Paradigmi dello Sviluppo e Approccio Relativista

Marco Bassi

Università di Palermo

Indice

L’apporto relativista dell’antropologia
Applicare il concetto di paradigma all’assistenza allo sviluppo
Il paradigma della crescita economica
Lo sviluppismo
Il paradigma dello sviluppo umano
Il paradigma ambientale
Il paradigma centrato sui beneficiari
La questione del relativismo
I diritti umani e la mutua fertilizzazione dei paradigmi
I paradigmi nella pratica dello sviluppo
Bibliografia

Abstract. In this article the author builds on the notion of “paradigm of development” to provide analytic instruments for the institutional analysis of international development. He identifies the following four main paradigms, each rooted in different disciplines and ethical foundations:1) economic growth; 2) social equity; 3) environmental sustainability; 4) beneficiaries’ active role. Each paradigm implies different and measurable objectives, to be achieved by specific methodological approaches. The various paradigms give different consideration to relevance of specific articulations of culture, formal or informal norms and local conditions. It is accordingly possible to classify them based on their relativist attitude. The economic growth paradigm assumes generalized positive gain for the public. The beneficiaries of development are not really defined: they are an imagined community that cannot take any direct role in the design and implementation of programmes and project. As such, this paradigm stands in opposition to the highly relativist fourth paradigm that instead requires specific communities to take an active decisional role on the development process. Equally diverging along the relativist gradient are the priorities defined by different sets of human rights, that on the whole provide the internationally agreed ethical dimension of international development. The transversal responsibilities for the application and promotion of the internationally agreed human rights have over the last two decades facilitated a process of hybridization of the development paradigms. Hybridization and inhomogeneity thus pervade the organizational culture of each international organisation, opening up space for both manipulations and negotiations. Throughout the paper, the author argues for the methodological and theoretical relevance of anthropology and the relativist approaches to development for mitigating the negative and, in some cases, devastating impacts that the first paradigm may produce on the most disadvantaged, “invisible” human communities.

Keywords: Relativismo; sviluppo; antropologia; sostenibilità; diritti umani.

L’apporto relativista dell’antropologia

L’antropologia[1] nasce nel XIX secolo come disciplina dedicata allo studio dei contesti socio-culturali extra-europei ed extra-occidentali. L’oggetto d’interesse la pone quindi necessariamente in una condizione di forte interazione con il campo delle politiche coloniali (Colajanni 2012) e, successivamente, con la pratica della cooperazione internazionale allo sviluppo. L’attenzione per la specificità e la diversità culturale porta però l’antropologia verso un atteggiamento relativista già a partire dagli inizi del XX secolo.[2] Il rispetto per i gruppi umani portatori della diversità culturale favorisce un posizionamento critico rispetto alle politiche mainstream, spesso in contrapposizione all’ideologia che sottende all’impresa modernizzante e omogeneizzante della colonizzazione (Apter 1965) e delle pratiche sviluppiste del secondo dopoguerra (Arce, Long 2005: 56-60). Non è certamente un caso che il fondatore del metodo antropologico dell’osservazione partecipante e dell’antropologia sociale britannica dalla metà degli anni 1920 abbia costantemente pubblicato interventi “sull’antropologia pratica” (Malighetti 2001: 19; Weaver n.d.). L’osservazione partecipante implica la piena e prolungata partecipazione alla vita sociale, economica e religiosa della comunità studiata per cogliere, con prospettiva olistica, aspetti non noti ed anche imprevedibili all’inizio della ricerca. Nella versione pratica, l’attenzione è posta tanto sulle pratiche e la cultura del gruppo nativo, quanto sui processi di mutamento indotti dal contesto coloniale (Malinowski 1929). Nel famoso articolo del 1929 Malinowski pone la questione — tuttora attuale — del possesso della terra, sottolineando la necessità di trattarla a partire dal sistema di “valori, incentivi e utilità” dei nativi, e considerandone l’integrazione con il sistema di parentela e l’ambito normativo tradizionale (Malighetti 2001: 19). Come si vede, si tratta di un’impostazione già pienamente relativista, in cui alcuni dei tratti caratterizzanti la contemporanea antropologia dello sviluppo sono già delineati, come la prossimità con i beneficiari delle iniziative di sviluppo determinata dalla tradizione della ricerca sul campo prolungata ed intensa (Palmisano 2014a: 9-10), la visione critica olistica, che nel campo dello sviluppo va a cogliere aspetti non previsti tra gli obiettivi e gli indicatori stabiliti dal committente all’interno della logica ristretta del progetto (Olivier de Sardan 2015: 10). Si tratta di due caratteristiche che permettono di cogliere gli imprevisti “effetti collaterali” delle politiche di sviluppo (Malighetti 2005: 9).

I diversi momenti storici hanno certamente prodotto variazioni della posizione degli antropologi rispetto all’esperienza coloniale, anche in chiave riflessiva, autocritica e decostruttiva rispetto al ruolo avuto dagli stessi antropologi (Asad 1973). È però un fatto che il coinvolgimento degli antropologi nelle politiche coloniali e, successivamente, nella pratica dello sviluppo ha permesso, a partire dagli anni ’80, il passaggio dall’antropologia nello sviluppo, spesso indicata con la denominazione di antropologia applicata, ad una più definita antropologia dei processi di sviluppo, in cui — grazie a una ricerca che investe simultaneamente il gruppo locale e i processi di sviluppo — diversi aspetti della macchina e della pratica dell’assistenza internazionale allo sviluppo divengono essi stessi l’oggetto dell’analisi antropologica (Colajanni 1994; Mosse 2013: 228; Tommasoli 2013: 52-54). Queste impostazioni sono state influenzate da diversi approcci teorici e hanno prodotto una varietà di posizionamenti. Al livello più tecnico, resta l’antropologia nello sviluppo, rappresentata dai molti antropologi oggi impegnati all’interno delle organizzazioni dello sviluppo, spesso per favorire acriticamente l’implementazione delle politiche, dei programmi e dei progetti (Palmisano 2014b: 16-19). Gli antropologi vengono specialmente chiamati quando ci si aspettano problemi di ordine culturale o dove, in virtù della coincidenza del terreno d’azione di sviluppo e di ricerca antropologica (Zanotelli, Lenzi Grillini 2008: 14), si ritenga necessaria un’opera di mediazione con una comunità specifica. Al polo opposto, a partire delle categorie analitiche delineate da Michel Foucault sul potere del discorso e del sapere, dagli anni ’80 si sviluppano delle correnti critiche che portano a posizioni di rifiuto radicale della pratica internazionale dello sviluppo, vista come strumento per mantenere il controllo e la supremazia sui paesi in via di sviluppo e bloccare i processi politici di rinnovamento che partono dalle periferie (Escobar 1995; Ferguson 1994; Ferguson, Gupta 2002).[3] Ci sono, infine, una grande varietà di interventi critici ed analitici più mediati, l’antropologia dello sviluppo in senso proprio, sui più diversi aspetti dei processi che caratterizzano la cooperazione internazionale,[4] sostanzialmente mirati alla possibilità di renderla più efficace ed equa, e di mitigare gli impatti negativi che le iniziative dello sviluppo concepite con approccio economicista e meccanicistico finiscono per avere sui gruppi più svantaggiati.

L’obiettivo di questo articolo non è tanto approfondire le questioni relative alla storia dell’antropologia dello sviluppo, ma piuttosto rilevare come la pratica dello sviluppo sia essa stessa stata influenzata e penetrata dalle prospettive particolariste generate in maniera diretta o indiretta dall’antropologia, o comunque da una visione relativista. Come richiamato da David Mosse, lo sviluppo internazionale oggi presta attenzione tanto al principio della similarità che alla differenza dell’esperienza umana. La narrazione del progresso comporta che la differenza sia un problema da superare, mentre l’aspirazione all’emancipazione comporta la supremazia dell’auto-determinazione come strumento per raggiungere l’eguaglianza. Tale contraddizione si manifesta con forme complesse nel campo dello sviluppo (Mosse 2013). In questo articolo mi avvarrò del concetto di paradigma per illustrare come le diverse impostazioni disciplinari abbiano determinato l’emergere di approcci allo sviluppo tra loro alternativi. In particolare, si guarderà a come la variabilità culturale — intesa in senso ampio e comprendente l’articolazione locale di norme e sapere — sia considerata, o considerabile, nell’ambito delle diverse pratiche dello sviluppo.

Applicare il concetto di paradigma all’assistenza allo sviluppo

Nel campo degli studi sullo sviluppo il concetto di paradigma è spesso usato per indicare un cambiamento netto che investe le diverse dimensioni dall’azione di sviluppo. L’assistenza allo sviluppo a favore dei gruppi umani che praticano la pastorizia come forma produttiva prevalente fornisce un buon esempio illustrativo. Si è ricorso al concetto di “cambio paradigmatico” per descrivere il profondo mutamento avvenuto in questo campo (Moritz 2008; Turner 2011; Bassi 2017). Mentre in passato la mobilità territoriale, che caratterizza la produzione pastorale, veniva vista come il principale impedimento allo sviluppo, ora si riconosce l’importanza che questo stile di vita ha per la sopravvivenza in ambienti marginali ed ostili, e per l’uso sostenibile delle scarse risorse naturali. Cambia quindi il modo di fornire servizi e assistenza, prima finalizzati alla sedentarizzazione e ora disegnati sul contesto. Tale mutamento è stato favorito dall’emergere della teoria ecologica del disequilibrio e dall’azione di advocacy finalizzata a recuperare il punto di vista dei pastori, penalizzati dalla loro posizione di marginalità sociale e politica (Bassi 2017). Si assiste anche a una trasformazione del discorso riferito allo sviluppo pastorale, con l’adozione di nuove e diverse politiche internazionali e la promulgazione di leggi specifiche a livello nazionale (IFAD 2018). Altri esempi sono lo “sviluppo partecipativo” o bottom-up in alternativa a sviluppo dall’alto, o top-down (Chambers 1994, 1995; Tommasoli 2013: 51-52), oppure “sviluppo umano”, “sviluppo sostenibile’ o “sviluppo fondato sui diritti umani” in alternativa allo sviluppo centrato sulla crescita economica (Gaba 2014; Gardner, Lewis 2000). Usato in questo modo il concetto di paradigma è spesso riferito a un ambito o un aspetto specifico dell’assistenza allo sviluppo e sottolinea un profondo cambiamento avvenuto nel tempo. Esiste un prima e un dopo, radicalmente mutato. È di fondamentale importanza ribadire come un mutamento di paradigma investa in maniera trasversale e coerente i diversi aspetti di un modo particolare in cui si concepisce e si pratica l’assistenza allo sviluppo.

Non sono mancati i tentativi di avvalersi del concetto di paradigma come ausilio classificatorio per contrapporre, in un unico quadro concettuale e in uno stesso momento temporale, i diversi approcci allo sviluppo. Tale operazione consiste nel ridurre la grande variabilità e la presenza di infinite combinazioni e sfumature a un numero minore di categorie chiaramente demarcate, caratterizzate e internamente coerenti, tali da fornire delle alternative tra cui operare una scelta (Bellù 2011; Fukuda-Parr 2003; Weaver et al. 1989). Per effettuare una classificazione è però necessario adottare un framework attraverso cui valutare i diversi approcci allo sviluppo. Poiché i vari autori partono da diversi assunti e da diverse prospettive disciplinari o sotto-disciplinari, per questa via non si può arrivare a un delineamento condiviso dei diversi paradigmi dello sviluppo. Quando si usa il concetto di paradigma in forma classificatoria è quindi utile esplicitare quali siano le categorie di riferimento.

Il concetto di paradigma applicato al campo dello sviluppo è derivato dall’uso del termine introdotto da Thomas Khun in filosofia della scienza. I cambi di paradigma scientifici che fanno apparire plausibile ciò che prima era inaccettabile sembrano ricordare le trasformazioni diacroniche nel modo di pensare e praticare lo sviluppo, sopra richiamate. C’è però una differenza sostanziale tra l’ambito scientifico e quello dell’assistenza allo sviluppo. Nel primo caso il pubblico di riferimento, quello che propone mutamenti e assume le decisioni, è una comunità di pratica fortemente specializzata e ristretta a una particolare disciplina scientifica, una comunità che sostanzialmente condivide i principi e i modelli di riferimento. Nel secondo caso stiamo invece parlando di un processo riferito alla società nell’insieme, in cui determinati attori tendono a giocare un ruolo differenziato, sulla base di considerazioni e interessi non condivisi. È utile distinguere tra gli attori praticanti e il più ampio pubblico. Il primo insieme è esso stesso eterogeneo, comprendente le diplomazie, le organizzazioni internazionali e le organizzazioni non governative (ONG) che, per lo più, dipendono da fondi messi a disposizione da governi e dalle organizzazioni internazionali. Con l’esclusione delle ONG che devono rispondere dei fondi utilizzati, si tratta di attori che non sono soggetti a regole strutturate di accountability, se non attraverso dinamiche indirette di critica che possono manifestarsi nella più ampia comunità sociale. Questo ci porta al secondo termine, il pubblico, che è in grado di articolare posizioni e istanze attraverso i meccanismi politici di rappresentanza, la società civile, i movimenti e le associazioni. Il confine tra movimenti, associazioni e ONG non è netto, e vari meccanismi consultivi messi in campo dalle organizzazione internazionali permettono di rendere più sistematico il feedback della società civile. Tale capacità diventa particolarmente incisiva in occasione dei grandi fora ed eventi internazionali, spesso organizzati o promossi dalle agenzie delle Nazioni Unite in connessione alla preparazione e implementazione dei trattati internazionali (Tommasoli 2013: 215-217). Le tecniche di advocacy favoriscono questo meccanismo, anche in forma pro-attiva. Paradossalmente, i beneficiari dello sviluppo, pur essendo in teoria i principali protagonisti dell’assistenza allo sviluppo, si trovano in una posizione ambigua e ambivalente: sono allo stesso tempo parte del pubblico e potenzialmente attori attivi, ma solo, come vedremo meglio in seguito, con determinati approcci allo sviluppo, generalmente quelli maggiormente caratterizzati dall’impostazione relativista. Va infine considerata l’importanza del livello tecnico o intellettuale, responsabile della costruzione del discorso sullo sviluppo, oppure della sua decostruzione. Anche qui è utile distinguere tra una componente principale, fatta da esperti praticanti direttamente ingaggiati dalle organizzazioni internazionali e da varie istituzioni accademiche, e da una seconda componente maggiormente legata alla società civile, tra cui attivisti, alcune importanti think tanks, ricercatori indipendenti, spesso sponsorizzati da fondazioni, e alcuni accademici, di solito in posizione minoritaria all’interno delle loro università o centri di ricerca.[5]

Come accennato, l’uso del concetto di paradigma presuppone l’esistenza di coerenza tra la dimensione ideologica di un determinato approccio e i suoi risultati pratici. La pratica dello sviluppo, infatti, richiede la definizione di obiettivi specifici e misurabili, per il cui raggiungimento si mettono in campo delle azioni mirate. La definizione degli obiettivi dipende evidentemente dai modelli e dalle teorie adottate. Si manifesta, pertanto, anche l’esigenza di stabilire coerenza tra diversi aspetti del campo ideologico:

a. modelli e teorie specifiche, evidentemente fortemente influenzate dalla prevalenza dell’uno o dell’altro approccio disciplinare;

b. la dimensione etica, rappresentata dalla definizione degli obiettivi dell’azione di sviluppo e da diverse modalità di riferimento ai diritti umani;

c. la componente discorsiva, ovvero le retoriche, le rappresentazioni e le politiche ai diversi livelli di governance .

Ognuna di queste componenti ha già ricevuto considerevole attenzione nell’ambito degli studi sullo sviluppo. Come accennato, l’antropologia dello sviluppo ha focalizzato molto l’attenzione sulla terza componente, sia con le analisi di matrice foucaultiana che con i numerosi studi dedicati alle politiche pubbliche e ai gap tra le politiche e la loro implementazione (Shore, Wright 1997; Mosse 2013: 233-234; Olivier de Sardan 2015). Sembra ora importante rivolgere lo sguardo alla correlazione che esiste tra questa terza componente e le prime due. La configurazione complessa degli attori dello sviluppo e il ruolo chiave, seppur per lo più indiretto, esercitato dal pubblico fanno della dimensione etica la componente da tenere maggiormente in considerazione nel delineare i diversi paradigmi dello sviluppo. I valori sociali presenti all’interno della società entrano nel campo dell’assistenza allo sviluppo attraverso diverse vie, per esempio portate per convinzione etica dagli esperti incorporati nelle organizzazioni dello sviluppo o attraverso i meccanismi consultivi. Un cambiamento di valori in seno alla società, stimolato dalla ricerca accademica e dall’azione della società civile, finisce per indebolire le retoriche costruite dalle organizzazioni internazionali in un determinato momento storico, ma non necessariamente la prassi consolidata, essendo questa legata sia all’inerzia istituzionale[6] che all’azione specifica e razionale di potenti gruppi di interesse nazionali e globali. I tecnici dello sviluppo, siano essi interni alla macchina dello sviluppo o intellettuali indipendenti impegnati nell’azione critica, sono costantemente impegnati a ri-costruire retoriche efficaci (c), tali da far apparire coerenti i modelli e le teorie che si vogliono applicare (a) con la dimensione etica (b). Da ciò deriva che il campo dello sviluppo è molto più complesso e articolato di quello coincidente con una specifica comunità scientifica, con interazioni e interpretazioni multiple e spesso tra loro discordanti. Così, mentre Khun suggerisce che in ambito scientifico un paradigma subentra a un altro quando l’evidenza accumulata dimostra alla comunità scientifica di riferimento l’inadeguatezza del paradigma vigente, nel campo dello sviluppo i diversi paradigmi convivono nel tempo e sono tra loro in contraddizione per obiettivi e in competizione per l’uso delle risorse disponibili nel campo dell’aiuto pubblico allo sviluppo. Questo giustifica i tentativi di utilizzare il concetto di paradigma come ausilio classificatorio, ma occorre ridurre la complessità e la diversità delle proposte tenendo conto dell’importanza che, nel campo dello sviluppo, hanno i mutamenti di valori e dei modelli in seno al pubblico più ampio, a loro volta stimolati da nuove consapevolezze indotte da determinate prospettive disciplinari. In quest’ottica è possibile partire dalle considerazioni di Filippo Lenzi Grillini e Francesco Zanotelli, i quali identificano negli anni ‘80 lo spartiacque per la nascita dei tre nuovi paradigmi: umano, sostenibile e partecipativo (2008: 15-16). I paradigmi di base attualmente operativi possono dunque essere ridotti a quattro, differenziati dalla centralità dei seguenti elementi:

1. crescita economica

2. equità sociale

3. sostenibilità ambientale

4. ruolo attivo dei beneficiari nell’azione di sviluppo

Nella sezione che segue verranno presi in esame i tratti salienti dei quattro paradigmi, per poi vedere come le questioni del relativismo e dei diritti umani si articolano in relazione ad essi.

Il paradigma della crescita economica

Come illustrato da Antonino Colajanni[7], il paradigma della crescita economica costituisce l’impostazione di base della cooperazione internazionale allo sviluppo. È stato introdotto con il nuovo ordine mondiale emerso alla fine della seconda guerra mondiale, per sostenere i paesi della sfera di influenza statunitense, ed è pertanto riferito al modello capitalista della società. Come ricordato da vari autori, il trasferimento di tecnologia e know how, lo sviluppo infrastrutturale e la crescita economica, misurata specialmente attraverso il Prodotto Interno Lordo (PIL), costituiscono gli obiettivi primari di questo approccio. Il paradigma della crescita economica si pone in continuità con la teoria della modernizzazione, ma mentre quest’ultima riguarda un processo di sviluppo che connota in forma positiva una trasformazione dell’organizzazione della produzione e delle forme sociali che la sostengono, il primo è piuttosto focalizzato sulla dimensione macro-economica. Il processo di decolonizzazione porta dunque a uno spostamento dell’attenzione dalle teorie sociologiche all’economia neo-classica. Tuttavia, ancora oggi viene talvolta utilizzata la dicitura di paradigma della modernizzazione, quando si vogliono sottolineare, all’interno di un approccio comunque fondato sulla crescita economica, delle iniziative finalizzate a trasformare a livello locale le forme sociali che sottendono ai processi produttivi, in quei contesti in cui ancora persistono forme claniche, parentelari o tribali di solidarietà, o altre modalità collettive di accesso alle risorse naturali (Gaba 2014: 59-6; Moritz 2008: 2245-6).

Le debolezze di questa impostazione hanno cominciato a manifestarsi molto presto, sotto diversi punti di vista, cosa che ha indotto ad adottare una serie di misure correttive che, in sostanza, hanno determinato l’emergere di varianti dello stesso paradigma. La prima versione si fondava su un’impostazione keynesiana, in cui lo Stato aveva un’importante funzione regolatrice e di sostegno all’occupazione attraverso la crescita della burocrazia, anche a costo di incrementare il deficit pubblico. La crisi del debito pubblico dei paesi in via di sviluppo e l’ondata neo-liberale degli anni ’80 porta all’adozione di una serie di misure da parte della World Bank e dall’International Monetary Fund, specificamente disegnate per i paesi in via di sviluppo, note come Washington Consensus. Si fondano sulla nozione della supremazia del libero mercato, con fuoco specifico sulla produzione e sulla crescita economica attraverso la stimolazione degli investimenti internazionali (Foreign Direct Investment - FDI), sul bilanciamento dei conti pubblici e sul drastico ridimensionamento del ruolo dello Stato come regolatore del mercato, fornitore di servizi e serbatoio di impiego (Weaver et al. 1989: 209-210; Bellù 2011: 25-31). È il periodo delle politiche dell’aggiustamento strutturale imposto come condizionalità ai paesi in via di sviluppo per la concessione di nuovi prestiti.

Come evidenziato nell’intervento di Colajanni[8], già dagli anni ’70 le istituzione preposte a finanziare lo sviluppo internazionale avevano aperto alla riflessione sui problemi indotti dall’approccio della crescita economica. Con la riforma neoliberista e i gravi i problemi sociali da essa indotta inizia una progressiva azione di adozione di misure correttive e compensatorie. Queste includono dagli anni ’80 un’attenzione specifica per il tema della good governance, del decentramento amministrativo e della democratizzazione, per tenere sotto controllo la corruzione, promuovere l’accountability e la trasparenza, e favorire un avvicinamento degli apparati dello Stato, ridotti nelle loro funzioni, alle comunità locali. Vengono introdotti e progressivamente elaborati degli indicatori di governance, su cui basare la condizionalità degli aiuti allo sviluppo (Tommasoli 2013: 59-71). Sempre dagli anni ’70 inizia la riflessione sulla povertà,[9] fino alla promozione sistematica negli anni ’90 di piani nazionali per il contenimento della povertà (poverty-reduction strategy papers - PRPS) (Tommasoli 2013: 197-202), essenzialmente basati su misure micro-economiche in un quadro di crescita macro-economica e integrazione al mercato (World Bank 2001).[10] Cresce l’attenzione per la responsabilità sociale d’impresa, sia per gli impatti sociali che le imprese hanno sulla società con i loro progetti, sia in forma proattiva, attraverso l’attivazione di progetti a favore delle comunità.[11] Coerentemente con il ruolo attribuito agli investimenti internazionali (FDI) si sviluppano codici etici per l’autore-regolamentazione delle imprese nei diversi settori, così come codici e direttive vincolanti sulle procedure delle organizzazioni finanziare internazionali, da attivare nella fase di valutazione dei progetti infrastrutturali e negli investimenti da esse finanziati. In sostanza, la risposta adattiva del paradigma della crescita economica alla questione etica consiste nell’assegnare le risposte al settore privato, con un mix di misure vincolanti e misure volontarie, e con una consistente componente dell’aiuto pubblico allo sviluppo specificamente dedicata alla lotta alla povertà.

Nonostante questi correttivi, soprattutto a partire dall’introduzione delle politiche neo-liberiste degli anni ’80, si è consolidato un movimento anti-sviluppista — fondato su iniziative collettive ed identità specifiche e localizzate — il cui obiettivo non è la ricerca di alternative allo sviluppo, ma di un’alternativa allo sviluppo (Mohan, Stokke 2000: 259; Demaria, Kothari 2017: 2). La critica radicale è ben rappresentata nella letteratura accademica, nei citati contributi di ispirazione foucultiana, dalla teoria della decrescita e, più in genrale, dagli autori che si riconoscono nel campo del post-sviluppo. Le metafore “decrescita” e “post-sviluppo” sembrano configurare un paradigma diametralmente opposto a quello della crescita, sia nella prospettiva del mutamento nel tempo che nei contenuti. Occorre però tenere in considerazione che più che un insieme coerente di teorie, modelli, valori e pratiche correlate, il campo del post-sviluppo consiste in un agglomerato di teorie, modelli, valori ed esperienze tra loro eterogene, spesso promosse nell’ambito dell’associazionismo, sia a nord che a sud del mondo, tenute insieme dall’opposizione al paradigma della crescita economica. Come sottolineato da Federico Demaria e Ashish Kothari, sono caratterizzate non tanto dall’idea di ottenere qualcosa in meno di quello che viene attualmente offerto nel quadro della crescita economica, un fenomeno per il quale già esiste il termine tecnico recessione, ma piuttosto dall’aspirazione a un benessere fondato su valori profondamente diversi, il passaggio al post-materialismo, non essendo l’attuale modello sostenibile (2017: 7). Il progetto non è ancora realizzato, essendo il paradigma dominante tutt’altro che morto, e le alternative ancora frammentarie, tali da richiedere in questa fase il passaggio dalla critica decostruttiva alla definizione di narrative efficaci (Demeria, Kothari 2017).

Seguendo l’impostazione delineata nell’introduzione di questo articolo sugli attori dello sviluppo, al polo opposto della crescita economica troviamo piuttosto il paradigma che pone al centro i beneficiari dell’aiuto allo sviluppo. Infatti, la più importante caratteristica del primo paradigma sta proprio nell’invisibilità dei beneficiari. Il suo fondamento etico si colloca nell’assunto che, per effetto della crescita economica, tutti gli attori sociali, compresi quelli più svantaggiati, finiscono comunque per beneficiare di un effetto automatico di “gocciolamento” del benessere (Rostow 1960). I beneficiari coincidono con il pubblico più ampio, una categoria fittizia, immaginata: non esistono come realtà progettuale, né nella forma di attori con capacità decisionale all’interno dei progetti, né come elemento da monitorare con indicatori specifici, se non per effetto delle marginali misure correttive messe in campo a seguito delle critiche. Il risultato è che i progetti di sviluppo in molti casi finiscono per danneggiare in modo diretto o per «effetti perversi e nocivi» coloro che nell’immaginario pubblico dovrebbero invece esserne i beneficiari (Lenzi Grillini, Zanotelli 2008: 17).

Il caso dello sviluppo della Valle dell’Omo illustrato da David Turton in questo stesso numero di Antropologia Pubblica illustra perfettamente gli effetti dell’invisibilità. In virtù della necessaria quanto inarrestabile avanzata della modernità, le forme produttive dei popoli della valle dell’Omo e del bacino del Lago Turkana sono totalmente invisibili. Nella retorica del regime etiopico anche loro finiranno per beneficiare dell’industrializzazione dell’agricoltura, grazie allo sviluppo infrastrutturale e alle nuove opportunità di lavoro salariato. Purtroppo, l’inadeguata applicazione delle procedure di valutazione di impatto sociale ed ambientale non ha permesso l’adozione di adeguate misure di mitigazione.[12] La dura realtà per quelle popolazioni è che all’improvviso si sono trovati privi delle risorse naturali generate dalle inondazioni stagionali del fiume Omo, sulle quali fondavano tutte le loro attività produttive, mentre le nuove opportunità lavorative saranno sfruttate da altri attori, quelli dotati dell’adeguata formazione ed esperienza. In questa forma, sviluppo semplicemente significa trasferire titoli e capacità da una componente sociale ad un’altra. Se la questione non è considerata in modo esplicito, sono gli strati più deboli e i popoli più marginali a soffrire maggiormente. Nei casi più estremi, lo sviluppo uccide, come nell’evocativo titolo di Brigitte Erler richiamato da Colajanni in questo stesso numero di Antropologia Pubblica. Uccide negli inquinati fossi di scolo delle piantagioni, di malattia nelle periferie degradate delle grandi metropoli e nelle stive delle carrette del Mar Mediterraneo. L’invisibilità ha colpito i popoli della valle dell’Omo, colpisce i milioni di persone dislocate in modo diretto dai progetti di sviluppo,[13] colpisce su scala massiccia i contadini (small-holders) espropriati dalla loro terra a seguito delle politiche a favore del Foreign Direct Investment, scaturite in riforme che hanno permesso l’acquisizione di enormi estensioni di terra da parte di investitori nazionali e internazionali, soprattutto in aree caratterizzate da forme collettive, informali e consuetudinarie di accesso e ridistribuzione delle terre (Hall et al. 2015; De Schutter 2009; Cotula et al. 2009). Nel caso dell’investimento internazionale sulla terra la strategia degli advocates e delle think tanks che li hanno sostenuti è stata incentrata sull’inversione della prospettiva, mostrando gli effetti dello stesso processo dal punto di vista dei contadini espropriati. È questo lo spirito dell’efficacissima metafora del land grabbing, promossa, tra gli altri, da Oakland Institute, International Land Coalition, GRAIN e IIED. Dare visibilità nella sfera pubblica alle vittime e agli occultamenti di verità note è anche stata la strategia degli advocates nel caso delle diga Gibe 3 in Etiopia, come evidente dalle attività di Survival International, International Rivers, Bankwatch e Africa Resources Working Group.

Stiamo evidentemente parlando di casi limite che hanno suscitato un acceso dibattito internazionale, tuttavia non infrequenti, e tali da interessare le vite di centinaia di milioni di persone. Sono situazioni che potrebbero essere mitigate in buone condizioni di governance e democrazia, nel rispetto dei diritti umani riconosciuti e con l’adeguata applicazione delle misure correttive già discusse e concordate in ambito internazionale.

Lo sviluppismo

Lo Stato sviluppista (developmental State) è una variante molto inquietante del primo paradigma, per le sue implicazioni rispetto al superamento esplicito di alcuni cardini che hanno caratterizzato il pensiero liberale classico — tra cui democrazia e società aperta — e il sistema internazionale basato sul rispetto dei diritti umani. Nella sua essenza, consiste nel fondare sullo sviluppo industriale e sulla crescita del PIL la legittimità politica. In sostanza, l’elite politica al potere si presenta come avanguardia modernizzatrice, attiva nel mobilitare le risorse umane ed economiche del paese in base ad un piano di crescita economica. Differentemente dal neo-liberismo, lo Stato assume un ruolo importante nell’azione di mobilitazione. Sono state delineate diverse varianti, alcune compatibili con la democrazia elettorale e multipartitica, altre in cui il ruolo dell’associazionismo e della rappresentanza politica sono esplicitamente presentate come un ostacolo allo sviluppo (Fiseha 2014). È il caso della versione etiopica dello sviluppismo (Planel 2014; Goodfellow 2017), nel cui quadro si inserisce la citata questione dello sviluppo nella valle dell’Omo (Kefale e Gebresenbet 2014). Consiste in un’ideologia di partito denominata revolutionary democracy (Bassi 2014; Arriola, Lyons 2016: 79-82), promossa dal Presidente e Primo Ministro dell’Etiopia dal 1991 al 2012, Meles Zenawi. Nonostante una crescita del PIL sopra il 10 percento e protratta per più di 10 anni, l’Etiopia non è stata in grado di controllare le istanze elitarie che hanno causato il conflitto internazionale con l’Eritrea. I partiti di opposizione, ammessi e tutelati dalla costituzione democratica, sono in pratica stati soppressi con la messa in campo di un efficacissimo apparato repressivo e la realizzazione di un sistema di fatto fondato sul partito unico. Le attività delle ONG in campi afferenti i diritti umani sono state bandite e la stampa duramente repressa. Il centralismo del partito, al potere in ogni singolo Stato federale, ha prodotto squilibri nell’accesso al credito e nel controllo dei settori produttivi in espansione. La crescente crisi sociale, anche dovuta al livello bassissimo dei salari, ha portato alla strutturazione della protesta, alla conseguente instaurazione dello stato di emergenza e all’avvio di conflitti armati tra stati della federazione, cosa che nel 2017 e 2018 ha prodotto un forte flusso di internally displaced peoples e rifugiati internazionali. Solo negli ultimi mesi la realistica prospettiva di un collasso totale dello Stato ha indotto il partito al governo a rinnovare, con un atto di responsabilità, la sua leadership, a re-introdurre le garanzie democratiche e a intraprendere i primi passi verso la soluzione definitiva del conflitto eritreo.

Il paradigma dello sviluppo umano

Il contributo di Colajanni in questo numero di Antropologia Pubblica illustra come, a partire dal Rapporto Pearson del 1969, le istituzioni di Bretton Woods, preposte a finanziare l’aiuto internazionale allo sviluppo, abbiano incominciato a recepire le critiche e a dedicare una maggiore attenzione agli aspetti sociali. Su questo tema si sono inserite altre riflessioni promosse nell’ambito di altre organizzazioni delle Nazioni Unite, che, grazie all’azione coordinativa del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC), hanno progressivamente acquistato un ruolo crescente nel panorama internazionale dell’aiuto allo sviluppo. Nella crescita dell’attenzione per le questioni sociali possiamo riconoscere due fasi. Si deve una prima formulazione, nota come approccio basic needs (bisogni di base), al lavoro svolto nel corso della World Employment Conference organizzata nel 1976 dall’International Labour Office, il segretariato dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) delle Nazioni Unite. L’approccio, presentato in un quadro teoricamente compiuto all’inizio degli anni ’80 da Paul Streeten (1981),[14] si basa sulla necessità etica di soddisfare i bisogni essenziali degli individui, identificati in cinque ambiti: alimentazione, acqua pulita e minime condizione sanitarie, istruzione, e riparo.[15] L’incapacità degli individui di soddisfare tali bisogni di base corrisponde alla condizione di povertà assoluta. L’aiuto internazionale allo sviluppo deve concentrarsi direttamente su questi bisogni, senza aspettare il meccanismo indiretto della crescita dei redditi e applicando degli indicatori specifici.

Gli sviluppi successivi sono stati catalizzati dalle attività dell’United Nation Development Programme (UNDP). Le elaborazioni teoriche del Premio Nobel dell’economia Amartya Sen — costruite intorno ai concetti di eguaglianza, attribuzioni (entitlements, nel senso di capacità positiva, possibilità) e libertà (Sen 1976, 1981, 1983, 1997, 1999) — sono state fondamentali nel delineare le caratteristiche dello sviluppo umano (Fukuda-Parr 2003; Gaba 2014: 63-64). In sostanza, l’approccio consiste nel creare le condizioni sociali ed economiche che possano permettere alle persone di agire per il miglioramento delle proprie condizioni di vita. La questione, ancora aperta, sta nell’identificare i campi in cui l’intervento fa effettivamente la differenza. Il dibattito si è sviluppato intorno agli indicatori da utilizzare per la realizzazione dell’Human Development Index (HDI), parametri riferiti alle capacità sociali delle persone, piuttosto che al PIL o al reddito pro-capite (Fukuda-Parr 2003).[16] A partire dal 1990 lo HDI è stato utilizzato per la redazione annuale del Human Development Report, nei quali viene fornita una quantificazione dello HDI per ogni Stato del globo.

Sakiko Fukuda-Parr riassume le caratteristiche dal paradigma dello sviluppo umano raffrontandolo sia al paradigma neo-liberale che alla fase intermedia dello sviluppo sociale rappresentata dall’approccio del bisogni di base (tavola 1).

Tabella 1. Il paradigma dello sviluppo umano secondo la schematizzazione di Fukuda-Parr (2003: 311, tradotto e adattato)

 L’APPROCCIO SVILUPPO UMANOL’ALTERNATIVA NEOLIBERISTAL’ANTECEDENTE DEI BISOGNI DI BASE
Basi filosofiche   
Assunti normativiEsplicitiImplicitiNon pienamente specificati
Concetto di benessereCapacità positive (Sen) UtilitaristicoSoddisfazione dei bisogni di base
    
Aspetti valutativi   
Principali criteri per la valutazione del progresso dello sviluppoCapacità umana, egalitarismo dei risultati, correttezza e giustizia degli assetti istituzionaliBenessere economico, crescita economica, efficienzaRiduzione della povertà in termini di reddito, accesso ai servizi di base
    
Strumenti di misurazione preferitiRisultati di sviluppo umano, misure sulla deprivazione e la distribuzione Attività e condizioni economiche, misure medie ed aggregateAccesso ai mezzi materiali, misure derivate
    
Aspetti di agency   
Le persone come fine e/o mezzo nell’azione di sviluppoFine: beneficiarie; Mezzo: agenti attiveMezzo: risorse umane per attività economicheFine: beneficiarie
Agente mobilizzatoreAzione individuale e azione collettivaAzione individualeAttenzione alla volontà politica e alla base politica
    
Strategia di sviluppo”   
Obiettivi operazionali chiaveEspandere le possibilità di scelta delle persone (sociali, economiche e politiche)Crescita economicaEspandere i servizi sociali di base
Distribuzione di costi e beneficiEnfasi su egalitarismo e sui diritti umani di tutti gli individuiAttenzione per la povertàAttenzione alla povertà
Relazione tra sviluppo, diritti umani e libertàI diritti umani e le libertà hanno valore intrinseco e sono obiettivi dello sviluppoNessuna relazione esplicitaNessuna relazione esplicita

Il paradigma ambientale

Differentemente dallo sviluppo umano, il paradigma ambientale nasce indipendentemente dal campo dello sviluppo internazionale, anzi, in contrapposizione a esso. Ha infatti le sue radici nell’ambientalismo del XIX secolo, quando tra alcune componenti elitarie delle società si andava diffondendo la consapevolezza che l’industrializzazione e la crescita urbanistica stavano profondamente e irreversibilmente alterando gli ambienti e i paesaggi naturali. La soluzione consisteva quindi nell’arrestare il processo di industrializzazione nelle aree di alto valore naturalistico, proteggendole nella forma di parchi da cui le attività umane dovevano restare escluse. Nel tempo, la coscienza ambientale si è diffusa a tutti gli strati sociali, anche per l’evidente aggravamento del problema e il determinarsi di altri processi, tra cui rischio nucleare e il crescente inquinamento. Gli impatti sulla bio-diversità, sulla salute e sul clima sono diventati evidenti e misurabili, grazie anche allo sviluppo di discipline scientifiche specifiche, tra cui l’ecologia e le altre scienze ambientali e naturali. Nel discorso ambientalista sono anche confluite una varietà di istanze locali di fondamentale contrapposizione alla modernizzazione e alla globalizzazione economica.

Anche il paradigma ambientale si fonda su considerazioni di ordine etico: l’interesse utilitaristico per lo sfruttamento immediato delle risorse è contrapposto alla considerazione per una realtà traslata, le generazioni future, oppure l’Uomo, gli altri organismi viventi e la Terra.

Federico Demaria e Ashish Kothari illustrano molto bene il percorso per cui, a partire dalla Conferenza di Stoccolma del 1972, il campo dello sviluppo sia riuscito progressivamente ad appropriarsi e ad addomesticare le istanze ambientaliste attraverso la formulazione dei concetti ossimorici di “sviluppo sostenibile” e “economia verde” (green economy), cui andrebbe aggiunta la più recente formulazione di banking nature, promossa all’interno delle organizzazioni globali ambientaliste, per cui per mostrare efficacemente l’importanza della natura sarebbe necessario esprimerne il valore in termini monetari. Quest’ultima tendenza è stata avviata da alcune soluzioni adottate nell’ambito dei trattati internazionali, legate al concetto di “servizio eco-sistemico”, ovvero nell’identificazione di un’utilità per l’uomo di un habitat naturale, che può eventualmente essere quantificata e compensata in termini monetari. Demaria e Kothari notano come questo processo di mercificazione della natura sia fortemente in linea con il paradigma della crescita economica, sia nella versione keynesiana che neo-liberale (Demaria e Kothari 2017: 3-5).

Lo sviluppo sostenibile consiste nel tenere conto del problema della sostenibilità dell’uso delle risorse naturali. Tra le tante, è rimasta famosa la definizione contenuta nel Rapporto Brundtland presentato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dalla World Commission on Environment and Development, che definisce sostenibile lo sviluppo quando questo soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità per le generazioni future di soddisfare i loro bisogni (United Nations 1987).

In chiave di conservazione di biodiversità, all’approccio fondato sulle aree protette gestite dalle autorità governative e fondate sulla restrizione delle attività umane se ne è progressivamente sostituito un altro in cui si è tenuto conto delle esigenze delle comunità locali, fino al riconoscimento che le comunità locali ed indigene conservano, anche con modalità informali, la biodiversità per propria iniziativa (Phillips 2002; Borrini-Feyerabend et al. 2004; Bassi 2016). Nel campo della conservazione della biodiversità queste differenze sono oggi considerate nei termini di diversi tipi di governance, nell’ordine “governance governativa”, “governance condivisa” — entrambe riferite alle aree protette — e “governance dei popoli indigeni e delle comunità locali”, riferita in alcuni casi alle aree protette ed in altri ad aree conservate (Borrini-Feyerabend, Hill 2015). Viene riconosciuta anche la “governance privata”, ovvero conservazione praticata su aree di proprietà esclusiva di persone o di fondazioni.

Il paradigma centrato sui beneficiari

Le misure adottate in seguito al Washinghton consensus hanno prodotto uno spostamento della responsabilità per la fornitura dei servizi dallo Stato alle ONG. Le ONG vengono anche considerate come un’importante componente della governance complessiva, in cui un ruolo fondamentale viene assunto dalla società civile in alternativa al dirigismo statuale (Mohan, Stokke 2000: 247-8). Se a questo si aggiunge la crescente influenza dello sviluppo sociale e il fatto che le ONG, per loro natura, lavorano a stretto contatto con le comunità locali — o sono diretta espressione delle comunità locali, come nel cao delle ONG indigene o di molte organizzazioni della società civile (CSO) — si comprende il successo, dagli anni ’90, dell’approccio partecipativo e dello sviluppo dal basso, ovvero della messa in campo di azioni designate a partire dalle esigenze della comunità.

Il fuoco sulla comunità locale porta a un ribaltamento di prospettiva, che si manifesta per ovvie ragioni soprattutto sul piano metodologico. La riflessione è articolata, e si è sviluppata lungo diverse linee. In generale, la prima esigenza è di non procedere sulla base di interventi pre-identificati. Serve del tempo per capire quali siano le esigenze della comunità beneficiaria. Di conseguenza, il progetto deve iniziare con una fase identificativa.

Un’altra linea di riflessione riguarda il ruolo dei tecnici e degli esperti, normalmente associati alle ONG. Nella versione del “populismo partecipativo” gli esperti si limitano ad applicare delle tecniche di estrazione di conoscenza locale per individuare le priorità locali (Sabelli 1994: 67-72).[17] Robert Chambers (1997) suggerisce di assumere il ruolo neutro di facilitatore, evitando ogni influenza, e ha parlato di “ignoranza ottimale”, selezionando solo le informazioni essenziali con il minor investimento possibile di tempo. Al polo opposto, la ricerca-azione si configura come una variante epistemologica della ricerca classica (Sabelli 1994: 72-3), in cui il ricercatore svolge una vera e propria ricerca su temi di rilevanza per la comunità, al fine di trasmettere elementi conoscitivi nuovi alla comunità stessa per favorire l’auto-pianificazione. In alcune esperienze a guida antropologica, le persone della comunità sono state coinvolte nel team dei ricercatori (Sabelli 1994: 80-87).

Una terza linea di riflessione riguarda l’empowerment. Si riconosce, infatti, che alcuni problemi non possono essere risolti con un approccio esclusivamente locale. Le condizioni di povertà possono essere indotte da elementi strutturali, per cui è necessario incidere sul piano delle politiche per mutare quelle condizioni. Gli strumenti e gli approcci per il conseguimento di tale obiettivo sono molteplici, e includono l’advocacy e le piattaforme, o networks, di ONG.[18]

C’è infine la questione dell’auto-determinazione, ovvero dell’autonomia decisionale della comunità beneficiaria, e del ruolo che tecnici, ricercatori e organizzazioni possono avere nel condizionare le scelte attraverso dispositivi di ordine tecnico. In relazione a questa esigenza è stata messa a punto la procedura internazionale del Free, Prior and Informed Consent (FPIC), raccomandata all’interno della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei popoli Indigeni. Il FPIC consiste in una fase che precede la realizzazione di qualsiasi progetto che possa avere impatti negativi sulla comunità indigena. Il progetto viene opportunamente valutato dalla comunità, in piena autonomia, e negoziato fino al conseguimento formale del consenso a procedere. Il FPIC è una delle misure contenute all’interno della citata dichiarazione al fine di assicurare l’auto-determinazione nello sviluppo. Si tratta di un principio che tiene in esplicita considerazione anche gli elementi identitari e le specificità culturali del gruppo indigeno, fino al riconoscimento delle istituzioni e del diritto consuetudinari. Per questo tipo di approccio Rodolfo Stavenaghen suggerisce di adottare la denominazione di “etno-sviluppo” (1986), una riflessione che è partita dalle esperienze negative dei popoli indigeni e dagli episodi di etnocidio.

La considerazione delle specificità culturali non riguarda solo i popoli indigeni, come indicato dalle riflessioni del rapporto tra sviluppo e cultura (Rist 1994; Serageldin, Taboroff 1994), promosse specialmente dall’UNESCO attraverso l’istituzione della Commissione Internazionale per la Cultura e lo Sviluppo, su questioni di articolazioni particolari di cultura sia a livello nazionale che locale. L’UNESCO ha coinvolto anche organizzazioni internazionali come la World Bank nella promozione di importanti eventi internazionali, un’attività che nell’insieme ha permesso di connotare positivamente l’associazione dei concetti di cultura e sviluppo (Colajanni 2008: 110-112). Si parla così di “sviluppo endogeno”, un approccio normalmente riferito alla scala nazionale o regionale, per cui «i sistemi sociali, valoriali e culturali devono essere rispettati e le istanze provenienti dalle comunità beneficiarie dei progetti devono diventare centrali» (Lenzi Grillini e Zanotelli 2008: 18).[19]

Il campo del sapere indigeno o locale e della sua valorizzazione nello sviluppo si è rivelato particolarmente fertile (Nakashima 2010). Si tratta, in sostanza, di articolazioni locali del sapere settoriale – nella letteratura indicate con una varietà di denominazioni e acronimi — che condividono la caratteristica di essersi costituite attraverso un accumulo di esperienze fatte su contesti locali e specifici. Si tratta di un sapere spesso fondato su forme orali di trasmissione di conoscenza. Come opportunamente osservato da Sillitoe, l’ampia considerazione data a questi aspetti deriva dal lavoro fatto da tecnici dello sviluppo che hanno lavorato a stretto contatto con le comunità locali, nel quadro dello sviluppo partecipativo (Sillitoe 1998).

L’ambito del sapere indigeno e locale si estende da semplici nozioni tecniche a vere e proprie concezioni del mondo, e va quindi a interessare anche la sfera ambientale, morale e religiosa, incluse le diverse prospettive sul concetto stesso di sviluppo (Kassam 2002; Sillitoe 2002).

Vale la pena di sottolineare come l’antropologia classica, a partire dal XIX secolo, abbia fortemente contribuito alla costruzione conoscitiva degli elementi istituzionali e organizzativi su cui l’etno-sviluppo si basa. L’antropologia, inoltre, nasce come disciplina che si occupa delle popolazioni a cultura orale, ed ha nel tempo sviluppato ambiti sotto-disciplinari specifici sull’etno-scienza.

Sul piano metodologico, nel campo dello sviluppo il rispetto per i saperi e le prospettive locali si è consolidato nel quadro della ricerca collaborativa, cui è dedicato l’articolo di Paul Sillitoe contenuto in questo stesso numero di Antropologia pubblica.

La questione del relativismo

La crescita economica e la modernizzazione fondano entrambe la loro attendibilità nell’itinerario che ha caratterizzato “il progresso” dei paesi sviluppati. Si tratta quindi di un’impostazione universalista in cui la diversità e variabilità culturale costituiscono fondamentalmente un problema, un ostacolo da rimuovere. Questo è l’atteggiamento che ha caratterizzato il campo dell’aiuto internazionale allo sviluppo fino al comparire del paradigma sociale, e in modo più marcato, fino a che non si sono sviluppati approcci che, in diversa misura, tengono conto o delegano alle comunità la capacità di influenzare l’azione messa in campo per favorire lo sviluppo.

Sul piano sociale vengono, infatti, a delinearsi delle categorie in relazione alle quali occorre attivare delle azioni specifiche. Nel momento in cui si traccia un confine sociale, si ammette l’esistenza di un’articolazione specifica di condizioni di cui si deve tenere conto nella messa in campo di misure correttive. Si possono, però, identificare due situazioni, una in cui i confini sono tracciati dall’esterno, sulla base di categorie analitiche, come nel caso dei bisogni di base, altre in cui le azioni sono determinate sulla base di una volontà espressa dalla stessa comunità, o comunque sulla base dell’esistenza di un’articolazione differenziata di elementi normativi, che possono avere sia carattere formale che informale.

Tale articolazione può a sua volta essere auto attribuita, come nel caso dell’etno-sviluppo e dei popoli indigeni, o collegata ad elementi culturali attribuibili alla società più ampia, come normalmente avviene nel caso delle questioni di genere. Tenere conto delle differenze culturali o normative nel processo di sviluppo significa adottare un approccio relativista.

Tabella 2. Il relativismo culturale dei diversi approcci allo sviluppo

UNIVERSALISMO CULTURALE

La diversità culturale e/o di contesto non viene tenuta in considerazione

RELATIVISMO DESCRITTIVO (DEBOLE)

La diversità è riconosciuta come un elemento sostanziale della pianificazione dello sviluppo, con approccio cross-culturale

RELATIVISMO EPISTEMOLOGICO (FORTE)

La specificità determina l’agenda dello sviluppo

PARADIGMSA DELLA CRESCITA ECONOMICA

Crescita economica

Trasferimento di tecnologia

Sviluppo infrastrutturale

Sviluppismo

Good governance

PARADIGMA DELLO SVILUPPO UMANO
Versione bisogni di base: migliorare la diffusione dei servizi verso le aree escluse (attribuzione esterna)

Considerazione delle differenze categoriali (approccio di Amartya Sen, centrato però sulle capacità individuali)

Considerazione delle differenze di genere

PARADIGMA AMBIENTALE
Conservazione della biodiversità: governance governative e privata (aree protette)Conservazione della biodiversità: governance collaborativa (aree protette)Conservazione della biodiversità: governance delle comuità indigene e locali (aree conservate)

Sviluppo sostenibile fondato sulla mercificazione della natura

Economia verde

Sviluppo sostenibile: sviluppo agricolo a favore di smallholders con forme collettive o tradizionali di controllo della terra basato su certificazioni, agricoltura biologica e conservation agriculture

Sviluppo sostenibile: riconoscimento delle forme collettive di controllo della terra

Sviluppo sostenibile: agroecologia

 PARADIGMA CENTRATO SUI BENEFICIARI
Partecipazione

Etno-sviluppo (principio dell’autoderminazione)

Self-reliance

sviluppo endogeno

Comunitarismo

Sapere scientifico e tecnico

Top-down, impostazione positivista

PRA e RRA (R. Chambers)

Ricerca azione

Empowerment, advocacy

Sapere indigeno e locale;

Ricerca collaborativa; FPIC

Ricerca azione

Empowerment, advocacy


Nella tavola 2 si è tentato di evidenziare come l’elemento relativista caratterizzi diversamente gli approcci riconosciuti. Nella colonna 1 sono rappresentati gli approcci che si basano su una visione universale. La colonna 2 include le situazioni in cui si tiene semplicemente conto della variabilità locale. La colonna 3 identifica invece gli approcci che determinano l’azione da intraprendere sulla base della specificità culturale o identitaria. Nell’ultima riga, in verde, viene evidenziato il tipo di sapere sul quale l’azione dello sviluppo si basa, con un riferimento ai metodi collegati.

I diritti umani e la mutua fertilizzazione dei paradigmi

C’è un orientamento incline a presentare lo sviluppo fondato sul rispetto dei diritti umani come un approccio a sé, con la denominazione di rights-based approach. Tuttavia è più corretto riconoscere che i diritti umani sono una componente integrante di tutte le pratiche dello sviluppo, in quanto ne esprimono la dimensione etica condivisa. La questione è piuttosto a quali ambiti di diritti umani occorra dare la priorità, con la tendenza a identificare come rights-based approach gli approcci che tengono maggiormente in considerazione i diritti umani di seconda e terza generazione.

Quando vengono codificati nei trattati internazionali i diritti umani descrivono il consenso raggiunto tra Stati e blocchi, una componente imprescindibile nella regolazione e strutturazione dell’aiuto internazionale allo sviluppo. La relazione tra le pratiche dello sviluppo e i diritti espressi nei trattati è multi-direzionale.

Nuove sensibilità in seno alla società più ampia possono produrre nuovi trattati, come avvenuto per la Convenzione sulla Biodiversità (CBD) o la Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC). In altri casi sono le esperienze stimolate dalla pratica internazionale dello sviluppo a produrre nuovi trattati. È il caso di trattati relativi ai diritti umani dei seconda generazione — i diritti socio-economici — e di terza generazione — i diritti collettivi.

Del resto Rodolfo Stavenaghen (2003) ha opportunamente sottolineato come i bisogni umani siano oggi espressi nei termini di diritti umani, e Massimo Tommasoli ha dedicato un intero capitolo del libro dedicato alle politiche della cooperazione internazionale al tema del rapporto tra sviluppo e diritti umani, mettendo in particolare evidenza l’importanza dei secondi in relazione al passaggio dal paradigma fondato sulla crescita economica alla considerazione per lo sviluppo umano, la good governance e la partecipazione. Tommasoli si sofferma sull’uso degli indicatori legati ai diritti umani come strumento di condizionalità per la concessione degli aiuti, e alla relativa contrapposizione tra Stati del nord e del sud del mondo attraverso riferimenti strumentali a diversi gruppi di diritti umani (Tommasoli 2013: 59-71).

Nella tavola 3 si è tentato di evidenziare la correlazione tra i vari approcci allo sviluppo e i diversi tipi di diritti umani, utilizzando la stessa griglia del relativismo proposta in tavola 2.

Tabella 3. Il relativismo culturale in alcune convenzioni e trattati internazionali rilevanti per lo sviluppo

UNIVERSALISMO CULTURALE

La diversità culturale e/o di contesto non viene tenuta in considerazione

RELATIVISMO DESCRITTIVO (DEBOLE)

La diversità è riconosciuta come un elemento sostanziale della pianificazione dello sviluppo, con approccio cross-culturale

RELATIVISMO EPISTEMOLOGICO (FORTE)

La specificità determina l’agenda dello sviluppo

Diritti umani di prima generazione:

Universal Declaration of Human Rights

International covenants on civil and political rights

Diritti umani di seconda generazione:

International Covenants Economic, Social and Cultural Rights

Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination against Women

Diritti umani di terza generazione:

International covenants and declarations on tribal and indigenous peoples

Procedural rights in development

Convention on the Protection and Promotion of the Diversity of Cultural Expressions

UNESCO, United Nations Permanent Forum on Indigenous Issues (UNPFII)

PARADIGMA DELLA CRESCITA ECONOMICA

Good governace

PARADIGMA DELLA CRESCITA ECONOMICA

Per effetto gocciolamento (solo assunto – motivazione etica)

World Bank, International Monetary Fund, e banche di sviluppo regionali

PARADIGMA DELLO SVILUPPO UMANO

UNDP

 

PARADIGMA AMBIENTALE

UNEP, Segretariato della CBD, Segretariato della UNFCCC

PARADIGMA CENTRATO SUI BENEFICIARI

ONG, CSO

Millenium Development Goals

(Crescita economica + Bisogni di base + Parità di genere)

 

Sustainable Development Goals

(L’approccio relativista è possibile con riferimento ad alcuni targets specifici e ai relativi indicatori)


La preparazione di un trattato è un processo complesso. Richiede consapevolezza negli organi politici responsabili e l’attribuzione di un mandato a un’agenzia o una Commissione stabilita ad hoc. Attraverso un ampio processo consultivo tra Stati, gruppi di interesse e società civile si arriva a un evento decisionale, e, per le Nazioni Unite, alla finale approvazione all’Assemblea Generale. Una volta riconosciuti come diritti, è la società nel complesso ad avere l’obbligo di soddisfarli. I trattati relativi ai diritti umani devono quindi essere implementati attraverso il monitoraggio costante, la revisione e, dove previsto, l’avvio di procedure di infrazione. Tale lavoro può essere assegnato a un’agenzia permanente o ai segretariati delle Convenzioni. Vengono così a formarsi delle corrispondenze tendenziali tra determinate agenzie o organizzazioni e particolari diritti, indicate in verde nella tavola 3. A loro volta, tali organizzazioni tendono a promuovere un determinato approccio allo sviluppo.

Nonostante la differenzazione proposta in tavola 3, una volta inseriti all’interno dei trattati, i diritti divengono universali e tutti gli attori hanno l’obbligo di rispettarli. Questo produce il passaggio trasversale di particolari istanze da un’organizzazione all’altra, di fatto determinando una fertilizzazione reciproca tra i paradigmi delineati in questo articolo. Per questa via le istituzioni finanziarie internazionali hanno adottato procedure particolari di garanzia per le comunità, differenziate in base al contesto. Per esempio, impongono agli investitori o ai governi che chiedono finanziamenti la realizzazione di valutazioni di impatto sociale ed ambientale, fino all’ottenimento del Free, Prior and Informed Consent. Allo stesso modo, i diritti consolidati influenzano la formulazione dei codici di auto-regolamentazione, nel quadro della responsabilità d’impresa. Per esempio, anche per la questione degli investimenti internazionali per l’industrializzazione dell’agricoltura la World Bank ha promosso, in collaborazione con altre organizzazioni, un approccio fondato sull’auto-regolamentazione (Deininger, Byerlee 2011: xxvii).

Nonostante la mutua fertilizzazione, il campo dell’aiuto internazionale allo sviluppo è rimasto frammentario e contradditorio, con inevitabile dispersione delle risorse finanziarie. Tale problema è stato retoricamente e strumentalmente usato nel quadro di eventi globali verticistici come i G7 e i G22. Per rispondere sistematicamente alle priorità identificate in una serie di conferenze internazionali dagli anni ’90, è stato organizzato nel 2000 il Millenium Summit per la preparazione della Millenium Declaration, un trattato internazionale fondato sui diritti umani di prima e seconda generazione, adottato dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nello stesso anno. Tommasoli descrive il processo attraverso cui dalla Millenium Declaration si arrivò alla definizione di otto Millenium Development Goals (MDG), ovvero degli obiettivi specifici e misurabili da raggiungere entro il 2015 per arrivare allo sradicamento della povertà assoluta entro il 2025 (Tommasoli 2013: 203-207). Il finanziamento era assicurato da una partnership globale con la quale i paesi ricchi finanziavano i paesi più poveri (Sachs 2005). Gli obiettivi selezionati sono di fatto ricalcati dai modelli della crescita economica e dello sviluppo umano, con attenzione all’istruzione, all’equità di genere, alla sanità e con una componente sullo sviluppo sostenibile. Paradossalmente, nonostante i progressi raggiunti in decadi di riflessione, la strategia messa in campo con i MDG si è rivelata una recessione ai soli due primi paradigmi, con un’aggressione alla povertà da conseguirsi attraverso il meccanismo indiretto del gocciolamento, con l’enfasi sugli elementi dei bisogni di base e un’attenzione particolare dedicata solo alla questione di genere (vedere la penultima riga della tavola 3). Tommasoli non manca di osservare come la definizione dei MDG sia stata il risultato di un processo selettivo e verticistico, attuato da un gruppo di esperti: gli obiettivi nei campi dei diritti umani, della democrazia e della governance, che pure erano presenti nella Millenium Declaration, sono rimasti esclusi dal meccanismo di monitoraggio messo in campo con la successiva definizione dei MDG (Tommasoli 2013: 205). Le grandi riorganizzazioni del discorso sullo sviluppo, come quella realizzata con l’adozione dei MDG, di fatto permettono ai gruppi e alle lobby consolidate e meglio organizzate di recuperare capacità pratica, attraverso lo spostamento repentino dei centri decisionali e dei meccanismi di finanziamento.

Gli interventi critici non hanno tardato a manifestarsi. Nonostante gli indicatori aggregati indichino il conseguimento di una riduzione della povertà, i gruppi umani più svantaggiati hanno continuato ad accumulare svantaggi (IFAD 2009: 10). La critica più radicale ha però investito il fallimento dei MDG nel campo ambientale. Questa ha prodotto l’apertura di un processo di revisione nel 2012, conclusosi nel 2016 con l’adozione dei Sustainable Development Goals (SDG). Grigg et al. (2013) descrivono questo passaggio nei termini di un cambio paradigmatico derivato dall’integrazione delle questioni riguardanti i gruppi umani in senso stretto con considerazioni sui sistemi che regolano la Terra, e, quindi, permettono il sostentamento della vita (figura 1).

Figura 1. Il passaggio dai Millenium Development Goals ai Sustainable Development illustrato da Grigg et al. (2013: 307, tradotto).

I SDG (figura 2) rimpiazzano dunque i MDG. Seguendo l’impostazione qui proposta, ci troviamo di fronte a un mutamento di politiche, espresse nei termini del diritto internazionale, derivato dall’ibridazione dei diversi paradigmi di base, ovvero dalla simultanea considerazione degli aspetti economici, sociali e ambientali, rappresentata in figura 1 dai cerchi concentrici. Si tratta di 17 macro obiettivi (figura 2), ognuno definito da un certo numero di targets, per un totale di 169 targets.[20] Per ogni target sono in elaborazione degli indicatori precisi per misurarne il progresso (SDSN 2015).

Figura 2. I Sustainable Development Goals.

La filosofia base dei SDG è che i diversi obiettivi vanno perseguiti simultaneamente nei singoli programmi. Abbiamo così la tendenza di organizzazioni delle Nazioni Unite come FAO, UNEP, IFAD, e UNDP e delle Cooperazioni nazionali a revisionare i loro programmi. Per esempio UNEP, nata per rispondere al paradigma ambientale, ha incorporato l’obiettivo del conseguimento del benessere per le popolazioni locali e il rispetto dei livelihoods nei loro programmi sulla gestione ambientale e sulla conservazione della biodiversità. Similmente FAO ha inserito la conservazione del suolo e della biodiversità nei suoi programmi in campo agricolo. Molti governi hanno messo in moto meccanismi consultivi con le ONG e le associazioni e avviato collaborazioni con le università per sviluppare programmi nazionali in linea con la nuova strategia.

Rispetto all’impianto relativista, i SDG sono sostanzialmente neutri (ultima riga della tavola 3). Molti obiettivi prescindono dall’approccio relativista, altri lo permettono, anzi lo richiedono se si vuole far tesoro dell’esperienza passata. Tra questi segnaliamo in particolare l’obiettivo 10 sulla riduzione delle disuguaglianze, l’obiettivo 11 sulle comunità e città sostenibili, l’obiettivo 13 sull’azione climatica, l’obiettivo 15 sulla vita e la terra, e infine, l’obiettivo 16 su pace, giustizia e istituzioni efficaci.

I paradigmi nella pratica dello sviluppo

In questo articolo si è utilizzato il concetto di paradigma per cogliere visioni tra loro alternative nel campo dell’aiuto internazionale allo sviluppo. Nonostante la mutua fertilizzazione, le ibridazioni ossimoriche e le sintesi realizzate a livello di trattati internazionali, i diversi paradigmi si fondano su valori e concezioni del mondo profondamente diversi, comportano l’identificazione di diversi obiettivi e indicatori, orientando l’azione dello sviluppo da realizzarsi secondo metodologie alternative. Il paradigma della crescita economica considera l’uomo come animale produttivo e, come tale, si avvale principalmente dell’economia neoclassica. Lo sviluppo umano parte invece dall’idea di uomo come animale sociale, con grande spazio per le discipline sociologiche. Nel paradigma ambientale l’uomo è considerato all’interno degli elementi che lo mantengono in vita. Si fonda su una visione cosmogonica, in cui etica, morale e religione giocano un ruolo fondamentale, affiancate, sul piano razionalistico, dalle scienze della vita. Il quarto paradigma coglie infine l’uomo nel suo essere animale culturale. Mette al centro i gruppi e le comunità in cui l’uomo si organizza per l’espletamento quotidiano delle sue attività produttive, all’interno di particolari contesti ambientali e socio-politici. Utilizza quindi un’impostazione metodologica che potenzialmente permette di considerare l’azione dei gruppi umani svantaggiati, con le loro particolari visioni ed esperienze. È, appunto, il paradigma per il quale l’impostazione relativista e il sapere antropologico classico hanno rilevanza diretta. L’espansione del campo d’interesse dell’antropologia dalle società a cultura orale alle società complesse, l’attenzione dedicata alla macchina dello sviluppo e, soprattutto, la rigorosa metodologia che pone l’antropologo in posizione di prossimità e in relazione di mutualismo con gli attori sociali, mettono gli antropologi nella condizione di poter dare un contributo fondamentale in tutti quei casi in cui l’efficacia dell’azione di sostegno allo sviluppo deve fare i conti con articolazioni particolari di condizioni locali, valori, saperi e norme, quindi in tutti quegli approcci allo sviluppo caratterizzati dalla rilevanza del relativismo. Evidentemente, mi riferisco qui alla potenzialità degli antropologi in un lavoro di tipo applicativo nel senso qualificato da Antonio Palmisano in termini di neutro “tecnicismo” (2014b). È però anche possibile impegnarsi simultaneamente nella direzione di “antropologia impegnata” (committed) auspicata da Palmisano. A tal fine occorre partire dall’atteggiamento ottimistico di Katy Gardner e David Lewis (2000: 16-19) e di Colajanni (2008: 103-104) nel sostenere che l’attivismo politico, sia da fuori che da dentro le istituzioni e i networks che producono il discorso sullo sviluppo, possono effettivamente contribuire a problematizzare e a ribaltare i paradigmi dominanti. Richiamando l’esperienza del citato Michael Cernea all’interno della World Bank, Colajanni sottolinea la necessità di non limitarsi ad interventi critici ad accusatori, ma di impegnarsi con costanza in un continuo lavoro di convincimento con argomentazioni pertinenti. È necessario conoscere le regole della comunicazione per «cercare di attivare la quinta colonna» che sta dentro le istituzioni dello sviluppo, fatta di gente corretta e motivata, disposta a intavolare processi correttivi delle «concezioni e delle pratiche dello sviluppo» (Colajanni 2008: 103-104). Raccomanda quindi di impegnarsi sempre in un’analisi dell’istituzione che ingaggia l’antropologo:

È dunque indispensabile che l’antropologo svolga un’analisi preliminare di tipo istituzionale sulle caratteristiche, i fini, gli interessi, gli stili di azione, le azioni precedenti, infine sulla logica organizzativa, la grammatica di azione e la retorica, dell’istituzione con la quale viene in contatto. (2014: 31-32)

Gardner e Lewis riconoscono che la produzione del discorso sullo sviluppo coinvolge narrative multiple e in costante mutamento: ci sono diverse definizioni di cosa lo sviluppo sia, e su chi siano i suoi beneficiari. Tali definizioni possono variare non solo tra società, ma anche tra differenti gruppi e istituzioni all’interno dell’industria dell’aiuto allo sviluppo, così come all’interno di queste stesse istituzioni o organizzazioni (Gardner, Lewis 2000: 18). In questo articolo ho tentato di delineare tali contrastanti visioni, nella consapevolezza che i diversi paradigmi continuano a confrontarsi in un campo dinamico, in costante competizione per le poche risorse disponibili. È una lotta che si esplica nel quotidiano, per il raggiungimento di decisioni operative all’interno di organizzazioni complesse. Nel fare l’analisi istituzionale è quindi bene tenere conto del fatto che ogni singola organizzazione è attraversata dalle diverse visioni. Grazie all’analisi istituzionale l’antropologo può trovare spazi di agency, in alleanza con attori interni ed esterni all’organizzazione. Modificare, anche di poco, le modalità d’azione dei centri decisionali può fare una grande differenza per i gruppi più svantaggiati, una differenza che, per essere maggiormente efficace, dovrebbe muoversi nella direzione del relativismo culturale.

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[1] Sul piano metodologico questo articolo si basa su riflessioni sviluppate nel corso di tre decadi di interazione con varie organizzazioni internazionali sia come antropologo ‘nello’ sviluppo che come antropologo ‘impegnato’. Anche l’impianto teorico relativo ai paradigmi dello sviluppo e al relativismo è stato costruito in più fasi. Il primo schema classificatorio è stato presentato nell’anno accademico 2004-2005 agli allievi del corso ‘Social Foundation of Development’ del Master in International Development della Johns Hopkins University. Le elaborazioni successive sono state stimolate dalle attività della Società Italiana di Antropologia Applicata (SIAA), in occasione della definizione del quadro teorico predisposto per il IV Convegno Nazionale (Trento, 2016) e per l’intervento preparato per la tavola rotonda Quando l’antropologo lavora nella cooperazione internazionale del V Convegno Nazionale (Catania, 2017).

[2] Questo aspetto è ampiamento riconosciuto, soprattutto con riferimento alle prese di posizione pubblica e all’impostazione degli studi antropologici di Franz Boas, considerato il padre accademico dell’antropologia americana del XX secolo.

[3] Per i lettori italiani Roberto Malighetti ha curato delle antologie con testi selezionati di antropologia del “post-sviluppo” (Malighetti 2001, parte IV; Malighetti 2005).

[4] Per una presentazione sistematica delle tematiche affrontate si rimanda all’articolo di Mosse (2013).

[5] Naturalmente non sono rari i casi in cui, sulla base di considerazioni di ordine etico, “praticanti” si impegnino anche parallelamente in un’azione critica indipendente. Sono spesso proprio questi praticanti impegnati che, in virtù del loro posizionamento all’interno delle istituzioni dello sviluppo, possono favorire importanti cambi paradigmatici.

[6] Definiamo inerzia istituzionale la tendenza delle organizzazioni a mantenere nel tempo la proprio cultura organizzativa in virtù del lento ricambio di personale e delle consolidate relazioni di potere che governano la stessa organizzazione.

[7] Si rimanda all’articolo di Colajanni contenuto in questo numero di Antropologia Pubblica.

[8] In questo numero di Antropologia Pubblica.

[9] Sulla questione della povertà richiamiamo i contributi di Oscar Lewis (1973), Albert Tevoedjre (1978) e Vigdis Broch-Due (1995).

[10] Aggiustamento strutturale, good governance, partecipazione e riduzione della povertà costituiscono per Mosse gli elementi portanti della nuova architettura dell’aiuto internazionale allo sviluppo (2013: 237-8).

[11] È noto il caso della Shell, che dopo le critiche per gravi violazioni dei diritti umani in Nigeria e ripetuti episodi di inquinamento finanzia volontariamente progetti di sviluppo comunitario e si impegna nel finanziare l’importantissima organizzazione ambientalista IUCN.

[12] Vedere anche Carr (2017).

[13] Si rimanda alle posizioni di un esperto legato alla World Bank come Michael Cernea, trattato nell’articolo di David Turton in questo numero di Antropologia pubblica.

[14] Paul Streeten è un economista dello sviluppo, Professore Emerito della Boston University

[15] È interessante osservare l’analogia con la teoria dei bisogni di Malinowski, alla base della sua incompiuta formulazione del funzionalismo. Per l’antropologo le istituzioni servono a rispondere ai bisogni fisiologici degli individui (alimentazione, riparo e riproduzione). Identifica anche dei “bisogni derivati dalle forme culturali” e dei “bisogni strumentali”, elementi che vanno a coprire i campi dell’economia, del controllo sociale, dell’educazione e dell’organizzazione politica.

[16] Amartya Sen ha contribuito al lavoro di identificazione degli indicatori rilevanti.

[17] I manuali su tali tecniche e le diverse denominazioni dei metodi sono innumerevoli. Richiamiamo qui la Participatory Rural Appraisal (Chambers 1994, 1996).

[18] Intorno agli anni 2000 la stessa World Bank promuove un approccio basato sul concetto di “capitale sociale” (Putnam 1993), atto a rafforzare i legami tra le diverse componenti della società civile (World Bank 2000), e da quel momento molti programmi, tra cui quelli finanziati dall’Unione Europea, prevedono fondi per finanziare direttamente le reti di ONG.

[19] Si parla invece di self-reliance quando ci si riferisce alla mobilitazione delle capacità e degli sforzi interni ad una specifica comunità locale o nazionale per soddisfare i propri bisogni di base. La discussione teorica sul self-reliance si è sviluppata negli anni ’80, ma ha i suoi antecedenti nelle filosofie dello sviluppo di Mohandas Karamchand Gandhi in India e Mao Tse-Tung in Cina.

[20] Per i dettagli si rimanda al sito ufficiale delle Nazioni Unite: https://www.un.org/sustainabledevelopment/ (accesso: 08/09/2018).