituite, anche come radicale trasformazione alimentare già negli anni ’50.